Newton, Isaac
Il grande scienziato affascinato da luce e gravitazione
Un po’ fisico, un po’ filosofo, un po’ inventore: questo è Isaac Newton, lo scienziato che formulò la legge di gravitazione universale, spiegò il fenomeno della dispersione della luce attraverso un prisma, costruì il primo telescopio a riflessione. La sua opera si può considerare come il momento conclusivo della rivoluzione scientifica del Seicento. Pochi hanno lasciato, come lui, un’orma così profonda in tanti campi della ricerca
L’idea della gravitazione. «Perché una mela cade sempre perpendicolarmente al suolo? Perché non cade di lato o non sale, ma tende costantemente verso il centro della Terra?». Così Newton ottantenne, prendendo il tè con il suo biografo William Stukeley sotto un melo del giardino, ricordava le domande che si era posto in gioventù «quando l’idea della gravitazione gli era venuta in mente per la prima volta»; e la risposta: «certo, perché la Terra attrae la mela». Di qui altre congetture: in tutta la materia deve esserci un potere attrattivo, proporzionale alla massa e inversamente proporzionale alla distanza. Dunque, come la Terra attrae la mela, così anche la mela deve attrarre la Terra. Quest’attrazione reciproca può spiegare perché tutti i corpi pesanti cadono al suolo, perché la Luna è trattenuta nella sua orbita attorno alla Terra, perché i pianeti descrivono le loro orbite intorno al Sole, i satelliti attorno ai pianeti, e tutti i corpi dell’Universo gravitano gli uni verso gli altri.
La dispersione della luce. L’aneddoto della mela, divulgato da Voltaire, lascia in ombra gli aspetti matematici della scoperta, ma dà un saggio del metodo di osservazione e di ragionamento che permise a Newton di dare precise dimostrazioni matematiche delle sue intuizioni giovanili. Così pure, in una memoria di ottica del 1672, egli descrisse l’esperimento con il quale sei anni prima aveva tentato di spiegare un fenomeno ben noto fin dall’antichità: la dispersione della luce. Perché un raggio di sole che incide su un prisma mostra, come l’arcobaleno, una gamma di sette colori?
Cartesio, applicando le leggi dell’ottica geometrica, aveva compreso come la luce bianca si rifrange e si riflette dentro le gocce d’acqua dell’arcobaleno, ma non perché si scinde nei colori dell’iride. Newton osservò che un raggio di sole, attraversando il prisma, si dilata in uno spettro oblungo, e il rosso e il violetto ai suoi due estremi delimitano i colori intermedi. Misurando angoli, figure, distanze dei singoli raggi colorati ne concluse che la luce bianca è una loro mescolanza, e che ciascuno di essi è dotato di un proprio indice di rifrazione.
Newton nacque nel 1642 da piccoli proprietari del Lincolnshire, in Inghilterra. Mostrò una precoce attitudine al disegno e alle invenzioni meccaniche; le sue attitudini negli studi di letteratura, ebraico e teologia gli valsero nel 1661 una borsa di studio presso l’Università di Cambridge. Nel 1669 il suo maestro Isaac Barrow gli cedette la cattedra di matematica, che tenne fino al 1701; nei suoi taccuini risultano letture di Cartesio e Galilei, del chimico Robert Boyle e dei matematici contemporanei, l’adesione all’atomismo, le prime intuizioni di ottica e di matematica.
Negli anni 1665 e 1666 si ritirò nella casa natia per sfuggire alla peste e, come scrisse più tardi, colse «le primizie dell’età creativa, occupandosi di matematica e fisica più di quanto non avesse mai fatto in seguito»: a venticinque anni, infatti, aveva già posto le basi concettuali del «calcolo delle flussioni» (cioè del calcolo infinitesimale), dimostrato la teoria dei colori e intuito la teoria dell’attrazione gravitazionale.
Costruì con le proprie mani il primo telescopio a riflessione, e nel 1672 ne inviò un modello alla Royal Society di Londra insieme con la memoria sulla nuova teoria dei colori. Ne nacque una controversia che lo indusse a non pubblicare le Lectiones opticae (un corso di lezioni sull’ottica scritte in latino) e a rinviare il trattato Ottica fino al 1704. Nel 1679, rielaborando le prime intuizioni di meccanica celeste, riesaminò il problema dell’orbita della Luna e dei corpi soggetti a forze centrali, risolse alcuni problemi dinamici e formulò la legge della gravitazione universale. Mancava ancora il contesto concettuale, che sviluppò dopo il 1680 nelle lezioni De motu («Sul moto»).
Negli anni 1685-87, Newton, per una sorta di sfida alla quale parteciparono tre matematici – Robert Hooke, Christopher Wren ed Edmond Halley –, compose in pochi mesi i tre libri dei Principi matematici della filosofia naturale, apparsi nel 1687 a cura di Halley e a spese della Royal Society. A causa delle difficoltà del linguaggio geometrico modellato sull’esempio degli antichi, le formule della meccanica celeste gravitazionale ebbero sostenitori e avversari: John Locke, per esempio, dopo aver consultato il fisico olandese Christiaan Huygens sull’esattezza dei teoremi, scrisse in un periodico una recensione di plauso.
Il filosofo e matematico Gottfried Leibniz, invece, respinse l’idea dell’azione a distanza, seguito da tutti i cartesiani, e negli anni seguenti pubblicò una serie di memorie sul calcolo infinitesimale, mentre Newton serbò il silenzio per molti anni circa il proprio metodo delle flussioni (calcolo).
Alla vigilia della rivoluzione inglese del 1688, Newton si oppose alle trame di re Giacomo II per imporre a Cambridge un docente cattolico. Dopo l’avvento al trono di Gugliemo d’Orange, nel nuovo regime più tollerante e liberale, Newton fu eletto membro del parlamento. Come direttore della Zecca Reale di Londra organizzò il conio e la sostituzione della moneta. Lasciato l’insegnamento di Cambridge, si stabilì nell’elegante sobborgo londinese di Kensington e nel 1703 fu eletto presidente della Royal Society.
Newton si trasformò in un uomo di mondo, autorevole a corte, arbitro della vita scientifica e accademica, e in tale veste sostenne la celebre disputa con Leibniz circa la priorità dell’invenzione del calcolo.
La disputa si concluse nel 1713 con una sentenza della Royal Society a suo favore e con l’ulteriore controversia tra Leibniz e il filosofo Samuel Clarke, un sostenitore delle tesi di Newton, sui concetti di spazio, tempo, divinità, materia, che ebbe un’eco durevole nel pensiero europeo.
Newton non rivelò le proprie opinioni teologiche contrarie al dogma della Trinità. Si limitò a far circolare un estratto dei suoi studi di cronologia sacra e profana e di esegesi della Bibbia, che proponeva un’abbreviazione delle epoche degli imperi antichi in base a complicati calcoli astronomici. L’abate Antonio Conti trasmise all’Accademia delle iscrizioni di Parigi questo scritto, che suscitò una violenta polemica.
Newton morì nel 1727, ebbe funerali regali e fu sepolto nell’abbazia di Westminster. Solo dopo la sua morte apparvero alcuni inediti: la Chronology of the ancient kingdoms amended («Cronologia corretta degli imperi antichi»), la versione divulgativa De mundi sistemate («Sul sistema del mondo»), due scritti sulle profezie di Daniele e sull’Apocalisse, alcuni commenti su passi evangelici. La maggior parte dei numerosi scritti storici e teologici composti in lunghi anni di lavoro rimase inedita, insieme con una sconcertante raccolta di appunti sui propri esperimenti di alchimia. I manoscritti di Newton, ereditati dalla famiglia Portsmouth, furono in parte acquistati all’asta nel 1936 dall’economista John Maynard Keynes e da lui donati alle biblioteche di Cambridge; un’altra parte finì nel fondo Yahuda conservato a Gerusalemme. Il lascito manoscritto di Newton ha fornito i materiali per i molti studi e per le edizioni critiche dei Principi, dell’Ottica e della corrispondenza che nella seconda metà del Novecento hanno profondamente rinnovato l’immagine convenzionale di Newton.
L’esperimento col prisma esposto nella Nuova teoria sulla luce e i colori (1672) è una semplificazione didattica del metodo di ricerca che Newton aveva praticato negli anni precedenti. Il successo fu dovuto all’originalità con cui lo scienziato seppe combinare l’osservazione dei fenomeni, la pratica sperimentale, il calcolo e il ragionamento induttivo.
Newton non si preoccupò, come aveva fatto Cartesio, di spiegare il fenomeno della dispersione della luce bianca nel prisma anticipando un’ipotesi riguardo alla struttura fisica della materia luminosa; si limitò a misurare l’angolo di emissione dei raggi di diversi colori. Poi, per dimostrare la tesi che la luce bianca è un composto di sette colori fondamentali, invertì il primo esperimento, fece ripassare attraverso una lente convessa il fascio di raggi colorati uscenti dal prisma e così ottenne di nuovo il raggio di luce bianca. Un terzo esperimento, detto cruciale, consisté nel selezionare attraverso uno schermo forato i raggi di diverso colore uscenti dal primo prisma facendoli passare uno dopo l’altro attraverso un secondo prisma.
Questa volta nessun raggio si scindeva, ma tutti mantenevano la propria colorazione e il proprio angolo di rifrazione. Ne concluse che la luce bianca «è un aggregato confuso di raggi dotati di ogni genere di colori e, passando attraverso il prisma, quelli che differiscono per colore differiscono proporzionalmente anche per rifrangibilità, e la diversità della loro rifrazione li deve distinguere e disperdere in forma oblunga, in una successione ordinata, dal rosso meno rifrangibile, al violetto, il più rifrangibile».
La dimostrazione di Newton implica un distacco critico dalle impressioni immediate dei sensi, una messa tra parentesi dei problemi di ottica fisiologica e delle ipotesi sulla struttura della luce e, soprattutto, un attento calcolo degli angoli di rifrazione, delle distanze, della sezione dei raggi.
La memoria confuta l’ottica di Cartesio e utilizza ampiamente le tecniche sperimentali di Robert Boyle, servendosi di un metodo teorico originale: «La scienza dei colori è matematica e altrettanto certa che qualsiasi altra parte dell’ottica: ma chi non sa che l’ottica e le altre scienze matematiche si fondano tanto su principi fisici quanto su dimostrazioni matematiche, e che l’assoluta certezza di una scienza non può superare la certezza dei suoi principi? L’evidenza che ho dato alla teoria dei colori è derivata dagli esperimenti e così è soltanto fisica; dunque le proposizioni stesse possono essere ritenute nulla più che principi fisici di una scienza».
In base a questo metodo Newton elaborò i teoremi e le dimostrazioni che completano l’ottica geometrica ereditata da Euclide con la teoria dei colori esposta nelle Lectiones opticae e nell’Ottica. Questo trattato, accolto all’inizio del secolo 18° come un modello esemplare di ricerca, contiene i teoremi che dimostrano un’ampia serie di fenomeni: le rifrazioni, riflessioni e deflessioni che la luce subisce nei prismi e nelle lenti o quando sfiora superfici taglienti o attraversa lamine sottili e superfici oleose, l’aberrazione dei raggi colorati nelle lenti e nei cannocchiali, i fenomeni di interferenza e molti altri.
Al termine dell’opera sono relegate in forma problematica tutte le questioni rimaste in sospeso: dalla struttura della luce e della materia alla natura delle attrazioni fisiche e chimiche, dall’esistenza dell’etere come mezzo universale agli atomi e alle forze attive, dal futuro della ricerca sperimentale all’azione della provvidenza nel mondo fisico.
La terminologia. Nelle pagine di appunti che Newton dedicò alla meccanica si notano molte incertezze circa l’uso di termini correnti come ipotesi, deduzione, etere, tempo, spazio, attrazione. In un manoscritto giovanile che lasciò inedito si trova la prima definizione metafisica di tempo e spazio assoluti. Concetti come quantità di materia, inerzia, moto rettilineo uniforme furono via via elaborati nei manoscritti De motu.
La messa a punto della terminologia dei Principi matematici coincise con la struttura assiomatica che sorregge il trattato, dove Newton enuncia le leggi del moto (principi d’inerzia, proporzionalità tra forza impressa e forza motrice, azione e reazione), poi le definizioni di massa, quantità di moto, vis insita (cioè la «forza innata»), forza impressa, forza centripeta, e infine lo scolio (cioè il commento o breve spiegazione) dedicato alla distinzione tra spazio relativo e assoluto, tempo relativo e assoluto. Su tali premesse si articolano, in un linguaggio strettamente geometrico, i teoremi del primo libro, dedicati alle dimostrazioni astratte dei moti curvilinei di corpi soggetti a forze centrali, e quelli del secondo libro riguardanti i moti di proiettili e sfere nei mezzi fluidi.
Regole definite in corso d’opera. Soltanto in pochi casi Newton si preoccupò di enunciare regole di metodo, e lo fece in modo tale da lasciar intendere che non le aveva anteposte alle proprie ricerche, ma al contrario le aveva definite in corso d’opera, come la terminologia. Nei Principi matematici le Regole del filosofare sono esposte soltanto all’inizio del terzo libro. Si tratta di criteri come l’economia e l’uniformità della natura, la ricerca delle cause analoghe di fenomeni analoghi, il procedimento induttivo, la provvisorietà delle conclusioni, la necessità di nuovi controlli sperimentali riguardo ai fenomeni che si discostano dalle leggi già enunciate e che possono indurre a modificarle.
Segue, redatta in forma matematica, La struttura del sistema del mondo di cui Newton non pubblicò una prima redazione di tono divulgativo per non esporsi alle dispute degli incompetenti. I moti principali dei pianeti secondo le leggi di Keplero sono presentati come fenomeni; le proposizioni e i teoremi che seguono dimostrano che tali leggi sono casi particolari della legge di gravitazione universale, la quale spiega tutti gli altri fenomeni della meccanica celeste, dalla forma della Terra alla teoria della Luna, dal problema dei tre corpi alle reciproche perturbazioni dei moti ellittici, dal flusso e riflusso delle maree alle lunghe traiettorie delle comete. Al termine della seconda edizione, Newton confermò solennemente la sua fede in un Dio che regola la macchina cosmica in una sorta di miracolo permanente, e il suo celebre motto «non costruisco ipotesi».
La legge di gravitazione universale, che risolveva in modo apparentemente semplice l’enigma fino allora inviolato della meccanica celeste, fu respinta da alcuni come un’ennesima qualità occulta, accettata da altri come l’idea di una mente sovrumana. «Non è lecito ai mortali emulare gli dei più di Newton»: così si conclude l’ode latina premessa da Edmond Halley alla prima edizione dei Principi. Il poeta Alexander Pope alluse in un distico alle scoperte dell’attrazione e della scomposizione della luce solare nel prisma come una seconda creazione, voluta da Dio attraverso Newton: «La natura e le sue leggi erano immerse nella notte/ Dio disse: sia Newton, e tutto fu luce». Nella metafora non manca un’allusione agli studi biblici, teologici, storici di cui Newton era profondo cultore. Nella sua biblioteca, accanto alle opere antiche e moderne di matematica, fisica e scienze naturali c’erano tutti i classici antichi e un’ampia messe di libri moderni di filosofia, storia, geografia, viaggi.
In ottica, in astronomia e nel calcolo il suo messaggio di fisico e matematico soppiantava le credenze tradizionali, ma egli tentò compromessi con antiche ipotesi e pseudo-scienze, dall’atomismo all’alchimia, dalla critica biblica alla cronologia. Gli studiosi moderni hanno creduto di ritrovare l’impronta del sapere magico rinascimentale nei molti scritti che lasciò inediti.
Nelle opere che Newton pubblicò prevale il sapere positivo, con le dimostrazioni di matematica e meccanica celeste, gli esperimenti di fisica e ottica. Nonostante il sobrio stile tecnico di questi testi, il mondo letterario inglese e continentale ne subì intensamente il fascino. Poeti e letterati si ispirarono alla formula dell’attrazione o alla suggestione dell’iride per ridescrivere in termini newtoniani le bellezze dell’Universo: comete, aurore boreali, eclissi e fasi lunari, arcobaleni, iridescenze nei prismi o nelle acque, gli anelli di Newton che appaiono per rifrazione sulle superfici sottili, i riflessi iridati nei fiori e nei paesaggi.
Nelle arti, pittori, scultori e architetti celebrarono variamente il genio di Newton. Le scoperte di fisica, ottica, matematica nutrirono nuove famiglie di manuali didattici; la loro esposizione divulgativa diventò un genere letterario diffuso in tutta Europa, praticato non soltanto da matematici come Henry Pemberton, Ruggero Boscovich, Eulero, ma da scrittori come Francesco Algarotti, autore del Newtonianismo per le dame (1737), e Voltaire, autore degli Elementi della filosofia di Newton (1738).
I successi ottenuti in fisica indussero economisti, psicologi, filosofi a trasporre nelle proprie ricerche modelli tratti dalla sintesi newtoniana. Si parlò di «attrazione tra le idee»; Hume si propose di seguire le massime del metodo nella sua scienza della natura umana; oltre a imitare il metodo, Kant mise alla base della filosofia trascendentale le nozioni di spazio e tempo connesse alla nuova fisica. In età romantica subentrò una reazione: Goethe tentò una confutazione sistematica della teoria dei colori. I filosofi Hegel e Friedrich Schelling reagirono contro la formula dell’attrazione, rigettarono il primato della matematica e misero sotto accusa il ‘materialismo’ di Newton e dei suoi seguaci.