Kant, Immanuel
Il Copernico del pensiero filosofico
Metodico e abitudinario nella vita privata – si racconta che i suoi concittadini regolassero gli orologi sulla sua passeggiata pomeridiana delle cinque – il filosofo tedesco Kant, vissuto nella seconda metà del Settecento, operò una ‘rivoluzione’ nella filosofia, da lui stesso paragonata alla rivoluzione copernicana. Come Copernico aveva messo ordine nei cieli, spostando il Sole al centro dell’Universo e ‘costringendo’ la Terra a ruotargli intorno, così Kant ritenne di aver messo ordine nella filosofia, collocando il soggetto al centro della conoscenza e ‘costringendo’ gli oggetti a conformarsi alle sue categorie mentali.
In tal modo riunì ciò che la filosofia moderna aveva separato – esperienza e ragione – ed elaborò una sintesi che costituirà il punto di partenza della speculazione successiva
Il pensiero di Kant rappresenta il culmine della riflessione avviatasi nel Settecento dopo la rivoluzione scientifica, che aveva visto la filosofia moderna dividersi in due grandi correnti: l’empirismo, secondo il quale la conoscenza valida può derivare soltanto dall’esperienza, e il razionalismo, secondo il quale soltanto la ragione può conferire universalità e necessità al sapere umano. Per Kant tali impostazioni conducevano in due vicoli ciechi: il razionalismo, pretendendo di fare a meno dell’esperienza, portava al dogmatismo, ossia ad accettare una tesi non in base a una dimostrazione ma in maniera acritica; l’empirismo, pretendendo di limitarsi alla sola esperienza, portava invece allo scetticismo, come dimostrava la filosofia di Hume.
Volendo evitare entrambi questi esiti, Kant riprende il problema critico sollevato da Locke – ossia l’indagine sugli ambiti e sui limiti della conoscenza umana – e lo affronta in modo assai più radicale, sino a farne il problema filosofico per eccellenza (e infatti la filosofia di Kant è detta criticismo). Egli non intende limitarsi, come aveva fatto il filosofo inglese, a descrivere ciò che di fatto la ragione umana conosce o non conosce, ma vuole individuare le condizioni e i fondamenti della conoscenza, stabilendo una volta per tutte ciò che la ragione umana di diritto può o non può conoscere.
Applicata al sapere del suo tempo, tale indagine doveva rispondere a due domande. Nel caso della scienza newtoniana – sulla cui validità Kant non aveva dubbi – si trattava di stabilire come fosse possibile tale scienza, ossia cosa le permettesse, anche quando aveva a che fare con l’esperienza, di enunciare leggi dotate di universalità e necessità. Nel caso della metafisica tradizionale – il cui carattere scientifico era dubbio, visto che da secoli era un campo di battaglia tra opinioni opposte – si trattava invece di stabilire se potesse essere una scienza, o no.
Ogni conoscenza – afferma Kant nella Critica della ragion pura (1781 e 1787) – inizia con l’esperienza: le nostre facoltà conoscitive – la sensibilità e l’intelletto – non potrebbero attivarsi e produrre sensazioni e concetti se gli oggetti esterni non offrissero loro degli stimoli. Ma questo non significa, come pensano gli empiristi, che tutta la conoscenza derivi dall’esperienza: quest’ultima rimarrebbe infatti un ammasso caotico di materiali, se le nostre categorie mentali non le dessero una forma e un ordine.
Kant, dunque, affronta il problema della conoscenza secondo una nuova e originale prospettiva: essa non gli appare come qualcosa che proviene soltanto dall’esterno e che l’uomo accoglie tramite la sensibilità in modo passivo (tesi empiristica) né come qualcosa che l’uomo trae esclusivamente dalla sua ragione, senza bisogno di ricorrere all’esperienza (tesi razionalistica), ma come il concorso di elementi provenienti sia dall’oggetto (cioè dall’esterno, per il tramite dell’esperienza), sia dal soggetto (cioè dall’interno, ossia tramite le categorie mentali).
Queste categorie (che Kant chiama anche forme a priori, perché precedono l’esperienza e la rendono possibile) condizionano necessariamente il nostro modo di conoscere il mondo, perché rappresentano le modalità fisse di funzionamento della mente umana. Paragonando la mente a un computer, le categorie kantiane sarebbero una sorta di software fisso e immodificabile, col quale possiamo elaborare dati sempre diversi.
Le categorie della sensibilità – spazio e tempo – ci permettono di ordinare i dati provenienti dalle sensazioni, quelle dell’intelletto (che sono dodici, tra le quali causa/effetto, sostanza/accidente, possibilità/impossibilità, esistenza/inesistenza, necessità/contingenza) ci consentono di pensarli. Ne consegue che noi non conosciamo le cose per come sono (cose in sé o noumeni), ma le conosciamo per come ci appaiono (fenomeni) tramite il nostro apparato conoscitivo.
Ma è proprio tale apparato a conferire universalità e necessità alla nostra conoscenza. Qui sta la rivoluzione copernicana operata da Kant: la necessità e l’universalità del sapere non derivano dall’oggetto della conoscenza, ma dal soggetto conoscente. Kant maturò questo rovesciamento di prospettiva riflettendo sui procedimenti della scienza moderna: egli sottolinea come Galilei e il fisico Evangelista Torricelli non si limitassero a registrare passivamente i dati dell’osservazione, ma indagassero attivamente la realtà con ipotesi da loro stessi costruite (le «necessarie dimostrazioni» di galileiana memoria). I loro famosi esperimenti erano domande alle quali la natura era ‘obbligata’ a rispondere.
Questa impostazione permette a Kant di respingere la critica di Hume al concetto di causa, critica che ridimensionava la validità della fisica newtoniana. L’analisi di Hume si fondava su un’osservazione vera – cioè che l’esperienza ci presenta soltanto la successione temporale dei fenomeni e non la loro connessione causale – ma conteneva un errore di fondo, giacché il concetto di causa non deriva dall’esperienza, ma è una delle categorie con le quali il nostro intelletto non può fare a meno di pensare la realtà.
Per Kant sono quindi le categorie del soggetto a dare ordine ai fenomeni; ma funzionano, per l’appunto, soltanto in relazione ai fenomeni, il che significa che non possono mai andare al di là dell’esperienza. Se ciò accade – come avviene nella metafisica – la ragione produce un sapere falso e illusorio. Essa si comporta come quella colomba che, avvertendo la resistenza dell’aria mentre vola, pensa che senza di essa il suo volo acquisterebbe uno slancio infinito; ma in realtà è proprio quella resistenza che permette alla colomba di volare.
Anche nell’ambito dell’etica Kant compie una sorta di rivoluzione copernicana: egli non stabilisce in cosa consista il bene, per poi ricavarne la legge morale – come avevano fatto sino ad allora i filosofi morali – ma parte dalla legge morale e definisce il bene in relazione a essa. La legge morale, per Kant, non ha alcun bisogno di essere dimostrata: essa è presente nella mente di ogni uomo, è un fatto originario di cui ognuno è consapevole.
In tutte le circostanze in cui gli uomini devono fare una scelta morale, essi sentono la voce della ragione dentro di loro che indica chiaramente quale sia il loro dovere. La ragione si esprime in termini di dovere – ossia tramite imperativi (tu devi o non devi fare questo) – perché si trova in contrasto con l’altro lato della nostra natura, ossia quella sensibilità che ci porta verso ciò che è piacevole o vantaggioso. E la virtù consiste precisamente nella lotta che l’individuo deve sostenere contro le proprie inclinazioni egoistiche per seguire la legge morale. Lotta che presuppone l’esistenza del libero arbitrio: così una delle domande della metafisica, quella sulla libertà dell’uomo, trova risposta nell’ambito etico, come presupposto necessario della legge morale.
Per stabilire se un’azione è buona, noi dobbiamo quindi guardare all’intenzione che la anima. Per esempio, se facciamo una donazione in denaro a favore di persone bisognose al fine di ricavarne dei vantaggi fiscali o perché desideriamo l’ammirazione degli altri, la nostra non è un’azione moralmente buona, perché è motivata da vantaggi o inclinazioni egoistiche; lo è, invece, se quel dono è del tutto disinteressato, ossia se lo facciamo soltanto perché sentiamo il dovere di farlo.
La legge morale di Kant ha sempre la forma di un imperativo categorico, ossia di un dovere che è giusto compiere per sé stesso, senza altri fini o condizioni. Oltre a essere incondizionata, essa deve essere universale, valere cioè per tutti, e formale, ossia indicarci non cosa dobbiamo fare ma come dobbiamo comportarci, perché soltanto così all’uomo rimane quell’autonomia – ossia quella libertà di decidere quale comportamento seguire – senza la quale non si può propriamente parlare di scelte morali.
Kant ci ha lasciato tre formulazioni dell’imperativo categorico. Tali formulazioni ruotano intorno a due idee di fondo: agire seguendo dei principi che possano valere per tutti e trattare gli altri mai soltanto come mezzi, ma sempre come fini.