Dirigenti
La parola dirigente definisce, in senso lato, qualsiasi ruolo di comando e di leadership nelle varie sfere dell'attività umana (economica, politica, religiosa, militare, ecc.). In un'accezione più specifica, che adotteremo qui, i dirigenti costituiscono un ceto tipico delle società industriali avanzate formato da professionisti stipendiati - specializzati nella gestione di processi, nel coordinamento di risorse e nella guida di uomini all'interno delle grandi e medie imprese dei vari settori produttivi - che esercitano il potere decisionale loro delegato dai proprietari delle imprese stesse (siano essi imprenditori e azionisti privati o lo Stato). In quanto professionisti, i dirigenti apprendono competenze e capacità specialistiche (che concernono soprattutto la gestione di processi produttivi e organizzativi complessi) in apposite scuole e nel corso di una lunga esperienza aziendale, godono di rilevante autonomia nel proprio lavoro e di ampia discrezionalità decisionale e sono portatori di una specifica cultura e deontologia professionale. In quanto detengono poteri delegati di grande importanza nella nostra società, primo fra tutti il potere di investire, e in quanto svolgono un ruolo strategico all'interno delle organizzazioni produttive, i dirigenti occupano una posizione elevata nella stratificazione sociale e godono dei privilegi connessi a questa posizione di élite. Per il loro grande potere di decisione e di iniziativa autonoma e per lo status sociale connesso, i dirigenti si distinguono quindi nettamente sia dalla massa degli impiegati privati e pubblici, sia dai tecnici e dai quadri, sia dai funzionari della pubblica amministrazione i quali, anche quando hanno una qualifica direttiva, sono sottoposti a vincoli amministrativi più rigidi.
Il lavoro dei dirigenti è generalmente regolato da una normativa contrattuale apposita. In Italia, la figura del dirigente come categoria autonoma di lavoratori subordinati è stata introdotta dal Codice civile del 1942, secondo la tradizionale concezione del dirigente come alter ego e immediato collaboratore dell'imprenditore, posto al vertice della gerarchia aziendale e investito della pienezza dei poteri, direttivi e disciplinari, su tutto il personale subordinato. In anni recenti si è assistito a una proliferazione di figure dirigenziali, che ha portato il loro numero a circa 70.000, e che è imputabile sia alle effettive esigenze organizzative e gestionali delle im prese, sia alla tendenza di alcune aziende a riconoscere un trattamento economico e normativo anche a persone che non esercitano funzioni autenticamente direttive. A questa situazione di oggettiva confusione la giurisprudenza ha reagito ribadendo la necessità di accertare l'esercizio di essenziali mansioni direttive e la partecipazione all'elaborazione delle scelte strategiche dell'impresa come requisiti per il riconoscimento della qualifica di dirigente e l'applicabilità di norme contrattuali specifiche che concernono l'assunzione e la risoluzione del rapporto, il trattamento retributivo e la tutela previdenziale, l'applicabilità dello Statuto dei lavoratori (v. Pera, 1981; v. Tosi, 1974).
Lo sviluppo di questo ruolo dirigente è strettamente connesso allo sviluppo dell'economia industriale capitalistica ed è espressione del processo di divisione del lavoro nell'organizzazione della produzione. L'evoluzione tecnologica e la crescente complessità dei rapporti produttivi, la generalizzazione dei rapporti di mercato e la crescente complessità dei processi distributivi e delle strategie competitive comportano infatti la creazione di strutture organizzative multifunzionali, non più gestibili senza una specifica differenziazione dei ruoli e senza un'ampia delega di responsabilità e di poteri decisionali.
La figura dell'imprenditore globale che compendia in sé i diversi ruoli di proprietario dei mezzi di produzione, di capitalista che rischia il proprio capitale, di imprenditore che introduce nuove combinazioni produttive, di datore di lavoro o di padrone della forza lavoro salariata, di dirigente, amministratore e gestore di risorse, di consigliere delegato responsabile della strategia aziendale, è sempre più rara nelle moderne imprese di medie e grandi dimensioni. Al suo posto vi è una pluralità di ruoli professionali specializzati nella funzione direttiva, che risultano nettamente separati sia dai detentori del capitale sia dagli altri lavoratori stipendiati.Il processo di differenziazione dei ruoli di imprenditore e dirigente nell'impresa capitalistica si è verificato nel corso degli ultimi centocinquant'anni e ha assunto forme diverse a seconda dei ritmi e delle sequenze del processo di sviluppo capitalistico nei vari paesi industrializzati. L'invenzione della società per azioni intorno alla metà dell'Ottocento, anticipata dalle compagnie commerciali e finanziarie dei secoli precedenti, costituì la forma giuridica più idonea alla creazione di aziende di grandi dimensioni, stimolata dalla competizione capitalistica.
Le dimensioni di queste aziende per numero di dipendenti, entità di capitali e volumi di produzione, e la qualità e il numero delle decisioni da prendere in mercati ampi, diversificati e competitivi, erano tali da richiedere una diffusione del potere decisionale, fino a quel momento concentrato nelle mani dell'imprenditore proprietario, e una diversificazione delle funzioni direttive. Non si trattava più della semplice delega di funzioni di direzione operativa della manodopera e di amministrazione contabile, come nelle fasi iniziali dello sviluppo capitalistico, ma della necessità di far fronte a esigenze nuove di coordinamento e di gestione di sistemi organizzativi complessi. Tale processo che appare evidente sia in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d'America, dove si afferma prima e più compiutamente che altrove nella forma di 'capitalismo manageriale', sia nei paesi dell'Europa continentale, dove si afferma piuttosto come risultato dell'avvento dell'organisierte Kapitalismus, è stato descritto e spiegato in vario modo da storici, economisti e sociologi, da alcuni come segnale di crisi del capitalismo concorrenziale, da altri come sintomo di una sua trasformazione.
Marx e Schumpeter interpretano entrambi il processo di separazione del ruolo del dirigente da quello del capitalista come segno della crisi dell'economia capitalistica. La differenza tra loro consiste nel fatto che Marx saluta tale processo come un fondamentale passo avanti nella direzione della riappropriazione del potere da parte dei produttori, mentre Schumpeter lo considera un grave segno di decadenza del capitalismo imprenditoriale.
Marx (v., 1867-1894) attribuisce grande importanza ai processi di concentrazione e di centralizzazione del capitale nella sua analisi delle leggi di movimento del capitalismo e intuisce le profonde trasformazioni determinate dall'avvento della società per azioni. Nella comparsa delle prime società per azioni vede infatti una fase necessaria nella ritrasformazione del capitale in proprietà dei produttori attraverso la conversione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari. Con la separazione del lavoro di direzione dalla proprietà del capitale, il capitalista non può più legittimare il proprio guadagno come ricompensa per una funzione sociale specifica e rivela il suo carattere parassitario, accentuando la contraddizione tra socializzazione del processo produttivo e concentrazione privatistica del profitto. L'imprenditorialità diviene una funzione sociale dei produttori associati (ibid.; tr. it., vol. III, pp. 123 ss.).
Molti decenni dopo Schumpeter, osservando la configurazione del capitalismo nordamericano alla vigilia della seconda guerra mondiale, considera la scissione tra proprietà e funzione imprenditoriale come uno dei principali fattori di crisi del capitalismo. Tale scissione viene inserita nel quadro dei più ampi cambiamenti connessi alla trasformazione del capitalismo concorrenziale in capitalismo trustificato. La concentrazione del capitale e lo sviluppo della grande impresa non agiscono direttamente sulla stabilità del sistema capitalistico, non ne determinano il fallimento in senso strettamente economico, ma creano indirettamente le condizioni per una crisi irreversibile, distruggendo gli strati protettivi di origine preborghese e minando alle fondamenta l'intelaiatura istituzionale che protegge tale sistema sociale, in primo luogo le istituzioni della proprietà, del libero contratto e della famiglia borghese e la funzione dell'imprenditore-innovatore. Schumpeter rileva che l'impresa gigante perfettamente burocratizzata non solo soppianta l'azienda piccola e media, espropriandone i proprietari, ma soppianta anche l'imprenditore ed espropria la borghesia come classe, condannandola a perdere tanto il suo reddito quanto la sua funzione. Con lo sviluppo della società per azioni si riduce, infatti, continuamente il campo d'azione classico e tendono a scomparire sia la figura del proprietario sia l'interesse specifico alla proprietà. Restano gli amministratori, i dirigenti e i sottodirigenti, e i grandi e piccoli azionisti. Ma gli azionisti non hanno né la funzione né il comportamento specifico dei titolari dell'azienda, e gli amministratori e i dirigenti tendono ad assumere l'atteggiamento tipico dei funzionari. Il processo capitalistico, sostituendo i pacchetti di azioni ai muri e alle macchine dello stabilimento, svuota il concetto di proprietà, cosicché "un giorno non ci sarà più nessuno al quale prema veramente di difenderla né all'interno né all'esterno dell'impresa gigante" (v. Schumpeter, 1942; tr. it., pp. 136-137).
La separazione della proprietà dalla funzione di direzione e controllo nelle società per azioni, che sia Marx che Schumpeter interpretano come un fatto traumatico, è invece considerata da altri studiosi come una tappa nell'evoluzione dell'impresa industriale. Rathenau, ad esempio, osservando la situazione economica tedesca alla fine della prima guerra mondiale, rileva come nella società per azioni l'impresa diventi un soggetto autonomo, acquistando una vita indipendente dai propri membri, analogamente a quanto era avvenuto nei secoli passati con l'organizzazione statale, l'istituzione ecclesiale, le corporazioni di arti e mestieri, gli enti municipali. Seguendo una linea argomentativa che appare influenzata dalla riflessione di Weber, Rathenau afferma che con la spersonalizzazione della proprietà e l'obiettivazione dell'impresa si accentua l'analogia tra l'organizzazione aziendale e l'organizzazione statale all'interno del moderno capitalismo organizzato (v. Rathenau, 1918).
Quattordici anni dopo, in un'ottica interpretativa analoga, ma con una più solida base empirica costituita dai dati di bilancio di circa duecento grandi imprese americane, Berle e Means affermavano la definitiva separazione della proprietà - suddivisa fra un gran numero di individui ed enti scarsamente interessati alla gestione dell'azienda e fortemente interessati ai profitti a breve termine - dal controllo, detenuto da un gruppo di dirigenti stipendiati prevalentemente interessati alla crescita dell'azienda e ai risultati a lungo termine. L'opera di Berle e Means (v., 1932; v. Berle, 1959) costituisce da sessant'anni il punto di riferimento obbligato della discussione sui rapporti tra proprietà e controllo e sui concetti di imprenditorialità e di management. Per Berle e Means la separazione delle funzioni di proprietà e di controllo è espressione di una tendenza irreversibile della vita economica, che corrisponde alle esigenze gestionali della grande impresa moderna. Questa è definita come un gruppo sociale organizzato, fondato sulla interrelazione di interessi economici assai diversi: quelli dei proprietari che forniscono il capitale, quelli dei dipendenti che producono, quelli dei consumatori per cui hanno valore i prodotti dell'impresa e, soprattutto, quelli del gruppo di controllo che esercita il potere e che, in quanto titolare della proprietà attiva contrapposta alla proprietà passiva dell'azionista, esercita la vera funzione imprenditoriale. In questa realtà sociale complessa, formata da una pluralità di ruoli, il potere economico appare fortemente concentrato, non diversamente dal potere religioso nella Chiesa medievale o dal potere politico nello Stato-nazione. Secondo Berle e Means, il valore dell'impresa non consiste tanto nella proprietà del capitale, quanto nella sua capacità di produrre ricchezza attraverso l'organizzazione di una pluralità di fattori produttivi e il contributo di una pluralità di individui che svolgono ruoli diversi e complementari. Di conseguenza, il potere non risiede solo, e neppure prevalentemente, nelle mani dei proprietari del capitale, ma è detenuto dal gruppo di controllo composto dagli alti dirigenti, i quali soli sono in grado di far funzionare l'impresa. La complessità organizzativa e di mercato richiede infatti un'autorità continuativa e autonoma rispetto al potere dei proprietari del capitale e processi decisionali con ampie deleghe all'interno di un gruppo dirigenziale. Alla tendenza degli azionisti a ottenere cospicui dividendi privilegiando i risultati a breve si contrappone la preferenza dei dirigenti a reinvestire gran parte dei profitti in una logica di sviluppo e di rafforzamento competitivo dell'impresa nel medio e nel lungo termine.
Le tesi di Berle e Means sono state criticate soprattutto con riferimento alle reali dimensioni del fenomeno del capitalismo manageriale, alla sede del controllo effettivo della grande impresa e alle differenze di ruolo e di interessi tra dirigenti e proprietari. È stato anzitutto rilevato che lo studio in questione si applica alle grandi imprese piuttosto che alle piccole e all'economia americana piuttosto che all'economia europea. In effetti, nel caso della piccola impresa, ancora oggi, a sessant'anni di distanza dalla loro analisi, la norma è piuttosto la gestione familiare dell'impresa, sia in Europa che negli Stati Uniti. E anche per ciò che concerne la grande impresa, mentre negli Stati Uniti la prevalenza del capitalismo manageriale e della public company ad azionariato diffuso tra una moltitudine di azionisti risulta netta, in Europa permangono numerosi casi di controllo familiare (non mancano tuttavia ricerche che contrastano tali tesi prevalenti). Ad esempio P. H. Burch (v., 1972), riprendendo in esame le stesse aziende considerate da Berle e Means, cerca di dimostrare che in realtà il controllo della proprietà azionaria-familiare è assai più esteso.
Circa la seconda linea di critica, si è osservato che la proprietà di molte aziende, proprio perché diffusa tra molti piccoli azionisti, risulta in realtà controllata da altre aziende o da gruppi finanziari che possiedono consistenti pacchetti in grado di assicurare il controllo attraverso intrecci azionari (a questo riguardo v. Zeitlin, 1974 e, per i paesi europei, Mizruchi, 1982 e Stockman e altri, 1983). E infine, si è argomentato che i dirigenti, sia che possiedano sia che non possiedano azioni della propria società, hanno una sostanziale identità o affinità di interessi con gli azionisti, e continuano a essere in molti casi dei veri e propri 'funzionari del capitale'.
Al di là di queste critiche fondate, lo studio giuridico-sociologico di Berle e Means ha colto e analizzato sistematicamente una tendenza reale di grande importanza nello sviluppo capitalistico, affermando la centralità del ruolo dei dirigenti e individuando chiaramente entrambe le dimensioni del loro potere nella moderna organizzazione di impresa e cioè il ruolo essenziale che essi esercitano in quanto uomini dell'organizzazione e il potere di investire e di effettuare le scelte strategiche fondamentali dell'impresa, che essi detengono in una struttura connotata da una forte concentrazione dell'autorità. Il principale limite della loro analisi è quello di mettere a fuoco soltanto i ruoli imprenditoriali all'interno dell'impresa, trascurando la posizione sociale e il potere politico dei dirigenti.L'analisi del ruolo dei dirigenti deve invece riguardare sia la loro funzione imprenditoriale e il loro potere in azienda, sia la loro posizione e il loro ruolo nella società. È ciò che faremo, avvalendoci del contributo di studiosi che hanno combinato in vario modo e con diverse accentuazioni le due dimensioni della funzione imprenditoriale e del potere connesso e hanno sviluppato sia l'analisi del ruolo del dirigente nell'organizzazione d'impresa, con riferimento alle trasformazioni del capitalismo industriale, sia l'analisi dei dirigenti come nuova classe dominante, con riferimento alle trasformazioni della struttura sociale e dei rapporti di classe.
I dirigenti si collocano al vertice della gerarchia aziendale, in virtù del potere loro delegato dai proprietari del capitale, e prendono le decisioni strategiche che riguardano la determinazione degli obiettivi aziendali, la scelta delle combinazioni dei fattori produttivi e delle combinazioni prodotti-mercati, i modelli organizzativi, la struttura finanziaria, le strategie competitive, le politiche di fusione, acquisizione e cessione di unità produttive e i rapporti con gli attori economici e sociali che sono interessati a vario titolo all'attività dell'azienda (stakeholders), come i consumatori, i concorrenti, gli istituti finanziari, i sindacati, ecc. L'attuazione delle decisioni strategiche, che comporta complessi problemi di programmazione, previsione e gestione di una pluralità di variabili interne ed esterne all'azienda, implica anche la delega della maggior parte delle decisioni specifiche, attinenti alle politiche finanziarie, di pianificazione e controllo, di produzione, di ricerca e sviluppo, di marketing, del personale e delle relazioni industriali, ecc., a quadri tecnici, capi intermedi e impiegati, che svolgono l'attività quotidiana dell'azienda.
Il contesto economico e politico in cui l'impresa opera - e cioè il peso relativo del mercato e dell'autorità statale nel condizionare i processi economici della produzione, della distribuzione, dello scambio e del consumo -, la natura del settore di appartenenza, le dimensioni dell'azienda e la sua posizione nel sistema competitivo, pongono vincoli e opportunità diversificate ai vari tipi di management. Così, ad esempio, le imprese nazionalizzate, municipalizzate e a partecipazione statale sono sottoposte a maggiori vincoli di natura politica circa investimenti e disinvestimenti, politiche del personale, localizzazione di impianti, ecc., poiché gli obiettivi aziendali sono in parte determinati da un'autorità politica esterna. Vincoli di questo tipo sono naturalmente ben maggiori nelle economie pianificate dove non il mercato, ma l'autorità politica centralizzata fissa obiettivi, priorità strategiche, prezzi e quantità. Mentre nel caso dei dirigenti delle imprese a partecipazione statale inserite in un'economia di mercato si può parlare di un tipo di dirigente che costituisce una variante di un ruolo unitario, nel caso delle economie pianificate ci si trova di fronte a un ruolo sociale diverso, che presenta problemi assai differenti sia per quanto attiene ai rapporti con l'esterno (e in particolare con il potere politico), sia per quanto attiene ai rapporti interni (per le maggiori interferenze del potere politico anche nelle decisioni infra-organizzative), anche se i problemi della gestione di organizzazioni su larga scala sono spesso analoghi.
Il testo classico sul ruolo del dirigente nell'organizzazione aziendale in un'economia di mercato è Le funzioni del dirigente, di C. I. Barnard (v., 1938). Analogamente a Fayol (v., 1917), altro pioniere degli studi organizzativi, Barnard definisce la funzione manageriale essenzialmente come attività di amministrazione, coordinamento e controllo, ma inquadra sistematicamente la sua analisi del ruolo del dirigente in un'ampia concezione dei fini e dei meccanismi operativi dell'organizzazione aziendale. Essenza dell'organizzazione è per Barnard la consapevole e deliberata collaborazione tra individui diversi in vista di un fine comune. In questa concezione delle organizzazioni come sistemi cooperativi, che sono superiori agli individui in virtù della loro 'razionalità' intrinseca all'adozione deliberata di mezzi e di fini, la funzione dei dirigenti è, da un lato, quella di prendere le decisioni strategiche, analizzando razionalmente le varie alternative, e, dall'altro, quella di garantire che tutti i membri condividano le finalità generali e di realizzare una soddisfacente mediazione tra le esigenze dell'organizzazione e le aspettative individuali. Barnard offre una concezione del ruolo del dirigente assai più articolata e composita di quella dei suoi predecessori, nella quale accanto alle funzioni tradizionali della supervisione, del coordinamento e dell'amministrazione, vi è la capacità di motivare e mobilitare le risorse umane dei collaboratori, di ribadire i valori e la missione dell'organizzazione, di adottare politiche di equità retributiva e di ottenere una legittimazione dal basso dell'autorità.
Barnard anticipa in tal modo un insieme di questioni che saranno sviluppate dalle principali scuole 'organizzative': la scuola delle relazioni umane di Roethlisberger e Dickson (v., 1939), di Mayo (v., 1945), di Likert (v., 1961) e di molti altri, che sottolinea l'importanza del ruolo dei managers nel motivare i collaboratori a cooperare in vista di obiettivi comuni; la scuola decisionale di Simon e March (si vedano in particolare: Simon, 1957²; v. March e Simon, 1958), che pone l'accento sulla centralità del dirigente come decisore razionale e sul ruolo delle organizzazioni nel semplificare e aiutare il processo decisionale; la scuola istituzionalista di Selznick (v., 1957), che sottolinea l'interpenetrazione tra organizzazione e comunità, attribuendo alla prima la responsabilità di riflettere e proteggere i valori della società, e definisce il ruolo del dirigente come catalizzatore di tale processo. Queste scuole compiono sostanziali progressi nell'analisi 'organizzativa' e, indirettamente, anche nell'analisi del ruolo del dirigente. Come sostiene Marris (v., 1964), infatti, i concetti di organizzazione e di dirigente sono strettamente connessi e il tratto distintivo del ruolo del dirigente è proprio la capacità di offrire un nuovo fattore di produzione, cioè la capacità di organizzare i processi complessi e su larga scala che caratterizzano l'impresa moderna, assumendo connotati che sono molto simili a quelli tipici della funzione imprenditoriale.
I contributi successivi a Barnard consentono anche di ovviare al più grave difetto della sua analisi, che consiste nell'aver trascurato la dimensione del potere, ricollegandosi a un aspetto centrale dell'analisi di Berle e Means. Il più noto tra questi contributi è probabilmente Il nuovo stato industriale di Galbraith (v., 1967) la cui tesi centrale è che la conoscenza organizzata ha preso il posto della proprietà come fonte di potere nell'impresa moderna. Secondo Galbraith, la grande impresa industriale, con le sue strategie produttive, finanziarie e di mercato, ha sostituito in larga misura il mercato come meccanismo fondamentale dell'economia moderna, esercitando una forte influenza sulle scelte dei consumatori, creando un clima di opinione favorevole ai suoi obiettivi e orientando le politiche pubbliche in una direzione favorevole ai propri interessi. La leadership della grande impresa industriale non è più esercitata dall'imprenditore, e neppure dal management in senso stretto, costituito solo da coloro che occupano posizioni di elevata responsabilità, ma dalla più ampia 'tecnostruttura', formata da tutti coloro che sono portatori di conoscenze specialistiche e che partecipano alle decisioni collettive.
L'introduzione di tecnologie sempre più complesse e la creazione di nuovi impianti e di nuovi prodotti richiedono ben presto non solo nuovo capitale, ma anche nuove competenze specialistiche, capaci di padroneggiare le nuove tecniche e di svolgere compiti più complessi di programmazione e di controllo. In tal modo ciò che l'imprenditore ha creato supera inesorabilmente l'ambito della sua autorità e può essere gestito solo da una tecnostruttura. L'analisi di Galbraith condivide la tesi della obsolescenza dell'imprenditore proprietario, ma introduce due elementi di novità, da un lato individuando nelle conoscenze tecnico-specialistiche il nuovo fondamento del potere nella grande impresa e, dall'altro, ampliando le dimensioni del gruppo dirigente fino a includere tutti coloro che partecipano con competenze specialistiche al processo collettivo di formazione delle decisioni. Altri studiosi, come ad esempio Meynaud (v., 1964), riconoscono invece l'appartenenza al gruppo dirigente non ai tecnici in generale, ma solo ai tecnocrati, a coloro cioè che hanno la capacità di decidere e determinare le scelte del responsabile ufficiale.
Il contributo più interessante e meglio fondato empiricamente all'analisi delle trasformazioni del ruolo del dirigente è dato dagli studi di Chandler sulle grandi imprese americane. Anche l'analisi di Chandler, come quella di molti autori che abbiamo ricordato, va al di là di uno studio sul ruolo dei dirigenti, ma viene qui esaminata con riguardo al tema specifico della centralità della figura del dirigente nell'evoluzione del capitalismo nordamericano. Nella prima delle sue due opere principali, Strategia e struttura, Chandler analizza le trasformazioni nella struttura organizzativa di quattro grandi imprese americane appartenenti a diversi settori produttivi, la Du Pont, la General Motors, la Standard Oil e la Sears Roebuck, e in particolare studia il passaggio dalla struttura centralizzata multifunzionale alla struttura decentrata multidivisionale, sullo sfondo dei grandi mutamenti dell'economia nordamericana nel corso degli ultimi cento anni.
L'analisi di Chandler ha il merito di distinguere tra settori industriali e tra diversi tipi di impresa, e di concentrare l'attenzione sul rapporto problematico tra elaborazione strategica e cambiamento organizzativo e sui conflitti di potere, a differenza della maggior parte degli studi sull'argomento. In questo quadro concettuale, grande importanza si attribuisce all'iniziativa manageriale nel rispondere creativamente ai condizionamenti e alle opportunità offerte dall'ambiente circostante. Le differenze nella storia della singola azienda, come ad esempio la maggiore o minore continuità della gestione familiare, e nella formazione e nell'esperienza professionale dei dirigenti, sono in grado di influenzare le scelte strategiche e le soluzioni organizzative, che possono risultare diverse anche all'interno dello stesso settore o in aziende per altri versi molto simili. Inoltre, definendo il ruolo dell'imprenditore e il ruolo del manager alla luce della contrapposizione tra decisioni strategiche e decisioni di routine, Chandler distingue tra la minoranza dei dirigenti generali (general executives) assimilati agli imprenditori proprietari, che hanno la responsabilità di decisioni strategiche (tra cui vanno incluse le decisioni di cambiamento della struttura organizzativa), e la maggioranza dei dirigenti settoriali, che sono gestori di processi particolari e svolgono attività di routine.
L'attività amministrativa svolta dai dirigenti dell'impresa moderna si colloca a diversi livelli di autorità e di generalità, ma la vera linea di demarcazione è dunque costituita dalla possibilità di formulare programmi di lungo periodo e insieme dalla capacità di allocare o riallocare le risorse fisiche e umane necessarie per attuarli. Il controllo dei mezzi finanziari, del personale, dell'organizzazione, della ricerca e dell'informazione è condizione necessaria ma non sufficiente per definire una compiuta attività imprenditoriale; tale controllo si deve infatti accompagnare alla capacità di formulare piani di ampio respiro senza essere oberati dall'attività di routine. D'altro canto, dirigenti di grado meno elevato possono programmare, coordinare, valutare l'attività aziendale, ma non hanno il potere di disporre delle risorse fondamentali dell'impresa se non entro i margini per essi stabiliti dal vertice aziendale.
Da un lato, dunque, Chandler offre un'analisi più realistica e sociologicamente persuasiva dell'agire organizzativo e del ruolo dei dirigenti, sottolineando la dimensione del potere e del conflitto inerente al controllo dei mezzi di produzione, in contrapposizione a quanti, seguendo Barnard, ponevano prevalentemente l'accento sul coordinamento e sulla motivazione dei collaboratori; e, dall'altro, egli supera il pessimismo della visione schumpeteriana, poiché ritiene che lo spirito innovativo e competitivo dell'impresa capitalistica non sia affatto venuto meno con la scomparsa dell'imprenditore individuale e proprietario, ma si realizzi nella grande impresa moderna razionalmente gestita da dirigenti imprenditori.
L'analisi dei ruoli della gerarchia manageriale nella trasformazione del capitalismo americano è sviluppata nella seconda opera (La mano visibile), in cui Chandler (v., 1977) afferma che l'impresa manageriale diretta dai dirigenti professionalizzati e separati dalla proprietà rappresenta la "mano visibile" che ha sostituito il mercato nel coordinare le attività economiche e nell'allocare le risorse necessarie al processo produttivo. Una delle ragioni fondamentali del successo della grande impresa moderna è stata la sua capacità di ottenere, mediante la progressiva internalizzazione di attività in precedenza svolte da più unità aziendali autonome, una produttività più elevata di quella derivante dal coordinamento tramite i meccanismi di mercato (riducendo ad esempio i costi di informazione sui mercati e le fonti di approvvigionamento, abbassando i costi di produzione mediante un maggiore utilizzo degli impianti e un migliore coordinamento del flusso delle merci e dei prodotti da un'unità all'altra, ecc.).
Ma i vantaggi di tale internalizzazione delle attività di più unità operative in un'unica impresa non hanno potuto essere pienamente sfruttati finché non si è creata una gerarchia manageriale formata da dirigenti stipendiati, selezionati e promossi in base alla loro preparazione professionale, alla loro esperienza imprenditoriale e ai risultati raggiunti, anziché in relazione ai legami familiari e all'entità del capitale investito nell'impresa. I dirigenti della grande impresa moderna tendono a professionalizzarsi, nel senso che giungono a ricoprire il proprio ruolo dopo una lunga formazione specialistica e a seguito di una carriera, e nel senso che sviluppano atteggiamenti culturali comuni nei confronti del proprio lavoro. Una volta formata, questa gerarchia manageriale diviene fonte di permanenza, di potere e di crescita continua per la grande impresa, che tende ad assumere, come già aveva rilevato Sombart, una vita propria, indipendente dagli individui che si avvicendano ai suoi vertici. E in questo tipo di impresa i dirigenti, sempre più tecnicizzati e specializzati, tendono progressivamente a separarsi dalla proprietà, a sviluppare interessi diversi, preferendo le politiche che garantiscono la stabilità a lungo termine e la crescita delle imprese piuttosto che la massimizzazione immediata dei profitti, e a configurare un vero e proprio capitalismo manageriale.
Al di là delle critiche che si possono muovere a questa interpretazione - in particolare quella di aver trascurato le connessioni fra storia economica e storia politico-sociale, e quella di aver esagerato l'importanza dell'organizzazione d'impresa rispetto agli altri meccanismi istituzionali di regolazione dell'economia (v. Chandler e Daems, 1980) - Chandler coglie una tendenza di fondo del capitalismo occidentale, che sostituisce progressivamente il capitalismo manageriale al capitalismo familiare. Nella fase attuale di progressiva internazionalizzazione delle imprese si assiste a un ulteriore sviluppo: cresce infatti d'importanza nei vari paesi industrializzati la rete di rapporti che si crea tra i dirigenti professionisti, i quali tendono ad assumere i connotati di un vero e proprio ceto internazionale, con percorsi di carriera intrecciati e una cultura cosmopolita (v. Useem, 1984).
In conclusione, si può rilevare come il ruolo del dirigente nell'organizzazione aziendale sia un ruolo composito: imprenditore, professionista e funzionario amministrativo. La combinazione tra queste tre dimensioni è correlata sia alla sua posizione nella gerarchia aziendale (più imprenditoriale al vertice, più amministrativa ai livelli dirigenziali più bassi), sia al tipo di cultura nazionale e aziendale (più professionale nelle grandi imprese nordamericane, più amministrativa nelle partecipazioni statali italiane). Tutte e tre le dimensioni sono tuttavia in genere presenti, almeno in misura minima. Il dirigente è imprenditore, non nel senso che si assume il rischio economico (secondo la definizione di Knight), ma nel senso che prende le decisioni strategiche (secondo la definizione di Chandler) e anche, in una certa misura, in quanto è un innovatore che introduce nuove combinazioni produttive (secondo la definizione schumpeteriana). Il dirigente è un professionista, in quanto vende le proprie competenze specialistiche di stratega, leader di fattori produttivi e gestore di risorse e di processi, in cambio di una remunerazione in un mercato del lavoro dei servizi dirigenziali, in quanto accede al ruolo dopo un lungo tirocinio formativo nella scuola e nel lavoro, gode di un'autonomia assai ampia nel proprio lavoro, costruisce un proprio percorso di carriera passando da un'azienda all'altra (con l'eccezione del caso giapponese) e appartiene a una categoria professionale con valori e norme professionali specifici. Il dirigente, infine, è un funzionario amministrativo, in quanto è spesso subordinato ad altri dirigenti di grado superiore e deve prendere decisioni nell'ambito di vincoli più o meno ampi posti dai proprietari del capitale o dai detentori del potere politico. Il carattere composito della figura del dirigente rende il suo ruolo poco strutturato in termini di aspettative e di prescrizioni private e pubbliche, a volte contraddittorie, provocando come rileva Gallino (v., 1972) una crisi di identità e di motivazioni.
I dirigenti non sono soltanto persone che svolgono un fondamentale ruolo nell'organizzazione di impresa, ma sono anche i membri di una classe sociale vincolati alla solidarietà culturale e politica con i propri simili. Il potere che essi esercitano non riguarda solo l'organizzazione aziendale, ma anche il mercato e il sistema politico. Alcuni studiosi sostengono anzi che i dirigenti costituiscono una nuova classe sociale, che ha sostituito gli imprenditori come classe dominante economica nelle società industriali avanzate, sia a economia di mercato sia (fino a qualche anno fa) a economia pianificata.Il più esplicito sostenitore della tesi dei managers come nuova classe è stato Burnham (v., 1941), che riprende alcuni aspetti dell'analisi di Berle e Means, e, in particolare, descrive il nuovo potere dei dirigenti in un'opera di carattere più divulgativo, The managerial revolution.
Burnham sottoscrive alcune delle tesi di Berle e Means circa il nuovo potere dei managers, ma ritiene che il conflitto tra costoro e i capitalisti tradizionali sia molto più ampio e profondo e che la stessa separazione tra il controllo effettivo dei mezzi di produzione e i privilegi connessi alla proprietà del capitale sia destinata a concludersi con la completa vittoria dei managers. Si tratta di una vera e propria rivoluzione sociale, da cui questi emergeranno come nuova classe dominante. Burnham crede di individuare tale trasformazione in contesti economico-politici assai diversi, come quelli del New Deal americano, dell'Unione Sovietica staliniana e della Germania nazista. In queste diverse realtà il fondamento del nuovo potere dei managers è, da un lato, il concreto svolgimento di compiti di direzione tecnica e di coordinamento del processo produttivo e, dall'altro, il controllo dei mezzi di produzione non già direttamente, attraverso i diritti di proprietà individuali, bensì attraverso il controllo dell'apparato statale che, a sua volta, controlla le decisioni d'investimento in base a ideologie diverse di natura collettivo-tecnocratica.
Quest'ultima tesi era già stata formulata da Rizzi (v., 1939), il quale sosteneva che era in atto una profonda trasformazione dalla società capitalistica al collettivismo burocratico. In questo tipo di società, di cui il comunismo sovietico costituiva solo una delle espressioni, i capitalisti vengono soppiantati dai managers, che fondano il loro potere sull'ideologia della proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sulla realtà del controllo burocratico del processo produttivo e di distribuzione del prodotto sociale. Il difetto principale delle tesi di Rizzi e di Burnham è quello di assimilare indebitamente situazioni nazionali profondamente diverse e di non distinguere adeguatamente le diverse componenti della nuova classe dominante nei diversi paesi. Burnham definisce i managers come coloro che gestiscono e controllano gli strumenti della produzione e ottengono un trattamento privilegiato nella distribuzione del prodotto, ma non analizza i conflitti di potere tra i leaders e i quadri dell'apparato di partito e i dirigenti delle aziende statali. Le ricerche di Granick (v., 1960) e di altri sui dirigenti sovietici sono a questo riguardo illuminanti.
Alcune intuizioni di Rizzi e di Burnham sull'evoluzione della posizione sociale dei dirigenti sono state riprese in opere di migliore impianto teorico da studiosi che, come Wright Mills, hanno prudentemente concentrato la loro attenzione su realtà sociali più omogenee, come il capitalismo nordamericano, o che, come Dahrendorf, hanno distinto nettamente tra società a democrazia liberale e società totalitarie. Mills (v., 1956) non considera i dirigenti come classe autonoma, ma come parte integrante dell'élite del potere, in quanto essi condividono rapporti sociali e di affari, sono consapevoli di costituire un ceto sociale distinto e tendono a lavorare e a pensare in maniera simile.Dahrendorf (v., 1957) esamina sistematicamente il processo di 'decomposizione del capitale', ovvero di separazione delle funzioni di proprietà e di controllo nell'impresa moderna e lo considera uno dei cambiamenti strutturali delle società industriali; non considera tuttavia i dirigenti come classe autonoma, ma piuttosto come articolazione della classe dominante in virtù dell'autorità da essi esercitata nell'organizzazione. La teoria di Dahrendorf, che identifica il fondamento dei rapporti e dei conflitti di classe nella distribuzione dell'autorità in associazioni coordinate in modo imperativo, salda l'analisi del ruolo nell'organizzazione con l'analisi della posizione nella stratificazione sociale; ma sottovaluta in tal modo i processi di formazione e di riproduzione della struttura di classe, in primo luogo le relazioni familiari e amicali e le istituzioni scolastiche.
Sulla base delle ricerche recenti, come quella di Useem (v., 1984) negli Stati Uniti, di Savage (v., 1979) in Gran Bretagna, di Bourdieu e de Saint Martin (v., 1978), e Bauer (v., 1987) in Francia, di Derossi (v., 1978), Talamo (v., 1979) e Martinelli, Chiesi e Dalla Chiesa (v., 1981) in Italia, si può affermare che i dirigenti non costituiscono una classe autonoma, ma piuttosto una differenziazione di ruoli nell'impresa e un'articolazione interna alla classe dominante economica (v. anche lo studio più antico di Granick, 1962).
Dirigenti e proprietari sono infatti manifestazioni diverse del ruolo imprenditoriale e presentano sia analogie che differenze profonde. Circa le analogie, si può rilevare che si tratta di ruoli contigui e spesso sovrapposti, sottoposti ad aspettative di ruolo analoghe, legati da molteplici vincoli personali e sociali, e che condividono valori e atteggiamenti di fondo circa l'attività imprenditoriale e il contesto economico e politico più idoneo per il suo sviluppo. Anche le differenze sono tuttavia significative. Come abbiamo visto, i dirigenti competono con i proprietari del capitale per il controllo dell'impresa, hanno diritti e doveri differenti, partecipano in forme diverse alla vita dell'impresa e fondano su basi diverse la loro autorità imprenditoriale. Il diritto del dirigente a impartire ordini e ad assumere decisioni vincolanti per i membri dell'organizzazione non discende infatti soltanto dai diritti di proprietà che gli sono delegati dagli azionisti, ma dipende anche dal consenso dei suoi collaboratori che è direttamente funzionale alla sua capacità di svolgere con successo un ruolo professionale specialistico, quello appunto di programmare politiche, coordinare attività, gestire processi e motivare i collaboratori.
Parzialmente diversi sono inoltre i canali di reclutamento, a seconda che si tratti di eredi di una famiglia imprenditoriale o di dirigenti professionisti. Si tratta tuttavia di differenze spesso più di grado che di sostanza. Ad esempio, anche l'imprenditore proprietario deve guadagnarsi il consenso dei collaboratori e anche l'erede di una dinastia imprenditoriale cerca spesso di legittimare il proprio ruolo acquisendo credenziali professionali, come titoli di studio, diplomi di corsi di formazione manageriale e simili. Per questo motivo, nella nostra ricerca sui grandi imprenditori italiani, abbiamo assimilato imprenditori proprietari e alti dirigenti, purché detenessero le stesse cariche di presidente del consiglio di amministrazione, amministratore delegato o direttore generale, e abbiamo costruito una tipologia delle modalità di carriera che distingue tra fondatori, eredi, managers professionali e managers ascrittivi (cioè dirigenti che non possiedono quote del capitale sociale, ma che provengono da ambienti che fanno parte della classe dominante e si possono avvalere nella loro carriera di atteggiamenti culturali comuni e di relazioni amicali con i proprietari del capitale).
Esistono tuttavia anche differenze rilevanti. Così, ad esempio, si può rilevare che, nonostante il titolo di studio divenga sempre più una condizione necessaria per accedere a ruoli direttivi, continuano a verificarsi processi di formazione dell'imprenditorialità che prescindono dal tipo e dalla durata degli studi. Il titolo di studio superiore svolge infatti la duplice funzione di certificazione dell'appartenenza alla élite economica e di socializzazione al ruolo, sia per i dirigenti che per gli eredi di famiglie imprenditoriali, ma in modo più generalizzato per i primi che per i secondi.
Le differenze tra imprenditori e dirigenti non sono tuttavia solo di grado. Permangono differenze sostanziali non solo tra imprenditori e quella fascia di dirigenti che non partecipa alle decisioni strategiche dell'impresa e si occupa della gestione ordinaria, ma anche tra imprenditori e dirigenti che occupano le posizioni di vertice nella struttura aziendale. L'imprenditore può perdere la propria impresa, l'alto dirigente solo il proprio posto. I detentori della proprietà del capitale hanno il potere di assumere, di licenziare e di determinare la carriera dei dirigenti anche ai massimi livelli; ma sono sottoposti al rischio di impresa. Le analogie e le differenze tra imprenditori e dirigenti dipendono molto dalla posizione del dirigente nella gerarchia aziendale. I dirigenti non costituiscono infatti solo un ceto o una frazione di classe piuttosto che una classe autonoma, ma anche un ceto assai stratificato al suo interno, che all'estremo superiore tende a sfumare nel ruolo imprenditoriale e all'estremo inferiore nella categoria dei tecnici e degli impiegati.
Se si tiene ben presente questa stratificazione interna (e la distinzione tra ruolo nell'impresa e appartenenza di classe) si chiarisce anche il dibattito circa la presunta rivoluzione manageriale e l'emergere di una nuova classe. Al livello di vertice, quelli degli imprenditori proprietari e dei presidenti-direttori generali (i 'pdg' francesi) sono da considerare ruoli che godono di posizioni sociali analoghe, appartenenti alla stessa classe sociale ma con caratteristiche distinte nell'organizzazione di impresa e spesso anche atteggiamenti diversi nei confronti degli investimenti, della produzione e del mercato. Al livello di quelli che Drucker (v., 1954) definisce i "dirigenti diretti" e Derossi (v., 1978) i "centurioni", le funzioni, il grado di potere e gli atteggiamenti possono essere considerevolmente diversi.
Nonostante questa stratificazione interna, tuttavia, si tratta di un ceto piuttosto omogeneo, in virtù del contesto istituzionale in cui opera, delle modalità di reclutamento e del tipo di cultura specifica che ha interiorizzato. Un ruolo importante a questo riguardo svolgono le ideologie manageriali. I due studi classici in materia, quello di Bendix e quello di Sutton, Harris, Kaysen e Tobin affrontano il tema con approcci diversi. Lavoro e autorità nell'industria di Bendix (v., 1956) è un'analisi comparativa delle teorie e delle idee sociali che vengono formulate e assunte da tutti coloro che esercitano l'autorità nelle imprese e che tendono a spiegare e a giustificare questa autorità. Oggetto dello studio è il processo di legittimazione ideologica del potere manageriale nell'azienda e, indirettamente, dello status di una classe sociale nella società, che viene esaminato nelle diverse fasi del processo di industrializzazione e in contesti nazionali diversi: l'Inghilterra della prima industrializzazione, la Russia zarista e sovietica e gli Stati Uniti d'America della grande impresa burocratizzata. I concetti fondamentali sono quelli di classe sociale e di burocrazia, come ambiti di formazione di interessi, idee e identità collettive, e la tesi centrale è che imprenditori e dirigenti si sforzano di combinare queste tendenze, riservandosi in quanto membri di una classe sociale il privilegio dell'azione e dell'associazione volontaria, ma inducendo i lavoratori, attraverso opportune ideologie manageriali, a identificare i propri interessi e le proprie idee con l'organizzazione aziendale, piuttosto che con i compagni di lavoro.
Il credo dell'imprenditore americano di Sutton e altri (v., 1956) studia invece, con minore distacco critico, l'ideologia espressa pubblicamente nelle dichiarazioni esplicite degli imprenditori e dei managers ed elabora una teoria dell'ideologia non come legittimazione del potere organizzativo e sociale, ma come meccanismo capace di risolvere i conflitti di ruolo e di alleviare le tensioni connesse. Tale teoria, che può essere applicata anche a contesti diversi dagli Stati Uniti d'America, individua tre tipi fondamentali di tensioni: quelle derivanti dalle critiche rivolte alla posizione centrale e dominante del business nella società, che possono minare la fiducia dei capi di impresa nella sostanziale identità dei valori dell'impresa con i valori della cultura nazionale; le tensioni derivanti dalle domande contraddittorie poste a imprenditori e dirigenti dai loro diversi interlocutori (azionisti, dipendenti, concorrenti, consumatori, colleghi, finanziatori); le tensioni che scaturiscono dal conflitto tra i diversi ruoli che l'imprenditore svolge al di fuori dell'azienda (nella famiglia, nella comunità, nei gruppi informali) e il ruolo imprenditoriale. (Un filone di studi affine alle ricerche sull'ideologia di imprenditori e dirigenti è quello dell'etica degli affari, che è caratterizzato da un approccio essenzialmente normativo).
Le ricerche italiane mostrano come le tendenze verso il capitalismo manageriale siano nel nostro paese meno accentuate che altrove. Anche se l'economia italiana va sempre più assimilandosi alle economie degli altri paesi industriali avanzati dell'Occidente, a seguito della crescente integrazione dei mercati e della crescente internazionalizzazione delle imprese, il nostro paese mostra una notevole vitalità imprenditoriale, espressa da un elevato numero di imprenditori di prima generazione che corrispondono al modello tradizionale dell'imprenditore proprietario, e una forte persistenza del controllo familiare dell'impresa. Le grandi imprese sono infatti generalmente gestite da gerarchie manageriali composte da dirigenti stipendiati e professionalizzati, ma questi sono spesso subordinati a imprenditori proprietari, anche se, come rilevano Cesareo, Bovone e Rovati (v., 1979), essi controllano processi determinanti ai fini delle decisioni imprenditoriali.
Questi tratti sono riconducibili sia al carattere relativamente recente del processo di industrializzazione in molte regioni italiane, sia alla solidità dei rapporti familiari e di parentela nel nostro paese, sia alla configurazione del sistema produttivo italiano che vede una molteplicità di piccole imprese accanto a pochi grandi gruppi, con uno strato abbastanza ridotto di imprese medie. Le aziende di piccole dimensioni, soprattutto se di prima generazione, sono gestite direttamente da imprenditori proprietari. Le imprese grandi hanno invece un numero piuttosto elevato di dirigenti, che appaiono tuttavia più stratificati che in altri paesi industrializzati. Nel corso degli anni settanta e nella prima parte degli anni ottanta, infatti, la qualifica di dirigente è risultata inflazionata, così da configurare non tanto il riconoscimento di funzioni e responsabilità direttive in senso stretto, quanto piuttosto il vertice di una carriera essenzialmente esecutiva e una promozione per anzianità piuttosto che per effettive esigenze gestionali. Tale tendenza ha subito recentemente un'inversione, anche per l'introduzione della categoria dei quadri, ma, nonostante ciò, il ceto dei dirigenti in Italia continua a essere più ampio e più stratificato che negli altri paesi industriali avanzati, in quanto, accanto ai dirigenti che prendono le decisioni strategiche e che sono assimilabili agli imprenditori proprietari, esistono coloro che sono responsabili delle attuazioni di tali decisioni in ambiti aziendali più specifici e coloro che, pur avendo la qualifica di dirigenti, sono in realtà dei capi intermedi e dei quadri che svolgono compiti essenzialmente organizzativo-gestionali in sfere di attività assai ristrette. Ciò ha indotto Derossi a caratterizzare i dirigenti italiani come "élite dipendente".
I processi in atto di progressiva internazionalizzazione e di crescita della complessità gestionale e organizzativa delle imprese italiane fanno prevedere una parziale modifica di tale condizione attraverso uno sviluppo degli ambiti di autonomia e di potere decisionale dei dirigenti e un crescente riconoscimento della centralità della loro funzione nell'azienda. Cresceranno inoltre contemporaneamente l'esigenza di formazione professionale specialistica di base e post-experience e l'investimento delle imprese in questa risorsa strategica.
Un secondo ordine di caratteri distintivi della situazione italiana, che influenza la condizione del dirigente, è costituito dalla rilevante presenza delle imprese a partecipazione statale che sono soggette al controllo politico. I dirigenti pubblici svolgono un ruolo non del tutto riconducibile a quello del dirigente privato, in quanto, pur agendo nello stesso ambito istituzionale, quello del mercato capitalistico, con le sue regole del gioco competitivo e con i suoi obiettivi di crescita e di profitto, presentano differenze che possiamo ricondurre a quattro dimensioni fondamentali: a) la natura degli obiettivi e delle strategie imprenditoriali che comprendono esplicitamente fini di utilità generale o sociale accanto a quello della redditività economica; b) il rapporto tra le funzioni di proprietà e di controllo, che si configura in modo diverso e più complesso rispetto all'impresa privata, essendo lo Stato un azionista del tutto particolare, formato da una pluralità di organi decisionali e di controllo che tendono a sovrapporsi e a scontrarsi con la direzione e il controllo manageriali; c) i rapporti tra i leaders delle imprese pubbliche e i loro principali interlocutori, sia interni che esterni all'impresa - dai lavoratori ai sindacati, ai partiti politici - di fronte ai quali i dirigenti pubblici sembrano più vulnerabili di quanto non siano i vertici delle imprese private; d) le caratteristiche sociologiche e la cultura professionale dei dirigenti delle imprese pubbliche che appaiono più composite di quelle degli imprenditori e dei dirigenti privati, sia nel senso di una maggiore circolazione attraverso le élites delle professioni e della pubblica amministrazione, sia nel senso di una maggiore commistione di valori e norme derivanti da subculture diverse (imprenditoriale, manageriale-professionale, burocratico-amministrativa: v. Martinelli, 1988; v. Alberoni, 1972; v. Becchi Collidà, 1975). In anni recenti le differenze tra impresa pubblica e impresa privata si sono tuttavia attenuate ed è probabile che si riducano ulteriormente nel prossimo futuro poiché, da un lato, l'impresa pubblica tende a rivolgere crescente attenzione alle esigenze poste dalla diffusione delle regole del gioco della concorrenza internazionale e, dall'altro, l'impresa privata tende a sviluppare la propria sensibilità per le implicazioni sociali dell'attività economica e la rete dei rapporti tra impresa e società. Di conseguenza, i dirigenti delle imprese private e delle imprese pubbliche tenderanno a costituire un gruppo sociale più omogeneo che nel passato, con più frequenti passaggi dall'uno all'altro settore. (V. anche Classi e stratificazione sociale; Impresa e società; Impiegati e funzionari).
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