Locke, John
Il padre dell’empirismo e del liberalismo moderni
L’inglese John Locke è uno dei più grandi pensatori del Seicento. La sua filosofia empiristica, tesa a individuare i limiti della conoscenza umana, si contrappose efficacemente al razionalismo cartesiano, sino a divenire, nel secolo successivo, il principale punto di riferimento dell’Illuminismo. Locke fu anche un pensatore politico di prima grandezza. La sua riflessione, come quella di Hobbes, scaturì dai terribili conflitti politici e religiosi del Seicento inglese, ma lo condusse a conclusioni opposte: se Hobbes si schierò dalla parte del re, elaborando la prima teoria razionalistica dell’assolutismo, Locke si schierò dalla parte del Parlamento, elaborando la prima teoria liberale dell’età moderna
Con Locke viene posto per la prima volta, nella storia della filosofia, il problema critico, che da allora dominerà la riflessione filosofica sino a Kant. È lo stesso Locke, nelle prime pagine del suo Saggio sull’intelletto umano (1690), a spiegare nel modo più chiaro in cosa consista tale problema: «Se fosse il caso di annoiarti con la storia di questo Saggio – scrive il filosofo inglese, rivolgendosi in modo diretto e amichevole al lettore – potrei dirti che cinque o sei amici, riuniti nella mia stessa stanza, discutevano di un argomento molto diverso da quello qui trattato e ben presto si trovarono a un punto morto, a causa delle difficoltà che sorgevano da ogni lato. Dopo esserci scervellati un po’ senza avvicinarci di più alla soluzione di quei dubbi […] mi accadde di pensare che eravamo su una strada sbagliata; e che prima di iniziare indagini di quella natura, era necessario esaminare le nostre capacità, per vedere con quali oggetti il nostro intelletto fosse o non fosse in grado di trattare».
Come si vede, il problema critico consiste in un’indagine preliminare sui limiti della conoscenza umana: prima di indagare questo o quell’ambito della realtà è necessaria una riflessione per stabilire su quali materie, ed entro quali limiti, il nostro intelletto possa raggiungere una conoscenza valida, al fine di evitare ricerche inutili o sterili.
Si tratta di una prospettiva simile, e al tempo stesso diversa, rispetto a quella di un altro grande filosofo del Seicento, Cartesio. È simile, perché anche Locke ritiene fondamentale un’indagine preliminare sul modo in cui gli uomini conoscono la realtà; è diversa, perché mentre il problema del metodo presuppone una fiducia illimitata nella ragione, che dobbiamo soltanto imparare a usare nel modo giusto, il problema critico riflette la convinzione che le capacità della ragione siano limitate e si pone l’obiettivo di definire con precisione tali limiti.
Tale convinzione discende direttamente dall’empirismo di Locke, ossia dall’idea che la ragione abbia bisogno del costante supporto dell’esperienza, senza la quale finisce per produrre un sapere falso o illusorio.
Locke affronta il problema critico descrivendo con «metodo semplice e storico» i nostri procedimenti conoscitivi. Egli parte dalla classificazione delle idee, giacché è convinto – come lo era anche Cartesio – che noi conosciamo soltanto le idee, ossia le rappresentazioni mentali delle cose, e non le cose in sé stesse. A differenza del filosofo francese, però, Locke crede che tutte le idee derivino dall’esperienza, il che esclude l’esistenza di idee innate.
Poiché l’esperienza è esterna e interna, Locke distingue tra le idee di sensazione, ottenute per il tramite delle sensazioni (come il colore, il caldo, il freddo, il dolce, l’amaro), e le idee di riflessione, che nascono dalle operazioni del nostro spirito (come pensare, volere, desiderare e così via). Sensazione e riflessione sono le due «fonti della conoscenza»: grazie a esse si formano in noi quelle idee semplici, cioè non scomponibili, che costituiscono tutto il ‘materiale’ del nostro sapere. Di fronte alle idee semplici il nostro intelletto è passivo: impossibile concepire l’idea di rosso, per esempio, se non si è mai visto tale colore, o l’idea di panico se non si è mai provato tale sentimento.
Il nostro intelletto è però in grado di combinare le idee semplici tra loro, formando idee complesse: l’idea di mela, per esempio, nasce dalla combinazione tra le idee semplici di un certo colore, di una certa forma, di una certa consistenza e di un certo sapore. In questo caso il nostro intelletto è attivo; ma non bisogna dimenticare – ricorda Locke – che anche l’idea più fantastica è soltanto la combinazione, per quanto complessa, di idee semplici derivanti dalla sensazione o dalla riflessione.
Infine il filosofo inglese distingue tra idee di qualità primarie e idee di qualità secondarie, distinzione che corrisponde a quella galileiana e cartesiana tra qualità oggettive (cioè proprie dell’oggetto, come l’estensione, la figura, il movimento) e soggettive (che dipendono dal soggetto, come il sapore, l’odore e così via).
Se la conoscenza deriva dall’esperienza, tuttavia non si identifica con essa, perché riguarda sempre le nostre idee. Conoscere equivale a porre in relazione due idee, stabilendo se tra di esse vi è accordo o meno. Tale accordo può essere colto in modo immediato, come accade quando affermiamo che ‘bianco non è nero’ o che ‘un circolo non è un triangolo’; oppure in modo mediato, come quando ricorriamo a lunghe catene di ragionamenti. Nel primo caso Locke parla di conoscenza intuitiva, nel secondo di conoscenza dimostrativa, osservando che mentre la prima è certa, la seconda lo è meno, perché nei lunghi ragionamenti può annidarsi qualche errore. Si tratta, in ogni caso, di tipi di conoscenza che riguardano soltanto le idee e i loro rapporti, come avviene nelle scienze matematiche e nella logica.
Ma vi è anche la conoscenza che riguarda il mondo esterno. Qui si apre, come era già accaduto con Cartesio, un grosso problema (idealismo). Se è vero che conosciamo le rappresentazioni delle cose (cioè le idee) e non le cose in sé stesse, cosa ci garantisce che tali idee corrispondano alla realtà esterna? Cartesio aveva risolto il problema dimostrando l’esistenza di Dio, il quale faceva da garante sulla corrispondenza tra idee e cose esterne. La risposta di Locke è decisamente più empiristica. Le nostre sensazioni in atto, così vivide e forti, non possono ingannarci: nel momento in cui proviamo la sensazione di una cosa esterna, si forma nella nostra mente un’idea corrispondente.
Quando invece gli oggetti non sono più testimoniati da sensazioni in atto, la loro certezza scompare ed è sostituita dalla mera probabilità. Accanto alla conoscenza certa esiste quindi la conoscenza probabile, il cui ambito è molto più esteso. Dalla conoscenza va infine distinta la fede, che si basa sulla rivelazione.
Locke è convinto che tutti gli uomini godano di una serie di diritti naturali (alla vita, alla libertà, alla proprietà), i quali precedono, nel tempo e per importanza, le leggi civili dello Stato. Ne consegue che il potere dello Stato – certamente indispensabile, per risolvere i conflitti tra gli individui – sarà limitato dall’esistenza dei diritti naturali; esso dovrà inoltre agire non in modo arbitrario, ma rispettando le leggi (principio di legalità).
Qualora lo Stato violasse i diritti naturali, i cittadini avrebbero il diritto di resistere agli ordini del sovrano e persino di deporlo: è il famoso diritto di resistenza, che gli Inglesi avrebbero applicato nel 1688 e gli Americani nella rivoluzione del 1776. Locke teorizza inoltre la divisione dei poteri tra legislativo (affidato al parlamento) ed esecutivo (spettante al re), al fine di garantire quel controllo reciproco e bilanciamento (checks and balance) che costituisce un’ulteriore garanzia contro il dispotismo.
Infine, Locke è il grande teorico della tolleranza. Dopo aver chiaramente distinto tra Stato e Chiesa, egli sottolinea che imporre una fede religiosa con la forza è un’impresa insensata, oltre che ingiusta. Si possono confiscare i beni, tormentare il corpo con il carcere e la tortura – dice Locke –, ma tutto ciò non può mutare le convinzioni interiori di un uomo: può soltanto obbligarlo a mentire. Quanto alle varie Chiese, esse hanno il diritto di fissare le proprie regole e di espellere chiunque non le rispetti; ma alla scomunica religiosa non deve seguire alcun danno inflitto alla persona (in senso fisico o verbale) e ai suoi beni. Dalla tolleranza Locke esclude però sia i cattolici (perché non sono tolleranti) sia gli atei (perché non credendo in Dio non riconoscono l’autore delle leggi naturali, base della convivenza pacifica tra gli uomini).
Le idee di Locke sulle libertà personali, sul predominio della legge e sulla tolleranza religiosa – che costituiscono la prima manifestazione del liberalismo moderno – furono tradotte in realtà dalla Gloriosa Rivoluzione del 1688. Grazie a essa nacque in Inghilterra il lontano progenitore dei moderni Stati liberal-democratici.