Diritto alle origini dell'adottato
Un’ancora recente sentenza della Corte costituzionale (preceduta da un intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo) ha rimodulato il diritto della donna al cd. parto anonimo, prevedendone l’interpello, perché revochi o confermi quella scelta, a seguito di una richiesta del figlio ormai adulto, dato in adozione; in tali ristretti limiti trova tutela il confliggente diritto di quest’ultimo, a conoscere le proprie origini, espressione della sua identità personale, riconosciuto in termini generali, ma pur sempre restrittivi, dall’art. 28 l. adozioni; restano però criticità e lacune, in rito e sostanziali, su cui sta faticosamente intervenendo la giurisprudenza.
Il diritto dell’adottato, divenuto adulto, alla conoscenza delle proprie origini, vale a dire delle generalità (quantomeno dei dati identificativi) dei propri genitori biologici, è di configurazione relativamente recente e, pur avendo ormai fondamento legislativo, non è ancora ben definito nei suoi confini. Soprattutto perdura un rilevantissimo vuoto normativo, solo parzialmente colmato (in termini non del tutto soddisfacenti) dalla giurisprudenza, anche costituzionale, quanto alla esatta configurazione di tale diritto del figlio a fronte della madre biologica che si sia avvalsa del diritto al parto anonimo (di antichissima origine, ma a sua volta oggetto di disciplina normativa solo recente). Tanto sempre che non voglia evocarsi la religione (Mosè) o il mito rielaborato dai grandi tragici greci (Edipo re di Sofocle, Ione di Euripide); comune a tali testi archetipici è il monito che la conoscenza delle origini, disvelandone il segreto, può travolgere la vita del figlio: la conoscenza spesso si accompagna alla sofferenza. Diritto alle origini e parto anonimo, comunque, sono istituti configgenti quanto interdipendenti: due volti della stessa medaglia; l’esame sarà incentrato su tale liaison dangereuse1.
L’art. 27, co. 1 e 3, l. 4.5.1983, n. 184 (nel testo novellato dal d.lgs. 28.12.2013, n. 154) (in avanti l. adozioni) dispone che con l’adozione piena (ormai non più legittimante) il minore assume lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti; cessano così i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvo i divieti matrimoniali.
Si tratta di una sorta di mimesi della genitorialità biologica, una finzione giuridica alla stregua della quale il minore viene inserito a pieno titolo in un diverso contesto familiare.
Da qui la sua rinascita simbolica, nella nuova famiglia “riparante”, con conseguente “morte” di quella biologica, “danneggiante”; intesa come cancellazione del passato, spesso drammatico.
Da qui, almeno nel testo originario della l. adozioni, il segreto sulle origini, anzi sulla stessa condizione adottiva (ovviamente anche i genitori biologici devono ignorare quale sia il collocamento del figlio).
Vi è però stato un ampio ripensamento di tale configurazione dell’istituto, sia in ambito giuridico che psicologico, in quanto si è compreso che l’ignoranza delle origini (sia adottiva, sia delle stesse generalità dei genitori biologici) non corrisponde di persé alle superiori esigenze di tutela del minore ed anzi è potenzialmente dannosa2. L’interruzione dei rapporti giuridici con la famiglia d’origine non deve significare automaticamente anche l’interruzione di quelli affettivi, laddove ciò significhi dispersione della storia personale del minore stesso (il quale poi ignora le sue origini solo se adottato da piccolissimo: altrimenti, ovviamente, conserva la memoria – spesso negativa – della famiglia biologica). La tutela dell’identità personale del figlio adottivo, quindi, implica che egli deve essere messo almeno nelle condizioni, al più tardi da adulto, di conoscere la verità sulle sue origini. La morte simbolica dei genitori biologici, sottesa all’anonimato, perde allora il suo significato originario e rischia di divenire strumento di tutela dei genitori adottivi, più che del figlio. Il diritto alle origini dell’adottato trova poi riscontro, pur se in termini talora generici, anche in fonti normative sovranazionali3. La giurisprudenza pertanto, già nella vigenza del testo originario dell’art. 28 l. adozioni (che pur sembrava non offrire alcuno spazio al riguardo), ammetteva eccezionalmente l’adottato maggiorenne ad accedere alle informazioni sui genitori naturali, a tutela della sua sfera psico-esistenziale o, a maggior ragione, per esigenze di tutela della salute4. È poi intervenuto lo stesso legislatore, che ha novellato l’art. 28 l. adozioni, dapprima con la l. 28.3.2001, n. 149 poi con il d.lgs. 30.6.2003, n. 196 (c. privacy); il co. 1 pone ora il generale diritto del minore adottato di essere informato di tale sua condizione dai genitori adottivi che «vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni». I co. 5 e 6 prevedono poi il diritto dell’adottato che abbia compiuto venticinque anni (anche diciotto, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psicofisica) di «accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici». La competenza è del tribunale per i minorenni, che procede ad attività istruttoria, al fine di valutare che l’accesso alle “origini” «non comporti grave turbamento all’equilibrio psicofisico del richiedente». La giurisprudenza configura al riguardo un diritto potestativo del figlio ma, a ben vedere, si tratta di prescrizioni troppo restrittive e paternalistiche; il limite dei venticinque anni è eccezionale nel diritto civile, e il giudice (la stessa scelta di quello minorile appare irrazionale) è investito di eccessiva discrezionalità5.
Il co. 7 dell’art. 28 cit. (nel testo novellato dall’art. 177, co. 2, c. privacy) dispone che «L’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396», il vigente ordinamento di stato civile.
Qui è il punto di raccordo, o per meglio dire di impatto, del diritto del figlio alla conoscenza delle origini con quello della madre alla conservazione dell’anonimato: quest’ultimo, anzi, rende recessivo il primo.
Quello della donna, lo si è accennato, costituisce un diritto con fondamento normativo relativamente recente ma che, in realtà, mal nasconde, in una sorta di rabberciato palinsesto, prassi e costumi plurisecolari: così all’ingresso di non pochi ospedali e brefotrofi storici sono ancora visibili, museizzate, le ruote degli esposti.
È stato però solo l’art. 70, co. 1, l. 15.5.1997, n. 127, cd. Bassanini bis, in tema di formazione dell’atto di nascita, a disciplinare compiutamente il parto anonimo, con disposizione sostanzialmente ricompresa nel d.P.R. n. 396/2000.
Mentre infatti l’art. 29, co. 2, dispone che nell’atto di nascita sono indicate, tra l’altro, le generalità dei genitori, l’art. 30, co. 1, in tema di dichiarazione di nascita (da effettuarsi nel termine di dieci giorni), enuncia che questa «è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata».
Peraltro le generalità della puerpera dovrebbero risultare comunque dall’attestazione di avvenuta nascita (cfr. art. 30, co. 2, d.P.R. n. 396/2000); è poi diffusa la prassi di redigere certificati di assistenza al parto anonimo: tuttavia il d.m. 16.7.2001, n. 349 – contenente lo schema esemplificativo del certificato di assistenza al parto – specifica che, in caso di donna che si sia avvalsa dell’anonimato, si deve indicare il codice 999.
È quindi assicurato un raccordo tra il certificato di assistenza al parto, pur privo dei dati idonei ad identificare la donna che non consente di essere nominata, con la cartella clinica custodita presso il luogo ove è avvenuto il parto (il che rende possibile l’individuazione della madre biologica).
Beninteso, gli atti identificativi della puerpera sono destinati alla segregazione (cfr. l’art. 93, co. 2, d.lgs. n. 196/2003, cit.6).
Quello all’anonimato è un diritto potestativo particolarmente pervasivo, che compete alle donne nubili, certo, ma anche a quelle coniugate; le prime, avvalendosi di tale facoltà, “prevengono” una futura istanza del figlio (ovviamente nelle more adottato da terzi) di conoscerne l’identità7, mentre le seconde (che non incorrono nel reato di alterazione di stato)
incidono anche sulla sfera giuridica del padre: la presunzione di paternità del marito non può operare, presupponendo l’indicazione delle generalità della madre nell’atto di nascita8.
Peraltro le disposizioni del d.P.R. n. 396/2000 dovrebbero essere adeguate alla unificazione dello stato di filiazione, come disposto dall’art. 5, co. 1, l. 10.12.2012, n. 219.
La previsione tranchant dell’art. 28, co. 7, cit. ha suscitato le perplessità di dottrina e giurisprudenza, tenuto anche conto, in una più vasta prospettiva comparatistica, che il principio volontaristico sulla formazione dello status, e quindi il diritto della donna all’anonimato, sono propri dei soli ordinamenti italiano, francese9 e del Lussemburgo. Altrove prevale il principio romanistico mater semper certa est (senza che in tali Paesi il numero degli aborti o degli infanticidi sia maggiore che in quelli ove si applica il principio volontaristico).
Da qui dubbi di costituzionalità, con riferimento agli artt. 2, 3, 32 Cost., risolti però negativamente da un primo intervento della Corte costituzionale10. La giurisprudenza di merito ha continuato comunque ad “allargare le maglie” poste dall’art. 28, co. 7, l. cit., consentendo all’adottato di accedere a qualunque atto relativo alle proprie origini, purché siano occultati il nome della madre ed ogni altro elemento identificativo; in particolare si è autorizzato l’accesso ai dati sanitari della madre, che pure si sia avvalsa dell’anonimato, a tutela del diritto alla salute del figlio dato in adozione, o dei suoi discendenti (per l’efficace cura di molte malattie genetiche trasmissibili occorre acquisire informazioni su genitori ed ascendenti del paziente). D’altronde i dati genetici non sono di esclusiva titolarità della madre, della cui riservatezza si tratta, ma appartengono anche al figlio abbandonato; la tutela ad oltranza della privacy della donna si tradurrebbe nell’indebita sottrazione di una componente importante dell’identità personale dell’adottato11.
Il contemperamento, o piuttosto la rimodulazione, del diritto all’anonimato materno, a fronte della richiesta del figlio, si deve in primo luogo a due pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, una relativa alla legge francese, l’altra proprio a quella italiana. La prima12 afferma che il diritto francese non vìola l’art. 8 CEDU, perché se è vero che impedisce l’azione di ricerca della maternità quando la madre abbia chiesto l’anonimato (disposizione poi modificata da una successiva novellazione), tuttavia ammette in casi eccezionali la possibilità di accesso ai dati non identificativi con una procedura amministrativa. La seconda13 concerne l’ormai celebre caso Godelli, una cittadina italiana, nata nel 1943 da una donna che non voleva essere nominata, ricoverata in un orfanotrofio e poi data in affiliazione, ma che fin da piccola aveva cercato di conoscere la verità sui suoi genitori biologici; addirittura era riuscita a trovare un’altra bambina, verosimilmente sua sorella gemella; ormai ultrasessantenne, ella aveva adìto le vie giudiziarie, ma invano, essendole stato opposto il “muro” dell’art. 28, co. 7, cit. Da qui il vittorioso ricorso alla Corte di Strasburgo, la quale ha riscontrato la violazione dell’art. 8 CEDU, che pone il principio del rispetto della vita privata. La Corte riconosce che «da una parte vi è il diritto del figlio a conoscere le proprie origini che trova fondamento nella nozione di vita privata» dall’altro che «non si può negare l’interesse di una donna a conservare l’anonimato per tutelare la propria salute partorendo in condizioni sanitarie adeguate». La legge italiana, continua la Corte, non ha realizzato (a differenza di quella francese) «un giusto equilibrio nella ponderazione dei diritti e degli interessi concorrenti ossia, da una parte, quello della ricorrente a conoscere le proprie origini e, dall’altro, quello della madre a mantenere l’anonimato»; di contro, e al di fuori di ogni bilanciamento, è data una preferenza incondizionata al diritto della madre all’anonimato, negando al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita anche la possibilità di chiedere l’accesso ad informazioni non identificative sulle sue origini o la reversibilità del segreto.
La sentenza Godelli ha reso inevitabile un nuovo intervento della Consulta14 (con riferimento alla stessa parte) che, questa volta, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, co. 7, l. adozioni, «nella parte in cui non prevede (attraverso un procedimento stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza) la possibilità per il giudice di interpellare la madre, che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, co. 1, d.P.R. 3 novembre 2000 n. 396, su richiesta del figlio, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione». La sentenza, pur facendo espresso richiamo a quella della Corte europea, ha evitato di pronunciarsi sulla violazione dell’art. 117 Cost. (quale norma interposta rispetto all’art. 8 della Convenzione) e quindi di rinnegare C. cost. n. 425/2005. La motivazione, più che sulla ricerca di un equilibrio tra i contrapposti diritti del figlio e della madre, è incentrata sulla posizione della madre (il che si traduce in una sorta di autolimitazione del revirement; né va trascurato che la pronuncia di Strasburgo mostrava, in nuce, di riconoscere uno spazio più ampio al diritto del figlio).
Resta così fermo il diritto potestativo di quest’ultima di non risultare nell’atto di nascita; il punto però è che la scelta dell’anonimato, del segreto, è irreversibile nel tempo: e proprio questa «eccessiva rigidità» – una sorta di vincolo perpetuo – fonda la censura di incostituzionalità.
La Corte costituzionale, si è quindi limitata ad ampliare le facoltà riconosciute alla madre, permettendole, a distanza di anni, di instaurare dei rapporti (solo affettivi, non giuridici, salvi i divieti matrimoniali) con il figlio biologico, che abbia manifestato il desiderio di conoscerla15.
Tanto senza interferire in alcun modo nella libertà della donna, la quale può in modo tanto discrezionale quanto legittimo continuare a conservare il proprio anonimato. Pertanto, ella può alternativamente svelarsi ovvero, in piena libertà, senza necessità di addurre alcuna motivazione o giustificazione, dichiarare di non voler rivelare la propria identità al figlio, precludendogli così di venire a conoscenza della propria identità.
In definitiva la sentenza amplia, non limita, la facoltà della donna di avvalersi dell’anonimato, consentendole di rivedere la sua posizione, pur se solo su iniziativa del figlio (non sembra possibile il contrario).
Il diritto di quest’ultimo alle origini, pertanto, è ora tutelato, ma solo sotto tale profilo procedimentale (appunto quello di sollecitare il ripensamento materno), dovendo comunque soccombere a fronte di una conferma dell’anonimato da parte della madre stessa.
Nonostante tale ambiguità di fondo, la pronuncia della Corte costituisce un arresto di grande valore anche sistematico, perché è definitivamente confermato non solo che la genitorialità biologica sopravvive a quella giuridica, ma anche che è tutelata dagli artt. 2 e 3 Cost.
C. cost. n. 278/2013, se da un lato ha finalmente dato spazio, certo angusto, al diritto del figlio, ha aperto non poche questioni, di rito ma anche di diritto sostanziale (ad es. è tuttora in ombra la posizione del padre, come la questione dell’accesso della madre che abbia optato per l’anonimato ai dati identificativi del figlio), su cui si sta via via pronunciando la giurisprudenza.
La prima criticità – la stessa Consulta ne è consapevole – è procedimentale.
A seguito della declaratoria di illegittimità della disposizione surrichiamata, vi è certo l’esigenza della introduzione di un procedimento che consenta al giudice, nella massima riservatezza, di contattare la madre biologica perché voglia confermare o meno la scelta dell’anonimato (anche a fronte della famiglia in cui potrebbe essere inserita, e che verosimilmente ignora la precedente maternità).
La ricerca della madre biologica potrebbe oltretutto non essere agevole (non sempre le generalità risultano dalla documentazione ospedaliera), e richiedere indagini complesse quanto onerose.
Si trattava e si tratta di un preciso obbligo per il legislatore, che avrebbe dovuto assolverlo nel tempo più breve, al fine di evitare che le prescrizioni della Consulta, pur dettata con sentenza di accoglimento, restassero di fatto inattuate.
La perdurante inerzia del legislatore16 ha comportato, inevitabilmente, l’intervento suppletivo della giurisprudenza, a partire da quella di merito.
Quest’ultima però, forse altrettanto inevitabilmente, si è divisa; infatti alcuni tribunali per i minorenni (talora poi smentiti dalla corte di appello di riferimento) hanno assunto una posizione “attendista” sicché – pur riconoscendo, ma solo in astratto, il diritto dei figli adottivi richiedenti alla conoscenza delle proprie origini – hanno loro negato «allo stato» (con pronunce di inammissibilità o di rigetto) l’interpello della madre, che aveva optato per l’anonimato, in ragione della mancata attuazione da parte del legislatore della pronuncia della Consulta17.
È comunque prevalso l’orientamento opposto, favorevole all’interpello immediato, pur nel silenzio della legge18.
Tanto sul presupposto che un diritto, se è riconosciuto (tanto più se dalla Consulta), deve anche poter essere subito esercitato; ciò è senz’altro già possibile per l’interpello (che è poi l’effettivo oggetto del diritto del figlio, o meglio il “massimo” che egli possa conseguire in via giudiziaria), pur in mancanza di norme procedurali.
Il giudice infatti può essere adito, e procedervi, a mezzo del procedimento camerale, cui è quindi conferita una rilevanza archetipale.
È una soluzione sottesa anche alle due pronunce della Cassazione di cui si dirà infra19.
Ogni residua perplessità è stata però dissolta da un fondamentale arresto delle Sezioni Unite20 che, su ricorso del procuratore generale della Cassazione hanno enunciato ai sensi dell’art. 363 cpv. c.p.c. un principio di diritto, secondo cui, per effetto di C. cost. n. 278/2013 (definita, additiva di principio), ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, il giudice, su richiesta del figlio che intenda conoscere le proprie origini ed accedere alla propria storia parentale, «può interpellare la madre, che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, con modalità procedimentali desunte dal quadro normativo, in particolare dall’art. 28 l. n. 184/1983 e dall’art. 93 d.lgs. n. 196/2003, e dalla pronuncia surrichiamata, tali da assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché l’iniziale dichiarazione per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello, persistendo il rifiuto della madre di svelare la propria identità». Le S.U. hanno stigmatizzato l’opposto atteggiamento “attendista” di alcuni tribunali per i minorenni (tra cui quello di Milano, ad una cui decisione negativa si riferisce il ricorso del procuratore generale), che si risolve nella perdurante applicazione proprio della disposizione caducata definitivamente dalla Consulta. La sentenza, in termini fortemente operativi, rimarca che nel «periodo transitorio», tra la sentenza della Consulta e l’auspicato intervento del legislatore, il giudice di merito deve allora procedere all’interpello nell’ambito di un procedimento (camerale) che è pur sempre quello disciplinato dall’art. 28 l. adozioni; ulteriori ed utili riferimenti (circa il contenuto delle informazioni da acquisire e da comunicare, e sulla tutela della riservatezza della madre) possono desumersi dall’art. 93 c. privacy (d.lgs. n. 196/2003). La Cassazione, beninteso, è consapevole della lacunosità delle disposizioni richiamate. Da qui – ed è un profilo di particolare interesse (anche di sistema) della sentenza – la sostanziale legittimazione delle variegate prassi giurisprudenziali (non del tutto correttamente definite linee guida o protocolli) che si sono ormai formate in materia presso alcuni uffici giudiziari minorili, analiticamente ricostruite. L’essenziale, sottende la Suprema Corte, è che, a mezzo di tali procedimenti (per quanto diversamente possono essere configurati), si pervenga all’interpello della madre, assicurandone la massima riservatezza (si ricordi che la sua volontà è insindacabile) e tutela della dignità (tenendo poi conto delle circostanze del caso concreto).
L’interpello potrebbe essere, di fatto, precluso in caso di irreperibilità della madre (pur se individuata), o anche dalla stessa morte di quest’ultima (possibilità tutt’altro che remota: le istanze di conoscenza delle origini sono sovente proposte da figli ormai anziani). Quest’ultima evenienza è stata affrontata e risolta da due pronunce della Cassazione21, anteriori all’intervento delle S.U., cui si è già fatto cenno, tanto però alla stregua di iter motivazionali profondamente diversi, e giungendo a conclusioni non del tutto corrispondenti. Entrambe confermano che è proprio la morte della madre, anteriormente all’interpello, a rendere regressivo l’esigenza di tutelarne l’anonimato: si tratta di un evento, allora, che non osta all’accoglimento della domanda del figlio. La pronuncia più recente afferma però che l’accesso alle generalità della madre, dopo la sua morte, non è comunque libero (così invece, sostanzialmente, quella anteriore), in quanto ne va comunque tutelata la «identità sociale»; gli interessi da valutare (in un’ottica comparativa, da compiersi alla stregua dei criteri di cui al c. privacy), beninteso, sono quelli di terzi, i congiunti della madre defunta. Ne segue, peraltro, un indubbio ridimensionamento del diritto del figlio, “costretto” ora a bilanciarsi con l’interesse di soggetti evidentemente estranei, almeno in via diretta, alla scelta materna per l’anonimato (cui è quindi riconosciuta, forse non opportunamente, una sorta di ultravigenza rispetto alla morte della donna che l’ha manifestata). La giurisprudenza in tema di parto anonimo ha trovato di recente inattesa applicazione con riferimento ad una fattispecie relativa all’art. 28, co. 5, l. adozioni: la richiesta dell’adottato ultraventicinquenne di accedere alle informazioni attinenti all’identità di sorelle e fratelli biologici. La Cassazione, nel ribadire che il «diritto a conoscere le proprie origini costituisce un’espressione essenziale del diritto all’identità personale», ne evidenzia la dimensione relazionale, con coinvolgimento, quindi, oltre che dei genitori, della rete parentale più prossima. I primi, però, al di fuori del parto anonimo, non possono impedire l’esercizio da parte del figlio del diritto alla loro individuazione; di contro, nel conflitto tra il diritto del richiedente alla conoscenza “integrale” delle proprie origini e quello delle sorelle e dei fratelli a non voler rivelare la loro parentela biologica (a tutela della loro identità personale, trattandosi poi di dati sensibili personali), prevale quest’ultimo. Da qui l’estensione del procedimento di interpello, pur previsto per il solo parto anonimo anche ai fratelli e alle sorelle, nell’ambito di un procedimento giurisdizionale (di cui non è parte il pubblico ministero) «idoneo a garantire loro la massima sicurezza e rispetto della dignità, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego», ostativo all’esercizio del diritto del richiedente22. Va rimarcato però che la Suprema Corte, poco coerentemente con l’altissima rilevanza riconosciuta al diritto alle origini, attribuisce ai fratelli e alle sorelle un vero e proprio privilegio, equiparando la loro posizione a quella della madre che abbia optato (ma alla stregua di una precisa disposizione di legge, sicuramente di stretta interpretazione) per l’anonimato.
1 Cfr., più in generale, Dogliotti, M., Adozione (in generale), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2003; Sesta, M., Azioni di stato legittimo, ivi, 2006.
2 Cass., 10.3.2004, n. 4878.
3 Cfr. l’art. 7 della Convenzione di New York del 20.11.1989 sui diritti del fanciullo (ratificata dalla l. 27.5.1991, n. 176), l’art. 30 della Convenzione dell’Aia del 29.5.1993 sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale (ratificata dalla l. 31.12.1998, n. 476), infine l’art. 22 della Convenzione europea del 27.11.2008 sulla adozione dei minori (non ancora ratificata dall’Italia).
4 Trib. Napoli, 6.10.1998, in Foro nap., 1998, 362, che, in rito, ha applicato l’art. 669 duodecies c.p.c.
5 Deroghe all’anonimato sono previste dal co. 3 del medesimo art. 28 l. cit. (per la prevenzione dei matrimoni incestuosi) e dall’art. 9, co. 2, l. 19.2.2004, n. 40 (che vieta l’anonimato alla madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita).
6 L’art. 93 cit. è ancora vigente, in quanto tra le poche disposizioni del d.lgs. n. 196/2003 non abrogate o novellate dal d.lgs. 10.8.2018, n. 101.
7 Trib. Milano, 14.10.2015, in Fam. dir., 2016, 476.
8 La ratio del diritto all’anonimato materno – a differenza di quello del figlio alla conoscenza delle origini – è ancora discussa. Talora si è evocato un (ormai ingiustificato) privilegio o, di contro, lo si è rapportato al diritto all’oblio, e quindi alla tutela della riservatezza. L’opinione prevalente (tramontata l’esigenza di tutela dell’onore) è che l’anonimato «mira a tutelare la gestante che – in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale – abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita: e in tal modo intende – da un lato – assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e – dall’altro – distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi»: C. cost., 25.11.2005, n. 425. Quindi alla base vi è l’esigenza, conforme agli artt. 2 e 32 Cost., di prevenire, nell’ottica del male minore, aborti, specie clandestini, infanticidi e abbandono di neonati. Né manca poi chi reputa, in una ottica ‘‘femminista’’, che il diritto all’anonimato costituisca una libertà della donna, una sorta di prolungamento della sua libertà di non procreare, o di abortire nei casi ammessi dalla legge.
9 Cfr. gli art. 311.25 e 326 Code civil; la l. 22.1.2002, n. 22 ha introdotto l’art. 2226 del codice dell’azione sociale e delle famiglie, che prevede una sorta di assistenza guidata all’abbandono: il segreto è stato reso reversibile.
10 C. cost. n. 425/2005, cit. (ma cfr. anche C. cost., 22.6.2004, n. 184, solo processuale), secondo cui l’art. 28, co. 7, l. adozioni (ma anche l’art. 30, co. 1, ord. stato civile) costituiscono «espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda».
11 Trib. min. Firenze, 19.12.2007, in Foro it., 2008, I, 2038; App. Roma, 15.11.2004, in Foro it. Rep., 2007, voce Adozione, n. 29. Peculiare la vicenda decisa da Trib. Terni, 16.8.2006, in Rass. giur. umbra, 2007, 104; contra, cfr. però Trib. min. L’Aquila, 3.12.2007, in Foro it. Rep., 2009, voce Adozione, n. 50.
12 C. eur. dir. uomo, 13.2.2003, Odièvre. Cfr anche Id., 13.6.1979, Marckx, nonché Id., 7.2.2002, Mikulic.
13 C. eur. dir. uomo, 25.9.2012, Godelli.
14 C. cost., 22.11.2013, n. 278, in Foro it., 2014, I, 4, con ampie osservazioni di G. Casaburi, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti. L’ordinanza di remissione è Trib. min. Catanzaro, 13.12.2012, in Fam. dir., 2013, 817.
15 La madre che abbia optato per l’anonimato può procedere al riconoscimento del figlio, purché prima della definizione del procedimento abbreviato di adottabilità: Cass., 7.2.2014, n. 2802.
16 Nel corso della XVII Legislatura, è stato esaminato un disegno di legge (d.d.l. S. 1978, atto Camera 1874), poi decaduto, di novellazione dell’art. 28 l. cit., di disciplina dell’interpello (secondo un rito ampiamente deformalizzato, volto a tutelare al massimo la segretezza, ma anche la dignità della madre).
17 Trib. min. Firenze, 7.5.2014, in Fam. dir., 2014, 1003.
18 App. Catania, 5.12.2014, in Foro it., 2015, I, 697, nonché Id., 14.10.2015, ivi, 2016, I, 930. In termini Trib. min. Trieste, 5.3.2015, in Fam. dir., 2015, 830; App. Napoli, 19.9.2015, in Banca dati Foro it., archivio Merito ed extra, 2016.244.
19 Cass., 21.7.2016, n. 15024 e Cass., 9.11.2016, n. 22838.
20 Cass., S.U., 25.1.2017, n. 1946, in Foro it., 2017, I, 477, con osservazioni di G. Casaburi, cui si rinvia per approfondimenti.
21 Cass. nn. 22838/2016 e 15024/2016, citt. In termini, e con decisione nel merito, Cass., 7.2.2018, n. 3004.
22 Cass., 20.3.2018, n. 6963, in Foro it., 2018, I, 1134 con osservazioni di G. Casaburi.