Abstract
Il diritto di recesso è un istituto centrale del diritto societario che concorre a definire il confine tra potere della maggioranza (e degli amministratori) e tutela delle minoranze. Come tale, esso ha grande rilevanza sia sistematica che applicativa, soprattutto – per quanto concerne le società di capitali – dopo la riforma del 2003, che ne ha notevolmente ampliato i presupposti e introdotto criteri di valutazione della partecipazione più favorevoli al recedente. La voce esamina sinteticamente i presupposti, i criteri di valutazione delle partecipazioni e il procedimento di liquidazione delle azioni nelle società di persone, nelle s.p.a., s.r.l. e (molto brevemente) nelle cooperative.
Il diritto di recesso consente al socio, nei limiti e alle condizioni previsti dalla legge e dal contratto sociale, di sciogliere unilateralmente il rapporto sociale ottenendo la liquidazione della propria partecipazione. Il diritto si esercita tramite un atto unilaterale e recettizio con il quale il socio manifesta la volontà di recedere al ricorrere di determinati presupposti. Nel contratto di società, contratto associativo con comunione di scopo, il recesso ha un ambito di applicazione e segue principi diversi che nel diritto dei contratti sinallagmatici, non richiedendo ad esempio la stessa forma del contratto revocato ed essendo esercitabile durante l’esecuzione del contratto. Esso segna una delle linee di confine tra potere della maggioranza (e degli amministratori) e protezione dei singoli soci, consentendo ai singoli investitori nel capitale di rischio di dissociarsi dall’attività comune a fronte di eventi e decisioni che, essenzialmente, modificano le condizioni dell’investimento e in particolare, almeno nella maggior parte dei casi di rilevanza applicativa, ne alterano il profilo di rischio e rendimento. I limiti di tale diritto si definiscono, da un lato, in funzione di un nucleo inderogabile di tutela delle minoranze, la cui facoltà di disinvestimento non può essere compressa oltre quanto disposto dalla legge e, dall’altro, nelle esigenze di salvaguardia della continuità dell’impresa e dell’unitarietà dell’azienda sociale e, quindi, di protezione non solo degli altri soci ma anche e soprattutto dei terzi, e in primo luogo dei creditori.
Nelle società per azioni e a responsabilità limitata, sulle quali questa voce si concentra, la funzione di spartiacque tra potere della maggioranza e tutela della minoranza del diritto di recesso è divenuta ancor più rilevante dopo la riforma del 2003, che ha bilanciato l’ampliamento del primo con un’estensione dei presupposti dell’exit e l’introduzione di criteri equitativi per la liquidazione delle partecipazioni dei recedenti. Il recesso è così divenuto uno degli istituti centrali del diritto delle società di capitali, venendo ad assumere un rilievo sistematico e applicativo di primo piano.
Se profonde sono le differenze di disciplina tra società di persone, di capitali e cooperative, simile è, naturalmente, la struttura dell’istituto, il che consente di esaminare la materia utilizzando un analogo schema di analisi e discutendo, per i diversi tipi di società considerati, presupposti sostanziali, criteri di valutazione delle partecipazioni e procedimento di esercizio del recesso e liquidazione delle partecipazioni.
Ai sensi dell’art. 2385 c.c., nelle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice, ciascun socio può recedere liberamente quando la società è costituita a tempo indeterminato o per tutta la vita di un socio. Si noti che la ratio delle due previsioni è affine ma distinta: nel primo caso, essa è quella di limitare vincoli contrattuali di durata eccessiva; nel secondo, di consentire il disinvestimento quando la durata dell’attività è imprevedibile. La speranza di vita attesa di un socio molto anziano potrebbe infatti essere limitata, ma sarebbe incerto quando il vincolo sociale potrebbe sciogliersi. Dalla prima regola si può derivare, come la giurisprudenza è incline a ritenere, che una durata eccedente la normale vita umana consente il recesso in ogni momento. La seconda regola consente invece di giungere a simile conclusione quando la durata della società è variabile e non fissa, potendo protrarsi nel tempo. Nelle s.n.c. il recesso è inoltre libero in caso di proroga tacita della società, una situazione in cui il contratto non ha durata definita né determinabile, almeno per la minoranza.
In questi casi il socio deve dare un preavviso di almeno tre mesi, secondo la tesi più rigorosa alla società e a tutti i soci, e solo dopo tale termine lo scioglimento unilaterale del rapporto produce effetti. Prima di tale termine, quindi, il socio conserva diritti e obblighi nascenti dal contratto, sebbene la circostanza di aver manifestato la volontà di recedere può incidere su come essi si atteggino (e si pensi ad esempio a possibili conflitti di interesse nell’espressione del voto).
È inoltre sempre possibile il recesso, senza preavviso, in caso di “giusta causa”. La posizione più restrittiva limita questa ipotesi a inadempimenti degli obblighi sociali da parte degli altri soci, tra i cui doveri vi è anche quello di eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza. Vi è tuttavia anche chi estende il presupposto a fatti relativi al socio recedente, quale un suo impedimento alla continuazione del rapporto sociale, una tesi discutibile sul piano testuale e per le incertezze che può generare, che tuttavia presenta il merito di equilibrare la previsione, in qualche modo speculare, secondo la quale i soci possono escludere il socio se il conferimento promesso o la prestazione d’opera cui si è vincolato diventano impossibili anche per causa a lui non imputabile.
Il recesso non può essere escluso nei casi suddetti. Si noti che il principio di unanimità che governa, in mancanza di diversa pattuizione, le modifiche del contratto sociale, rende superflua la previsione di ipotesi inderogabili di recesso a fronte di tali modifiche, previste invece nelle società di capitali. Il socio di minoranza che dovesse accettare la modificabilità del contratto a maggioranza, dovrebbe avere l’accortezza di pretendere tuttavia l’inclusione di ipotesi di recesso a fronte di cambiamenti sgraditi che non potrebbe più impedire.
Si deve peraltro ritenere che le parti possono prevedere ulteriori cause di recesso, ivi incluso il recesso ad nutum. L’assenza di una disciplina rigida del capitale sociale minimo, unitamente alle regole relative alla responsabilità dell’ex socio per le obbligazioni sociali, escludono infatti le ragioni di cautela che possono suggerire limiti a tale possibilità nelle società capitalistiche.
Le quote del recedente sono liquidate al valore effettivo del patrimonio sociale, tenendo conto delle operazioni in corso (art. 2289 c.c.). Il riferimento al patrimonio sociale deve intendersi nel senso che sono accettabili – e verosimilmente doverosi laddove corretti dal punto di vista economico – metodi di valutazione basati sui flussi prospettici di reddito o di cassa; così come tener conto di un eventuale (seppur infrequente) possibile riferimento a prezzi di mercato emergenti da scambi tra soggetti indipendenti.
Si ritiene che il contratto sociale può però prevedere che la quota del recedente sia liquidata a valori contabili, mentre la giurisprudenza ha negato la validità di clausole che escludono il rimborso (Cass., 16.4.1975, n. 1434) o lo limitano al valore nominale della partecipazione (App. Torino, 10.11.1993, in Giur.it., 1994, I/2, 766).
Occorre tuttavia distinguere. Per le ipotesi di recesso inderogabile, ossia in caso di durata indeterminata e di giusta causa, l’incomprimibile diritto al disinvestimento sarebbe frustrato da una liquidazione a valori vili, ancorché accettata unanimemente da tutti i soci. Parrebbe quindi preferibile escludere tale possibilità. Per eventuali altri casi di recesso introdotti in via pattizia, invece, la volontà dei soci dovrebbe poter prevedere criteri di valorizzazione delle partecipazioni diversi da quelli legali e meno generosi verso il socio uscente. Ci si può se mai chiedere se siano ammissibili clausole che sopravvalutano la partecipazione del recedente rispetto al suo effettivo valore. Come detto con riferimento all’introduzione di ulteriori ipotesi di recesso, la flessibilità del regime del capitale e la responsabilità dei soci per i debiti della società inducono a una soluzione liberale.
In tutte queste ipotesi, naturalmente, un ulteriore limite esterno alla libertà contrattuale è dato dal divieto di accordi leonini.
La legge si limita a prevedere che la partecipazione del recedente deve essere liquidata entro sei mesi da quando si verifica lo scioglimento. Il valore può essere determinato al momento dell’effettivo pagamento (o, meglio, poco prima), ovviamente facendo riferimento al giorno in cui si è verificata la causa di scioglimento, non essendo previsto alcun obbligo di preventiva informazione circa tale valore.
La quota deve essere pagata dal patrimonio della società. Deve, tuttavia, ritenersi ammissibile che, nel contratto sociale o in occasione del recesso, i soci optino per la possibilità di acquisto della partecipazione da altri soci o da terzi, a condizione che ciò non pregiudichi il diritto del socio uscente.
Prendendo spunto dalla disciplina delle s.p.a., il contratto potrebbe inoltre introdurre il ricorso a un arbitratore terzo e indipendente per determinare il valore della quota in ipotesi di contestazione.
Le cause di recesso da s.p.a. si possono ordinare in base a due criteri. Il primo distingue ipotesi previste dalla legge e inderogabili, previste dalla legge ma derogabili dallo statuto, ovvero volontariamente aggiunte dall’autonomia statutaria. La seconda dimensione separa presupposti del recesso rappresentati da deliberazioni dell’assemblea di modifica del contratto sociale, rispetto ad altri eventi, fatti o atti. Questa seconda distinzione, come vedremo, può avere implicazioni sul procedimento di recesso. Dall’incrocio di queste due variabili si crea una griglia che consente di classificare le numerose ed eterogenee cause di recesso previste dall’ordinamento.
Tra le ipotesi di recesso inderogabili e basate su deliberazioni assembleari troviamo innanzitutto quelle elencate nel primo comma dell’art. 2437 c.c.: modifica della clausola dell’oggetto sociale che consente un cambiamento significativo di attività; trasformazione della società; trasferimento della sede sociale all’estero; revoca della liquidazione; eliminazione di cause di recesso derogabili o volontariamente introdotte; modifica dei criteri di valutazione delle azioni in caso di recesso e modificazioni dello statuto concernenti diritti di voto o di partecipazione. A queste si deve aggiungere l’introduzione o rimozione di una clausola arbitrale nello statuto (art. 34, d. lgs. 17.1.2003, n. 5). Legittimano al recesso, inoltre, le deliberazioni che comportano l’esclusione dalla quotazione, come ad esempio una fusione per incorporazione di società quotate in non quotata (art. 2437quinquies).
Il recesso inderogabile è previsto poi a fronte di una serie di altri “eventi” societari o situazioni diverse da una deliberazione assembleare di modifica del contratto sociale. Tra questi vanno in primo luogo ricordati i casi di recesso previsti dalla disciplina della direzione e coordinamento di società (art. 2497 quater c.c.), che consentono l’exit quando: (i) inizia o termina l’eterodirezione (con esclusione delle società quotate e a condizione che non sia promossa un’opa e venga alterato il rischio dell’investimento); (ii) il socio ottiene la condanna (esecutiva) della capogruppo per abuso di direzione e coordinamento (in questo caso, non è consentito un recesso parziale); e se (iii) l’ente di vertice modifica il proprio scopo od oggetto sociale con possibili conseguenze per le società soggette a direzione e coordinamento. I soci beneficiano di un’incomprimibile facoltà di recedere anche da s.p.a. non quotate costituite a tempo indeterminato (art. 2437, co. 3, c.c.). Vi sono inoltre talune ipotesi in cui il recesso deve essere concesso, quantomeno come scelta tra diverse possibilità. L’art. 2343 c.c. lo annovera, infatti, come opzione del socio il cui conferimento in natura risulti, all’esito del controllo infrasemestrale della stima originaria da parte degli amministratori, di valore inferiore di oltre un quinto a quanto inizialmente indicato; mentre clausole statutarie di mero gradimento, giusta l’art. 2355-bis c.c., sono inefficaci se il socio che si vede negare il gradimento non può cedere le azioni alla società o esercitare il recesso.
L’ultimo comma dell’art. 2437 c.c. sanziona con la nullità ogni patto che esclude o rende più gravoso il recesso nei casi previsti dal primo comma della norma. Questa regola, che discende dalla natura inderogabile del recesso quale strumento di tutela delle minoranze, è tuttavia applicabile anche alle altre ipotesi di recesso sopra ricordate.
Tra le ipotesi di recesso previste dalla legge, ma che lo statuto può eliminare o comprimere, il secondo comma dell’art. 2437 c.c. annovera la proroga del termine di durata della società e l’introduzione e rimozione di clausole limitative della circolazione delle azioni, previsione – quest’ultima - che include qualsiasi modifica delle stesse che risulti in un ampliamento o una contrazione del vincolo.
Nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, inoltre, lo statuto può introdurre casi facoltativi di recesso. Prima di dedicare qualche riflessione a queste ultime, tuttavia, soffermiamoci brevemente sulle ipotesi di recesso (inderogabili e derogabili) previste dalla legge. Come è evidente dalla lettura del lungo elenco che precede, si tratta di un ampio insieme di presupposti, diversi dei quali pongono delicati problemi interpretativi. Non è in questa sede possibile esaminarli analiticamente, occorre però fornire alcune indicazioni con riferimento alle questioni più problematiche.
Una delle fattispecie più discusse è quella prevista dalla lettera g) del primo comma dell’art. 2437 c.c., secondo cui il recesso scatta per «modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione». Un primo interrogativo riguarda gli esatti confini della nozione, e cioè se per diritti di “partecipazione” occorre intendersi solo diritti economico-patrimoniali del socio, ovvero anche altri diritti “amministrativi” diversi dal voto (o a contenuto misto, come il diritto d’opzione). La lettura restrittiva, secondo la quale l’espressione includerebbe solo diritti economico-patrimoniali, può preferirsi ponendo mente a esigenze di certezza e al fatto che l’autonomia statutaria può sempre ampliare il novero dei diritti la cui modifica apre la porta all’uscita dei singoli soci. Occorre inoltre precisare – condividendo la soluzione che prevale in giurisprudenza – che in questo contesto assumono rilievo le sole modificazioni di diritto della posizione dei soci, non già quelle di mero fatto. In altre parole, perché sorga il diritto a recedere devono modificarsi i diritti incorporati nella singola azione, ad esempio riducendo un privilegio nella distribuzione degli utili; essendo invece irrilevante una modifica che incide solo per avventura sulla posizione di specifici soci, come ad esempio la riduzione di un quorum deliberativo rafforzato che fa perdere un potere di veto su determinate materie. In presenza di categorie di azioni, il recesso si affianca all’approvazione dell’assemblea speciale come strumento di protezione degli azionisti di categoria.
Si noti, inoltre, che diverse ipotesi di recesso richiedono una valutazione di fatto circa gli effetti della delibera o evento, come nel caso di cambiamento dell’oggetto sociale o di assoggettamento a direzione e coordinamento. In questi casi occorre tenere conto della funzione economica del recesso, ossia del fatto che esso intende offrire una possibilità di equo disinvestimento al socio che si ritrova, senza il proprio consenso, titolare di azioni il cui livello di rischio e rendimento si è modificato in modo non trascurabile. Naturalmente, rischio e rendimento possono venire alterati anche da numerosi altri fattori endogeni ed esogeni alla società. La legge ha tuttavia individuato una serie di ipotesi che appaiono di particolare delicatezza a fronte delle quali è assicurato l’exit.
Passando brevemente ora ai casi di recesso facoltativo, lo spazio lasciato all’autonomia statutaria è ampio. Lo statuto può certamente prevedere ulteriori cambiamenti del contratto sociale che legittimano il recesso, così come collegarlo ad altri eventi. I limiti di questa flessibilità riguardano, per venire subito al punto delicato, l’ammissibilità del recesso ad nutum, ossia legato a una mera manifestazione di volontà del recedente. Alcuni studiosi lo escludono, affermando da un lato che esso esporrebbe la società a una situazione di incertezza e instabilità con potenziale pregiudizio dei creditori (considerati i possibili effetti del recesso sulla consistenza patrimoniale); e, dall’altro, facendo leva sul dato testuale che parla di ulteriori «cause» di recesso, termine che si potrebbe intendere in senso restrittivo, escludendo una mera manifestazione di volontà. È però più convincente la soluzione liberale. Basti pensare che nulla impedirebbe, salvo mortificare in modo rilevante l’autonomia statutaria, la previsione di cause di recesso che occorrono quasi ogni giorno (es., il mutamento del tasso di interesse di mercato), con risultati pratici assai simili a quelli del recesso ad nutum. D’altro lato, ciò non desta particolare preoccupazione sul fronte della tutela dei terzi né pare confliggere con principi inderogabili, posto che, al ricorrere delle condizioni di legge, la maggioranza dei soci potrebbe deliberare la riduzione del capitale sociale o lo scioglimento della società. Pare quindi evidente che, a maggior ragione, essi possano consentire lo scioglimento unilaterale del rapporto sociale a fronte della volontà dei singoli soci, circostanza che solo eventualmente conduce a simili conseguenze, sebbene in questo caso esse siano in parte rimesse alla volontà del singolo di disinvestire.
La legge prevede due diversi criteri per la valutazione delle azioni non quotate e quotate. Con riferimento alle prime, l’art. 2437 ter c.c. indica quello che nelle materie aziendalistiche si definirebbe un metodo di valutazione “misto”, che richiede di tenere conto, con pesi diversi a seconda della tipologia di attività e azienda sociale, della dimensione patrimoniale, delle prospettive reddituali e di eventuali prezzi di mercato. Due precisazioni sono necessarie. In primo luogo, il riferimento alle prospettive reddituali è sufficientemente ampio da comprendere anche, ove corretto da un punto di vista tecnico, l’attualizzazione di un flusso di cassa che, almeno in certi contesti, presenta un’oggettività maggiore rispetto a misure che includono grandezze stimate e congetturate quali ammortamenti o variazioni delle rimanenze. Con riferimento ai prezzi di mercato, inoltre, si deve ritenere che non sia strettamente necessaria l’esistenza di un ampio numero di scambi di azioni per dare rilievo a questo elemento: anche un’isolata compravendita di un pacchetto azionario può assumere rilievo, in particolare se recente, naturalmente ponderata per la sua maggiore o minore significatività. Si aggiunga che non si dovrà tener conto, nel bene e nel male, dei potenziali effetti di un’operazione societaria che rappresenta proprio il presupposto del recesso: ad esempio, nel caso di fusione che comporta anche modifica dello statuto e quindi legittima il disinvestimento, i soci recedenti non potranno essere né avvantaggiati né svantaggiati dalle conseguenze dell’operazione dalla quale si dissociano. In via generale, occorre osservare che il metodo “di default” previsto dal codice civile mira alla determinazione di un valore effettivo, corretto in base ai criteri di valutazione delle aziende accettati nella prassi.
Il valore delle azioni quotate è invece rappresentato dalla media aritmetica dei prezzi di chiusura dei sei mesi precedenti – nel caso in cui il presupposto sia una delibera assembleare – la pubblicazione del relativo avviso di convocazione. Questo criterio presenta alcuni elementi di rigidità criticabili in prospettiva de iure condendo, anche ponendo mente al fatto che prezzi “vecchi” di diversi mesi potrebbero essere disallineati dal reale valore attuale delle azioni. È inoltre incerto come regolarsi nel caso in cui non si disponga di sei mesi di quotazione, ad esempio per effetto di una sospensione del titolo o perché la quotazione è recente: appare tuttavia preferibile applicare la media sull’orizzonte temporale disponibile, salvo che esso sia tanto limitato da perdere significatività economica. Nel 2014, peraltro, il legislatore ha chiarito che gli statuti delle società quotate possono prevedere l’applicazione dei metodi previsti per le azioni non negoziate su mercati regolamentati anche negli emittenti quotati, fermo restando che la media dei corsi semestrali rappresenta un valore di recesso minimo sotto il quale non si può scendere.
È dubbio se il meccanismo del recesso consente il computo di premi di maggioranza o sconti di minoranza per valorizzare la partecipazione del recedente. Sebbene ciò sia difficile anche da un punto di vista applicativo, e potrebbe ostacolare la collocazione delle azioni presso altri soci o terzi, non si può del tutto escludere – quantomeno se lo statuto lo prevede – l’ammissibilità di una formula che tenga conto dell’entità delle azioni per le quali si recede.
Più in generale, il quarto comma dell’art. 2437 ter c.c. consente allo statuto di derogare ai criteri di valutazione previsti dalla legge. I confini di questa facoltà di deroga sono discussi dalla dottrina, sebbene non appare condivisibile la tesi secondo cui la deroga sarebbe consentita solo se “migliorativa” rispetto al metodo di base. Il recesso è infatti inderogabilmente previsto anche in caso di modifica dei criteri di liquidazione, disposizione che ha proprio la funzione di tutelare i soci rispetto a modifiche che essi ritengono potenzialmente peggiorative. Sarebbe peraltro difficile, se non impossibile, determinare con certezza, soprattutto ex ante, quando un criterio statutario è “peggiorativo” rispetto a quello di legge. Il limite della libertà statutaria potrebbe se mai trovarsi in scelte della maggioranza che, determinando inevitabilmente una valutazione “vile” (come ad esempio il valore contabile), vanifichino certamente la funzione di tutela delle minoranze del recesso.
Quanto il recesso si fonda o si può fondare su una deliberazione assembleare, i soci devono conoscere il valore delle azioni in caso di exit prima della riunione dell’organo collegiale. Gli amministratori devono pertanto depositare una valutazione delle stesse entro i quindici giorni anteriori alla data dell’assemblea. Non farlo rappresenta un vizio di procedimento della delibera che può condurre al suo annullamento. La valutazione delle azioni, naturalmente, dovrà essere riferita al momento più recente possibile, tenendo conto dei tempi tecnici necessari per le operazioni di calcolo.
Nei casi in cui il recesso ha come presupposto un fatto o atto diverso da una delibera della società, come ad esempio in ipotesi di inizio della direzione e coordinamento da parte di un altro ente, si potrebbe invece ritenere che il socio possa chiedere l’indicazione del valore per decidere se recedere o meno.
Legittimati al recesso sono i soci che non hanno concorso alle delibere che fondano il diritto, quanto esso si fonda su tali presupposti (dunque: assenti, astenuti e contrari); e tutti i soci negli altri casi.
La scansione temporale degli eventi è piuttosto articolata: di seguito una breve descrizione del procedimento nel caso in cui il recesso si basi su una delibera dei soci. Dopo il deposito del valore delle azioni presso la sede della società anteriormente alla delibera, è dato un termine di 15 giorni dall’iscrizione della stessa nel registro delle imprese per esercitare il diritto. Entro 90 giorni la società può revocare la delibera (nel caso ad esempio il recesso sia esercitato per un ampio numero di azioni) e si può ricorrere a un arbitratore in ipotesi di dissenso sul valore da liquidare. Dalla dichiarazione di recesso dei soci decorrono invece i 180 giorni entro i quali il valore delle azioni deve essere liquidato. Entro tale termine, secondo il modello legale, le azioni dei recedenti devono essere offerte in prelazione agli altri soci; se le azioni non vengono così collocate, gli amministratori possono cercare di venderle a terzi (secondo un meccanismo simile al diritto d’opzione in caso di aumento di capitale). Qualora anche tale procedura non dia buon esito la società può acquistare le proprie azioni usando riserve disponibili anche in parziale deroga ai limiti normalmente applicabili a tale operazione. Solo in mancanza di utili e riserve disponibili per l’acquisto occorre rimborsare i recedenti tramite riduzione del capitale sociale o sciogliere la società.
I passaggi descritti fanno sì che il recesso incida sul capitale (o addirittura sulla continuità della società) solo se non si riesce a liquidare le azioni cedendole a soci, terzi o alla società stessa; essi quindi contemperano l’esigenza del recedente di vedersi riconosciuto il valore del proprio investimento con quella di tutelare il capitale e consentire la conservazione degli assetti proprietari degli altri azionisti. Per queste ragioni, a fronte del silenzio della legge, si ritiene che tale procedimento non sia disponibile dall’autonomia privata o, quantomeno, non lo sia se le modifiche riducono i diritti dei singoli soci non recedenti o aumentano la “probabilità” di un effetto negativo sulla consistenza del patrimonio sociale e la durata della società.
È discussa la posizione del socio nel periodo intercorrente tra il perfezionamento del diritto di recesso – nel quale quindi sorge un credito a vedersi liquidato il valore della partecipazione – e l’effettiva liquidazione delle azioni; in particolare si discute in merito all’esercizio del diritto di voto e altri diritti sociali. La posizione “para-creditoria” del socio induce alcuni autori ad assumere una posizione restrittiva, fermo restando che possono invocarsi altri rimedi nell’ipotesi in cui la società o gli altri soci pongano in essere atti pregiudizievoli della posizione del recedente.
La disciplina del recesso nelle s.r.l. è più scarna e meno dettagliata che nelle s.p.a. Coerentemente con l’impostazione generale della disciplina della s.r.l., lo spazio riservato all’autonomia statutaria è rilevante, anche alla luce del primo periodo dell’art. 2473 c.c. che affida in via generale all’atto costitutivo la facoltà di determinare «quando il socio può recedere dalla società e le relative modalità». Eventuali lacune possono essere colmate tenendo anche conto dei principi che governano la materia nelle società azionarie, seppur ricordando che, in particolare dopo la riforma del 2003, il tipo s.r.l. ha acquisito una maggiore autonomia dal “modello” della s.p.a. e, dunque, il ricorso all’analogia impone particolare cautela e attenzione alle differenze sistematiche tra queste forme sociali.
Ipotesi di recesso inderogabile sono previste anche per la s.r.l. Le differenze rispetto a quelle elencate per le s.p.a. fanno sorgere il dubbio di un limitato coordinamento tra le materie atteso che la ratio delle differenziazioni non è sempre chiara. In ogni caso, giusta l’art. 2473 c.c., possono sempre recedere i soci che non hanno consentito alla trasformazione, al cambiamento dell’oggetto della società o ad operazioni che lo modificano sostanzialmente, a fusioni o scissioni (e si noti, in particolare, che queste operazioni non legittimano, di per sé, il recesso da s.p.a.), revoca della liquidazione, trasferimento della sede all’estero, modifica di diritti speciali attribuiti a singoli soci. Sono inoltre salve le norme in tema di recesso per le società sottoposte a direzione e coordinamento. Il recesso è poi sempre consentito se la società è costituita a tempo indeterminato.
Per quanto osservato in precedenza, lo statuto può certamente prevedere altre ipotesi di recesso. Sulla questione se questa facoltà possa spingersi sino alla previsione di un recesso ad nutum valgono considerazioni analoghe a quelle svolte in materia di s.p.a.
Chi recede deve ottenere – sempre entro 180 giorni dalla dichiarazione – il rimborso della propria quota in proporzione al patrimonio sociale, determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento dello scioglimento unilaterale del rapporto sociale. Il criterio è volto a individuare il valore “effettivo” della partecipazione, e dunque consente – e anzi richiede – l’applicazione dei metodi di valutazione corretti secondo gli insegnamenti delle scienze aziendalistiche e finanziarie con approccio sostanzialmente simile a quello seguito per le azioni non quotate di s.p.a.
La legge non chiarisce espressamente se lo statuto possa introdurre criteri diversi o più specifici. La tesi negativa potrebbe sostenersi considerando l’ampiezza e flessibilità del criterio legale e l’assenza di un’ipotesi inderogabile di recesso in caso di modifica di tali criteri. Di contro, quantomeno se non in contrasto con l’obiettivo di un’equa valutazione, la soluzione più liberale può trovare spazio tenendo conto del ruolo della libertà contrattuale in questo tipo di società.
Poche e sintetiche sono anche le disposizioni circa il procedimento di liquidazione. L’art. 2473 c.c. si limita a prevedere il termine ultimo di 180 giorni per il rimborso della quota, già richiamato, e a dire che è possibile l’acquisto da soci in proporzione alla propria partecipazione o da un terzo. Se le quote non sono collocate a terzi, la norma continua prevedendo il rimborso tramite utilizzo di riserve (senza, tuttavia, acquisto di proprie quote, vietato dall’art. 2474 c.c.) o, in mancanza di queste, la riduzione del capitale o lo scioglimento. Viene quindi abbozzata una gerarchia delle modalità di liquidazione, nella quale tuttavia il collocamento a soci o terzi appare una fase solo eventuale e facoltativa. Gli statuti possono chiarire il procedimento fissando regole più puntuali.
Anche nelle s.r.l., come già nelle società azionarie, la società può revocare la delibera che legittima il recesso, rendendo così il recesso non esercitabile o inefficace; ed è inoltre possibile il ricorso a un arbitratore in caso di disaccordo sul valore (art. 2473, co. 3). Quanto ad altri aspetti – come ad esempio il deposito del valore delle quote anteriormente alla delibera che potrebbe legittimare l’exit – il codice tace: anche qui un ruolo importante può essere svolto dal contratto sociale.
Nelle società cooperative e mutue assicuratrici il recesso è inderogabile quando il contratto sociale vieta la cessione delle quote o azioni e nei casi previsti per le s.p.a. A differenza che in queste ultime, tuttavia, non è ammesso il recesso parziale, ed è inoltre prevista dall’art. 2532 c.c. una sorta di valutazione da parte degli amministratori circa la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento del rapporto (opponibile innanzi al tribunale). Entro 180 giorni dall’approvazione del bilancio la società deve liquidare la partecipazione, basando la valutazione sulle risultanze contabili, eventualmente tenendo conto del sovrapprezzo versato dal socio.
In queste società, come nelle società consortili, le finalità non lucrative consentono – e, secondo alcuni, rendono necessarie – modalità di valutazione delle quote o azioni a valori nominali o patrimoniali, escludendo quindi l’indiretta distribuzione di utili o plusvalori accumulati. Ad avviso di taluni autori l’atto costitutivo potrebbe addirittura escludere il rimborso; la tesi non appare tuttavia convincente.
Fonti normative
Artt. 2285, 2437-2437 quinquies, 2473, 2497 quater, 2532 c.c.
Bibliografia essenziale
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