In linguistica, lo stesso che apocope, ossia caduta di uno o più fonemi in fine di parola.
In grammatica italiana, caduta di vocale (o di sillaba) finale che avvenga tanto davanti a vocale quanto davanti a consonante (per es., il t. di uno in un, così in un altro come in un gatto), intendendosi invece per elisione una caduta di vocale (non di sillaba) finale che avvenga solo davanti ad altra vocale (per es., l’elisione dell’-a di una in un’altra, ma non in una gatta). Il t. in italiano può consistere nella caduta di una vocale o di una sillaba finale. La vocale o la sillaba che cade può essere preceduta da una consonante o da una vocale. Si può avere t. in consonante, purché concorrano queste condizioni: a) che la parola contenga due o più vocali; b) che la parola termini in -e, -i, -o (delle parole in -a si troncano solo il sost. suora davanti a nome di persona, e l’avv. ora e i suoi composti allora, ancora, finora, ognora, sinora, talora); c) che la vocale finale sia preceduta da l, ll, n, nn, r, o anche (ma è raro) da rr o da m (in espressioni come Tor di Quinto, andiam via). Se la consonante è doppia (ll, nn, rr), in caso di t. davanti ad altra consonante si scempia (per es., caval donato), mentre davanti a vocale la parola non si tronca (per es., fanno amare); soltanto i quattro aggettivi bello, grande, quello, santo hanno una forma troncata, in uso davanti a consonante, diversa da quella con semplice elisione, in uso davanti a vocale. In poesia si fa un ampio uso del t., anche quando la parola troncata non si appoggi né per il senso né per l’accento a quella che segue (per es., Piacemi al men ch’e’ miei sospir sian quali Spera ‘l Tevero e l’Arno E ‘l Po, Petrarca). Nei casi in cui secondo l’uso normale il t. è teoricamente possibile, non per questo è obbligatorio farlo, salvo in certi incontri e soprattutto in certe locuzioni più o meno fisse (per es., bel bambino, quel castello, signor Giulio, buon diavolo; ragion per cui, mal di cuore ecc.); altre volte, il t. è facoltativo (per es., siam partiti, son poveri, han fatto), e si trova applicato più spesso nella lingua antica che in quella di oggi, più spesso nella lingua parlata che in quella scritta. Il t. in consonante non è mai segnato con l’apostrofo, salvo in casi rarissimi come ver’ o ver (poet. per verso) e com’ (poet. o ant. per come). Il t. in vocale si può avere in questi casi: a) quando un dittongo discendente finale di parola perde, in posizione proclitica, la vocale debole (per es., a’, co’, da’, de’, ne’, pe’, su’, tra’, per ai, coi, dai, dei, nei, pei, sui, tra i; be’, que’, per bei, quei; e’, i’, per ei, io; da’, fa’, sta’, va’ per dai, fai, stai, vai); b) quando un bisillabo proclitico perde la seconda sillaba e rimane con la prima terminante in vocale (per es. gua’, po’, to’, vo’ per guata, poco, togli, voglio). Come si vede dagli esempi, il t. in vocale è segnato quasi sempre con l’apostrofo.
La parola tronca in grammatica è quella che ha l’accento sulla sillaba finale (per es., in it., venerdì, virtù, caffè); per estensione, verso t., il verso che termina con parola tronca.
In matematica, metodo per approssimare un numero reale, consistente nel trascurare le cifre decimali che compaiono dopo un posto prefissato: per es., approssimando per troncamento π=3,14159 ... a meno di un millesimo, si ottiene 3,141 (mentre per arrotondamento si ottiene 3,142).