DIRITTO E SOCIETÀ
di Lawrence M. Friedman
Lo studio del diritto e della società può essere definito, approssimativamente, come lo studio dei rapporti esistenti tra gli ordinamenti giuridici e i più ampi sistemi in cui questi sono inseriti. Detto in altri termini, si tratta di uno studio del diritto compiuto dall'esterno, ossia dal punto di vista di altre discipline - in particolare le scienze sociali: scienza politica, psicologia, antropologia, economia. Gli studiosi delle scienze sociali che si occupano prevalentemente del diritto e degli ordinamenti giuridici tendono ad avere molto in comune, indipendentemente dalla specializzazione disciplinare; e lo stesso può dirsi, in misura crescente, anche di quegli storici che studiano i fenomeni giuridici da un punto di vista esterno.Per questo motivo, è legittimo parlare di una corrente di studi sociogiuridici il cui fine è quello di promuovere lo studio dei fenomeni giuridici in modo tale da dar luogo a una scienza sociale di natura interdisciplinare. In pratica, tuttavia, gli economisti che studiano il diritto e i vari istituti giuridici tendono a distinguersi dagli altri studiosi delle scienze sociali, e in questo articolo non ci occuperemo a livello sistematico dei rapporti tra diritto ed economia. Analogamente, i rapporti tra diritto e antropologia saranno trattati in un articolo a parte. In questa sede non analizzeremo neppure le diverse scuole di teoria o filosofia del diritto, né lo 'studio sociologico', poiché queste discipline non rientrano nell'ambito degli studi su diritto e società.
In molti testi di storia, di filosofia o di teoria politica, anche del mondo antico, è possibile rinvenire alcuni brani concernenti il rapporto tra sistemi giuridici e sistemi sociali, ma lo studio sistematico dei rapporti tra diritto e società è un prodotto della moderna scienza sociale, e di fatto i primi risultati di rilievo si ebbero solo nel XIX secolo.
Tra i testi classici sull'argomento spicca Ancient law di sir Henry Maine, pubblicato nel 1861. Maine analizza la correlazione tra i tipi di sistema giuridico e i tipi di struttura sociale, abbozzando una teoria dello sviluppo del diritto di stampo sostanzialmente evoluzionistico, di cui si discute ancor oggi. Anche Karl Marx ed Émile Durkheim hanno fornito contributi importanti allo studio sociale del diritto, e il loro impianto concettuale continua a influenzare gli studiosi moderni. Nessuno dei due, però, ha fornito una spiegazione sistematica e argomentata dei fenomeni giuridici. Nelle opere di Marx si trovano molti riferimenti sparsi al diritto e alle istituzioni giuridiche (v. Cain e Hunt, 1979) e la sua distinzione tra 'struttura' e 'sovrastruttura' ha suscitato notevoli discussioni anche in riferimento al diritto. Nei termini propri del marxismo i rapporti di produzione rappresentano la 'base' di ogni società, mentre la sovrastruttura (che comprende l'arte, la letteratura e il diritto) riflette semplicemente tale struttura e si modifica in concomitanza con essa. In base a questa concezione, dunque, i fenomeni giuridici non hanno un ruolo essenziale nella strutturazione della società. Alcuni teorici marxisti più recenti, tuttavia, hanno rifiutato questa visione giudicandola troppo rozza e semplicistica e hanno messo in evidenza, ad esempio, la funzione ideologica delle istituzioni giuridiche, ossia il ruolo che esse assumono nel convincere i membri di una data società che l'ordine costituito è giusto e necessario.
Anche Émile Durkheim si serviva del diritto come di un indicatore sociale; nella famosa opera La divisione sociale del lavoro egli tracciava una distinzione tra due tipi di solidarietà sociale: la solidarietà meccanica e la solidarietà organica. La prima, che caratterizza le società relativamente semplici, è una forma di coesione sociale basata su valori condivisi: nelle società di questo tipo tutti tendono a pensare allo stesso modo e la maggior parte del diritto è diritto penale. Nelle società avanzate, caratterizzate invece dalla solidarietà organica, il diritto tende ad avere carattere restitutorio piuttosto che penale (in cui hanno un ruolo prevalente i rapporti di tipo contrattuale e la divisione sociale del lavoro). L'importanza attribuita da Durkheim alla coesione sociale e al ruolo del diritto nello stabilire vincoli normativi ha influenzato in modo perdurante la sociologia del diritto, in particolare per quel che riguarda lo studio della violazione delle norme giuridiche e della giurisprudenza penale. A differenza di Marx e di Durkheim, Weber aveva una formazione giuridica ed era un profondo conoscitore del diritto; i suoi studi hanno avuto un valore pionieristico nell'ambito della sociologia del diritto. Anche Weber continua a influenzare gli studiosi, e non solo attraverso la sua impostazione generale, ma anche in termini di concetti, ipotesi e proposizioni specifiche. Particolarmente importanti sono state l'analisi weberiana dei tipi di autorità legittima e la sua discussione sulle categorie del pensiero giuridico. Il sociologo tedesco era affascinato dal problema della specificità della società occidentale moderna, e le sue opere contengono un'analisi penetrante e sottile della razionalità formale che, a suo parere, domina la prassi e il pensiero giuridici nell'Occidente moderno.
Un altro studioso importante fu Eugen Ehrlich, cittadino dell'Impero austro-ungarico e docente di diritto a Czernowitz dal 1897, la cui opera più nota, pubblicata nel 1913, è Principî fondamentali di sociologia del diritto. L'interesse prevalente di Ehrlich era costituito dal 'diritto vivente', ossia da quelle norme e principî giuridici che ricevono un'effettiva applicazione e che regolano i rapporti sociali, rispetto alle norme e ai principî formalmente sanciti nei testi legislativi. Egli metteva in rilievo la complessità e l'interdipendenza dei vari ordinamenti giuridici considerati nel loro effettivo operare: le società complesse sarebbero caratterizzate da una "pluralità di ordinamenti giuridici interconnessi" (v. Cotterrell, 1984, p. 30), più che da un singolo corpo unitario di norme ufficialmente riconosciute.
Nonostante l'opera di Weber e di Ehrlich, tuttavia, la prima metà del XX secolo non rappresentò un periodo particolarmente fecondo per gli studi su diritto e società. Negli Stati Uniti la scuola del realismo giuridico rifiutava la dogmatica tradizionale, analogamente alla scuola del 'diritto libero' europea. Il 'realismo' era un movimento di pensiero che manifestava scetticismo sull'efficacia e sulla realtà stessa delle norme giuridiche. I realisti sostenevano, ad esempio, che sono i giudici a produrre effettivamente il diritto, sebbene non lo ammettano. Comunque, sia in Europa che negli Stati Uniti il realismo costituiva un corpus dottrinale di stampo critico e una scuola di pensiero giuridico; pochi tra i suoi rappresentanti erano interessati al mondo reale al di fuori delle aule di tribunale e del procedimento legislativo, e ben pochi di essi diedero un qualche contributo allo studio sociale del diritto.
Una significativa rinascita dell'interesse nei confronti degli studi sociogiuridici si ebbe dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto per influsso della scienza sociale empirica, specialmente negli Stati Uniti. Tra gli studiosi americani di questa generazione figurano Philip Selznick, Richard Schwartz, Lawrence M. Friedman, Stewart Macaulay, Donald Black, Marc Galanter, Richard Abel.Un interesse analogo si sviluppò anche in Europa e in Giappone; tra gli studiosi giapponesi ricordiamo Masaji Chiba e Takeyoshi Kawashima. Tra gli studiosi europei che nel secondo dopoguerra contribuirono alla rinascita degli studi sociogiuridici figurano Renato Treves in Italia, Vilhelm Aubert in Norvegia, Kees Schuyt in Olanda, Britt-Mari Blegvad in Danimarca, Adam Podgorecki in Polonia, Kálmán Kulcsár in Ungheria, José Juan Toharía in Spagna, Manfred Rehbinder, Ehrard Blankenburg e Hubert Rottleutner nella Germania Occidentale.
A partire dagli anni cinquanta gli studi sociogiuridici si sono progressivamente moltiplicati. Probabilmente gli Stati Uniti restano il centro più attivo in questo campo, soprattutto per quel che riguarda gli studi basati sui metodi ortodossi delle scienze sociali. La Law and Society Association venne fondata nel 1964 da una dozzina di studiosi in occasione del convegno annuale dell'American Sociological Association. Nel 1989 la Law and Society Association contava oltre 1.300 membri di varia nazionalità, ma per la maggior parte americani. Circa tre quarti di essi erano studiosi di scienze sociali o di discipline affini, mentre un quarto circa era specializzato soprattutto in diritto. Organizzazioni analoghe sono sorte più di recente anche in altri paesi, tra cui la Gran Bretagna, la Germania Occidentale e il Giappone. Esiste circa una dozzina di riviste specializzate pubblicate in inglese, tedesco, italiano, francese.
Negli studi sociogiuridici vengono impiegate varie tecniche, inclusi tutti i metodi tradizionali delle scienze sociali: sondaggio d'opinione, analisi del contenuto, rilevamento demografico, osservazione attiva. Vi è anche un gruppo di storici del diritto che impiegano metodi quantitativi, o si servono di concetti derivati dalle scienze sociali. Grande influenza ha avuto lo storico del diritto J. Willard Hurst, americano, fondatore di una scuola di storia del diritto interessata ai concetti e ai metodi degli studi sociogiuridici (v. Hurst, 1956; v. Friedman, 1985²). Gli psicologi che studiano le istituzioni giuridiche hanno impiegato a volte metodi sperimentali (tecniche di laboratorio). Alcuni psicologi americani, ad esempio, si sono serviti di giurie finte che simulano il comportamento di quelle vere (v. Hans e Vidmar, 1986): questo metodo ha consentito loro di studiare i vari modi in cui le giurie possono essere influenzate - ad esempio dal sesso dell'imputato o dalle istruzioni impartite dal giudice.Recentemente si è registrato un rinnovato interesse per la teoria generale, soprattutto in Europa e particolarmente nella Germania Occidentale. Niklas Luhmann (v., 1972), ad esempio, è autore di un ambizioso tentativo di costruire una teoria sociogiuridica che ha influenzato una serie di studiosi più giovani sia in Germania (ad esempio Gunther Teubner) che in altri paesi (in Italia, ad esempio, Alberto Febbrajo: v., 1986).
Una delle nozioni chiave nell'opera di Luhmann è quella del carattere 'autoreferenziale' e 'autopoietico' che il sistema giuridico ha in comune con altri sistemi sociali. Si tratta, essenzialmente, della relativa autonomia dei sistemi giuridici (v. Lempert e Sanders, 1986, p. 408), i quali hanno un proprio linguaggio interno e un proprio modo di rapportarsi al 'mondo esterno'. Per quanto connessi al loro ambiente (sociale), i sistemi giuridici operano secondo leggi autonome, elaborano il materiale proveniente dal mondo esterno in base ai propri programmi interni e riproducono nel tempo le proprie strutture fondamentali.
Il tema dell'autonomia del diritto non è appannaggio esclusivo della scuola di Luhmann, ma è al centro della riflessione in tutta la teoria sociogiuridica. Il pensiero giuridico tradizionale partiva dall'assunto, sia pur implicito, dell'autonomia del diritto, e i pionieri degli studi sociogiuridici, come Weber e Ehrlich, si prefissero di smantellare questa rete di assunti per sottolineare invece le connessioni esistenti tra i sistemi giuridici e quelli sociali. Luhmann e la sua scuola - assieme ad altre correnti della teoria sociogiuridica contemporanea - offrono quello che essi considerano un correttivo dell'eccessiva importanza attribuita in passato al ruolo delle forze sociali nella spiegazione dei fenomeni giuridici. In ogni caso la disputa sul rapporto fondamentale tra diritto e società non è stata affatto risolta.
Un crescente interesse nei confronti della teoria generale si è registrato anche negli Stati Uniti. Donald Black (v., 1976) ha cercato di elaborare una sociologia del diritto rigorosa, addirittura di tipo assiomatico; partendo da una serie di premesse desunte dall'antropologia e da altre discipline, secondo Black è possibile costruire una teoria generale. Recentemente, inoltre, alcune studiose femministe hanno cercato di elaborare o di ripensare le teorie sociali del diritto nella prospettiva del femminismo, analizzando criticamente quei numerosi aspetti del diritto che recano l'impronta del dominio e del pensiero maschili per sviluppare una concezione del diritto che "parta dalle donne" (v. Dahl, 1986, p. 247).
Nonostante questi fenomeni, tuttavia, l'ambito degli studi sociogiuridici è caratterizzato nel complesso da due stili di pensiero e da due impostazioni assai diversi. Negli Stati Uniti resta piuttosto marcato l'influsso delle scienze sociali quantitative. Gli studiosi americani tendono a procedere induttivamente, costruendo le teorie per passaggi successivi; vivamente interessati alle questioni metodologiche e ai temi concreti delle politiche pubbliche, si occupano meno invece - rispetto ai colleghi europei - di macroteoria e ancor meno dei rapporti tra gli studi sociogiuridici e la teoria generale o la filosofia del diritto.Il diverso tipo di formazione e di mentalità spiega in parte questa diversità di impostazione. Gli studiosi europei provengono spesso dalla filosofia del diritto; importanti opere di sociologia del diritto - come quella di Treves (v., 1987) - sono dedicate in larga misura all'analisi di scuole di pensiero o a considerazioni di ordine teorico. Negli Stati Uniti, invece, la maggior parte degli studiosi dei rapporti tra diritto e società proviene dalle scienze sociali. Come dimostrano le prospettive d'insieme sui lavori statunitensi in questo campo (v. Friedman, 1975; v. Lipson e Wheeler, 1986), qui sono i problemi relativi alla ricerca e all'impostazione metodologica a dominare l'impianto concettuale. Lo stesso Black (v., 1976) cerca di ricavare gli enunciati della sua teoria dalla letteratura empirica esistente. Ovviamente, ogni generalizzazione relativa alle scuole nazionali è destinata ad avere numerose eccezioni.
Molti studiosi e giuristi hanno cercato naturalmente di definire il diritto. Non esiste però una definizione universalmente condivisa, e quelle sia implicite che esplicite fornite dagli studiosi di diritto e società sono piuttosto diverse. Molte definizioni ricollegano il diritto all'autorità o al governo, in quanto ogni società umana possiede strutture d'autorità, un qualche modo di organizzarsi. Comunque il diritto viene identificato con due aspetti o funzioni particolari di governo: la produzione e l'applicazione delle norme. Così Max Weber, in un passo ben noto, definisce come 'legge' un ordine o un comando "che sia garantito esternamente dalla probabilità che una forma di coercizione fisica o psicologica verrà applicata da una categoria di persone per assicurarne l'osservanza" (v. Weber 1954², p. 5). Analogamente Donald Black (v., 1976, p. 2) definisce il diritto come "controllo sociale governativo".
Altri preferiscono non definire il diritto in termini di strutture formali o governative. Molte società semplici non hanno un 'governo' in quanto tale, e lo stesso vale per i piccoli gruppi informali o per la famiglia; le istituzioni 'private' ma di grandi dimensioni (ad esempio le imprese commerciali), dal canto loro, pur avendo norme e regolamenti nonché funzionari incaricati di applicarli, non costituiscono un 'governo' (v. Macaulay, 1986). Tutti questi contesti tuttavia hanno norme e regole, per cui è legittimo parlare di 'diritto' anche in questi casi. Si tratta di un'impostazione che può rivelarsi assai fruttuosa per determinati scopi, ad esempio per capire il comportamento di gruppo. Servendosi dei risultati di un esperimento sull'alimentazione, che prevedeva l'isolamento di un gruppo di volontari per parecchi mesi, Walter Weyrauch ha osservato come i soggetti dell'esperimento elaborassero un insieme di regole che poi seguivano volontariamente, dando luogo così a un 'codice' di leggi spontaneo (v. Weyrauch, 1971).
Il livello di formalità o di informalità è impiegato spesso per delimitare la sfera giuridica. Le norme delle società in cui non esiste lo Stato non sono scritte o codificate, e lo stesso vale per le 'regole' operanti all'interno della famiglia. Quando si pensa alla 'legge', in genere si pensa a regole formali, in particolare a regole scritte. Sebbene dal punto di vista sociologico sia significativo che le popolazioni moderne concepiscano in questo modo il diritto e le istituzioni giuridiche, tuttavia il carattere formale non costituisce un criterio idoneo per distinguere i sistemi giuridici da quelli non giuridici. La sfera della 'consuetudine' o dell'etica professionale senza dubbio non ha una dimensione formale, ma le grandi imprese, che in Occidente possono essere interamente 'private', sono dotate di strutture burocratiche molto complesse e operano sulla base di regole e di procedure formali per applicare le regole e decidere i casi 'difficili'.Nel complesso, comunque, uno dei compiti specifici della sociologia del diritto è stato proprio quello di indagare il rapporto tra l'aspetto formale, ufficiale, e quello informale e non ufficiale. Il comportamento effettivo delle istituzioni giuridiche, come di tutte le altre istituzioni, è troppo complesso per essere fissato in una semplice formula; gli studiosi di diritto si occupano necessariamente di modelli comportamentali non ricavabili dalla superficie formale del diritto. Gli studi sociogiuridici in effetti possono essere anche intesi come il tentativo di individuare, classificare e spiegare i modelli di comportamento informali e di metterli in relazione con la sfera 'ufficiale' del diritto.
Gli studi sociogiuridici possono essere classificati per comodità in tre categorie generali: a) studi sulla sostanza del diritto, ossia sulle regole e sulle dottrine stesse, ma da una prospettiva 'esterna' di ordine sociologico, storico, psicologico, ecc.; b) studi (empirici o sociologici) sulle istituzioni giuridiche: giudici, tribunali, giurie, procedure, arbitrato, sistemi di polizia, ecc. Particolare attenzione è dedicata allo studio sociale delle professioni forensi, su cui esiste un'ampia letteratura; c) studi sulla cultura giuridica, la quale può essere definita come quell'insieme di norme, atteggiamenti, valori e opinioni propri di determinate popolazioni o gruppi relativamente al diritto, ai sistemi e alle istituzioni giuridiche (v. Friedman, 1975). Si può distinguere una cultura giuridica esterna (o generale) da una cultura giuridica interna, rappresentata dalle norme, dagli atteggiamenti e dai valori di avvocati, giuristi e altre categorie di persone che si trovano 'dentro' il sistema. La letteratura sulla cultura giuridica comprende studi sulla conoscenza e sulle opinioni relative al diritto (knowledge and opinion about law: studi KOL). Lo studio sociale del pensiero giuridico formale e della giurisprudenza riguarda la cultura giuridica interna; gran parte dell'opera weberiana può essere collocata in questo ambito. Esamineremo ora separatamente ciascuna di queste categorie.
Sulla sostanza e sulla dottrina del diritto esiste una letteratura ampia ed eterogenea, che comprende studi sulla legislazione in materia di divorzio, di lavoro o di infortuni, nonché studi sull'uso o il non uso di forme legali da parte degli uomini d'affari. Sulla giurisprudenza penale esiste una letteratura particolarmente ricca, e non vi è una distinzione significativa tra certi studi di criminologia e gli studi di sociologia del diritto specializzati nel procedimento penale. È inevitabile inoltre che molti studi sul diritto e sul processo penale abbiano una forte componente istituzionale, in quanto si incentrano sui tribunali o sul comportamento delle forze dell'ordine (v. Feest e Blankenburg, 1972).
Lo studio del corpus del diritto può essere suddiviso analiticamente in una serie di questioni di fondo. In primo luogo si tratta di individuare le forze che danno vita al diritto in generale o a singole leggi. In genere il termine 'diritto' è usato in contrapposizione a 'consuetudine', e cioè a quell'insieme di norme e usi la cui applicazione viene assicurata attraverso l'osservanza generalizzata e la riprovazione espressa dal gruppo sociale in caso di mancata osservanza. In un certo senso il diritto scritto non è che la consuetudine istituzionalizzata: esso sorge allorché una comunità si rende conto che la consuetudine, per una qualche ragione, non è abbastanza forte o abbastanza certa da controllare adeguatamente il comportamento dei consociati.
Nella maggior parte dei casi il 'diritto' nel senso formale, istituzionale del termine risale alla preistoria delle comunità. In uno studio assai interessante Richard Schwartz (v., 1954) ha esaminato le origini del 'diritto' in due diverse comunità israeliane, un moshav (cooperativa) e una kvutza (una sorta di comune). In quest'ultima i bambini venivano allevati dalla collettività e tutti i pasti venivano consumati in un refettorio comune, mentre i membri del moshav vivevano con le proprie famiglie in piccole abitazioni individuali. Nel moshav vi era un più alto grado di istituzionalizzazione del diritto rispetto alla kvutza: aveva, ad esempio, una commissione giudiziaria incaricata di dirimere le controversie; la kvutza invece non aveva organi di questo tipo, ma era l''opinione pubblica' a sancire le norme. Studiando questi due tipi di comunità Schwartz dimostrò in che modo sorge il diritto in senso formale. Poiché il moshav era una comunità meno coesa e meno collettivizzata, il 'comportamento molesto', come lo definisce Schwartz, non poteva essere "controllato adeguatamente in modo informale" senza l'ausilio del diritto.
Indipendentemente dalle dimensioni della comunità, inoltre, il controllo sociale informale non è in grado di funzionare senza un certo grado di consenso sulle norme, che però può essere sostituito dal consenso sull'autorità. Anche senza un pieno consenso sulle norme, cioè, il consenso sulla legittimità e sull'autorità legittima può preservare la solidarietà sociale. Quest'ultimo tipo di consenso, in effetti, è ancora più essenziale nelle società complesse, in cui è impossibile un autentico consenso sulle norme: al suo posto subentra quello di massima sull'autorità, sulle strutture di autorità e, soprattutto, sulla legittimità dello stesso sistema giuridico. Nello Stato moderno, di conseguenza, la legittimità ha un fondamento spiccatamente procedurale (v. Luhmann, 1975).
Le società moderne - e quanto a questo gran parte di quelle tradizionali - dispongono di ordinamenti giuridici pienamente sviluppati e attivi. Nelle società di questo tipo la questione delle 'origini' del diritto consiste nell'individuare le forze sociali specifiche che hanno influenzato la formazione di singole leggi o di un determinato corpus del diritto. Ci si può chiedere in che misura il diritto rifletta l''opinione pubblica', quale sia l'impatto su di esso delle nuove tecnologie (computer, ingegneria genetica, pillola anticoncezionale), in che modo sia plasmato dai gruppi di interesse, oppure ancora in che modo la classe sociale, la razza e la condizione sociale influenzino la produzione e l'applicazione delle norme, ecc. Sebbene esistano centinaia di studi su tutti questi singoli temi, si registra una carenza diffusa di teorie generali.
Una di queste teorie deriva dalla tradizione marxista e sottolinea la forza della classe dominante e dei detentori del potere all'interno della società. Un insieme di teorie incentrate sui gruppi pluralistici o di interesse, per contro, nega che il sistema sociale possa essere correttamente descritto unicamente in termini di dominio assoluto dei ricchi e dei potenti. In entrambi i casi resta controverso il ruolo dei professionisti del diritto, il che ripropone ancora una volta la questione dell'autonomia. Un punto è certo: il diritto non è prodotto da forze e interessi in sé, bensì da forze e interessi che avanzano determinate richieste nei confronti del sistema giuridico. Il potere e gli interessi (oggettivi) di fatto sono irrilevanti, a meno che e finché non si traducano in una forza o pressione, ossia in una serie di richieste nei confronti del sistema giuridico o di parti costitutive di esso.
Probabilmente è impossibile descrivere in modo esauriente tutte le forze e gli interessi che contribuiscono a formare gli ordinamenti giuridici moderni. Se si parte dall'assunto che il diritto non sia completamente autonomo, si dovranno cercare le variabili esplicative al di là del sistema giuridico. Tali variabili però si manifestano in una straordinaria varietà di forme, e sono inoltre filtrate dalla mente umana, le cui idee e i cui valori sono mutevoli e imprecisi, imprevedibili e difficili da valutare. Per di più, tali idee e valori sono soggetti al condizionamento dell'ambiente, di cui fa parte anche il sistema giuridico.
Si afferma spesso che il diritto è 'in ritardo' rispetto all'opinione pubblica, che è intrinsecamente conservatore e si modifica solo con grande lentezza. Altri invece sostengono che questa tesi è falsa o priva di significato (v. Friedman e Ladinski, 1967). L'idea del 'ritardo' ha un senso - se lo ha - solo come riformulazione in termini diversi del concetto di autonomia relativa del sistema giuridico. Il più delle volte quando si accusa quest'ultimo di non essere al passo coi tempi non si esprime altro che la propria disapprovazione per lo stato attuale del diritto. Senza dubbio i sondaggi d'opinione a volte mettono in evidenza il notevole divario esistente tra il sistema giuridico e quelle che sembrano essere le esigenze della popolazione. L'errore, naturalmente, è quello di pensare che il diritto sia prodotto dal 'popolo' e non da soggetti e gruppi ben definiti tra i quali esistono profonde differenze rispetto al grado di potere e di influenza nonché all'intensità delle loro convinzioni e dei loro desideri.
Il sistema giuridico produce migliaia di norme e disposizioni; è ovvio pertanto che non tutte vengano accettate e osservate - nessuna forse incontra un'accettazione e un'osservanza perfette. Ma in quali circostanze gli atti giuridici sono efficaci, e quale impatto hanno sul comportamento e sugli atteggiamenti dei consociati?
Un requisito imprescindibile è ovviamente la comunicazione della norma. Se una regola o un ordine non raggiungono i propri destinatari, non possono essere osservati (e neanche disattesi). La comunicazione riveste un'importanza cruciale soprattutto nei moderni ordinamenti giuridici, estremamente complessi. Il problema della comunicazione è legato ovviamente a quello della conoscenza della legge e della diffusione di tale conoscenza. In parte la comunicazione dipende dal tipo di messaggio: una norma vaga e generale è meno 'comunicativa' di una norma specifica. Molto dipende anche dalla natura del destinatario: una norma rivolta a un gruppo circoscritto e ben definito ha assai più probabilità di raggiungere il suo obiettivo di un messaggio trasmesso, per così dire, al 'grande pubblico'. Di conseguenza, coeteris paribus, è più facile indurre le industrie automobilistiche a installare le cinture di sicurezza nelle automobili che persuadere milioni di automobilisti a cambiare le proprie abitudini facendone uso, o esercitare dei controlli per far rispettare la legge che impone l'uso delle cinture di sicurezza.
La pura coercizione fisica costituisce un aspetto importante dell'applicazione della legge - attraverso le forze dell'ordine, il carcere e le punizioni in generale - e tuttavia gli ordinamenti giuridici non possono basare la propria effettività solo sulla forza. Essi dipendono dal loro potere di influenzare il comportamento, inducendo donne e uomini a scegliere l'osservanza delle norme. Le motivazioni per cui le persone si conformano alle prescrizioni della legge possono essere divise analiticamente in tre categorie.
La prima è costituita dalla minaccia effettiva della sanzione - o dalla promessa di una ricompensa. Sull'effetto deterrente della sanzione esiste una letteratura sconfinata (v. Gibbs, 1975). Il fatto che gli individui reagiscano alle minacce e alle promesse appare abbastanza ovvio; il problema interessante è come essi reagiscono: ad esempio quanto aumenta o diminuisce l'effetto deterrente aumentando o diminuendo la prevenzione. Esiste una importante differenza tra grado della sanzione generale (l'efficacia della sanzione sulla popolazione complessiva) e prevenzione particolare (l'efficacia della sanzione sull'individuo che la subisce). Una società che condanna un ladro all'impiccagione ottiene certo un effetto deterrente su quell'individuo, e per sempre; se poi tale condanna abbia un effetto deterrente su altre persone, che hanno assistito all'esecuzione capitale o ne sono venute a conoscenza attraverso i media, è una questione assai più vitale e più spinosa.
In ogni caso l'elemento decisivo nella prevenzione generale non è la sanzione in se stessa, bensì la percezione della sanzione (minaccia). La percezione della sanzione, ovviamente, non è indipendente dal suo tasso effettivo di applicazione: le minacce a vuoto alla fine perdono la loro efficacia. Nella letteratura sull'argomento viene inoltre operata una distinzione tra la certezza e la severità della sanzione: la prevenzione è funzione di entrambi i fattori. La minaccia di un anno di carcere per un ladro si riduce notevolmente se c'è solo una probabilità su venti che il ladro venga catturato e condannato. Se è vero che l'efficacia della sanzione varia a seconda della severità e della certezza, in pratica però è piuttosto difficile valutare l'efficacia della prevenzione.
La seconda categoria di motivazioni è costituita dall'influenza dei gruppi di pari, ossia l'approvazione o la disapprovazione degli altri consociati, in particolare delle persone che hanno contatti diretti col soggetto. Quasi tutti concordano nell'attribuire una notevole efficacia all'influenza dei gruppi di pari, e molto si è discusso sul ruolo delle 'subculture della delinquenza' nel fenomeno della delinquenza giovanile (v. Cloward e Ohlin, 1960); nel complesso però vi sono solo pochi studi isolati sull'argomento, soprattutto per quel che riguarda l'influenza dei gruppi di pari sull'osservanza della legge.
Nella terza categoria di motivazioni entrano in gioco fattori interni o psicologici di coscienza. Gli individui sono inclini a osservare o a disattendere le norme giuridiche, a farne uso o ad abusarne sulla base di principî morali, etici o ideologici che hanno interiorizzato. Anche quando non c'è nessuna pressione da parte del gruppo di pari, né una minaccia concreta da parte dello Stato, molti tendono a osservare le norme - e le osservano effettivamente - semplicemente perché pensano di doverlo fare: non rubano perché pensano che sia sbagliato farlo, non perché hanno paura dell'arresto o della disapprovazione degli altri.
Le motivazioni interiori rilevanti per il rispetto della legge sono molto varie. Una di esse riguarda il concetto di legittimità - uno dei temi più discussi nella sociologia del diritto. Il termine 'legittimità', usato in modi assai differenti dagli studiosi, si riferisce in sostanza alla giustificazione dell'autorità. Weber distingueva tre 'principî ultimi' di legittimazione. L'autorità di un capo tribale o di un sovrano ereditario si fonda sulla tradizione, su "ciò che rientra nella consuetudine ed è sempre stato così, e prescrive obbedienza a una determinata persona". Vi è poi l'autorità derivata dal carisma o "dalla rivelazione o dalla grazia di cui è depositario un saggio, un profeta o un eroe". In terzo luogo vi è la legittimazione "espressa in un sistema di regole razionali prodotte consapevolmente": in questo caso l'obbedienza è rivolta alle norme più che alla persona (v. Weber 1954², p. 336). Questa terza forma di autorità legittima, quella giuridico-razionale, rappresenta il tipo relativamente dominante nell'epoca contemporanea, soprattutto nelle democrazie parlamentari. Il fondamento della legittimazione non è il legislatore, in virtù del carisma o dell'autorità tradizionale, ma sono le leggi stesse e le procedure attraverso le quali vengono prodotte.
I teorici della politica spesso usano il termine 'legittimità' in senso normativo: una istituzione politica o giuridica è legittima se è conforme a un sistema di norme etiche o formali. Sul piano empirico, però, possiamo dire che la legittimità è quell'elemento che attribuisce un fondamento di giustizia ad una norma, ad una istituzione o ad un ordinamento giuridico a prescindere dal loro contenuto o dai loro effetti. In altre parole, se si approva una norma - o un'istituzione o un ordinamento giuridico - perché se ne trae vantaggio o perché la si ritiene utile per la società, tale approvazione non ha niente a che vedere col concetto di legittimità, in quanto si basa sul contenuto o sugli effetti della norma in questione. Se viceversa si ritiene di doverla rispettare perché le leggi devono essere rispettate, se si ritiene valida la decisione di un tribunale allorché questo si è attenuto alle regole di una procedura equa, si tratta in questo caso di un'approvazione fondata sul criterio della legittimità. La legittimità è importante perché si pensa che le istituzioni dipendano dall'obbedienza spontanea, e alle radici di tale obbedienza potrebbe esservi proprio l'idea di legittimità. Si tratta comunque di un'ipotesi, non di un fatto, ed è un'ipotesi che presuppone inoltre una connessione tra atteggiamenti e comportamenti umani senza dubbio plausibile, ma alquanto difficile da provare empiricamente. Sembra altrettanto plausibile immaginare che il fatto di considerare illegittimi il diritto o le leggi abbia delle conseguenze sul comportamento: in questo caso si avrebbe una propensione a violare la legge anziché a obbedirle.
Non è sempre chiaro perché in diversi periodi storici dominino differenti forme di legittimazione. Nel diritto moderno la 'tradizione' non ha più alcun ruolo; procedure eque e imparziali sembrano costituire il modello o l'ideale verso il quale si orientano gli ordinamenti giuridici. La legittimità moderna si basa dunque sull'equità procedurale (v. Luhmann, 1975), sebbene forse solo in senso strumentale. Il fondamento procedurale della legittimità moderna, naturalmente, non è necessariamente neutrale rispetto ai valori. Potrebbe anche trattarsi di un'ideologia che serve a rafforzare il potere delle élites politiche ed economiche (v. Balbus, 1973).
Sebbene il tema della legittimità sia oggetto di una vasta letteratura e di un notevole dibattito (v. Ferrari, 1987, cap. 7), manca però uno studio sulle strutture della legittimazione e sugli atteggiamenti nei confronti di essa. Probabilmente le norme che danno un fondamento di legittimità alle strutture giuridiche non sono di tipo diverso rispetto a quelle che forniscono lo stesso fondamento alle strutture sociali in generale. Se ad esempio i membri di una società credono fermamente nei diritti individuali e nella libertà di scelta, il sistema giuridico rifletterà questi principî, e la popolazione sosterrà e approverà procedure e provvedimenti che sembrano promuovere l'individualismo (v. Friedman, 1990); lo stesso discorso vale per società più 'collettivistiche', come quelle tradizionali e le società senza scrittura.
Per semplicità si può parlare di 'ricompensa e sanzione', 'prevenzione', 'legittimazione' e via dicendo come se si trattasse di fattori semplici, ma in realtà ognuno di essi è un aggregato di fattori. Ad esempio, si afferma che la sanzione abbia un effetto deterrente, ma non si ha modo di stabilire se le ammende siano più o meno efficaci, e di quanto, della frusta o del carcere, né se il carcere sia più efficace per gli uomini o per le donne; lo stesso vale per la ricompensa. L'influenza dei gruppi di pari può essere assai potente e pervasiva, al pari di quella della famiglia o di gruppi informali di amici. In alcune società la famiglia rappresenta tutto, mentre gli amici o i membri del proprio gruppo religioso contano pochissimo; in altre la situazione è radicalmente diversa.
Per queste ragioni, inoltre, è impossibile valutare la forza relativa dei vari fattori; non esiste una risposta univoca, ad esempio, alla questione se la pressione del gruppo di pari sia più forte del timore della sanzione. Inoltre, bisogna vedere di quale sanzione si tratta - se il carcere, la pena di morte, un'ammenda o l'ostracismo sociale; di quale tipo di gruppo di pari - se la famiglia, gli amici o i correligionari. Il coesistere di tutti questi fattori rende difficile - e forse impossibile - elaborare una teoria generale del comportamento dal punto di vista giuridico.
Un'ulteriore difficoltà è introdotta dalla distinzione tra impatto simbolico e impatto strumentale del diritto. Una legge è strumentale se è indirizzata a un comportamento concreto, simbolica se la sua efficacia "non dipende dalla sanzione" (v. Gusfield, 1967). Probabilmente ben poche leggi sono puramente simboliche in questo senso: il legislatore punta quasi sempre sull'efficacia e sull'applicazione delle leggi proposte, e anche se a volte deve accontentarsi di una formulazione simbolica, spera che il simbolo alla fine si concretizzi in un'applicazione effettiva. Probabilmente sarebbe opportuno distinguere tra il valore 'simbolico' di una legge - in quanto dichiarazione di intenti o indicazione di un comportamento ideale, come tale non sanzionabile - e la sua funzione ideologica, ossia il ruolo che questa ricopre nel creare e allo stesso tempo diffondere idee in merito a come le relazioni sociali dovrebbero essere improntate a un ideale di correttezza. In questo senso una legge 'simbolica' mira forse a un impatto lento e a lungo termine attraverso la socializzazione e la propaganda anziché attraverso un'applicazione concreta e immediata.
Naturalmente lo studio sull'impatto della legge non può essere separato dallo studio delle istituzioni giuridiche. L'impatto di una legge non dipende dalle formulazioni verbali, ma principalmente da tre tipi di 'filtri' attraverso i quali, per citare le parole di Robert Kidder (v., 1983, p. 126), "il diritto si sviluppa e si modifica". Questi filtri comprendono coloro che fanno rispettare le leggi (ad esempio i corpi di polizia), coloro che interpretano la legge (avvocati e giudici) e "i modelli di interazione sociale esistenti nella popolazione complessiva, in particolare tra i membri di essa cui sono rivolte direttamente le leggi specifiche".
Max Weber era profondamente interessato alla specificità dei sistemi giuridici dell'Occidente moderno, che egli associava alla razionalità - in particolare alla razionalità formale - senza peraltro postulare una evoluzione inevitabile da sistemi irrazionali a sistemi razionali: in effetti solo l'Occidente aveva raggiunto questo stadio finale. Nonostante ciò la sociologia del diritto di Weber ha un'impronta evoluzionistica chiaramente riconoscibile, e in alcuni passi famosi egli descrive determinate tendenze e i futuri cambiamenti del diritto occidentale. La razionalità formale gli appariva in declino e destinata a essere rimpiazzata da una razionalità sostanziale, espressa da una produzione del diritto finalizzata al servizio di principî etici, politici, economici e sociali piuttosto che a principî strettamente 'giuridici' (v. Weber, 1954², cap. XI).
Le teorie classiche della sociologia giuridica avevano spesso un'impostazione evoluzionistica, a volte più esplicita di quella rilevabile in Weber (v. Röhl, 1987, sezz. 59 e 60). Così Maine descriveva il passaggio "dallo status al contratto" nelle società "progressive", Durkheim individuava una tendenza nel passaggio da un diritto "penale" ad un diritto di carattere "restitutivo", e anche il pensiero giuridico marxista, nel suo complesso, era di stampo evoluzionistico. In tempi più recenti Philippe Nonet e Philip Selznick (v., 1978) hanno descritto un processo evolutivo che va da un diritto "repressivo" a un diritto "autonomo" (grosso modo, da forme di diritto autocratiche a forme liberal-democratiche), ipotizzando inoltre - in parte come previsione, in parte come auspicio - un ulteriore stadio che definiscono "responsivo", in cui si avrebbe un diritto più flessibile e partecipe e maggiormente rispondente agli obiettivi e alle esigenze della società. Questo terzo stadio postulato da Nonet e Selznick ha qualche affinità con la fase della razionalità sostanziale che secondo Weber è destinata a subentrare alla razionalità formale. Basandosi sul lavoro di questi due autori Gunther Teubner ha ravvisato l'emergere di quella che definisce una "forma riflessiva" del diritto (v. Teubner, 1983).
Alla base delle teorie menzionate in precedenza vi è un notevole interesse per le caratteristiche del diritto nell'Occidente moderno e il tentativo di definire l'essenza della modernità. Gran parte degli studi sull'argomento provengono dall'Europa occidentale, ma K. Kulcsár (v., 1987) ha fornito un'analisi assai penetrante sulla situazione ungherese e più in generale dell'Est europeo. Una delle caratteristiche più discusse dei sistemi sociali occidentali (e anche di quelli socialisti) è la cosiddetta 'giuridificazione'. Il termine può essere usato per indicare due processi distinti. In primo luogo si parla di giuridificazione quando determinati ambiti della vita, prima non regolati o immuni dal diritto, diventano soggetti a esso o a una regolamentazione giuridica; in secondo luogo si parla di una giuridificazione di determinati processi allorché questi vengono ad assumere le caratteristiche dei processi tipicamente giuridici.
Il moderno Stato del benessere presenta un elevato grado di 'giuridificazione'. Sull'argomento esiste un'ampia letteratura, in gran parte estremamente critica (v. Voigt, 1980). Con un'espressione pregnante Jürgen Habermas ha definito la giuridificazione come la "colonizzazione del mondo della vita" (v. Habermas, 1986, p. 203), intendendo con ciò che i processi giuridici stanno invadendo sfere della vita e della esperienza umana in cui l'intervento del diritto è inappropriato.
Il problema della giuridificazione ha sia una dimensione empirica che una dimensione teorica. Nel primo caso si tratta in parte di un problema quantitativo, e riguarda quella che molti - seguendo una tesi contestata peraltro da altri studiosi (v. Friedman, 1985²; v. Blankenburg, 1989) - definiscono una 'proliferazione di leggi' o una 'esplosione di liti giudiziarie'. Alcuni affermano che nel mondo moderno - e più specificamente nel moderno Stato del benessere - si assiste a una crisi del diritto determinata da un sovraccarico dei sistemi giuridici, i quali non sono in grado di far fronte all'infinità di compiti di cui sono gravati. Non è chiaro in che modo si possa dimostrare o confutare questa tesi. È vero che i sistemi giuridici moderni sono caratterizzati da un'enorme quantità di regole, regolamenti e norme, ma è vero anche che gli stessi sistemi sociali sono incomparabilmente complessi. La trasformazione tecnologica crea continuamente nuove occasioni per l'emanazione di nuove norme. La cosiddetta 'società dell'automobile', ad esempio, genera un'ampia rete di norme relative al traffico stradale.
È importante, inoltre, non trascurare la tendenza opposta che si manifesta nel diritto moderno, ossia quella ad una 'degiuridificazione'. Ne sono un esempio il divorzio consensuale; la semplificazione e la standardizzazione delle transazioni commerciali, che rendono sempre meno necessario l'intervento di avvocati e tribunali (v. Abel, 1980, p. 35); o, ancora, la depenalizzazione, operata in molti paesi, di certi reati senza vittime (in particolare determinati comportamenti sessuali).Indubbiamente nel diritto moderno la linea di demarcazione tra procedure 'pubbliche' e 'private' è assai incerta. Un dipendente che intenda presentare reclamo contro la società per cui lavora può cercare di ottenere determinate forme di riparazione seguendo certe procedure all'interno della società stessa; ma se queste non lo soddisfano può aver diritto a intraprendere ulteriori azioni legali dinanzi a un tribunale del lavoro. La 'giuridificazione' riguarda in parte questa forma di controllo esterno su questioni 'interne'. Nelle società altamente 'giuridificate', come ad esempio gli Stati Uniti o la Germania, i cittadini sembrano richiedere una qualche possibilità di trasferire le proprie rivendicazioni da un foro privato a un foro pubblico, perlomeno come ultima risorsa.
Buona parte degli studi sociogiuridici sono dedicati all'analisi delle istituzioni. L'attenzione maggiore è stata rivolta ai tribunali e alle azioni giudiziarie, ma esistono degli studi anche sugli organi giurisdizionali non facenti parte della magistratura ordinaria, sull'arbitrato, sulla mediazione e sulle giurie (soprattutto negli Stati Uniti). Come vedremo, anche la professione forense è stata oggetto di numerosi studi.
Gli studi sulle istituzioni si propongono vari obiettivi. La maggior parte di essi focalizza l'attenzione sulle istituzioni stesse - sul modo in cui operano e sul loro impatto sulla società. Altre ricerche, invece, utilizzano le istituzioni - o i fenomeni giuridici in generale - come strumenti o indicatori per analizzare altre caratteristiche della società. Alcuni studiosi, ad esempio, si servono dei dati relativi ai tribunali e alle azioni giudiziarie per studiare il conflitto nella società in generale.
I sociologi del diritto, com'è ovvio, hanno mostrato un interesse particolare nei confronti dei tribunali, ed esistono centinaia di studi su vari aspetti del problema: i ritardi, il grado di efficienza, le procedure e gli esiti, il modo in cui il retroterra culturale dei giudici influenza le loro decisioni, i contrasti tra i giudici e nei tribunali in generale.Un interessante indirizzo è costituito dagli studi di tipo diacronico. Ne è un esempio il notevole lavoro di J.J. Toharía (v., 1974) che prende in esame i tribunali spagnoli dal 1900 al 1970. Analizzando le statistiche relative ai tribunali Toharía ha rilevato che il volume del contenzioso civile e penale ogni 1.000 persone non era al passo con la crescita economica. Esisteva anzi una correlazione inversa tra modernizzazione e controversie giudiziarie: i settori più urbanizzati e avanzati del paese mostravano il minor aumento di contenzioso. Viceversa, i dati statistici sugli atti notarili mostravano l'attesa correlazione tra diritto e crescita economica: nei centri urbani e industriali infatti si evidenziava un sensibile incremento.
Lo studio di Toharía è in sintonia con due temi classici della sociologia del diritto: la (relativa) irrilevanza dei tribunali formali, delle azioni giudiziarie e di altri aspetti 'ufficiali' del diritto che costituiscono tuttavia l'unico materiale preso in esame dagli studiosi tradizionali del diritto, e la stretta connessione tra il sistema giuridico nel suo complesso e la vita economica. Le ricerche di Toharía vennero riprese da altri studiosi - ad esempio da Friedman e Percival negli Stati Uniti (1976) e da Gutierrez in Costa Rica (1979) - e hanno influenzato anche gli studiosi europei. Esse suggeriscono inoltre un'importante generalizzazione per quel che riguarda la modernizzazione e il diritto: le società industriali mature tenderebbero a evitare il ricorso al contenzioso giudiziario, in quanto questo è di ostacolo ad una economia sana, attiva e funzionante.
Negli anni settanta in alcuni paesi si accese un animato dibattito sull'eccesso di azioni legali, considerato dannoso per l'economia e per il tessuto sociale. Tuttavia gli studi condotti in vari paesi, compresi Stati Uniti e Germania, non diedero conferma di tale 'esplosione' delle liti giudiziarie, oppure diedero risultati contrastanti (v. Rottleutner, 1985; v. Blankenburg, 1989). Gli esiti negativi di tali ricerche erano senza dubbio conformi alle tesi di Toharía, e nel complesso indicavano che il rapporto tra lite giudiziaria e sviluppo economico era assai più complesso di quanto si fosse creduto. Lo stesso Toharía ha ripreso in tempi più recenti le ricerche sull'argomento, e ha scoperto che alcune delle tendenze rilevate in precedenza si erano rovesciate. Tra il 1970 e il 1980 le cause civili in Spagna aumentarono vistosamente, e stando alle statistiche di Toharía (v., 1987) lo stesso avvenne in altri paesi europei. I tribunali si erano apparentemente arroccati in una tradizione immobile e relativamente rigida, senza adattarsi in modo adeguato al mutamento sociale o alle esigenze delle parti nelle controversie legate al mondo degli affari, perlomeno in certi paesi. Poteva trattarsi però di una situazione transitoria. Le teorie relative ai tribunali e alle liti giudiziarie dopotutto sono legate a una determinata cultura, e non sono necessariamente valide per tutte le culture o per tutte le epoche, le aree geografiche e le istituzioni.
Senza dubbio negli anni ottanta ci sono stati anche tribunali 'attivisti', che non erano né passivi, né conservatori o formalisti. Il notevole impegno dei tribunali americani in favore dei diritti e delle libertà civili nonché della tutela dei consumatori, e contro le discriminazioni razziali e sessuali non dà affatto l'idea di rigidezza. Anche in altri paesi i tribunali hanno scoperto in se stessi nuove fonti di potere, e a volte hanno ricevuto nuovi poteri. Lo straordinario incremento del controllo giurisdizionale nella Germania occidentale (v. Bryde, 1982) e in altri paesi - anche in Giappone e in Italia - indica che lo 'stile americano' di attivismo giudiziario si sta diffondendo in Occidente (in generale v. Cappelletti, 1989). L'adozione in Canada di una Carta dei diritti rigida, ovvero emendabile solo con una procedura particolare, può essere letta anch'essa in questo senso. Paese dopo paese, i cittadini sono diventati (relativamente) consapevoli e attenti alle questioni relative ai propri diritti, e i tribunali si sono dimostrati un foro più adatto per la rivendicazione dei diritti che non gli organi legislativi o la burocrazia, perlomeno nel caso di determinate situazioni particolarmente delicate.
Una spiegazione esauriente degli ultimi risultati delle ricerche di Toharía richiederebbe tuttavia studi più approfonditi sulle istituzioni, sui tribunali e sulle controversie. Alcuni cominciano già ad apparire, come attesta l'attento studio statistico sulla lite giudiziaria in Francia condotto da Heleen Ietswaart (v., 1989). Si rivela importante inoltre un'attenta indagine antropologica sul comportamento all'interno dei tribunali. La lite assolve parecchie funzioni che cambiano nel tempo, e spesso ha un effetto disgregante: in certe società infatti le azioni legali vengono utilizzate per attaccare i propri nemici. In generale si può affermare che le controversie giudiziarie sono incompatibili con rapporti sociali, stabili e armoniosi. Questo è uno dei temi del classico studio di Macaulay (v., 1963) sul comportamento contrattuale nel Wisconsin. Il declino o la stagnazione della lite giudiziaria nel mondo occidentale del XX secolo conferma l'importanza di rapporti concilianti all'interno della comunità commerciale, ma la tendenza opposta rilevata da Toharía e da altri studiosi, d'altro canto, potrebbe indicare un'atmosfera più instabile e competitiva nel mondo degli affari, come hanno sostenuto recentemente alcuni studiosi (v. Friedman, 1989).
Alcuni studi sulla lite giudiziaria sono incentrati sugli esiti, su chi vince e chi perde la causa. Negli Stati Uniti un notevole saggio di Marc Galanter cerca di spiegare perché i ceti abbienti (le parti in causa più influenti) tendono a vincere le cause in cui sono coinvolti. Galanter analizza una serie di fattori strutturali che agiscono a favore dei ceti abbienti. In particolare, questi sono in genere 'più esperti' in quanto fanno regolarmente ricorso ai tribunali, il che li avvantaggia notevolmente nei confronti degli 'occasionali' - vittime di incidenti, imputati in processi penali, debitori - che sono privi di esperienza e dispongono di scarsi mezzi.
Altri studi hanno esaminato gli esiti processuali dal punto di vista della giustizia sostanziale, per stabilire se i tribunali, nonostante la neutralità professata, tendano a svantaggiare le persone prive di potere (giovani delinquenti, immigrati, lavoratori stranieri, poveri, minoranze razziali, ecc.), oppure se le donne abbiano un trattamento peggiore rispetto agli uomini in un sistema giuridico creato e amministrato da questi ultimi, oppure ancora se e in che modo l'estrazione sociale dei giudici - per la maggioranza di sesso maschile e appartenenti ai ceti più elevati - influenzi le loro decisioni. Le ricerche di questo tipo incontrano sostanziali difficoltà di ordine metodologico, e di conseguenza spesso danno risultati discordi. Senza dubbio i valori e gli atteggiamenti mentali dei giudici influenzano le loro decisioni, rivelando spesso pregiudizi più o meno inconsapevoli nei confronti dei reietti della società; tuttavia non è possibile stabilire un rapporto semplice e diretto tra quei valori e atteggiamenti e l'estrazione sociale, il grado di istruzione e la preparazione dei giudici (v. Röhl, 1987, pp. 355-363).
Nella maggior parte dei casi indubbiamente i giudici si sforzano di arrivare a decisioni eque e imparziali, e considerano se stessi come servitori e araldi della legge. Non sempre questa è un'illusione, né d'altra parte con ciò si nega necessariamente l'esistenza di pregiudizi o il carattere classista degli ordinamenti giuridici moderni. Dopotutto, le norme stesse non esprimono altro che decisioni sociali, e i membri più influenti e più organizzati della società hanno un ruolo decisivo nell'elaborare le norme oltreché nell'applicarle. Di conseguenza le decisioni dei tribunali possono rafforzare la struttura sociale esistente anche se le norme vengono applicate in modo equo e imparziale (v. Balbus, 1973); né potrebbe essere altrimenti. In altri sistemi, ovviamente - nella fattispecie quelli totalitari o con un alto grado di corruzione - può mancare anche l'apparenza dell'equità.
Un altro tema della sociologia del diritto è quello relativo ai conflitti e alle controversie giudiziarie e ai modi in cui questi vengono risolti. Le controversie costituiscono la fonte principale delle cause giudiziarie. Alcuni studiosi hanno cercato di analizzare e classificare i tipi di conflitto e di controversia. In uno studio relativo alla situazione messicana V. Gessner (v., 1976) ha tracciato una distinzione, derivata da Luhmann, tra 'conflitti personali', 'conflitti normativi' e 'conflitti di ruolo'. Una causa di divorzio, che nasce da un'intensa relazione interpersonale, costituisce un esempio del primo tipo di conflitto, mentre le cause commerciali, purché di carattere strettamente giuridico, sono un esempio del secondo tipo. Per quanto riguarda i 'conflitti di ruolo', un esempio potrebbe essere quello dei conflitti tra sindacati e gruppi dirigenti. Secondo Gessner, l'organo più indicato per la risoluzione dei conflitti normativi è costituito dal giudice tradizionalmente inteso, mentre per i conflitti personali da un consulente e per quelli di ruolo da un arbitro.
Lo studioso norvegese Vilhelm Aubert (v., 1963) ha distinto due tipi di conflitti: quelli di interesse e quelli relativi ai valori e alle credenze. I primi nascono da situazioni in cui è presente una scarsità di risorse, allorché due o più persone vantano una pretesa sullo stesso bene, ma non sono in contrasto sui valori. I conflitti di questo tipo, secondo Aubert, offrono buone prospettive per soluzioni di carattere transattivo o di compromesso. I conflitti sui valori e sulle credenze (ad esempio sulla pena di morte e sulla legalizzazione dell'aborto) non si prestano facilmente a soluzioni di tipo transattivo; normalmente per comporre tali tipi di conflitto la società è più propensa ad affidare allo Stato la loro soluzione, con l'adozione di misure di ordine "legale", ossia imposte da un organo giurisdizionale o legislativo.
Sia Aubert che Gessner hanno cercato di correlare i diversi tipi di controversia a determinati modi di risoluzione. Essi partono dal fatto che conflitti e controversie rappresentano meccanismi di carattere sociale che possono sì in ultima istanza finire in tribunale, ma il più delle volte arrivano a una qualche soluzione di natura stragiudiziale. Il Civil litigation project dell'Università del Wisconsin si propone di indagare la natura e la cadenza ciclica delle controversie, analizzando inoltre il rapporto tra queste, le transazioni e le cause giudiziarie (analogamente, la cosiddetta ricerca sulla 'vittimizzazione' cerca di indagare l'incidenza del crimine non basandosi sulle statistiche raccolte dagli organi di polizia ma analizzando l'esperienza diretta della popolazione).
Felstiner, Abel e Sarat (v., 1980-1981), lavorando sui dati del Civil litigation project hanno individuato un processo in tre fasi. La prima, quella della 'denominazione' (naming) si ha quando gli individui si rendono conto di aver subito un torto o un altro danno di tipo giuridico. La seconda fase, quella dell''accusa' (blaming) è la trasformazione del danno in un reclamo, mentre nella terza fase, quella della rivendicazione (claiming), la parte lesa compie il passo ulteriore di perseguire una riparazione dalla persona o dall'organizzazione che ritiene responsabile. Se questa pretesa viene respinta dall'altra parte può trasformarsi in una vertenza e la parte lesa può ricorrere al tribunale o a qualche altra istanza per cercare una risoluzione.
In uno studio ormai classico Stewart Macaulay (v., 1963) ha analizzato il comportamento degli uomini d'affari nel Wisconsin, per stabilire in quali circostanze essi applichino dottrine e istituti del diritto contrattuale. Lo studio rileva una tendenza a evitare le norme più formalistiche e a seguire piuttosto norme proprie della sfera commerciale, una sorta di 'diritto vivente' che si discosta dal codice ufficiale. Le persone che hanno rapporti d'affari stabili e continuativi preferiscono evitare le vertenze e le controversie giudiziarie, che tendono inevitabilmente a compromettere tali rapporti.
I giuristi, com'è ovvio, sono interessati principalmente ai conflitti e alle vertenze che finiscono davanti agli organi giurisdizionali ordinari, mentre tendono ad ignorare i processi di conciliazione e le norme del diritto vivente, che nel complesso hanno un ruolo più importante nella società, trascurando altresì tutti gli altri mezzi di risoluzione dei conflitti eccetto la lite giudiziaria. Nella pratica la maggior parte delle controversie viene risolta per mezzo di soluzioni di ordine stragiudiziale: molte rivendicazioni vengono abbandonate, altre sono sottoposte alla mediazione, alla conciliazione o all'arbitrato. L'arbitrato commerciale e l'arbitrato nell'ambito del lavoro sono particolarmente frequenti. Sebbene il procedimento arbitrale possa essere - e spesso sia - formalistico ed eccessivamente vincolato a norme procedurali, può però costituire una base per la conciliazione, come hanno dimostrato Blegvad e i suoi collaboratori in uno studio sull'arbitrato in Svezia e in Danimarca (v. Blegvad e altri, 1973). Anche le controversie che si spingono tanto avanti da arrivare nelle mani dei legali tendono a essere risolte attraverso lo strumento della trattativa. I processi di transazione non sono stati studiati in modo approfondito, tranne alcune notevoli eccezioni quale l'analisi delle richieste di risarcimento negli incidenti automobilistici, condotta da Ross negli Stati Uniti (v. Ross, 1980²) e da Genn in Inghilterra (v. Genn, 1987).
L'espandersi della sfera della regolamentazione giuridica e lo sviluppo delle "aspettative generali di giustizia" (v. Friedman, 1985²) - soprattutto ma non esclusivamente nel mondo occidentale - sottopongono il sistema giudiziario a pressioni di carattere atipico. I conservatori si preoccupano dello sviluppo delle corti 'attiviste' e della incessante proliferazione di diritti, mentre i liberali richiedono un maggior "accesso alla giustizia" per le categorie meno abbienti che sono tagliate fuori da un sistema giudiziario troppo lento, formalistico e costoso (v. Cappelletti e Garth, 1978). Entrambe queste tendenze contribuiscono a rafforzare la ricerca di 'soluzioni alternative' delle controversie; per quanto le argomentazioni siano spesso formulate in termini strettamente tecnici, i problemi che sottendono sono di ordine politico e sociale (v. Silbey e Sarat, 1989). Dal punto di vista sociologico la giustizia assume molte forme, che stanno tra i due estremi dell'assoluta formalità e dell'altrettanto assoluta informalità. Lo studio delle forme 'locali' di risoluzione delle controversie (v. Galanter, 1981) è uno dei punti focali più antichi e insieme più nuovi degli studi sociogiuridici.
La professione forense non è necessariamente presente in ogni tipo di società: nelle società antiche e in quelle senza scrittura ad esempio la figura dell'avvocato è totalmente assente. La professione forense si sviluppa invece nelle società moderne, soprattutto in quelle capitalistiche, ed è per questo che il rapporto tra questa categoria professionale e la crescita economica è stato uno dei temi classici della sociologia giuridica, perlomeno a partire da Max Weber. L'impatto dell'avvocatura sulla società, i suoi rapporti con le strutture di potere e il suo influsso sullo sviluppo economico sono alcuni dei problemi principali di cui si occupano gli studi in questo campo. Si tratta in ogni caso di temi difficili da trattare, in quanto è arduo isolare, tra centinaia di variabili, il ruolo di questa categoria professionale nello sviluppo o nel declino dell'economia.In generale l'avvocatura è reclutata tra le classi superiori o le élites. In Venezuela, secondo Perez Perdomo (v., 1987, p. 27), i laureati in giurisprudenza "provengono per lo più dalle classi medio-alte, e inoltre hanno pochi contatti con gli altri strati sociali"; peraltro, l'assistenza legale ai meno abbienti gode di scarso prestigio. Osservazioni analoghe si possono fare per l'avvocatura nella maggior parte dei paesi occidentali e del Terzo Mondo. Secondo Huyse, nel 1965 il 65% degli studenti di legge dell'Università di Lovanio in Belgio (presso la quale si laureava circa un terzo degli avvocati del Belgio) proveniva da famiglie di ceto elevato (v. Huyse, 1988, p. 233).
La professione legale è piuttosto complessa, e nella maggior parte dei paesi si presenta molto stratificata. In un importante studio sull'avvocatura di Chicago Heinz e Laumann arrivano alla conclusione che i legali che assistono "importanti società e altre grandi organizzazioni differiscono sistematicamente da quelli che rappresentano piccole imprese o singoli individui" per tutta una serie di caratteristiche, tra le quali il prestigio e lo status sociale (v. Heinz e Laumann, 1982, p. 219). Negli Stati Uniti, a partire dalla fine dell'Ottocento, i legali delle imprese e delle società commerciali hanno creato delle società di avvocati che in anni recenti hanno avuto un rapido incremento sia nel numero che nelle dimensioni. La più grande di esse al 1989 contava circa 1.000 associati. Questa prassi si è sviluppata anche in Inghilterra (dove è prerogativa dei solicitors), e società di avvocati di una certa dimensione sono sorte anche in altri paesi europei, come il Belgio e l'Italia. Gli studi su questo fenomeno sono appena agli inizi (v. Nelson, 1988), e non si può ancora prevedere quale impatto avrà l'incremento delle società di legali su una professione che si fa vanto della propria indipendenza. Molti avvocati, ovviamente, lavorano come dipendenti di società commerciali o nella pubblica amministrazione. Nell'Unione Sovietica non esisteva in senso tecnico una 'pratica privata', dato che tutti i legali lavoravano per lo Stato.
La 'femminizzazione' della professione rappresenta un altro sviluppo recente degno di nota. Sino alla fine dell'Ottocento praticamente non esistevano donne avvocato o giudice. Negli Stati Uniti le donne cominciarono ad essere ammesse alla professione negli anni settanta, in Belgio negli anni ottanta e in Olanda nel 1903. Da allora il numero delle donne nella avvocatura è rapidamente aumentato in tutti i paesi, anche se esse continuano a rappresentare una minoranza. Nella Germania Occidentale, ad esempio, alla metà degli anni ottanta solo il 15% degli avvocati era di sesso femminile, anche se questa percentuale rappresentava già un notevole incremento rispetto a quelle degli anni passati. Attualmente le donne costituiscono circa il 50% degli studenti di giurisprudenza (v. Raiser, 1987, p. 155). In Olanda nel 1969 il 21% degli studenti di legge era di sesso femminile, nel 1980 tale percentuale saliva al 41% (v. Schuyt, 1988, p. 206).
Per quanto riguarda le eventuali ripercussioni a lungo termine di questa 'femminizzazione' sulla pratica della professione, alcuni studiosi ritengono che non vi saranno cambiamenti sostanziali e che le donne si limiteranno a lavorare accanto ai colleghi di sesso maschile assimilandone i metodi e la mentalità. Altri sostengono invece che esse porteranno una nota particolare, infondendo nella pratica professionale un ethos meno formalistico e più centrato sulla persona. Tuttavia mancano ancora i dati che possano confermare l'una o l'altra di queste tesi (v. Menkel-Meadow, 1989).
La maggior parte degli studi sulla professione forense sono limitati a un solo paese. Esiste una letteratura particolarmente ricca sugli Stati Uniti, ma studi importanti sono stati condotti anche in Gran Bretagna, nella Germania Occidentale e in Australia. Sta nascendo inoltre una sociologia comparata della professione legale (v. Abel e Lewis, 1988). In teoria, senza dubbio, la sociologia della professione, come la sociologia del diritto in generale, richiede un quadro di riferimento comparativo o transculturale, e tuttavia gli studi comparati in questo campo incontrano serie difficoltà. Un primo problema riguarda le figure stesse da includere nella categoria degli avvocati: l'avvocatura giapponese ad esempio è molto ristretta, ma accanto ai pochi bengoshi (patrocinatori autorizzati) esistono altri gruppi professionali - notai, consulenti fiscali, esperti in materia di brevetti - la cui attività in altri paesi è equiparata a quella degli avvocati. Inoltre, nelle società e nella pubblica amministrazione lavorano molti laureati in giurisprudenza che però non sono membri effettivi dei vari ordini forensi e quindi non sono abilitati all'esercizio della professione legale (v. Miller, 1989). Un confronto esauriente tra l'avvocatura in Giappone e negli altri paesi dovrebbe quindi tener conto di queste circostanze. Un approccio più proficuo, comunque, potrebbe consistere nel comparare le professioni legali non in base al modo in cui sono etichettate, bensì in base alle funzioni sociali che esse assolvono, individuando i gruppi che esplicano tali funzioni nelle diverse società.In alcuni paesi gli avvocati occupano posizioni chiave negli organi legislativi o nell'amministrazione pubblica, in altri paesi ciò si verifica in misura assai minore. Basandosi su una serie di dati statistici relativi alla fine degli anni cinquanta e all'inizio degli anni sessanta, Pedersen (v., 1972) ha dimostrato che gli avvocati rappresentavano il 56% dei membri della Camera dei rappresentanti negli Stati Uniti, il 27% dell'Assemblea Nazionale turca, il 10% del Parlamento finlandese e solo il 2% della Camera Bassa svedese. Non è chiaro, tuttavia, in che modo l'avvocatura rispetto ad altre professioni influenzi l'attività legislativa. Un problema analogo, relativo all'influenza sociale dell'avvocatura, si può porre per la Germania Federale, dove si ha una preponderanza di avvocati nella pubblica amministrazione.
In alcuni paesi l'avvocatura rappresenta una categoria professionale assai vasta in rapporto alla popolazione complessiva, mentre in altri paesi si tratta di una categoria ristretta: l'avvocatura americana, forte di circa 700.000 membri, è la più consistente del mondo in termini assoluti, e anche in rapporto alla popolazione è assai più ampia di quella giapponese, pur tenendo conto dei problemi di ordine comparativo menzionati in precedenza. Questi dati possono darci delle indicazioni sulla natura della società giapponese raffrontata a quella americana o a quella di altri paesi occidentali. Alcuni studiosi hanno messo in rapporto il miracolo economico giapponese con l'esiguo numero di avvocati: in questa prospettiva la professione legale sarebbe sostanzialmente parassitaria, in quanto non produrrebbe nulla che possa essere definito 'valore aggiunto'; le sue attività rappresenterebbero una perdita sociale netta, e di conseguenza un numero ridotto di legali sarebbe un vantaggio per il paese.
Una tesi del genere tuttavia è piuttosto difficile da provare. La situazione giapponese può essere spiegata in termini di cultura e di coscienza giuridiche (v. Miyazawa, 1987) e in termini strutturali. Secondo la spiegazione incentrata sulla cultura giuridica, lo stile di vita giapponese scoraggia il ricorso alla legge e agli avvocati, mentre la spiegazione strutturale mette in primo piano le concrete barriere istituzionali che rendono arduo il ricorso ai procedimenti legali. In ultima istanza, naturalmente, la struttura non è che il residuo a lungo termine della cultura: un'analisi equilibrata del ricorso o del mancato ricorso all'assistenza legale nel sistema giuridico giapponese assegnerebbe probabilmente eguale importanza a entrambi i fattori.
Negli Stati Uniti, come in molti paesi europei, i legali hanno un ruolo assai più importante nella vita politica ed economica di quanto non avvenga in Giappone, ma ciò non significa che essi determinino in senso causale la configurazione della vita sociale: si tratta piuttosto di strumenti di determinate forze primariamente o più profondamente radicate nella cultura. Se è vero che le società occidentali sono altamente 'giuridificate', tuttavia questo fenomeno non può essere imputato allo sviluppo della professione forense: le sue radici sono più profonde e la proliferazione di legali potrebbe essere più un effetto che una causa.
In ogni caso il ruolo sociale dell'avvocatura non va sottovalutato, poiché ogni gruppo professionale numericamente forte e dotato di influenza ha una rilevanza sociale. Gli avvocati, inoltre, non accettano passivamente le richieste e le intenzioni del cliente, ma le traducono e le trasformano in linguaggio, in concetti e in forme giuridici, modificando con ciò la natura della richiesta stessa. L'analisi di queste 'trasformazioni' dovrà costituire uno dei prossimi obiettivi della ricerca nel campo degli studi sociogiuridici.
Rispetto agli studi sulle istituzioni giuridiche o sulla professione forense, quelli espressamente dedicati all'analisi della cultura giuridica sono relativamente scarsi, sebbene molte ricerche tocchino implicitamente questo tema. Gli studi sulla cultura giuridica rivestono una particolare importanza sul piano teorico. Il problema della legittimità è un problema attinente alla cultura giuridica, che ha un ruolo decisivo nel funzionamento del meccanismo del diritto. La 'cultura giuridica' è stata definita in modi assai diversi; in questa sede designeremo con questa espressione l'insieme di opinioni, idee e convinzioni che orientano il comportamento dei membri di una società nei confronti del loro sistema giuridico. Si tratta quindi del fattore dinamico in un sistema giuridico, a differenza della struttura e della sostanza che sono elementi statici o che possono comunque essere definiti in termini statici.
La cultura giuridica può essere studiata sia dal punto di vista esterno che da quello interno. Per quel che riguarda il secondo aspetto si possono citare ricerche quali quella di Heldrich e Schmidtchen (v., 1982), che esamina le condizioni sociali e le opinioni dei giovani studenti di giurisprudenza. Per quanto concerne invece il primo aspetto, citeremo ad esempio gli studi delle cognizioni e delle opinioni relative al diritto sviluppatesi, tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta, in vari paesi tra cui la Polonia, l'Olanda e la Scandinavia (v. Podgorecki e altri, 1973). Uno degli obiettivi di questi studi era quello di esaminare la consapevolezza del diritto, tema che era stato oggetto di indagine anche in Giappone (v. Miyazawa, 1987). Si tratta di un concetto assai complesso, che Adam Podgorecki, per fare un esempio, ha cercato di scomporre in vari elementi. Alcuni di tali elementi sono di tipo cognitivo e riguardano l'effettiva conoscenza delle norme da parte degli individui. Vi sono poi elementi di tipo normativo, relativi alla qualificazione delle leggi come 'buone' o 'cattive'. Podgorecki (v., 1977) ha elaborato anche un programma di ricerca incentrato sulla consapevolezza del diritto. Anche il senso di giustizia è stato considerato un elemento della cultura giuridica e come tale è oggetto di alcuni studi. Tuttavia, come osserva R. Lautmann (v. 1985), il 'senso di giustizia' varia a seconda dell'estrazione sociale, del sesso o delle situazioni; nel caso di un incidente automobilistico, ad esempio, la percezione dei diritti e dei doveri cambia a seconda del ruolo che ci si trova ad assumere: di vittima, di responsabile o di semplice spettatore del fatto.In generale la maggior parte delle persone non possiede informazioni specifiche e dettagliate in materia di diritto, soprattutto nelle moderne società complesse. Gli individui hanno un certo grado di consapevolezza dei diritti e doveri fondamentali: sanno, ad esempio, che l'omicidio è illegale, anche se ignorano le sottili distinzioni nella definizione di tale crimine. Inoltre i sistemi giuridici moderni hanno migliaia di regole tecniche relative alle imposte, alla regolamentazione nel campo commerciale e via dicendo. Esistono dei mediatori di informazione che ricevono, immagazzinano, elaborano e trasmettono l'informazione su queste regole: tra questi mediatori figurano anche i legali. Lo Stato regolatore non potrebbe fare a meno di questi mediatori di informazione, sicché, paradossalmente, anche se certi legali senza scrupoli aiutano a evadere il fisco o a eludere le leggi, la maggior parte di essi inevitabilmente fornisce un contributo inconsapevole all'operatività dell'apparato normativo.
La cultura giuridica di un gruppo o di una comunità naturalmente è solo un aggregato di atteggiamenti e convinzioni individuali. Non esistono due persone che condividano lo stesso insieme di atteggiamenti e di valori, e tuttavia è possibile generalizzare e parlare della cultura giuridica di un paese o di un determinato sottogruppo della popolazione (donne, minoranze etniche, minatori, anziani, ecc.). Nelle società moderne, inoltre, spesso coesistono diverse culture e gruppi etnici, e ciò può determinare un pluralismo giuridico, ossia una varietà di culture e di sistemi giuridici entro una singola comunità politica.Il pluralismo assume varie forme; può essere utile distinguere tra un pluralismo orizzontale e uno verticale. Un ordinamento giuridico è pluralistico in senso orizzontale quando le diverse culture e organizzazioni giuridiche sono dotate di eguale legittimità e potere: ne è un esempio il diritto di famiglia nell'Impero ottomano o nell'Israele contemporaneo, dove ogni comunità religiosa dispone di propri tribunali e segue le proprie norme. Si ha invece un pluralismo verticale quando due o più 'sistemi' sono ordinati gerarchicamente. Ciò si verifica spesso nei paesi colonizzati, come la Nigeria o il Ghana prima dell'indipendenza, ma anche nelle federazioni e in misura crescente nella Comunità Europea.
È possibile inoltre distinguere pluralismo culturale, politico e socioeconomico, ciascuno dei quali è caratterizzato da una dimensione sia verticale che orizzontale (v. Friedman, 1975, p. 196). Il pluralismo culturale dei paesi coloniali è di tipo verticale, mentre quello dell'Impero ottomano era di tipo orizzontale. Le federazioni quali gli Stati Uniti, l'Australia o la Svizzera sono politicamente pluralistiche. Gli Stati membri o le singole province dell'Australia o del Canada, ad esempio, sono egualmente sovrani l'uno rispetto all'altro, e di conseguenza si ha in questo caso un pluralismo verticale rispetto al governo centrale. Anche il pluralismo socioeconomico, infine, può essere sia orizzontale che verticale, sebbene in genere prevalga quest'ultimo. In molti sistemi giuridici, in particolare quelli premoderni, lo status del singolo all'interno della struttura sociale determinava quali norme applicare: esistevano leggi distinte per i contadini, per i nobili, per i mercanti e per le varie categorie di artigiani. Anche nelle società moderne permangono tracce evidenti di quello che potremmo definire 'pluralismo delle due nazioni', ossia di diritti distinti per i ricchi e per i poveri. La legge ufficiale è diretta più o meno ai ceti abbienti e ne regola il comportamento; la legge dei poveri è invece prevalentemente informale, non ufficiale e sovente piuttosto ostile.
Lo studio del pluralismo giuridico richiede indagini comparate sulla cultura giuridica. Questa branca della sociologia del diritto differisce dal diritto comparato tradizionale allo stesso modo in cui gli studi su diritto e società differiscono dalla dogmatica giuridica tradizionale. Al pari del diritto comparato tradizionale, la cultura giuridica comparata individua affinità e differenze tra i vari sistemi giuridici, basandosi però su quei fattori 'esterni' al sistema che determinano le differenze e le affinità, e sul piano concreto anziché su quello teorico. Così, per lo studioso di cultura giuridica comparata la Francia e Haiti non condividono uno stesso sistema, nonostante le affinità di forme esteriori. L'obiettivo di tali studi comparati può essere quello di individuare i modelli delle liti giudiziarie che dominano nelle varie società, dimostrando ad esempio in che modo tali modelli corrispondano alle differenze nella cultura giuridica interna o esterna. Anche in questo caso, comunque, le difficoltà sono enormi: se è già assai arduo studiare una singola cultura giuridica, passando allo studio comparato i problemi si moltiplicano, anche perché i dati statistici sono scarsi e possono essere interpretati in vari modi. Non sono mancati, comunque, notevoli tentativi in questa direzione. In un certo senso, il magistrale lavoro weberiano sulla sociologia del diritto costituisce sia una sorta di studio ad ampio raggio sulle culture giuridiche, che abbraccia numerose epoche e aree geografiche, sia uno studio di sociologia delle istituzioni giuridiche, dal momento che Weber si occupò sempre del pensiero giuridico e (in certa misura) del suo rapporto con gli atteggiamenti e la mentalità dominanti nella società in cui esso si sviluppa. Abel e Lewis (v., 1988) sono autori, come abbiamo già accennato, di importanti studi comparati sulla professione forense nei diversi paesi. John Merryman e i suoi colleghi hanno analizzato gli indicatori giuridici e gli indicatori della cultura giuridica in un gruppo di paesi dell'America Latina e dell'Europa (v. Merryman e altri, 1979). Esistono inoltre importanti studi comparati su due o più culture giuridiche, ad esempio quello di Cohen-Tanugi (v., 1985) sulla Francia e gli Stati Uniti. In breve, un piccolo gruppo di studiosi (che comunque si va ampliando) si è dedicato a questo settore difficile ma importante degli studi sociogiuridici.
Per certi versi gli studi sociogiuridici hanno fatto notevoli passi avanti. Quasi del tutto trascurata sino agli anni cinquanta - fatta eccezione per pochi grandi precursori - la sociologia del diritto può contare oggi su qualche migliaio di studiosi in tutto il mondo.
Naturalmente resta ancora molto da fare in questo settore. Nelle facoltà di giurisprudenza di quasi tutti i paesi continuano a dominare i metodi tradizionali di insegnamento e di ricerca; non è stata ancora elaborata una sintesi efficace del lavoro svolto sinora, e la macroteoria tende a un livello di astrazione che è di scarso aiuto ai ricercatori. Molti critici, incluse alcune femministe, sostengono che gli studi compiuti sinora sono inficiati da pregiudizi di fondo; altri ne condannano il 'gretto empirismo' e l'eccessiva fiducia nei dati quantitativi.
Nonostante ciò, al livello della ricerca a medio raggio è stato fatto un notevole lavoro. Alcuni studi hanno dato un contributo alla formulazione delle scelte politiche, altri hanno fatto luce su aspetti interessanti del comportamento umano e della cultura. In ogni caso, non può che essere un fatto in sé positivo cercare di dissipare la fitta ignoranza che circonda il funzionamento del sistema giuridico. Nella maggior parte dei paesi occidentali la professione forense è in rapida espansione; in tutti i paesi il corpus del diritto e delle leggi ha assunto proporzioni gigantesche, e questa massa di realtà giuridica non sembra destinata a diminuire. Il diritto in quanto fenomeno sociale resta al centro della vita moderna, ed è troppo importante per essere lasciato al linguaggio e alle consuetudini dei giuristi: gli studi su diritto e società hanno un ruolo importante da svolgere come voce indipendente e al di fuori del sistema. (V. anche Diritto; Sociologia).
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di Laura Nader
1. Introduzione
Gli studi di antropologia giuridica sono stati condotti facendo riferimento a contesti storici e transculturali, e hanno contribuito allo sviluppo di teorie evoluzionistiche, correlazionali ed etnografiche del controllo sociale e culturale. Tra i pensatori europei del XVIII secolo era diffusa la convinzione che il diritto fosse un fenomeno universale. Gli antropologi del XIX secolo, che per primi indagarono le differenze tra il diritto occidentale e quello delle altre civiltà, si muovevano in una dimensione prevalentemente speculativa.Nel 1861 sir Henry Maine esaminò una serie di testimonianze relative all'India e all'Europa, giungendo alla conclusione che la trasformazione dei rapporti giuridici (dalla posizione giuridica del singolo al contratto) era il risultato di un passaggio da società basate sui legami parentali a società organizzate su base territoriale. Autori successivi sostennero che, a seconda dei modi di sussistenza dominanti, le società umane possono essere ordinate in base a una successione progressiva di sistemi giuridici, che si evolvono gradualmente dall'autotutela a sanzioni di natura penale o risarcitoria. Hobhouse (v., 1915), mise in relazione i livelli di sviluppo economico con i vari tipi di diritto. Émile Durkheim (v., 1893) dal canto suo riteneva che i vari modelli sanzionatori fossero connessi al diverso grado di integrazione sociale, per cui la forte componente repressiva presente nei sistemi giuridici delle società primitive lascia il posto a un diritto di natura restitutiva presente nelle società civilizzate.
A partire dal 1926 Bronislaw Malinowski segnò una rottura con i vecchi metodi speculativi utilizzando l'osservazione etnografica sul campo per scalzare i miti ampiamente diffusi sul diritto e sull'ordine sociale nelle società senza scrittura. Egli richiamò inoltre l'attenzione sull'importante connessione tra controllo sociale e relazioni sociali, un'idea che prefigurò la ricerca antropologica successiva interessata al problema di come società prive di un'autorità centralizzata, di codici e di polizia riescano a stabilire l'ordine sociale. Radcliffe-Brown (v., 1934), contemporaneo di Malinowski, adottò un approccio più giurisprudenziale, rifacendosi alla definizione formulata da Roscoe Pound, secondo la quale il diritto costituisce una forma di "controllo sociale che si esplica attraverso l'applicazione sistematica della forza da parte di una società politicamente organizzata". Dando una definizione del diritto quale sistema organizzato di sanzioni giuridiche, Radcliffe-Brown giungeva alla conclusione che nelle società aventi una struttura più elementare non si rinviene alcuna forma di diritto.La questione se il diritto esista in tutte le società divenne da quel momento oggetto di accesi dibattiti. Se il diritto viene definito in termini di autorità politicamente organizzata, in linea con Radcliffe-Brown e i suoi seguaci, allora si può affermare che esso non è presente in tutte le società. Se invece si identifica il diritto con "la maggior parte dei sistemi di controllo sociale", in linea con Malinowski, allora si può affermare che in tutte le società è presente una qualche forma di diritto, e quest'ultimo diventa più o meno sinonimo di controllo sociale.
Il problema del significato e dell'estensione del concetto di diritto era dibattuto da tempo anche in altre discipline. Nella teoria politica, ad esempio, una tradizione identifica le leggi di una società con le regole di condotta minime riconosciute dai suoi membri, mentre secondo la tradizione opposta le leggi sono rappresentate da tutta quella serie di ordini formali emanati dall'autorità che governa una società.
Gli antropologi hanno dato un contributo alla comprensione del diritto in quanto hanno ampliato le nostre conoscenze sulla diversificazione delle società umane. Attualmente nessuno fra la maggior parte degli antropologi del diritto dà una definizione ristretta di quest'ultimo, sebbene è possibile che alcuni di essi ravvisino caratteristiche universali del diritto (v. Pospisil, 1958); né essi cercano di imporre arbitrariamente ai loro dati osservativi distinzioni quali quelle esistenti tra i concetti di reato, illecito civile, delitto, peccato e immoralità. In linea con la tesi della relatività che contraddistingue le categorie giuridiche occidentali, ben pochi antropologi trovano utile la distinzione tra diritto pubblico e privato. Il problema se la teoria del diritto occidentale sia anch'essa un'espressione 'etnica' o un sistema analitico è tuttora oggetto di dibattito, mentre sono stati abbandonati i tentativi di fornire una definizione universale e onnicomprensiva del diritto. Gli antropologi tendono sempre più a riportare dati osservativi senza cercare di classificarli nei termini del pensiero giuridico occidentale; a fini analitici, vengono adottate piuttosto le categorie usate dalle popolazioni studiate, o le categorie analitiche delle scienze sociali.
2. La scoperta della diversità culturale
Nella prima metà del XIX secolo le ricerche sul campo degli etnografi hanno segnato notevoli progressi nella comprensione dei sistemi giuridici di società particolari. Sebbene l'interesse per queste ultime costituisse in parte una reazione alle grandi speculazioni del XIX secolo, anche questa tendenza a studiare le singole società come se si trattasse di singole unità isolate non mancò di suscitare reazioni. Solo in seguito, con il restringersi del nostro universo osservativo e con il progressivo diffondersi delle concezioni giuridiche occidentali nelle colonie e nelle ex colonie, gli antropologi sono passati dallo studio di società particolari all'analisi di modelli dinamici più ampi, che sono il risultato di una serie di mutamenti strutturali osservati già nell'Ottocento da studiosi quali Maine e Durkheim.
Analizzando le diversità etnografiche gli antropologi del diritto hanno spesso descritto le società studiate in base alle procedure giuridiche dominanti. Nelle relazioni di questi antropologi veniva dato risalto a termini che sintetizzavano al massimo le procedure presenti in quelle società. Così, ad esempio, tra gli indiani Yurok della California vennero individuati dei 'mediatori' che avevano il compito di negoziare tra le parti (v. Kroeber, 1925); tra gli Ifugao della regione settentrionale dell'isola Luzon degli 'intermediari' dirimevano dietro compenso le controversie tra le famiglie (v. Barton, 1919). Gli Eschimesi ricorrevano a 'duelli canori' al cospetto di una giuria per risolvere le liti più gravi (v. Hoebel, 1954); forme violente di 'autotutela' caratterizzavano i modelli delle controversie propri degli aborigeni australiani (v. Radcliffe-Brown, 1934); la 'ragionevolezza', infine, costituiva un importante principio per i giudici africani (v. Gluckman, 1955).
Sebbene queste procedure riflettessero categorie culturali specifiche, gli antropologi descrivevano gli aspetti sostanziali del diritto servendosi delle categorie giuridiche occidentali. Radcliffe-Brown si oppose alla confusione derivante dal tentativo di applicare alle società senza scrittura la distinzione moderna tra diritto penale e diritto civile. Seguendo un'altra linea di pensiero, l'opera di Malinowski, incentrata sul problema del perché gli uomini obbediscono alle leggi, diede un contributo importante allo sviluppo di una prospettiva integrativa.Con il perfezionarsi della ricerca etnografica, la descrizione non fu più incentrata sul contrasto con i concetti giuridici occidentali, ma si propose piuttosto di comprendere i sistemi indigeni di controllo sociale nel loro contesto specifico (v. Bohannan, 1957), ossia di comprendere il processo giuridico quale forma di controllo sociale e culturale, interno o esterno rispetto alle popolazioni studiate.
3. Diversità etnografica e comparazione
I primi etnografi classificavano le diverse società in base a varie dimensioni: economica, relazionale, procedurale e politica. Così sul piano economico si distinguevano società di cacciatori e raccoglitori, di nomadi, di orticultori, di agricoltori e società industriali. Dal punto di vista dei rapporti sociali si operava una distinzione tra relazioni semplici e multiple, continuative e transitorie. Nella sfera procedurale le distinzioni si basavano sull'intervento o meno di terzi (laddove la trattativa tra le parti veniva contrapposta alla mediazione, all'arbitrato e alla decisione degli organi giudiziari), mentre i comportamenti unilaterali di solito non venivano presi in considerazione o classificati come forme di autotutela. Per quanto riguarda la sfera politica, le società prive di Stato venivano contrapposte a quelle statuali, dotate di un'autorità centrale. Queste varie dimensioni erano utilizzate negli studi comparativi, ma con l'ampliarsi delle conoscenze etnografiche la comparazione tra unità isolate divenne sempre più problematica.
La correlazione tra i vari modi di produzione e l'organizzazione dei meccanismi di controllo sociale diede luogo a generalizzazioni assai ampie: le società di cacciatori e raccoglitori non elaborerebbero meccanismi decisionali di tipo giudiziario, ricorrendo piuttosto, come rimedio per la risoluzione delle controversie, ai vari mezzi concessi dall'ordinamento per liberarsi dalle obbligazioni o all'autotutela; le società più semplici dal punto di vista economico non svilupperebbero una gerarchia di organi giurisdizionali, mentre alcune forme di risoluzione delle vertenze, quali la mediazione, la trattativa o l'autotutela sarebbero universalmente diffuse e ricorrerebbero sia nelle società economicamente più semplici che in quelle più complesse. A prescindere dal grado di complessità economica, comunque, in tutte le società esisterebbero regole cui gli individui devono conformarsi.Con l'accrescersi delle conoscenze etnografiche le precedenti generalizzazioni che correlavano i sistemi economici con i meccanismi di controllo sociale vennero messe in crisi dalle diversità riscontrate nelle procedure di risoluzione delle controversie tra società caratterizzate da modi di sussistenza affini. Alcuni gruppi di cacciatori e raccoglitori, ad esempio, come i Kung San del deserto del Kalahari risolvono le liti in modo relativamente pacifico, mentre altri, come gli Eschimesi, sembrano rispondere alla violenza con la violenza. Certi gruppi di agricoltori come i musulmani sciiti del Libano meridionale non prevedono il ricorso a terzi per risolvere le controversie che coinvolgono tutto il villaggio, mentre altri, come gli Zapotechi del Messico, hanno sviluppato un sistema di tribunali (v. Nader, 1965). Certe diversità nelle procedure di risoluzione delle controversie sono state riscontrate in alcune società agricole - ad esempio tra i Jalé della Nuova Guinea, che arrivano rapidamente allo scontro armato, e gli Zapotechi del Messico, che organizzano invece transazioni pacifiche. Il lavoro per altri versi notevole di E. A. Hoebel (v., 1954), che associava il grado di complessità sociale ai diversi modi di sussistenza, si è rivelato inadeguato per spiegare queste differenze. I risultati della comparazione transculturale riducono l'importanza della variabile economica.
Alcuni studi sul rapporto tra il diritto e determinate forme politiche africane sono risultati più utili per spiegare le variazioni, e hanno contribuito a confutare la tesi secondo la quale l'ordine sociale è legato esclusivamente alla presenza di organi politici centralizzati come tribunali, polizia, ecc. Poiché l'ordine sociale caratterizza tanto le società dotate di un'organizzazione statale quanto quelle che ne sono prive, gli antropologi hanno esaminato il modo in cui le società acefale e prive di un'organizzazione statale risolvono i casi di violazione delle norme senza l'ausilio di organi di governo quali i tribunali o la polizia. Si è scoperta così un'ampia gamma di meccanismi di controllo del comportamento che costituiscono gli equivalenti funzionali degli organi preposti all'applicazione della legge nelle società statuali, e spesso coincidono con la strutturazione di base di una società nel suo complesso (v. tra gli altri Kroeber, 1917; v. Colson, 1953). Lo studio delle caratteristiche operative dei meccanismi di controllo sociale non può più limitarsi alle istituzioni giuridiche stricto sensu.
La crescente specializzazione e il restringersi del campo d'indagine hanno portato gli antropologi a studiare i sistemi di risoluzione delle controversie anziché i sistemi di controllo sociale, il modo in cui la violazione della norma viene trattata ex post anziché i meccanismi che inducono all'osservanza della norma. Mentre Malinowski (v., 1926) aveva volutamente definito un quadro concettuale ad ampio raggio per studiare il diritto nella società, Llewellyn e Hoebel focalizzarono l'attenzione sugli organi pubblici demandati alla risoluzione delle controversie. Sebbene il metodo casistico fosse già prefigurato in altri autori, fu grazie allo studio di Llewellyn e Hoebel (v., 1941) sui Cheyenne che esso divenne per molti anni l'approccio privilegiato dagli antropologi del diritto. Da allora l'unità d'analisi divenne il caso giudiziario, perlopiù i casi decisi attraverso organi giurisdizionali pubblici. Le teorie antropologiche divennero più statiche, correlazionali e meno interessate al cambiamento, sebbene spesso nelle società studiate fosse in atto un rapido processo di trasformazione a seguito del colonialismo politico, religioso ed economico.
Max Gluckman (v., 1955) cercò di sviluppare una teoria relazionale del processo decisionale ampliando nozioni preesistenti. Servendosi del metodo casistico, egli formulò la tesi generale secondo la quale se si riesce a stabilire la natura dei rapporti sociali tra le parti in lite è possibile prevedere le procedure che verranno adottate nel processo decisionale. La teoria secondo la quale il tipo di relazione intercorrente fra le parti in lite condiziona il processo di risoluzione della controversia viene di solito formulata nei seguenti termini: rapporti complessi che coinvolgono molteplici interessi richiedono certi tipi di risoluzione, come ad esempio la transazione, che non pregiudicano la continuazione del rapporto; al contrario, le parti in lite fra cui intercorre un rapporto meno complesso ricorreranno invece a soluzioni di natura arbitrale o giudiziaria, in cui una delle parti vincerà a scapito dell'altra. Questa teoria trova il suo fondamento nella necessità di scongiurare la rottura di relazioni sociali importanti e durature. Senza dubbio l'elemento decisivo è dato più dalla necessità o dalla volontà di mantenere rapporti di tipo duraturo che non dalla natura dei legami multipli o incrociati. L'interesse prevalente di Gluckman per il processo decisionale giurisdizionale derivava dai risultati delle sue ricerche sulle tribù africane Lozi, in cui esisteva una giurisdizione pubblica, il tribunale. Altri autori, che hanno studiato società in cui non esistevano organi giurisdizionali, hanno analizzato processi decisionali di altro tipo, pur continuando a servirsi del paradigma della controversia.
Il fatto che gli studi antropologici del diritto si siano incentrati sulla casistica giudiziaria non significa che il campo d'indagine della disciplina resti circoscritto al processo decisionale o alla dinamica dei piccoli gruppi; l'impiego del metodo casistico ampliato ha portato gli studiosi ad occuparsi anche dell'organizzazione del controllo e dell'ordine sociali. Lo studio di Elizabeth Colson (v., 1953) sui Tonga del bacino dello Zambesi mette in luce il modo in cui vincoli di lealtà incrociati contribuiscono a stabilire l'ordine sociale, fenomeno già osservato da A. L. Kroeber (v., 1917) nel suo studio sugli Zuñi. In molte società l'esistenza di legami di lealtà confliggenti, oltre che di legami basati sul reciproco scambio, induce le parti in lite a porre fine alle loro controversie. La Colson descrive il modo in cui questi processi di controllo si collegano a considerazioni di ordine strutturale, mettendo in luce l'importanza delle strategie di cui le parti si servono per manipolare la struttura. Il suo studio non si incentra tanto sul diritto quanto su altri processi di controllo sociale, e più che gli attori del processo decisionale la Colson considera l'intero sistema di controllo entro il quale attori o fruitori agiscono in ruoli di importanza primaria, secondaria o terziaria. La rete di legami incrociati che caratterizza l'organizzazione sociale dei Tonga influenza il loro modo di risolvere le controversie assai più della loro struttura politica acefala.Il metodo casistico ampliato ha avuto un'importanza centrale nella ricerca etnografica degli anni sessanta sul diritto e sul controllo sociale, e ha contribuito a mettere in luce l'azione di differenti meccanismi all'interno di una stessa società. Accanto alla trattativa, alla mediazione, all'arbitrato e alla decisione giudiziaria gli studi sul campo hanno attribuito un ruolo altrettanto importante ai legami di lealtà confliggenti, allo scontro diretto, al senso del pudore e del ridicolo. Lo studio delle strategie inoltre mette in luce le varie alternative a disposizione delle parti. Gli studi etnografici incentrati sui modelli procedurali dominanti nella risoluzione delle controversie lasciarono il posto a un modello più elastico e contestuale che teneva conto di varie possibilità d'azione nell'ambito del processo. In seguito la nozione di potere fu collegata a quella di strategia e al ruolo del giudice.
L'interesse di P. H. Gulliver (v., 1979) per la negoziazione nacque dalle sue ricerche su una serie di società africane in cui gli organi giudiziari erano poco sviluppati e la negoziazione costituiva il principale strumento per la risoluzione delle controversie. Gulliver ha dimostrato che i modelli comportamentali presenti nella negoziazione sono essenzialmente simili nonostante le spiccate differenze tra i sistemi di idee, valori, regole, interessi e premesse dei negoziatori all'interno delle diverse società. Gulliver si propone di spiegare cosa accade e perché nella dinamica interna della negoziazione. Egli ha osservato che quest'ultima ricorre in tutti i tipi di controversia, qualunque sia il rapporto intercorrente tra le parti in lite, giungendo alla conclusione che si tratta di processi interattivi indipendenti dai condizionamenti culturali (un'idea assai allettante per i responsabili delle scelte programmatiche in materia giuridica).
4. L'etnografia giuridica
Gran parte dei primi etnografi del diritto appartenevano alla scuola dell'antropologia struttural-funzionalista, e molti di essi studiavano le comunità indigene come se fossero immuni dall'influenza del colonialismo o dalla costituzione di Stati nazionali. Le opere teoriche di Colson (v., 1953), Barth (v., 1966), Bailey (v., 1958) e Turner (v., 1957) contribuirono a infondere elementi dinamici in un modello parzialmente statico. Ma ancor prima che si verificasse questo passaggio l'etnografia giuridica si era proposta di ampliare la visuale della disciplina, prendendo in considerazione fenomeni in grado di mettere in luce il carattere non completamente autonomo del diritto. Questo approccio voleva essere una critica nei confronti di quegli studiosi che analizzavano il sistema giuridico come se fosse un'istituzione indipendente e isolata da altre istituzioni sociali, e costituiva altresì un invito ad integrare il metodo etnografico con la storiografia e la comparazione.
Si riconobbe la validità dell'osservazione di Malinowski, secondo la quale studiare esclusivamente la religione, o la tecnologia o l'organizzazione sociale significa ritagliare un campo d'indagine artificiale, pregiudicando l'indagine scientifica. Lo studio etnografico del diritto non è semplicemente uno studio delle istituzioni giuridiche, e i sistemi giuridici costituiscono solo una parte di sistemi più ampi. L'etnografia è una scienza del contesto; il diritto non può essere isolato da altri sistemi sociali e culturali di controllo che adempiono numerose funzioni: comporre le controversie, stabilire la pace sociale, ottenere la conformità alle norme. I valori vengono verificati, trasformati e consolidati nel diritto, ma i valori stessi possono essere sia 'giuridici' che di altro tipo, ad esempio religiosi. Il diritto può riflettere le strutture sociali più ampie, assolvendo la funzione di conservare l'ineguaglianza nella distribuzione del potere o della ricchezza materiale, oppure può essere utilizzato per ottenere una distribuzione più equa. Le controversie giudiziarie possono costituire uno strumento di controllo sociale, oppure possono essere un gioco che unisce le unità sociali in un'attività comune. In altre parole, lo studio antropologico del diritto non conosce limiti preconcetti, e mette anzi in discussione le idee o i concetti precostituiti relativi al diritto.
Il metodo utilizzato dall'etnografia giuridica è stato applicato allo studio delle controversie giudiziarie (v. Nader e Todd, 1978). Questo tipo di indagine non si è limitato all'analisi delle procedure ufficiali a disposizione delle parti presenti nel giudizio, ma si è piuttosto caratterizzato per strategie scelte o sviluppate dalle parti in cerca di una riparazione alle offese subite, sia nei tribunali che in seno alle famiglie. Secondo la formulazione di Black, "Il diritto varia in misura inversamente proporzionale rispetto ad altre forme di controllo sociale". L'interesse si è focalizzato sui principali protagonisti del diritto, ossia sui suoi fruitori, e l'interazione tra questi ultimi e il potere che essi esercitano l'uno sull'altro diventa un elemento chiave per comprendere il modo in cui i fruitori creano e trasformano il diritto. La teoria che pone al centro il fruitore del diritto (v. Nader, 1990) parte dal presupposto che sia il fruitore stesso - e in particolare l'attore in giudizio e non un'entità astratta come gli organi giurisdizionali o le decisioni giudiziarie - la forza motrice del diritto inteso quale strumento comportamentale. È pertanto possibile prevedere l'orientamento che assumerà un dato sistema giuridico dalla direzione verso cui si muovono determinati modelli di utilizzazione del diritto.
L'intento degli etnografi del diritto era quello di descrivere e spiegare i modelli procedurali delle varie società, senza prendere in considerazione esclusivamente i procedimenti più caratteristici o più accessibili, che danno un'immagine semplificata e schematica delle società studiate. In ogni società esiste un uso consolidato di vari modelli procedurali, che possono essere di tipo penale, restitutivo, terapeutico o conciliativo. Ora si parte dal presupposto che il diritto non sia costante ma variabile. Le controversie tra amici o congiunti possono essere trattate in un determinato modo, quelle tra estranei in un altro, quelle tra persone dotate di un diverso grado di potere in un altro ancora. In alcuni villaggi del Medio Oriente i modelli di controllo sociale cambiano a seconda dello status e del rango sociale delle parti in causa. Tra i Jalé della Nuova Guinea la distanza sociale che separa le parti consente di stabilire quali forme assumerà l'autotutela, in una gamma che va dal conflitto diadico alla guerra (v. Koch, 1974). Determinate procedure di risoluzione delle controversie sono state spiegate sulla base della cultura da cui traggono origine e dei loro rapporti con quelle più ampie forze sociali che determinano il numero di scelte disponibili. Sviluppando l'idea di Gluckman (v., 1955), secondo la quale la natura dei rapporti sociali tra gli individui condiziona il loro modo di risoluzione delle controversie, è stata messa in discussione la tesi secondo la quale le persone che hanno relazioni più complesse ricorrerebbero in misura minore alla definizione giudiziaria delle controversie. Nelle controversie che hanno ad oggetto risorse scarse è probabile che gli individui considerino queste ultime più importanti delle relazioni sociali, e potrebbero essere disposti a sacrificare i rapporti sociali con la parte avversaria pur di ottenere il bene oggetto della controversia (v. Starr e Yngvesson, 1975). Le parti in causa hanno quindi un ruolo attivo nel determinare la procedura di risoluzione della controversia, poiché l'oggetto della lite determina le strategie scelte, spesso a prescindere dal tipo di rapporto esistente tra le parti. Le decisioni che non lasciano spazio a soluzioni di tipo transattivo in genere hanno per oggetto beni immobili e altre importanti forme di proprietà, nonché il prestigio e l'accesso al potere e all'influenza all'interno della comunità - tutte risorse scarse o considerate tali.Il ruolo del giudice diventa fondamentale per unificare i punti di vista di tutte le parti coinvolte in un caso giudiziario. I fruitori, che sono gli attori della controversia, vengono pertanto a costituire un'unità di studio interessante, perché al processo decisionale affidato a terzi viene ad aggiungersi il concetto di strategia. Gli elementi interattivi presenti nelle controversie ampliano il quadro all'interno del quale potere e procedura, in quanto variabili decisive, diventano indispensabili. In un modello di questo tipo il fruitore può anche essere destituito di ogni potere.
5. Centralità del concetto di potere
Dare rilievo agli elementi interattivi nei procedimenti di risoluzione delle controversie significa riconoscere un ruolo centrale alla nozione di potere, soprattutto dacché l'attenzione degli antropologi si è spostata verso situazioni nazionali e internazionali nelle quali la distanza fisica e sociale tra le parti è maggiore. Qui il metodo casistico si rivela insufficiente. Le controversie coinvolgono sempre più persone tra loro estranee o dotate di un grado di potere ineguale, e proprio l'ineguaglianza spesso limita il ricorso all'azione legale. Le procedure di risoluzione delle controversie nelle società industriali differiscono organizzativamente e strutturalmente dai modi in cui problemi analoghi sono risolti nelle società di dimensioni ridotte, in cui dominano i rapporti personali diretti. L'esistenza di un diritto statuale, la crescente industrializzazione e la separazione della produzione dal consumo influenzano il modo in cui vengono risolte le controversie non meno del passaggio dalle società nomadi a quelle basate sull'agricoltura. Il diritto delle società complesse, caratterizzate dalla mancanza di rapporti interpersonali e da una ineguale distribuzione del potere, non è adatto come strumento di risoluzione delle controversie nelle società di dimensioni ridotte, dove le differenze di potere sono minori e dominano i rapporti interpersonali diretti.
Lo studio etnografico del diritto considera tutta una serie di variabili: la reciprocità, le strutture sociali interconnesse, le strutture duali e antagonistiche, la politica e l'economia in rapporto alla scarsità dei beni e al grado di dipendenza da unità di produzione e di consumo al di là del controllo di società di dimensioni ridotte. L'inclusione di queste variabili spesso fa recedere il diritto in secondo piano, in quanto nelle società in cui gli individui hanno legami politici e sociali comuni si ha piuttosto un controllo sociale generalizzato. In contesti di questo tipo la maldicenza e l'opinione pubblica hanno un effetto deterrente sul comportamento sociale dannoso ed assumono un ruolo importante nel dirimere le controversie.
Tuttavia, quanto più l'attenzione si focalizza sulle società in cui domina il diritto o il controllo sociale governativo, là dove esistono Stati nazionali pienamente sviluppati, tanto più la ricerca antropologica tende a privilegiare il diritto rispetto ad altri sistemi di controllo sociale. Di conseguenza gli studi etnografici tradizionali su società particolari non costituiscono più un modello valido, sebbene l'approccio etnografico possa essere applicato con successo a una interpretazione dinamica del diritto nelle società complesse.
Gli antropologi che lavorano nel contesto degli Stati nazionali contemporanei hanno cercato contesti funzionalmente equivalenti come la trattativa (v. Gulliver, 1979) per procedere a un'analisi comparativa o transculturale. Altri hanno cercato delle differenze tra le società tradizionali e quelle moderne che potessero risultare rilevanti per una teoria evoluzionistica (v. Collier, 1973; v. Moore, 1986). Altri ancora hanno posto a confronto le procedure per la risoluzione di vertenze economiche proprie delle società di massa con quelle delle comunità di dimensioni ridotte, tradizionale oggetto di studio degli antropologi (v. Nader, 1980). Il tentativo di comprendere le trasformazioni dei rapporti giuridici nel corso del tempo e in concomitanza con lo sviluppo dei moderni Stati di diritto è più vicino all'etnografia storica, e prende le mosse dalla constatazione che con l'affermarsi dello Stato nazionale il ruolo dell'attore in giudizio si atrofizza progressivamente. Altri studiosi hanno combinato approcci di diverso tipo per comprendere i cambiamenti culturali che hanno dato forma alle idee relative al diritto e alle controversie giudiziarie (v. Greenhouse, 1986).
Lo studio dell'influenza esercitata dal potere statale sui sistemi giuridici indigeni è abbastanza recente. Nel periodo coloniale il diritto fu il risultato del conflitto di interessi tra colonizzatori e colonizzati e dell'attività missionaria. In Africa, ad esempio, la colonizzazione diede luogo a un 'diritto consuetudinario' che in seguito fu studiato dagli antropologi come una creazione indigena, relativamente immune dalle influenze della società occidentale (v. Chanock, 1985). Il rapporto tra il diritto e le strutture sociali non ha preso forma solo dalle caratteristiche storiche, sociali e culturali delle diverse società, bensì anche dall'intervento straniero. Un'attenzione particolare è stata rivolta alla proprietà statale e al controllo della proprietà da parte dello Stato, al trasferimento di tecnologie, agli effetti delle politiche demografiche e delle politiche di regolamentazione delle risorse naturali: lo studio di tutti questi fenomeni richiede l'analisi di fattori esterni oltreché interni. Alcuni paesi del Medio Oriente, ad esempio, hanno ereditato dal periodo coloniale sistemi giuridici modellati sostanzialmente su quelli europei. Dal diritto coloniale si è sviluppato un modello di intervento straniero nelle procedure giuridiche come strumento di amministrazione politica. Alcuni studiosi hanno messo in evidenza il ruolo del diritto nazionale nel rafforzare la continuità tra i regimi coloniali e le nuove nazioni - una continuità in termini di incremento del potere statale. Il potere accentratore dello Stato attraverso il diritto si riscontra in paesi con strutture sociali differenti quali il Marocco, la Tunisia e lo Zambia. Il diritto nazionale elimina progressivamente tutto ciò che viene percepito come una minaccia al consolidamento dello Stato: ad esempio il controllo locale delle risorse idriche, le alleanze tra famiglie o la proprietà comune della terra.Sia la documentazione storica che l'osservazione degli sviluppi contemporanei sono utili per un esame critico del diritto come fattore di cambiamento. Nelle oasi tunisine precoloniali il potere e il prestigio si basavano sulla proprietà dell'acqua, non della terra (v. Attia, 1985). La proprietà e la distribuzione delle risorse idriche, la gestione e la manutenzione dell'intricata rete di canali e fossi di drenaggio del sistema di irrigazione richiedevano una organizzazione sociale disciplinata. Le transazioni e il lavoro relativi ai sistemi di irrigazione erano regolati dal diritto consuetudinario ed erano gestiti da una struttura sociale gerarchica e castale di famiglie dominanti e di servi legati a queste ultime da un rapporto quasi feudale. Con l'accrescersi del potere statale mutò anche la concezione dell'acqua come proprietà privata. Il governo coloniale francese assunse il controllo della gestione delle risorse idriche, dando inizio con ciò alla dissoluzione della società dell'oasi e alla scomparsa della proprietà privata dell'acqua. Una volta acquistata l'indipendenza, lo Stato tunisino abolì definitivamente la proprietà privata e i diritti d'uso delle risorse idriche, che divennero proprietà dello Stato. Il controllo statale segnò l'affermarsi del governo centralizzato sui gruppi di potere locali. I tribunali costituirono uno degli strumenti principali dell'abolizione dei diritti tradizionali di proprietà e di gestione dell'acqua. Il trasferimento delle ricchezze idriche a determinati gruppi sociali fu legato allo sviluppo di strutture di produzione capitalistiche. Lo studio del rapporto tra potere statale e diritto mette in luce come quest'ultimo non sia neutrale, ma sia spesso politicamente attivo, creato da determinati gruppi di potere e in funzione dei loro interessi (v. Barnes, 1961).
6. Sistemi globali e diritto locale
Con il perfezionarsi dell'etnografia vennero acquisite nuove dimensioni analitiche, ma si privilegiò l'analisi delle singole società relegando ai margini l'approccio comparativo e lo studio del diffondersi delle idee e delle istituzioni. La comparazione divenne uno strumento d'analisi per le variazioni interne, mentre il confronto transculturale venne ritenuto carico di difficoltà metodologiche.
Gli studi etnografici del diritto incentrati sulle società particolari non hanno utilizzato spesso il metodo diacronico. Llewellyn e Hoebel (v., 1941) hanno analizzato una casistica che copriva circa settant'anni della storia dei Cheyenne, ma l'hanno appiattita in una dimensione etnografica contemporanea ignorando i fattori di trasformazione esterni. Negli anni ottanta gli etnografi hanno elaborato modelli di diritto etnostorici che entro il quadro generale delle strutture di potere combinano storiografia ed etnografia. Una ulteriore dimensione introspettiva e l'influsso della teoria dei sistemi-mondo hanno portato ad esaminare l'azione delle forze esterne, delle macrostrutture, sulle microstrutture tradizionali. Gli antropologi hanno notevolmente sottovalutato il ruolo delle tradizioni politiche e religiose occidentali nella strutturazione degli aspetti di controllo sociale del diritto.
Gli studiosi sono condizionati dai sistemi concettuali della propria cultura, e negli studi giuridici l'interpretazione dei dati dipende dalle varie impostazioni disciplinari. I contatti tra le entità politiche locali subordinate e quelle dominanti non hanno indotto subito gli antropologi a collocare i propri studi nel contesto dell''esportazione' di sistemi globali europei - di tipo economico, religioso o giuridico - e a far riferimento al ruolo da essi svolto nell'elaborazione del diritto locale. Tuttavia alcuni studi recenti di storia del diritto (v. Chanock, 1985), al pari di ricerche etnografiche di impostazione storica o di studi etnografici che utilizzano sia la storiografia che la comparazione (v. Nader, 1990) hanno contribuito a far luce sul processo di formazione del diritto locale.
Il dibattito teorico sui vari modelli di diritto non è mai scevro da giudizi di valore, in quanto subisce il condizionamento di modelli culturalmente costruiti e privilegiati. I ricercatori attualmente riconoscono e analizzano le componenti ideologiche delle procedure di risoluzione delle controversie. Le ambiguità che circondano lo studio delle componenti culturali del diritto indicano che gli studi sui modelli di tipo conflittuale o di tipo conciliativo sono caratterizzati da un pregiudizio culturale, ossia da una preferenza per i modelli conciliativi. È probabile che gli antropologi abbiano attribuito un'eccessiva importanza alla tesi secondo la quale le parti in lite tra le quali intercorre un largo numero di relazioni sono più inclini a soluzioni di tipo transattivo.
Un passaggio da modelli giuridici conciliativi a modelli conflittuali e viceversa è stato documentato dagli storici in molte società. Nella Castiglia del XVI secolo il compromesso costituiva il mezzo ideale e privilegiato di risolvere le controversie. Nella Nuova Guinea probabilmente era vero il contrario, e negli Stati Uniti si è passati da modelli conciliativi a modelli conflittuali per poi tornare a quelli del primo tipo.
In diversi contesti emerge il duplice impatto delle missioni cristiane e dei tribunali coloniali, e la conseguente onnipresenza dei modelli giuridici conciliativi, improntati a un'ideologia basata sull'unità, sul consenso, sulla cooperazione, sulla sottomissione, sulla passività e sulla docilità. Martin Chanock (v., 1985) si serve dell'espressione "giustizia missionaria" per richiamare l'attenzione sul fatto che a partire dai primi anni dell'Ottocento i missionari in Africa intervenivano in modo massiccio nella risoluzione delle controversie, combinando la legge biblica e le procedure anglosassoni così come le conoscevano. La transazione nel 'diritto consuetudinario' africano divenne la politica dell'accomodamento e della sopravvivenza.Le documentazioni relative all'area del Pacifico indicano un processo analogo. Prima della pacificazione coloniale nella Nuova Guinea le dispute erano tollerate e persino apprezzate. Epstein (v., 1974) ha osservato che i rapporti amichevoli costituiscono un valore sociale cui le diverse società attribuiscono una diversa importanza. Studi più recenti mettono in evidenza il rituale e la retorica del processo evangelico in rapporto ai procedimenti di risoluzione delle controversie, e lo sradicamento degli strumenti tradizionali di armonia sociale al fine di sostituirli con l'armonia cristiana.I valori giuridici imposti dall'esterno non sempre restano in contrasto con quelli locali. Da alcuni studi sull'attività dei tribunali degli Zapotechi del Messico è emerso che il modello giuridico di questa popolazione è di tipo conciliativo. In questo caso le strutture culturali e i sistemi-mondo interagiscono in modo tale da dar luogo a modelli giuridici basati sulla conciliazione e a strutture equilibrate - fattori che ricorrono là dove si è avuto l'influsso congiunto del colonialismo e del cristianesimo. Ciò che all'inizio poteva presentarsi come componente di un sistema egemonico di controllo europeo si è trasformato in un sistema anti-egemonico atto a consolidare l'integrazione sociale a livello locale e a costituire un sistema di difesa giuridico in grado di proteggere la popolazione locale dal controllo costante dall'alto.
7. Conclusione
Lo studio del diritto come processo di controllo sociale si è sviluppato di pari passo con il crescente impiego del diritto come forma di controllo. Se è vero che il diritto è stato usato come strumento di potere e di mobilitazione, e per esercitare il controllo sulle risorse umane e naturali, tuttavia gli antropologi devono ancora studiare le funzioni del diritto non immediatamente legate al controllo sociale. Nei procedimenti giuridici esistono dimensioni che vanno al di là della politica di potere e di controllo, che gettano luce sulla definizione dei rapporti sociali, che offrono intrattenimento e spettacolo, che creano nuovi diritti, nuove soluzioni e nuove istituzioni, e che definiscono la cultura come patrimonio. (V. anche Antropologia ed etnologia; Diritto).
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