Hume, David
Antimetafisico e scettico
David Hume è una delle figure più affascinanti e complesse della filosofia moderna. Ragionatore di straordinaria acutezza ‒ al punto che un grande filosofo come Kant gli riconoscerà il merito di averlo svegliato dal "sonno dogmatico" ‒, Hume è stato anche il pensatore che più di ogni altro ha rivalutato il ruolo del sentimento e dell'istinto. Filosofo empirista e antimetafisico per eccellenza, non ha esitato a ridimensionare le pretese conoscitive della fisica di Newton, alla quale si era inizialmente ispirato. La sua concezione probabilistica e pragmatica del sapere è tornata di prepotente attualità nel Novecento, ispirando le correnti di pensiero che sono poi confluite nella filosofia analitica
Nato nel 1711 a Edimburgo, dove morì nel 1776, Hume rivelò sin da giovane una spiccata attitudine per gli studi filosofici. A diciotto anni intuì che la fisica di Newton avrebbe aperto una nuova era nella storia del pensiero: il metodo sperimentale, applicato con tanto successo allo studio della natura, sarebbe stato esteso allo studio dell'uomo.
A questo progetto Hume consacrò il suo Trattato sulla natura umana (1739-40), nel quale applicò il metodo sperimentale alle indagini sui limiti dell'intelletto e sulla natura delle nostre operazioni mentali. In tal modo sarebbe stato possibile, secondo Hume, giungere per la prima volta a una scienza della natura umana; e poiché "non c'è questione di qualche importanza la cui soluzione non sia compresa nella scienza dell'uomo", per questa via si sarebbe giunti alla ricostruzione dell'intero sistema del sapere su nuove basi.
Questo ambizioso progetto ‒ con il quale Hume si candidava a essere il Newton della filosofia ‒ portò tuttavia a un risultato quasi opposto: l'analisi della conoscenza umana, condotta su basi rigorosamente empiristiche, mostrò infatti non solo l'infondatezza delle idee metafisiche (io, Dio, sostanza), ma anche quella del principio di causa/effetto, che è alla base della fisica newtoniana. In tal modo, tutto il sapere scientifico, con l'eccezione delle scienze matematiche, diveniva soltanto probabile, giacché le sue presunte certezze rivelavano di essere fondate non su basi oggettive e razionali, ma su abitudini e sentimenti soggettivi.
La riflessione di Hume approdava così a una forma di scetticismo, sia pure moderato, giacché quei sentimenti soggettivi, dotati di grande vivacità, compensano i limiti della ragione e rappresentano per l'uomo una sorta di guida istintiva, paragonabile per efficacia all'istinto degli animali.
Nell'affrontare il problema conoscitivo Hume, come già Cartesio e Locke, parte dalle rappresentazioni presenti nella mente umana. Egli, però, non parla di idee, ma di percezioni, sottolineando in tal modo l'origine empirica dei contenuti mentali.
Hume divide le percezioni in due categorie: impressioni e idee. Le impressioni sono le percezioni dotate di grande vivacità, come tutte le sensazioni, le passioni e le emozioni nell'atto in cui le proviamo, mentre le idee non sono che la copia sbiadita delle impressioni. La differenza tra un'impressione e un'idea è quella, per esempio, tra il dolore fisico provato in una determinata circostanza e il suo ricordo: quest'ultimo non può mai avere la forza e la vivacità del dolore in atto.
Hume, tuttavia, riconosce che l'uomo, oltre alla memoria (che produce copie fedeli delle impressioni), dispone anche dell'immaginazione, che è capace di utilizzare i contenuti delle impressioni, ricombinandoli con libertà nei modi più vari. Nascono in tal modo idee fantastiche, che sembrano molto lontane dalla realtà (per esempio, l'idea di un animale mitologico come il centauro); ma in realtà tali idee, esaminate a fondo, rivelano di essere sempre una combinazione di idee derivanti da impressioni corrispondenti (il centauro non è altro che la combinazione dell'idea di uomo e di cavallo). Ogni prodotto del pensiero, per quanto apparentemente libero, deriva quindi dalla realtà empirica e dalle impressioni che questa offre.
Hume sottolinea infine come l'attività immaginativa, anche nelle "fantasticherie più sfrenate e vagabonde", obbedisca in realtà a una ferrea logica associativa, in virtù della quale le idee sono concatenate tra loro per somiglianza, contiguità nel tempo e nello spazio e causalità. Un quadro raffigurante Napoleone, per esempio, ci conduce a pensare al personaggio storico (somiglianza); di qui il nostro pensiero può passare all'ammiraglio Nelson (contiguità) e, subito dopo, al tema della guerra (causalità). Il principio associativo agisce nel nostro spirito come un'irresistibile forza di attrazione, che domina l'universo mentale così come la forza gravitazionale scoperta da Newton domina l'universo fisico.
Hume distingue tra scienze che si occupano di relazioni tra idee, come la matematica, e scienze che si occupano di dati di fatto, come la fisica. Nel primo caso, la verità scaturisce dal solo ragionamento, senza bisogno di ricorrere all'esperienza: una volta posta la definizione di triangolo, possiamo ricavare per via puramente razionale tutte le sue proprietà. Nel secondo caso, invece, la verità deve scaturire dall'esperienza: non basta che una legge della fisica sia priva di contraddizioni dal punto di vista razionale; deve anche corrispondere al reale accadimento dei fatti.
Ma se le proposizioni della fisica si basano sull'esperienza, che riguarda sempre il passato, come è possibile formulare delle leggi, ossia prevedere il comportamento futuro dei corpi? Ciò è possibile grazie al principio di causa/effetto, ossia alla scoperta di rapporti univoci e costanti tra due fenomeni, in virtù dei quali dato un fenomeno (causa) si verifica necessariamente anche l'altro (effetto).
Tuttavia questo principio, alla luce di una rigorosa analisi empiristica, non rimane in piedi. Per parlare di rapporto causale, osserva Hume, abbiamo bisogno di tre elementi: la contiguità spaziale tra due fenomeni, la loro successione temporale e la necessità di questa successione. Ora, l'esperienza può offrirci solo i primi due elementi, ma mai il terzo, perché essa ci dice cosa è accaduto, non cosa accadrà. Celebre l'esempio del tavolo da biliardo. Quando una palla ne urta un'altra, diciamo che il movimento della seconda è causato dalla prima. Ma l'esperienza ci offre solo due fatti: l'urto tra le due palle (continguità spaziale) e, subito dopo, il movimento della palla che viente urtata (successione temporale); quanto alla necessità di questa successione, l'esperienza non ci dice nulla. Chi può escludere che la prossima volta la palla urtata rimanga ferma? Del resto, dice Hume, il fatto di aver visto il Sole sorgere sino a oggi non implica alcuna necessità che sorga anche domani.
Su cosa si basa, allora, il principio di causa? Sull'abitudine a constatare la successione di due eventi: il post hoc ("dopo ciò") si trasforma in propter hoc ("a causa di ciò"). Questa trasformazione non si fonda su una necessità oggettiva ricavata dal pensiero o dall'esperienza, ma riflette una credenza soggettiva nella regolarità dei fenomeni che nasce dall'abitudine e ci permette di affrontare la nostra vita quotidiana. L'abitudine spiega perché crediamo al principio di causa e quale sia la sua funzione pratica, ma non è in grado di giustificarlo razionalmente: le scienze che si fondano su di esso, inclusa la fisica di Newton, ci offrono quindi un sapere soltanto probabile.
Per Hume le motivazioni principali dell'agire non sono dettate dalla ragione, ma da alcune passioni, come la ricerca del proprio vantaggio, il risentimento per le offese e l'attrazione sessuale. Accanto a queste tendenze egoistiche, vi è tuttavia nell'uomo il sentimento naturale della simpatia, che gli fa percepire il piacere e il bene degli altri come parte integrante del proprio. Ed è su questo sentimento, non certo sulle regole astratte della ragione, che bisogna fare leva per compensare il naturale egoismo umano.
L'etica non deve quindi porsi l'obiettivo di trasformare la natura umana in base a ideali astratti e irraggiungibili, bensì l'obiettivo di combinarne in modo appropriato le tendenze naturali. Di qui la polemica di Hume con quei filosofi che presentano l'etica in abito da lutto, ossia come una disciplina ispirata a una cupa severità, mentre si tratta di una disciplina ispirata all'utilità, alla gentilezza, all'umanità e in alcuni casi persino all'allegria. L'etica, afferma Hume, ha il solo scopo di rendere gli uomini felici e richiede un'unica fatica: calcolare i piaceri e preferire la felicità di molti a quella di pochi. Egoismo e altruismo, opportunamente combinati, sono anche le molle che permettono di realizzare la forma migliore di società, ossia quella in cui la massima libertà individuale va di pari passo con ampi e solidi legami sociali.