diritti dell'uomo
Gli esseri umani nascono liberi e uguali
La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948) esordisce così: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti". Queste parole riecheggiano quelle dei documenti più solenni della Rivoluzione americana (1776) e francese (1789) e ribaltano il tradizionale rapporto fra governanti e governati, che vedeva i primi titolari di diritti e i secondi soltanto di doveri. Qui, invece, si stabilisce che ai governati appartengono diritti che i governanti hanno il dovere di riconoscere. Riconoscere, non creare. Si tratta di diritti, infatti, che gli uomini possiedono fin dalla nascita. Non potendoli né creare né distruggere, bisogna riconoscerli. Tali diritti comprendono le libertà civili, le libertà politiche e i diritti sociali
Quando si parla di diritti dell'uomo, il pensiero corre subito agli anni che segnarono l'atto di morte dell'antico regime e la nascita di uno Stato fondato sull'eguaglianza e sulla libertà dei cittadini. Nel 1781, infatti, il governo statunitense adottò dieci emendamenti, entrati in vigore due anni dopo, che di fatto costituiscono la dichiarazione americana dei diritti (Bill of rights). Tale dichiarazione enumera le principali prerogative dei singoli, impegnandosi a salvaguardarle contro l'arbitrio e la sopraffazione.
Ma, soprattutto, nel 1789 in Francia l'Assemblea nazionale approvò la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino che, per la risonanza e gli effetti prodotti, rappresentò una svolta epocale nella storia. Va comunque precisato che sia gli emendamenti americani, sia la Dichiarazione francese attinsero a una fonte più remota, la stessa peraltro che accompagnò per lungo tratto lo sviluppo dei diritti umani.
Ad alcuni è sembrato che questa fonte più remota fosse da cercare nella storia inglese che, effettivamente, è nobilitata da una Carta dei diritti, e precisamente da quel Bill of rights che nel 1689 chiuse la Gloriosa rivoluzione con la sconfitta del re e la limitazione dei suoi poteri a opera del Parlamento. E tuttavia, nonostante la comunanza ingannevole delle parole, il Bill inglese è altra cosa che il Bill americano e certo non si rifà a esso la Dichiarazione francese. Gli Inglesi infatti rivendicavano le loro libertà appellandosi a leggi preesistenti, "agli antichi diritti", come recita il Bill del 1689; quei diritti che affondavano le loro radici nella storia inglese, dalla Magna Charta in poi. Il riferimento a giustificazione delle loro istanze era dunque la storia patria.
Quando invece gli Americani e i Francesi proclamavano i diritti dell'uomo, non chiedevano il soccorso della storia, ma invocavano l'autorità della natura perché ‒ a loro avviso ‒ era direttamente dalla natura che i singoli ricevevano alcuni diritti fondamentali di cui essi erano titolari fin dalla nascita e per il fatto stesso di essere nati. In questo senso, i diritti degli Inglesi erano diritti storici; quelli degli Americani e dei Francesi erano diritti naturali.
In quanto scolpiti nella natura umana, nessun uomo poteva decidere di sacrificare tali diritti; sarebbe stato come se qualcuno avesse deciso di fermare la circolazione del proprio sangue o di rinunciare ai battiti del suo cuore. Ma se nessuno poteva spogliarsi da sé di tali diritti, a maggior ragione questi medesimi diritti non potevano essere confiscati dagli altri, fossero pure 'gli altri' gli uomini più aggressivi e potenti dello Stato: i diritti naturali erano lì a costringere in un cerchio invalicabile il potere della sovranità. Quella sovranità, invece, che in Inghilterra rimaneva pur sempre onnipotente riconoscendosi al Parlamento qualunque potere, e quindi anche il potere di restringere o attentare ai diritti dell'uomo. Ecco perché le vicende inglesi non sono assimilabili alle esperienze del costituzionalismo franco-americano, il cui antecedente più diretto perciò è da ricercare altrove, e precisamente nelle Dichiarazioni dei diritti di talune ex colonie inglesi (la Virginia in particolare, ma anche la Pennsylvania e il Maryland) le quali, tutte nel 1776, sciolsero il legame di dipendenza con la madrepatria e fecero precedere la loro Costituzione da una Carta dei diritti che si ispirava a John Locke e alla scuola del diritto naturale.
Per Locke, il popolo e lo Stato sono l'espressione di un libero accordo, il prodotto del contratto che gli individui stipulano per meglio tutelare i loro diritti. Come il popolo rimanda al contratto di associazione, cioè alla decisione dei singoli di instaurare la società civile, così lo Stato postula il contratto di sottomissione, cioè l'impegno ‒ ancora una volta dei singoli ‒ di obbedire all'autorità statale in cambio della protezione dei loro diritti. Questi diritti, per Locke, sono il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà e, non ultimo, il diritto di resistenza alla stessa autorità statale qualora essa diventasse oppressiva.
E si capisce perché. Se infatti lo Stato nasce da un contratto e se questo contratto ha lo scopo di tutelare i diritti dei contraenti, ne segue che il potere statale è limitato. Lo Stato non può tutto; in particolare non può confiscare i diritti dei contraenti. Per contratto deve salvaguardarli. Attentando alla loro esistenza, violando cioè le prerogative individuali, viene alterata e come cancellata la causa del contratto. E poiché un contratto privo di causa è nullo, nullo rimane l'accordo sul quale è fondato lo Stato. Invalidato il contratto che ne è alla base, il potere si converte in abuso, l'autorità in tirannia, e gli ordini sovrani in altrettante insolenti pretese. Ma in quanto tali, in quanto odiose prepotenze, è lecito trasgredirle. Ecco perché, ad avviso di Locke, "rimane sempre nel popolo il potere supremo di rimuovere o alterare il legislativo quando vede che il legislativo delibera contro la fiducia in esso riposta".
Per Locke, quindi, i diritti naturali formano l'oggetto del contratto da cui nasce lo Stato e, di conseguenza, impegnano i governanti a tutelarli; pertanto, solo facendosene scrupolosi garanti, i governanti possono catturare il consenso dei governati. Ebbene quando all'articolo 1 della Dichiarazione del Maryland leggiamo che "Ogni governo […] è fondato soltanto sul contratto"; quando l'articolo 2 della Dichiarazione francese afferma che "Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo", e poi, enumerandoli, precisa che "Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione", quando le cose vengono organizzate così, non sentiamo l'eco delle parole di Locke?
Dunque non ci ingannavamo sul conto del diritto naturale (almeno nella versione di Locke) e non è vero che, a stargli dietro, si inseguono fuggevoli chimere. Non è vero, perché le sue verità hanno ispirato gli articoli di documenti giuridici solenni, i primi forse che in maniera tanto compiuta hanno delineato gli assetti del moderno Stato costituzionale.
Lo Stato costituzionale nasce con i diritti civili della tradizione liberale (liberalismo), e cioè la libertà di corrispondenza, l'inviolabilità del domicilio, l'habeas corpus (ossia la garanzia contro le detenzioni arbitrarie), la libertà religiosa e altri ancora; si sviluppa con i diritti politici del pensiero democratico (il diritto di voto, ma più in generale il principio della sovranità popolare) e si completa con i diritti sociali del movimento operaio (il diritto al lavoro, all'istruzione, alla salute).
Un punto va chiarito: diritti civili, diritti politici e diritti sociali sono pur sempre diritti dell'uomo. Con l'avvertenza, però, che l'uomo per i liberali è cosa diversa di quel che è l'uomo per i democratici, ed è ancora diverso da ciò che i socialisti intendono per uomo. Per i liberali, l'uomo è innanzitutto l'individuo, l'individuo singolo, l'individuo che vuole differenziarsi dagli altri e realizzare interamente la propria personalità. A raffigurarsi così l'uomo, ne viene la necessità di privilegiare 'il privato', perché è appunto qui, in questa sfera libera da divieti e da comandi giuridici, che ciascuno può assecondare le proprie attitudini e coltivare la propria vocazione. La libertà di religione, per esempio, significa proprio questo: che nessuno, e men che meno lo Stato, può obbligarmi a seguire una certa religione né impedirmi di seguirne un'altra. Questa è una scelta riservata, che non tollera intromissioni di sorta, proprio perché è destinata a promuovere la realizzazione personale di ciascun individuo. L'individuo, dunque: ecco l'uomo del liberalismo.
Più che individuo, invece, l'uomo della democrazia è cittadino, è l'uomo cioè che fa parte della città. Ma poiché la città, per non degenerare nell'anarchia, ha bisogno di divieti e di comandi, ne viene che il principale diritto dell'uomo-cittadino è di contribuire alla creazione di questi divieti e di questi comandi. Non più, quindi, la libertà dallo Stato e dalle leggi, come per i diritti civili, ma la libertà nello Stato, partecipando alla formazione delle sue leggi mediante il diritto di voto. Che poi è il primo fra i diritti dei cittadini.
Non individuo, invece, e neppure cittadino è l'uomo al quale rimandano i diritti patrocinati dal movimento socialista. Per i socialisti, l'uomo è persona sociale, è persona cioè che prende vita e colore dalla società cui appartiene e che la società, per il suo stesso interesse, deve soccorrere nel momento del bisogno. Infatti, è meglio anche per la società che i suoi membri siano occupati piuttosto che disoccupati, istruiti anziché ignoranti, sani invece che malati. Donde, appunto, il lavoro, l'istruzione e la salute consegnate alle formule dei diritti sociali, i quali diritti comandano allo Stato di elaborare un progetto di trasformazione sociale, di realizzare cioè attraverso le norme giuridiche (che si dicono programmatiche) un programma di riforme volto a raddrizzare le storture, a sanare le ingiustizie e a consentire così anche al più piccolo, anche al più oscuro degli uomini l'esercizio effettivo dei suoi diritti. Per il tramite delle norme programmatiche cambiano quindi i diritti e le libertà: non più, come per il liberalismo, i diritti civili e quindi la libertà dallo Stato; nemmeno più, come in democrazia, i diritti politici e dunque la libertà nello Stato; ma i diritti sociali e perciò la libertà mediante lo Stato.
Le Dichiarazioni (e le carte costituzionali che vi si sono ispirate) hanno trasformato i diritti dell'uomo da aspirazioni di filosofi, quali erano all'origine, in vere e proprie leggi positive, con tanto di sanzioni che ne assicurano l'osservanza. Le libertà naturali sono così divenute libertà positive, sancite cioè dall'ordinamento giuridico. Tali libertà, a loro volta, trasformandosi per le alterne vicende della storia, pian piano si sono arricchite e moltiplicate: alle libertà negative dei diritti civili si sono così aggiunte prima le libertà positive della democrazia e poi i diritti sociali del movimento operaio. Si è in tal modo prodotto un secondo fenomeno, conosciuto come progressione dei diritti dell'uomo.
Quando il 10 dicembre 1948 l'Assemblea generale dell'ONU ha riunito tutti questi diritti ‒ nessuno escluso ‒ sotto la bandiera della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, la lunghissima e faticosissima marcia dei diritti ha conquistato una nuova tappa, nota come l'universalizzazione dei diritti umani. Dove per universalizzazione è da intendere l'allargamento della protezione giuridica dal sistema interno dello Stato al sistema esterno della comunità internazionale. Con la conseguenza che, d'ora innanzi, gli uomini possono chiedere la tutela dei loro diritti non allo Stato ma, teoricamente, anche contro lo Stato di appartenenza; non solo, cioè, fidando sugli organi statali ma anche ricorrendo contro di essi, qualora i diritti umani vengano calpestati o disattesi. In questo caso, sempre teoricamente, scatta negli individui il diritto di appellarsi a istanze sovrastatali le quali, munite di forza e poteri irresistibili, siano in grado di piegare l'ostinazione dello Stato colpevole e di forzarlo a recedere dalla sua illegalità. Tutto ciò, però, teoricamente e solo teoricamente.
La Dichiarazione del 1948, infatti, non organizza alcun potere capace di fermare le politiche liberticide delle comunità statali. Né poteva essere diversamente, perché i suoi articoli ‒ che peraltro nessuno ebbe l'obbligo di firmare e ratificare ‒ si presentano nelle vesti assai dimesse di "ideali da raggiungere" (si legge proprio così nel Preambolo): ideali, dunque, e non norme giuridiche che producano doveri per gli Stati e quindi diritti per gli individui.
Promesse ingannevoli, allora, quelle della Dichiarazione? No di certo, a causa dei due patti, meglio rifiniti ma pur sempre ispirati ai principi della Dichiarazione, in seguito conclusi: il Patto internazionale sui diritti politici e civili e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Tali patti ‒ approvati dall'Assemblea generale nel 1966 ‒ hanno predisposto veri diritti e veri obblighi giuridici. Intanto l'obbligo per gli Stati firmatari di inviare a speciali Comitati un rapporto periodico dove, di volta in volta, essi certificano quel che hanno realizzato per onorare le clausole dei patti. E poi il diritto di ricorrere con una comunicazione scritta al Comitato dei diritti dell'uomo, dinanzi al quale ogni cittadino può denunciare l'offesa delle sue prerogative. In questo caso, il Comitato ne valuta l'ammissibilità e quindi, dopo un iter alquanto laborioso, conclude il procedimento emettendo una propria opinione. È bene precisare che, dal punto di vista giuridico, tali vedute del Comitato hanno semplice valore di raccomandazioni.
Non raccomandazioni, invece, ma vere e proprie pronunce giurisdizionali sono le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, quale prevista dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La Convenzione ‒ richiamata nella recentissima Carta dell'Unione europea ‒ fu stipulata nel 1950 fra gli Stati membri del Consiglio d'Europa ed entrò in vigore nel 1955. Da allora è stata più volte integrata e corretta. Ma è solo con la modifica del 1994 che la Corte europea ha raggiunto la frontiera più avanzata nella tutela dei diritti umani. A partire da quell'anno, infatti, possono rivolgersi a essa non solo gli Stati-membri che lamentano l'inadempimento degli obblighi contrattuali da parte di un altro Stato-membro, ma anche ‒ ed è la novità più significativa ‒ gli stessi cittadini che hanno patito l'oltraggio dei loro diritti. In tal caso, la Corte può condannare lo Stato colpevole a ristabilire il diritto violato o a risarcire la vittima con un "equo soddisfacimento" in denaro.
Non c'è dubbio: siamo molto al di là e molto più avanti della Dichiarazione del 1948. Pure, non va dimenticato che gli Stati appartenenti al Consiglio d'Europa ‒ oggi sono 39 e coinvolgono più di 600 milioni di cittadini ‒ sono governati da sistemi democratici (almeno nel loro complesso), che proprio perché democratici, nel loro interno, custodiscono i diritti dell'uomo in un fortilizio abbastanza sicuro, e comunque più sicuro di quelli che vengono scardinati nelle dittature. Sicché, volendo concludere con una formula, potremmo dire così: dove la protezione internazionale dei diritti è possibile (come negli Stati democratici) non è necessaria; e dove è necessaria (come nelle dittature) non è possibile.