Diritto della contemporaneità
Il mercato come locus artificialis
Il tema si offre a duplice trattazione: l’una, di carattere teoretico, che indaghi il ‘perché’ di ogni possibile diritto, e risponda all’eterna domanda quid jus?; l’altra, di carattere storico, che, volgendosi al nostro tempo, descriva le forze impegnate, ne individui le reciproche relazioni, e guardi verso il futuro. Qui si sceglie la seconda prospettiva, da cui il giurista può affacciarsi sulle potenze in gioco, sui grandi movimenti di idee, interessi ed emozioni che si raccolgono nel diritto, nella tecnica, nel mercato.
Poiché la sequenza mette capo al mercato, debbo subito osservare che il mercato non è capace di esprimere da sé, per intima spontaneità, il proprio ordine giuridico. Il mercato riceve un ordine giuridico, e anzi s’identifica e coincide con un ordine giuridico, il quale, per così dire, giunge dal di fuori. È consueta, e quasi popolare, l’immagine del mercato come di uno spazio che il diritto trovi dinanzi a sé: di uno spazio pre-esistente, in cui già si svolgono atti di produzione e di scambio. Immagine consueta ma grossolana, se appena si rifletta che ogni atto economico, anche il più semplice ed elementare, presuppone la distinzione tra il ‘mio’ e il ‘tuo’, cioè presuppone un criterio attributivo dei beni, onde sia dato di scambiarli l’uno con l’altro. E presuppone anche una norma – per talune dottrine, il pacta sunt servanda –, da cui discenda l’efficacia vincolante degli accordi e la nascita di diritti soggettivi e di obblighi. Il mercato, qualsiasi mercato, è tutto gremito e popolato di istituti giuridici, vive e si svolge con essi, e prende la fisionomia che così gli viene tracciata (Irti 20042, in partic. pp. 10 e sgg.).
Il mercato – ebbi modo di chiarire in altra sede (Irti 20042, in partic. pp. 31 e sgg.) – non è locus naturalis, ma locus artificialis, ossia fatto con l’arte del diritto. La decisione giuridica, espressa nelle singole norme, lo conforma e definisce, lo sagoma e modella: lo fa, insomma, nella sua specifica e storica determinatezza. Il mercato, o meglio ciascun mercato, si risolve in statuto normativo di atti di produzione e di scambio. Le norme saranno bensì imperative o dispositive, derogabili o inderogabili, vieteranno o consentiranno; ma sempre si tratterà di norme, dalle quali dipende l’esistenza del mercato come realtà giuridica. Se osserviamo il piccolo mercato di quartiere, che pure ci sembra così spontaneo e ‘naturale’, scorgeremo una fitta trama di norme: regolamenti sull’orario di apertura e chiusura delle botteghe; imposizione di tributi e dazi; controlli sui prodotti della campagna; e, poi, tutti gli articoli del codice civile, applicabili a quell’incessante patteggiare e negoziare. Soggetti autorizzati o non autorizzati a vendere, beni commerciabili o non commerciabili, accordi permessi o vietati: ancora una volta, la triade personae res actiones, lasciata ai posteri dalla sapienza romana, consente di raccogliere e descrivere la giuridicità del piccolo o grande mercato.
L’immagine del mercato come spazio preesistente al diritto, e capace di darsi dall’interno la propria giuridicità, ha schietto carattere ideologico. Essa esprime la volontà o il desiderio di un diritto diverso da quello statale, di un diritto che sia al servizio delle grandi imprese. Non si giunge a negare che il mercato abbia bisogno di diritto, e anzi sia conformato o sagomato dal diritto, ma si vuole che tale diritto abbia un’altra fonte: non la fonte dello Stato, e di un qualsiasi ente provvisto di sovranità e di potere costrittivo, ma piuttosto la fonte delle imprese, dei loro apparati burocratici e industriali.
La pretesa, sempre ritornante e sempre avanzata dai ‘liberisti della cattedra’, al ‘lasciateci fare’, al laissez-faire più radicale e completo, è la pretesa alla neutralità politica. Il mercato, come parte cospicua e rilevante della società civile, starebbe fuori dalla politica, e vivrebbe ripiegato e conchiuso in sé. E poiché un diritto è pur necessario, esso sarebbe generato all’interno del mercato, lontano dalle risse dei partiti e dalle oziose lungaggini della clasa discutidora. Ma, per poco che si rifletta, la pretesa alla neutralità politica è, essa stessa, una pretesa politica: l’antipolitica è sempre una politica contro un’altra politica, a quel modo che l’antidiritto è sempre un diritto contro un altro diritto.
Quale diritto, quale legge?
Se è vero che nel grande testo di Adam Smith (An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, 1776) si discorre di una ‘mano invisibile’, onde l’individuale perseguimento del proprio guadagno è condotto a soddisfare anche un interesse pubblico, è altresì vero che sul sovrano è riversato il «dovere di stabilire una esatta giustizia» (trad. it. 1995, p. 571), e che in un paragrafo del libro leggiamo: «Il commercio e le manifatture possono difficilmente fiorire a lungo in uno Stato che non goda di una regolare amministrazione della giustizia, in cui la gente non si sente sicura, nel possesso delle sue proprietà, in cui il rispetto dei contratti non sia imposto per legge e in cui si ritenga che l’autorità dello Stato non sia regolarmente impiegata a costringere al pagamento dei debiti tutti coloro che sono in grado di pagarli» (p. 741).
La ‘mano invisibile’ è dunque la ben visibile e concreta mano della legge, la quale non soltanto ordina o vieta, ma costringe all’obbedienza le volontà riluttanti. Dove si mostra che gli interessi individuali, ancorché lasciati a sé stessi, hanno bisogno di ‘sicurezza’: che è la protezione della legge e il potere costrittivo del sovrano.
Il problema non è dunque diritto o non diritto, ma quale diritto? Non è legge o non legge, ma quale legge? La pretesa del mercato alla neutralità politica si svela così nella sua propria e intrinseca politicità: è la pretesa a darsi un diritto o una legge diversi da quelli statali, e che giungano dalle imprese dominatrici della produzione e degli scambi. Le imprese in luogo del sovrano, esse stesse investite di sovranità, e perciò legittimate a emanare norme e a regolare il mercato. L’arretramento del vecchio sovrano non determina un vuoto di diritto, perché il nuovo provvede subito a riempirlo; né segna la fine della politica, perché una diversa politica occupa il posto dell’antica (Negri 2003).
Nomos e thesis
Nella linea, che Carl Schmitt chiamerebbe delle ‘neutralizzazioni’ (Das Zeitalter der Neutralisierungen und Entpolitisierungen, conferenza del 1929, in Der Begriff des Politischen, 1932, pp. 66-81; trad. it. 1972, pp. 167-83), cioè della riduzione dell’economia in ambito estraneo alla vita politica, s’inscrivono anche le tesi giuridiche di Friedrich A. von Hayek. Tesi oggi venute quasi di moda e onorate di inatteso prestigio, di cui già si svolse critica (Irti 20042, pp. 6 e sgg.). Hayek (New studies in philosophy, economics, and the history of ideas, 1978) muove dalla nozione di ‘ordine’, come di «uno stato di cose in cui possiamo riuscire a crearci delle prospettive e delle ipotesi circa il futuro» (trad. it. 1988, pp. 83 e sgg.). L’ordine – cioè lo stato di cose che ci permette di prevedere e calcolare il futuro – può prendere due forme: di cosmos o di taxis. La distinzione è così tracciata: «un cosmos risulterà dalle regolarità del comportamento degli elementi che esso comprende. Esso è, in questo senso, un sistema endogeno, intrinseco, oppure, come dicono i cibernetici, ‘auto-regolato’ oppure ‘auto-organizzato’. Una taxis, invece, è determinata da un’azione che si trova al di fuori dell’ordine ed è nello stesso senso esogena o imposta».
L’ordine riposa, dunque, sulla regolarità di comportamenti, ossia sull’attesa di comportamenti identici nelle medesime circostanze. Ma, poiché le azioni umane non sono fenomeni governati da leggi naturali, è sempre necessario risalire alla regola che garantisce la regolarità, alla norma da cui discende il dovere di comportarsi in un certo modo. Neppure Hayek può sottrarsi a codesta esigenza logica, sicché egli fa corrispondere alla dicotomia di ordini una dicotomia di norme: al cosmos corrisponde il nomos, alla taxis la thesis. Il nomos è norma generale e astratta, che si limita a proporre mezzi, lasciando alla spontaneità dei singoli la concreta scelta dei fini. La thesis è invece una «qualsiasi norma che sia applicabile solo a qualcuno in particolare o che serva ai fini di colui che formula le norme». L’una è ‘trovata’; l’altra è ‘creata’. L’ordine del mercato configura un cosmos, e non una taxis; e dunque impiega norme della categoria nomos, e non della categoria thesis.
Il colorito grecizzante della terminologia non impedisce di cogliere la debolezza teorica di queste tesi. Le quali si riducono tutte non a negare la necessità costitutiva delle norme, ma a distinguerne due categorie: l’una, di norme generali e astratte; l’altra, di norme concrete e particolari. Hayek mostra di preferire le prime alle seconde, e le prime reputa adatte e consonanti con il mercato. Ma codesta preferenza non è diversa dalla preferenza di chi scelga le seconde, e non le prime. Il conflitto delle preferenze è, appunto, il conflitto politico: tra chi organizza il mercato, disciplinando mezzi e prescrivendo fini, e chi invece lo abbandona alla spontaneità dei singoli.
E così Hayek, che dalla politica è impaziente di uscire, alla politica deve ritornare; ed egli, che rifiuta le volontà costruttive dell’ordine, alle volontà deve ritornare. Perché è sempre la volontà dell’uomo a scegliere tra l’una e l’altra categoria di norme, tra cosmos e taxis, ossia a configurare il mercato e perciò a promuovere la regolarità dei comportamenti individuali. Questa regolarità non è mai ‘trovata’, così come in Natura si accertano stabili successioni di fenomeni mercè la categoria di causalità, ma sempre ‘creata’, istituita e costruita dalla volontà umana.
La tecnica
Le varie dottrine, che mirano a isolare il mercato dalla politica, e a farne uno spazio estraneo e separato, non negano la necessaria presenza del diritto, ma si provano a ricondurlo dentro il mercato, capace, come tale, di autoregolarsi e autorganizzarsi. La lotta è tra economia e politica, o meglio – e lo notammo di sopra – tra una politica, che si dissimula e ‘neutralizza’ nelle vesti dell’economia, e la politica schiettamente professata e attuata.
In questa lotta, l’economia si presenta come il mondo degli interessi e delle intenzioni individuali, dei fini arbitrariamente scelti e perseguiti; la politica, come il mondo della sovranità normativa, del potere che dall’esterno prescrive scopi e reclama obbedienza. Nella politica arde il conflitto tra visioni della vita, tra volontà costruttive e organizzatrici; nell’economia, gli interessi individuali o si trovano in concorrenza o si placano nell’accordo.
Assente è proprio il termine, che oggi incombe sulla fondazione del diritto. La tecnica occhieggia, in modi discontinui e occasionali, ora nell’economia – ed è la tecnica del produrre e dello scambiare –, ora nel diritto – ed è la tecnica del legiferare e del giudicare –, ma non sta mai in campo come principio costitutivo, come potenza in lotta con altre potenze. È forse individuabile il punto di svolta, il tratto di pensiero, in cui la tecnica, questo fare umano che manipola sia le cose sia i corpi, irrompe sulla scena e fa valere le proprie ragioni? Non si tratta, com’è ovvio, di soddisfare una curiosità cronologica, o di stabilire una comoda data di partenza, ma di cogliere le forze in gioco e di ricomporre il quadro del nostro tempo.
Hegel: la società civile
Un preannuncio di straordinario rilievo possiamo già cogliere nella dottrina hegeliana della società civile quale è tracciata in celebri paragrafi (182 sgg.) dei Grundlinien der Philosophie des Rechts (1820). Nella società civile bisogni individuali e mezzi per soddisfarli si intrecciano in un vincolo di necessaria reciprocità, «cosicché, mentre ciascuno acquista, produce e gode per sé, appunto perciò produce e acquista per il godimento degli altri» (trad. it. 19653, pp. 167 e sgg.). La divisione del lavoro determina la «dipendenza incondizionata dal complesso sociale», e converte le capacità del singolo in ‘abilità’, come tali surrogabili dalla macchina. Alla società civile – cioè al mondo dei bisogni e del lavoro – G.W. Friedrich Hegel conferisce l’amministrazione della giustizia, la tutela della vita e della proprietà individuali. ‘Conferisce’, nel senso che un diritto, esteriore e formale, provvede a garantire l’astratta libertà del singolo e il soddisfacimento dei suoi bisogni: diritto dello Stato sì, ma per adempiere un ‘compito prestatale’.
C’è qui la scoperta del nesso fra diritto e tecniche di produzione e consumo, fra tutela giuridica e sostrato economico di bisogni e di lavoro. Di Hegel dovrebbero riconoscersi debitori quanti evocano la ‘società civile’, e la piegano a nuovi e inattesi significati; e a Hegel dovrebbero ricondursi gli strenui e chiassosi banditori del mercato come spazio prepolitico. Se ne guardano a buona ragione, perché in Hegel troverebbero anche il dialettico superamento di quella fase e l’inverarsi della società civile nell’eticità dello Stato.
Marx: struttura e sovrastruttura
Si è parlato di preannuncio hegeliano, giacché il sicuro e pieno svolgimento del rapporto fra diritto e sostrato tecnico-economico si trova soltanto nell’opera di Karl Marx. Qui è necessario restringersi a poche e sobrie linee, sacrificando sfumature e profili di pensiero. Il quale può tutto raccogliersi in un luogo della prefazione a Zur Kritik der politischen Ökonomie (1859; trad. it. in A. Labriola, La concezione materialistica della storia, 19535). «La maniera della produzione della vita materiale determina innanzi e soprattutto il processo sociale, politico e intellettuale della vita. Non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma è all’incontro il suo essere sociale che determina la sua coscienza» (p. 39). La base reale, «su cui si eleva una sovrastruttura politica e giuridica», sta nel processo della produzione, nel lavoro svolto con strumenti che sono opera dell’uomo. Questi si crea ciò che il più acuto fra gli studiosi italiani di Marx, Antonio Labriola, chiamò il «terreno artificiale» (Del materialismo storico: delucidazione preliminare, 1896, in La concezione materialistica della storia, 19535, pp. 150 e sgg.), vale a dire l’ambiente tecnico del proprio lavoro: ambiente, da cui deriva la sovrastruttura giuridica e politica.
Così netta e lucida fu l’analisi di Marx che il 13° cap. del 1° libro di Das Kapital (1867) è intitolato Il macchinismo e la grande industria, e che egli giunge ad annunciarvi la nascita della «scienza affatto moderna della tecnologia» (trad. it. 1924, p. 409), la quale «riduce le varie configurazioni della vita industriale, le une alle altre frammischiate, stereotipate e senza apparente legame, a delle variate applicazioni della scienza naturale, classificate secondo la loro diversa meta di utilità» (p. 409). La storia si viene atteggiando a ‘svolgimento della tecnica’, cioè di una prassi umana, che, mediante strumenti sempre più raffinati e perfetti, genera i successivi ‘terreni artificiali’ e così determina anche nuovi istituti politici e forme giuridiche. La tecnologia, come scienza della tecnica, spiega l’azione dell’uomo sulla Natura, i modi della vita materiale e produttiva, e perciò l’origine dei rapporti sociali e della sovrastruttura ideologica.
Non è davvero il caso (né avremmo competenza) di ricostruire, o soltanto riepilogare, i dibattiti che si fecero e si fanno intorno alla relazione fra struttura e sovrastruttura, poiché basta fermare un punto essenziale. In Marx, per la prima volta nella storia del pensiero, la tecnica è considerata come determinatrice di diritto, e questo come conseguenza e derivazione di quella. L’economia non è più semplice interesse individuale, esaurito nella particolarità dei singoli, ma processo sociale, insieme di forze umane che si svolgono in confronto alla Natura e nei rapporti reciproci. La tecnica si atteggia a Grundnorm, a norma fondamentale, o, meglio, a ‘terreno artificiale’, da cui tutte le norme discendono.
Un raffronto con altre posizioni
La grandiosa importanza del nuovo rapporto, che Marx istituisce fra diritto e base tecnico-economica, si coglie nel raffronto con altre posizioni già venute in discorso.
Mentre i processi di ‘neutralizzazione’ (v. sopra) separano l’economico dal politico, e riducono le tecniche di produzione e di scambio in una sfera autonoma, la filosofia marxiana li stringe insieme e capovolge il rapporto fra i due termini. Non più politica e diritto, respinti e fatti estranei all’economia, ma l’economia determinatrice di forme giuridiche e politiche. In questa luce, le tesi formulate da Hayek, le dicotomie cosmos/taxis e nomos/thesis, mostrano un che di scolastico e di ‘a-storico’. Non si tratta di preferire norme generali a norme speciali, disciplina di mezzi a prescrizione di fini, ma di considerare in modo diverso l’intera storia dell’uomo, riconoscendo nella tecnica il principio costitutivo di politica e diritto. La tecnica indisgiungibile dalla prassi, cioè dall’attività creatrice dell’uomo e dalle sue relazioni e attività, che si svolgono attraverso strumenti incessantemente affinati e perfezionati. E questa è la base reale che determina la sovrastruttura politica e giuridica.
Gli ambiti non sono più separati, non disputanti sulle linee di confine (se più o meno legge, se più o meno politica), perché tutti sono stretti nell’unità della storia umana.
Severino: il volto della tecnica
Questo fondo della filosofia marxiana, sciolto ormai dalla lotta di classe e dal disegno finalistico della storia, si ritrova in un eminente pensatore del nostro tempo, l’italiano Emanuele Severino, con il quale fu dato di svolgere un intenso dialogo proprio intorno al rapporto fra diritto e tecnica (Irti, Severino 2001).
La tecnica riceve in Severino una tra le analisi più acute e illuminanti: essa non è mezzo usato da altre potenze, ma fine in sé autonomo e conchiuso. «La tecnica possiede per sé stessa uno scopo, che non è mai specifico, ma è l’incremento infinito della capacità di realizzare scopi» (La follia dell’angelo: conversazioni intorno alla filosofia, 1977, p. 91). Politica diritto capitalismo, e quante altre potenze si agitano nel nostro tempo, s’illudevano, e tuttora s’illudono, di assegnare scopi alla tecnica, di degradarla a strumento di una volontà dominante. Ma il mezzo si è rovesciato in fine; e la tecnica, questo agire che diviene nel tempo, mai saziato e soddisfatto, è la potenza di tutte le potenze, capace di prevalere su ogni antagonista e, perciò, di stabilire la propria ‘verità’. Non c’è dio, né uomo, né Natura, che sia in grado di resisterle: il suo dominio è totale, poiché essa trae le cose dal nulla e può ricacciarle nel nulla. Il nichilismo è il volto della tecnica: «Ponendo che, nel divenire, l’ente è stato e torna a essere un niente, si pensa che l’ente è niente» (E. Severino, Essenza del nichilismo, 1972, p. 304).
La filosofia di Severino bene s’inscrive nella nostra meditazione, poiché attribuisce alla tecnica anche una potenza normativa, la potenza di determinare norme che ne promuovano o ne agevolino l’incremento. Il diritto scade a ‘sottosistema’, e – accanto ad altri, economico, burocratico, militare, sanitario, scolastico – obbedisce alla normatività tecnologica. Tramonta così la concezione strumentale della tecnica, come di qualcosa che altri possa usare per raggiungere propri scopi. La tecnica non si lascia più usare, e anzi essa usa e asservisce gli altri ambiti della vita: poiché non c’è un’incontrovertibile verità, che sia in grado di arrestarla o orientarla, la tecnica dispiega intera la propria capacità di potenza.
La tecnica, elevatasi da mezzo a capacità di fini, non si congiunge ad alcun regime dell’economia: e neppure all’economia di mercato, poiché il profitto è scopo del capitalismo, ma non scopo della tecnica. Nulla vieta di immaginare che l’efficienza, come scopo della tecnica, venga in contrasto con il profitto, e che il capitalismo e l’economia di mercato siano annientati, cioè ridotti al nulla, da ciò che si considerava un mezzo obbediente e servizievole (E. Severino, La follia dell’angelo: conversazioni intorno alla filosofia, 1977, p. 130).
La volontà di potenza
Singolare e imprevisto cammino del nostro tema, che, dopo aver preso avvio dalla critica al naturalismo economico, e affermato non il diritto presupporre l’economia, ma l’economia presupporre il diritto; dopo smascherate le pretese di neutralità dell’economia, e svelato che essa non esce dalla politica, ma si risolve in una politica contro un’altra politica; ecco si trova ora dinanzi alla potenza indomabile della tecnica e alla sua intrinseca normatività. Vano sarebbe il lavorio critico; e vana la rivendicata capacità del diritto, cioè della decisione politico-giuridica, nella propria funzione regolatrice e conformatrice.
Non pensiamo che sia così, e nulla possa aggiungersi e obiettarsi. Il discorso non è chiuso ed esaurito. Accanto o di contro alla tecnica si agitano altre forme di volontà di potenza, altre interpretazioni del mondo, altre energie anelanti a regolare e dirigere il corso della vita. Ci sono le fedi religiose, che assumono per Grundnorm una verità rivelata, custodita e trasmessa dal magistero ecclesiastico; ci sono le ideologie politiche – diciamo, le religioni secolari e terrestri –, che mirano a un dato assetto dell’economia e della società. La forza di queste religioni, mondane o ultramondane, è di avere uno scopo, un disegno che le sorregge e le propaga tra le masse (anche tra le folle degli esclusi dalla civiltà tecnologica dell’Occidente).
Da un lato, l’indefinita capacità di raggiungere scopi, che è il proprio della tecnica; dall’altro, la scelta di uno scopo, di uno specifico e singolare scopo. La determinatezza dei fini può conferire a fedi religiose e ideologie politiche una forza, che invece va dispersa nell’indefinita e imprevedibile capacità della tecnica. La potenza impersonale della tecnica vede di fronte o di contro a sé la potenza delle fedi ultraterrene o intramondane, cioè uomini singolari, e storicamente determinati, che credono in uno scopo e vogliono conseguirlo. Abbiamo detto impersonalità della tecnica, ma precisando ora che anche la tecnica ha bisogno di una fede, o, se si preferisce, di volontà umane, che passino di scopo in scopo e ne concretizzino l’astratta e indefinita capacità.
Quest’incessante transizione, questo passaggio senza sosta e tregua, non ha di per sé uno scopo; ma, poiché anche le volontà dei tecnici si muovono, di volta in volta, verso singoli scopi, ecco che i tecnici si fanno anch’essi, e non possono non farsi, uomini di fede religiosa o d’ideologia politica o di qualsivoglia dottrina filosofica. Soltanto una fede o convinzione non tecnica è in grado di segnare i singoli scopi della tecnica, la quale, non sapendo uscire da sé stessa, soltanto dall’esterno riceve la determinatezza degli scopi a mano a mano conseguiti, cioè il criterio della scelta fra le molteplici possibilità.
Qui non si vuole tornare alla concezione strumentale della tecnica, di nuovo piegarla e sottometterla ad altre potenze, ma soltanto dire che la sua forza è anche la sua debolezza, e che l’incremento indefinito di scopi non ha l’efficacia vincolante di uno scopo.
Il conflitto tra Grundnormen
Come può mai nascere da quell’indefinita capacità di perseguire scopi, che dunque non si arresta e placa in alcuno, la potenza della normatività, la potenza di emanare e applicare norme in vista di uno scopo? Le norme mirano sempre a uno scopo specifico e determinato, e sempre a dirigere altrui volontà in precise e specifiche circostanze.
Il diritto è diritto per uno scopo, e non per l’indefinita capacità di raggiungere scopi. È che nel mondo si agita una molteplicità di Grundnormen, e ciascuna rivendica per sé la pretesa di verità e l’esclusività del fondamento: il weberiano ‘politeismo di valori’, fra i quali non c’è altro modo di scegliere che la nostra scelta. Codeste Grundnormen si trovano ora in tacita concordia ora in labili alleanze, tuttavia la lotta è la loro regola, e l’aut aut è la massima del loro agire. La Grundnorm – vogliamo così indicare il principio costitutivo (che sia moto rivoluzionario o colpo di Stato, messaggio divino o verità rivelata) e la forza generatrice di ogni ordinamento –, la Grundnorm, si diceva, non tollera convivenze e non condivide con altri il proprio ambito di dominio. Nessuno può azzardare pronostici circa l’esito della lotta, e prevedere quale sia il vincitore, né escludere che essa sia destinata ad accompagnare per sempre la storia dell’uomo.
Se ora torniamo al mercato – che è il tema, da cui solo in apparenza ci siamo disviati –, è da dire che esso non può sottrarsi a questa lotta, e anzi vi soggiace per intero. Negata la sua naturalità, quasi di un oggetto che l’uomo si trovi dinanzi, e che viva e stia per suo conto, il mercato ci è apparso nella propria indole di locus artificialis (che poi significa nella concreta e determinata storicità del fare umano). Esso è conformato e definito dal diritto; ha bisogno di una legge, e non sa trovare da solo la propria legge. Da dove gli giungerà? Sarà una legge che lo rafforza e mantiene, o piuttosto una legge che lo depone e risospinge nel nulla? Il mercato non ha per sé l’eterno: è soltanto uno fra i regimi dell’economia che gli uomini si sono dati nel loro millenario cammino.
Questo è il suo tempo; e perciò incalza la domanda: «donde gli giungerà la sua legge?» Qui si apre la lotta fra le Grundnormen: fede nella tecnica, trascorrente di scopo in scopo, mai esausta e saziata; fede religiosa in una verità rivelata, che prende per sé tutto l’uomo, e non lascia distinguere tra sfere della vita; fede secolare nella politica, nei disegni intramondani, costruiti dai mortali per dare un senso al corso delle cose e alle loro opere. Ciascuna di codeste fedi è in grado di lasciare la propria impronta sul mercato, di farsi legge di esso, di conformarlo in una diversa fisionomia.
La tecnica è, per così dire, l’ultima venuta, mentre fedi religiose e ideologie politiche e dottrine filosofiche risalgono indietro nei secoli. Ci si è illusi di servirsene come di strumento, come di oggetto fra gli altri oggetti disponibili per l’uomo e invece essa, elevandosi da mezzo a fine, si è installata fra le potenze del mondo (v. in partic. W. Sombart, Der Bourgeois, 1913, trad. it. 1978, pp. 257 e sgg.; e, nella letteratura italiana, S. Cotta, Esiste una civiltà tecnologica?, in I limiti culturali della civiltà tecnologica, 1976, pp. 19 e sgg.: a pag. 23, «la tecnica oggi è elevata da strumento per vivere […] a criterio e forma del vivere»).
La normatività è insita in ciascuna potenza, perché tecnica, fedi religiose e ideologie politiche mirano a dirigere la volontà degli uomini, e questo scopo è raggiungibile solo mercé posizione e ‘im-posizione’ di norme. La normatività tecnologica è messa al confronto con la normatività religiosa e la normatività politica. Si danno occasionali alleanze e labili identità di scopi; ma il loro autentico rapporto sta nel conflitto, giacché ciascuna normatività si erge come esclusiva, e vuole l’uomo tutto per sé.
Si dirà che questo discorso è soltanto descrittivo, ritrae la situazione storica, ma non ci indica come comportarci né prevede la conclusione dell’immane conflitto. L’autore di queste pagine non può respingere la critica, e tuttavia osserva che talune epoche, le quali o nascondono il loro volto oppure sono lente nel discoprirlo, esigono il limpido e asciutto sguardo dello spettatore.
Bibliografia
N. Irti, Introduzione a Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari 1999.
N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Roma-Bari 2001.
A. Negri, Guide: cinque lezioni su Impero e dintorni, Milano 2003.
N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 20042.