Abstract
Il diritto internazionale dell’economia è un “sotto-settore” del diritto internazionale pubblico, composto dalle norme che disciplinano le relazioni tra Stati in campo economico, con normative disparate nei vari settori, quali cambi e valute, scambi di merci e di servizi, movimenti di capitali e investimenti, proprietà intellettuale. Principi ispiratori comuni, che riflettono i fondamenti dell’economia di mercato, sono la non discriminazione, l’apertura dei mercati e la riduzione negoziata degli ostacoli tariffari e non tariffari, la convertibilità delle valute, l’armonizzazione degli standard.
A livello sistematico sono discussi i confini della materia. Essa copre gli impegni multilaterali in materia: Fondo Monetario Internazionale (FMI/IMF), Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC/WTO), nel settore monetario, dei cambi, del commercio di beni e servizi. Essa prende in esame anche l’operare di tali organismi e i meccanismi di soluzione delle controversie nell’ambito OMC/WTO. Vi si ricomprende anche il diritto internazionale degli investimenti, regolato prevalentemente tramite trattati bilaterali, comprendenti regole largamente uniformi per il trattamento dei rispettivi investitori. Ne fanno parte pure gli strumenti concordati tra Stati o nelle organizzazioni intergovernative per disciplinare, solitamente con efficacia non precettiva (soft law), la sorveglianza dei mercati finanziari e l’attività delle imprese multinazionali. Quanto ai rapporti “transnazionali” tra privati (imprese), che non sono soggetti dell’ordinamento internazionale, l’eterogeneità delle fonti, dei soggetti e dell’oggetto dei loro rapporti sconsiglia di includerli nella materia ma di inquadrarli nel diritto del commercio internazionale.
La esistenza di norme internazionali volte a disciplinare specificamente aspetti delle relazioni economiche tra territori e collettività soggetti alla sovranità di Stati diversi è coeva al sorgere stesso del diritto internazionale, inteso come sistema di norme regolatrici dei rapporti tra Stati sovrani, soggetti originari del relativo ordinamento, reciprocamente indipendenti nell’organizzazione della vita interna delle proprie collettività anche per quanto riguarda le attività economiche (per una prospettiva storica, v. Giuliano, M, La cooperazione degli Stati e il commercio internazionale, Milano, 1978).
Fenomeno recente è invece il formarsi di un complesso di norme di fonte pattizia, per lo più tramite convenzioni multilaterali, imponente per mole e importanza, volto a disciplinare, organicamente anche se in prevalenza settorialmente, i movimenti internazionali dei fattori di produzione (soprattutto beni e capitali), delle merci e dei servizi, la cui rilevanza nel mondo contemporaneo non richiede essere sottolineata.
In precedenza e fino alla fine della seconda guerra mondiale un complesso di norme di questo tipo non esisteva. Le norme generali in materia rappresentavano l’applicazione agli scambi economici di regole o principi più generali (sovranità, libertà dei mari) mentre le norme pattizie erano essenzialmente bilaterali. Il principio di non intervento nell’economia, affidata invece al libero gioco delle forze del mercato, cui si ispiravano le società borghesi dell’800 e gli stati liberali che ne erano l’espressione, oltre ad improntare il contenuto di tali norme, ne spiegava anche il carattere parziale. Gli Stati, come portatori dei rispettivi ordinamenti, miravano soprattutto a stabilire regole volte a facilitare gli scambi e le iniziative imprenditoriali dei loro operatori privati. Si trattava –come in parte si tratta tuttora – di rimuovere gli ostacoli ai traffici derivanti dall’esercizio non coordinato delle rispettive sovranità in materia di commercio e in genere di movimenti con l’estero, garantendo la libertà di commercio per i propri operatori su base di reciprocità e senza discriminazioni, senza alcuna pretesa di voler organizzare gli scambi in tutti i loro aspetti tanto meno su base multilaterale.
Strumento caratteristico di questi trattati è la clausola della nazione più favorita attraverso la quale si “multilateralizza” per ciascun contraente l’impegno formalmente solo bilaterale a tutela dell’estensione ai contraenti di futuri vantaggi da essi accordati a terzi Stati (v. Frigo, M., La reciprocità nell’evoluzione del diritto internazionale, in Comunicazioni e Studi, XIX-XX, Milano 1992, 409 ss.; Dordi, C., La discriminazione commerciale nel diritto internazionale, Milano, 2002).
Fu la crisi del sistema liberistico e del gold standard con la prima guerra mondiale, la mancata attenzione ai problemi di organizzazione economica della Società delle Nazioni, il propagarsi della crisi economica interna alla scena internazionale e il ricorso anarchico a misure statali protezionistiche restrittive degli scambi internazionali tra le due guerre (innalzamento dei dazi, restrizioni quantitative, svalutazioni competitive, autarchia) che posero l’esigenza di ricostruire il secondo dopo-guerra sulla base di un’organizzazione giuridica anche degli aspetti principali degli scambi e dell’economia internazionale.
Le norme in materia della Carta delle Nazioni Unite sono scarse perché gli Alleati, soprattutto gli Stati Uniti, perseguirono una netta divisione tra le funzioni politiche e di sicurezza di questo organismo e le “istituzioni specializzate” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, Bretton Woods 1944), costituite per regolare la reciproca cooperazione in distinti settori della attività economica internazionale, cui se ne aggiunsero altre nel corso dei decenni successivi: il GATT 1947 e l’International Trade Organization - Carta dell’Avana, peraltro mai entrata in vigore nel 1948; l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 1995. Le relative normative hanno dato vita ad un complesso di regole settorialmente specializzate, basate su comuni principi ed ormai condivise dall’intera comunità internazionale, che riflettono obiettivi condivisi di politica economica. Si veda in tale senso il preambolo del GATT (1947) per il riferimento all’innalzamento del livello di vita, il pieno impiego, la crescita dei redditi reali e della domanda, il pieno utilizzo delle risorse mondiali, la crescita della produzione e degli scambi. Si aggiungono, nell’Accordo istitutivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) del 1994, l’obbiettivo dello sviluppo durevole (sostenibile), la salvaguardia dell’ambiente e il riconoscimento delle esigenze dovute al diverso grado di sviluppo dei paesi membri.
Si è così affermato il diritto internazionale dell’economia come un “nuovo” settore del diritto internazionale pubblico dotato di un’autonomia e caratteri propri, tali da giustificare senz’altro uno studio sistematico (è questa l’impostazione dei più autorevoli manuali in materia, v. Carreau, D.-Julliard, P., Droit International économique, IV ed., Paris, 1998; Lowenfeld, A., International Economic Law, II ed., Oxford, 2008; Qureshi, A.-Ziegler, A., International Economic Law, III ed., London, 2011; e già Picone, P.-Sacerdoti, G., Diritto internazionale dell’economia, II ed., Milano, 1986).
Lo studio organico del diritto internazionale dell’economia richiede una risposta positiva a tre questioni preliminari: quella della specificità della disciplina; il suo carattere normativo in relazione all’eterogeneità dei modelli seguiti dagli Stati nella gestione delle loro economie; l’inclusione o meno nella materia dei rapporti economici-commerciali e finanziari “transazionali” tra privati. La specificità della disciplina si evidenzia in molteplici direzioni: quanto ai principi informatori delle norme, ai modi di formazione delle medesime, ai rapporti tra queste e il diritto interno, ai metodi di soluzione di contrasti e di controversie ed un ruolo infine delle organizzazioni specializzate nell’attuazione delle regole stesse.
Un aspetto tipico e anche problematico della disciplina è l’assenza di carattere vincolante di molte regole, vuoi a causa della natura della fonte (ad es. risoluzioni di organizzazioni o di conferenze internazionali), vuoi per l’imprecisione del contenuto. Non si tratta peraltro di un ostacolo a priori, essendo possibile e doveroso distinguere, sia sul piano delle fonti che su quello dei contenuti, gli enunciati politici, dalle norme programmatiche ed infine dalle prescrizioni vincolanti, individuando la soglia tra enunciazioni de jure condendo (destinate però spesso a diventare diritto positivo), norme vigenti e norme invece in via di superamento, in base ad un giudizio di effettività.
L’interesse della materia è anzi accresciuto dalla circostanza che l’ampliarsi delle valutazioni giuridiche internazionali all’area dell’economia avviene tramite metodi e strumenti (risoluzione di organizzazioni e di conferenze ad hoc, dichiarazioni, creazione di procedure intergovernative come conferenze o “vertici” permanenti, privi di personalità propria) diversi da quelli formali tradizionali e tipici (il trattato fonte di diritti e obblighi). Tale attività si esplica nella formulazione di principi e criteri di azione individuale e collettiva per gli Stati anche non partecipanti, programmatici più che precettivi, destinati ad essere perseguiti o anche recepiti con ampia discrezionalità, più come criterio orientativo della politica degli Stati, che come regola di condotta obbligatoria. Questa impostazione è peraltro tipica dell’evoluzione del diritto internazionale contemporaneo in molti altri settori per conciliare le esigenze di cooperazione con la salvaguardia della sovranità statale.
Sotto il secondo profilo appaiono superati i dubbi sulla possibilità di sistematizzare un diritto internazionale dell’economia, a causa della diversità dell’assetto economico-sociale degli Stati.
Queste discussioni avevano una ragione d’essere quando le economie di mercato dei paesi occidentali si contrapponevano a quelle dirigistiche di gran parte dei paesi in via di sviluppo e a quelle pianificate dei paesi dell’Est. La divergenza degli assetti economici interni rendeva difficile la condivisione di modelli accettati per gli scambi e la cooperazione economica internazionale e limitava la partecipazione al Fondo monetario e al GATT agli Stati occidentali ad economia di mercato.
Tali dicotomie sono ormai largamente superate con la “vittoria” del modello neo-liberistico dopo il 1989 nei rapporti Est-Ovest e col tramonto del Nuovo Ordine Economico Internazionale dirigistico e “ONU centrico” propugnato tra il 1970 e il 1990 dai paesi in via di sviluppo. Categoria quest’ultima frantumatasi con l’emergere tra di loro di paesi a più rapida crescita (a partire dalla Cina e poi dei c.d. BRICS, con l’aggiunta cioè di Brasile, India e Sud-Africa) e dall’altro lato dei “paesi meno sviluppati”, tuttora bisognosi di assistenza considerata doverosa (v. Sacerdoti, G., Nascita, affermazione e scomparsa del Nuovo ordine economico internazionale, in Ligustro, A.–Sacerdoti, G., Problemi e tendenze del diritto internazionale dell’economia, Liber Amicorum in onore di Paolo Picone, Napoli, 2011, 127 ss.; Martinez, F., L’aiuto allo sviluppo e il commercio internazionale, Napoli, 2012).
L’unitarietà del diritto internazionale dell’economia trova inoltre fondamento nella globalità dei fenomeni economici sottostanti, al di là di ogni diversità di organizzazione politico-economica e giuridica dei singoli mercati (sulla globalizzazione dal punto di vista economico e istituzionale, v. Targetti, F.-Fracasso, A., Le sfide della globalizzazione. Storia, politiche e istituzioni, Milano, 2008; Guerrieri, A.-Lorizio, M.–Novi, C., L'ascesa delle economie emergenti: profili economici e giuridici, Milano, 2010, e ivi Ligustro, A., L'impatto dei Paesi emergenti sulla governance dell'economia mondiale, 235 ss.).
La svolta del 1989 ha peraltro accentuato l’influenza dei centri di potere dell’economia mondiale, soprattutto degli Stati Uniti nel proporre, se non addirittura nell’imporre modelli di governance economica interna liberisti tramite la consulenza (“assistenza tecnica”) e il finanziamento a debito delle economie periferiche tramite le organizzazioni finanziarie internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. La tecnicità delle normative pone il problema della legittimità democratica delle regole e la “accountability” delle istituzioni che le emanano e governano. Così dicasi della politica economica definita come “Washington Consensus” che ha prevalso alla fine del XX secolo: disciplina di bilancio e fiscale, riduzione delle politiche sociali, privatizzazioni, de-regolamentazione dell’economia, apertura alla concorrenza internazionale (v. Comba, A., a cura di, Neo liberismo internazionale e «Global Economic Governance». Sviluppi internazionali e nuovi strumenti, Torino, 2008)
Allo stesso tempo il diritto internazionale dell’economia nei suoi principi riflette e riconosce la diversità dei sistemi politico-economici dei singoli Stati e dei loro modelli ideologico-sociali, nonché i diversi modi di partecipazione di ciascuno alle relazioni economiche internazionali sulla base del principio di sovranità, così come sancito sin dal 1970 dalla Risoluzione 2625-XXV sulle Relazioni Amichevoli dell’Assemblea Generale ONU.
In alcuni settori non vi è peraltro sufficiente comunanza di vedute per l’elaborazione di norme accettate a livello mondiale, ad esempio in materia ambientale quanto ai limiti che ne possano derivare all’applicazione delle regole dell’OMC, oppure quanto alla necessità di affidare nuove competenze dirette alle organizzazioni internazionali (così in tema di gestione delle crisi economiche e finanziarie). L’istituzione di “vertici” tra le maggiori potenze politiche ed economiche, come il G-7 e il G-8 e più di recente il G-20, sono le risposte, fuori dall’ONU sul piano intergovernativo ma in forme “istituzionalizzate”, adottate per coagulare orientamenti e politiche condivise sui maggiori temi, che i partecipanti si impegnano a seguire e far adottare dalle organizzazioni economiche competenti.
Un terzo profilo riguarda la delimitazione della materia, se includervi anche i rapporti internazionali economici tra privati e le norme che li disciplinano. La questione è non solo terminologica, ma investe la stessa rappresentazione ideologica, oltre che giuridica, dell’organizzazione delle relazioni economiche mondiali contemporanee.
È certo che nell’attuale contesto gli Stati mirano soprattutto a stabilire, tramite gli strumenti del diritto internazionale pubblico, il quadro in cui si esplicano le relazioni commerciali e finanziarie tra operatori privati. Sono questi ultimi i soggetti che muovono i fattori della produzione e le merci, siano essi produttori (come le società multinazionali che producono in paesi diversi), acquirenti, venditori, oppure ancora banche che operano sui mercati internazionali dei capitali, società di trasporto, assicurazioni o altri intermediari e fornitori di servizi; e infine gli investitori sia diretti che finanziari all’estero e sui mercati internazionali dei capitali. Ciò indipendentemente dalla nazionalità, dalla veste giuridica (persone fisiche, società per azioni, enti pubblici, Fondi sovrani, ecc.) di tali soggetti di diritto interno e lo scopo a volte non di lucro che essi perseguono.
Sul piano internazionale i privati godono peraltro di un’autonomia, giuridica oltre che economica, ben maggiore di quella di cui essi dispongono nei mercati interni. Ciò è dovuto ad una scelta ideologica, politico-economica di autolimitazione da parte degli Stati i cui soggetti maggiormente partecipano al commercio internazionale, oltre che alle difficoltà obbiettive di concordare discipline efficaci.
L’eterogeneità delle fonti, ma soprattutto la diversità dei soggetti e dei rapporti da considerare sconsigliano l’impostazione del “diritto transnazionale dell’economia”. Quanto alle fonti, per i rapporti privatistici andrebbero considerate le norme di privato interno e quelle pubblicistiche in materia di commercio estero e di scambi; quelle internazionali come recepite nei vari ordinamenti statali; il diritto internazionale privato e quello uniforme (quale la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale del 1980). Ma anche usi del commercio internazionale (in parte codificati da organismi inter-statuali, come i Principi UNIDROIT sui contratti commerciali internazionali revisionati nel 2010, o le leggi-modello elaborate dall’UNCITRAL) e regole e prassi di auto-regolamentazione e per la soluzione arbitrale delle controversie (che costituiscono il nucleo della lex mercatoria, su cui si veda Marella, F., La Nuova Lex Mercatoria, Padova, 2003). Tutte normative estranee a quelle che regolano i rapporti tra Stati e i profili pubblicistici delle operazioni commerciali internazionale (v. al riguardo Broggini, G., Considerazioni sul diritto internazionale privato dell’economia, in Riv. dir. int. priv. proc., 1990, 277 ss.; Boschiero, N., La “Lex mercatoria” nell’era della globalizzazione: considerazioni di diritto internazionale pubblico e privato, in Sociologia del diritto, 2005, 83 ss.).
In quest’ambito operano in particolare le norme internazionali cogenti che disciplinano le operazioni tra privati e ne limitano l’autonomia, in particolare quelle adottate in sede ONU per il mantenimento della pace e sicurezza internazionale in base al Capo VII della Carta ONU, quali embarghi, divieti di commercializzazione, esportazione e fornitura di certi prodotti strategici, armamenti e simili (per cui v. Silingardi, S., Gli effetti giuridici della guerra sui rapporti economici e commerciali, Torino, 2012). Sono invece per lo più di fonte interna o regionale le norme pubblicistiche emanate per la disciplina dei mercati, come quelle sulla concorrenza e la trasparenza sulle operazioni finanziarie. Sono invece frutto di convenzioni internazionali le norme penali contro le attività criminali transnazionali o che direttamente impattano i comportamenti delle imprese sui mercati, come il riciclaggio, la corruzione e il finanziamento del terrorismo (su cui v. Sacerdoti, G., a cura di, Responsabilità d’impresa e strumenti internazionali anticorruzione, Milano, 2003).
L’attività degli operatori privati è in definitiva quindi disciplinata da norme pubblicistiche di fonte statale o internazionale, salva l’esplicazione della loro riconosciuta autonomia, mentre le norme generali del diritto internazionale dell’economia disciplinano l’attività degli Stati come soggetti del relativo ordinamento. D’altro lato, agli operatori privati in certi rapporti viene attribuita la capacità di agire a livello internazionale nei confronti degli Stati, come nell’arbitrato degli investimenti in base a contratti di investimento o trattati bilaterali di protezione degli stessi. In direzione opposta le imprese e società, in particolare quelle multinazionali o che comunque operano all’estero si trovano ad essere destinatarie dirette di norme di comportamento, formalmente non vincolanti ma la cui osservanza (compliance) è incentivata da meccanismi economici, sociali, reputazionali nei confronti del pubblico e degli stakeholders. Al riguardo si considerino i “Principi direttivi” (Guidelines for Multinational Enterprises) dell’OCSE del 1976 (testo aggiornato del 2011) e i Guiding Principles on Business and Human Rights dell’ONU (2011), uno dei risultati più significativi del UN Global Compact, l’iniziativa lanciata dal Segretario generale e dall’Assemblea Generale nel 2000 a seguito del Millenium Summit, volta a coinvolgere direttamente le imprese e la società civile, oltre che gli Stati, in azioni concrete per il rispetto dei diritti umani, dei lavoratori, l’ambiente e la lotta alla corruzione in base a parametri internazionali a prescindere dalla loro applicazione nei paesi in cui tali imprese operano (in merito v. Bonfante, A., Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente, Milano, 2012; AA.VV., Impresa e diritti fondamentali nella prospettiva transnazionale, Napoli, 2012; Sacerdoti, G., Le società e le imprese nel diritto internazionale: dalla dipendenza dallo Stato nazionale a diretti destinatari di obblighi e responsabilità internazionali, in Dir. comm. int., 2013, 109 ss.).
Un’ultima questione preliminare concerne il rapporto tra diritto internazionale dell’economia ed economia internazionale e sua evoluzione. Il diritto obbiettivo disciplina queste attività umane di rilevanza economica a livello internazionale quando esse interessino territori o collettività soggette a sovranità statali diverse, circostanza questa che è pure alla base della specificità dell’economia internazionale rispetto ai fenomeni economici che si svolgono invece all’interno di mercati soggetti ad un medesimo regime politico, sociale, giuridico. La scienza economica dal canto suo studia gli scambi sia sotto il profilo quantitativo che quanto alle loro determinanti e ai loro caratteri, in relazione alla scarsità ed all’utilità delle risorse scambiate (siano esse naturali oppure trasformate o create dall’uomo) e teorizza le scelte individuali e collettive per la loro più razionale utilizzazione.
L’azione delle politiche statali sull’evoluzione di questi flussi costituisce il punto di contatto tra queste due scienze, da quando le società umane mirano ad organizzare (e influenzare), attraverso decisioni di politica economica, anche le strutture degli scambi internazionali, al fine di indirizzarli al raggiungimento di certe finalità di interesse generale (v. Targetti, F.-Fracasso, A., Le sfide della globalizzazione. Storia, politiche istituzioni, Milano, 2008).
Gli strumenti del diritto internazionale diventano i mezzi tipici per la realizzazione di tali obbiettivi quando l’azione degli Stati assume carattere di organicità e continuità. Sarebbe però erroneo ritenere che appartengano al campo dell’esperienza giuridica e della normazione solo la redazione tecnica delle norme, la loro interpretazione formale e la verifica della vigenza, mentre ogni discussione sugli obbiettivi, l’idoneità dei metodi e degli strumenti prescelti e la valutazione dei risultati ottenuti spetti esclusivamente alla scienza economica o, sotto altro profilo, alle decisioni di politica internazionale. L’autonomia del diritto implica la rilevanza della ratio legis per la valutazione, in termini giuridici, paralleli e a volte sovrapposti a quelli risultanti da parametri economici, dell’operatività delle norme e per la risoluzione delle controversie.
D’altra parte la progressiva modifica degli obbiettivi di politica economica che gli Stati si propongono (attualmente prevalgono le preoccupazioni di contrastare la crisi economica e rilanciare l’economia globale) si riflette sui contenuti delle norme, sulla competenza e struttura delle organizzazioni (organi, loro composizione e procedure decisionali). L’esame di tali obbiettivi è quindi una premessa indispensabile allo studio giuridico delle norme, mentre è tipico dell’indagine economica la valutazione dei risultati ottenuti rispetto agli obbiettivi economici proposti e in genere l’analisi dell’evoluzione intervenuta nella produzione, negli scambi, nei consumi, non di rado in modo divergente rispetto agli obbiettivi enunciati.
Anche a questo proposito il diritto mantiene una sua funzione propria: il mancato raggiungimento degli obbiettivi – di quelli almeno per il cui raggiungimento siano stati introdotti obblighi giuridici e creati meccanismi di cooperazione istituzionale – può attribuirsi ad erronea previsione economica ma anche a carenze interne dei meccanismi (ad es. competenze troppo ristrette dell’organizzazione, mancanza di mezzi finanziari sufficienti), oppure al venir meno dell’osservanza degli obblighi da parte di Stati obbligati o membri senza che abbiano funzionato le previsioni su sanzioni e garanzie.
Problema centrale dell’organizzazione economica internazionale contemporanea è quello della formulazione di regole di comportamento e cooperazione e del loro ricambio con la partecipazione di tutti i paesi interessati, sia che sfocino in obblighi sanzionati (hard law) che in direttive (soft law); dell’aderenza continua delle norme a nuove esigenze di rilevanza collettiva che vengono a manifestarsi e infine della loro attuazione da parte degli Stati. In materia economica è tipico il controllo internazionale affidato a forme di “sorveglianza” collettiva (monitoring, peer review), che per lo più non prevedono procedure contenziose, specie quando le regole sostanziali sono esse stesse generiche, implicanti norme di comportamento più che di risultato (“comply or justify”). È anche questa una modalità del progressivo sviluppo del diritto internazionale, chiamato a rinnovarsi nei contenuti ma anche nei modi di formazione, di attuazione e di garanzia in un mondo multipolare privo di potenze egemoniche.
Esula da questa trattazione generale l’esame approfondito dei singoli settori del diritto internazionale dell’economia e la loro articolazione. Solo brevemente si ricorda che la normazione interstatuale multilaterale e la creazione di organizzazioni specializzate ha caratterizzato soprattutto il settore del commercio internazionale (OMC/WTO) e quello dei rapporti monetari e dei cambi (FMI), mentre la cooperazione intergovernativa prevale in tema di stabilità dei mercati dei capitali e controllo degli operatori finanziari. Si è aggiunta più di recente, con l’estensione su scala globale del modello capitalistico di produzione e scambio e la diffusione degli investimenti diretti all’estero, la disciplina (o meglio la tutela) di tali investimenti tramite accordi internazionali.
Nonostante che siano comuni ai tre settori gli obbiettivi generali di crescita, progresso e stabilità economica e diffusione del benessere individuale e superamento delle diseguaglianze (sottosviluppo e povertà) che caratterizzano il mondo, l’assetto della disciplina e dell’organizzazione di questi tre ambiti sono assai diversi.
Esistono altre organizzazioni che hanno per oggetto specificatamente la promozione della cooperazione economica tra i paesi membri, attività di studio (l’OCSE è spesso definito come un “think tank”), lo svolgimento di attività diretta di assistenza tecnica ed economico-finanziaria, o l’elaborazione di regole di condotte (standard setting) per lo più non vincolanti, nei più vari settori accanto a quelle già menzionate e brevemente passate in rassegna nei loro caposaldi qui di sotto (OMC/WTO e FMI). Tali enti, quali la Banca mondiale, gli enti ad essa collegati, le banche regionali di sviluppo, l’OCSE, non esplicano peraltro funzioni regolamentari, non amministrano accordi multilaterali che disciplinino i rapporti tra gli Stati membri in determinati settori (quali l’OMC per il commercio e il FMI per il sistema monetario) né comprendono procedure di soluzione di controversie. Pur essendo tali enti soggetti internazionali costituiti per trattato, che operano nell’ambito delle relazioni economiche internazionali, svolgendovi importanti funzioni, l’esame della loro struttura e attività esula dalla presente trattazione volta a delineare le regole applicabili a tali relazioni.
Il quadro comune che emerge è quello di una disciplina tipicamente internazionale pubblicistica. Desta quindi perplessità la ricostruzione del sistema come una forma emergente di “diritto amministrativo internazionale”, pur autorevolmente proposta (tra gli altri da Cassese, S., Il diritto globale, Torino, 2009). In contrario si deve sottolineare che le organizzazioni preposte ai vari settori, sia quelle dotate di una limitata competenza ad emanare normative ulteriori dirette ai loro membri (OMC, FMI), che quelle cui è demandata una autonoma attività di elaborazione di proposte che spetta agli Stati recepire, normalmente come orientamenti di policy più che come norme vincolanti, non esercitano una funzione diretta di amministrazione né rispetto alla attività degli operatori privati, né rispetto a quella inter-statuale (v. Mattli, V.-Woods., N, edited by, The Politics of Global Regulation, Princeton, 2009). I sistemi di soluzione di controversie, sia quelli inter-statali all’OMC, che quelli investitori-Stati nel diritto degli investimenti, non dirimono controversie in cui un privato contesti la lesione di propri diritti da parte della pubblica amministrazione nel perseguimento di interessi generali, come avviene invece nel contenzioso amministrativo interno o nella Unione Europea. Gli organi OMC non sono mai abilitati ad annullare atti statali, ma solo ad accertare l’eventuale inadempimento dello Stato convenuto all’obbligo internazionale (cui consegue quello di conformarsi, con libertà di mezzi secondo lo schema dualistico delle relazioni tra ordinamento internazionale e quello interno) come avviene nel contenzioso internazionale in genere. Quanto ai tribunali arbitrali sugli investimenti, essi possono solo determinare un indennizzo monetario in caso di violazione. Lo schema è in ogni caso quello della controversia tra Stati, improntato all’eguaglianza sostanziale e procedurale delle parti, da decidersi imparzialmente alla luce del contenuto e portata dell’obbligo internazionale pattizio che si adduce violato.
Altra costruzione che solleva perplessità è quella che considera la disciplina in materia, soprattutto quella rigorosa degli accordi OMC, come elemento di tutela internazionale dei diritti umani in quanto vincola gli Stati al rispetto di principi di non discriminazione e trasparenza al proprio interno (v. Petersmann, E.-U., International Economic Law in the 21st Century: Constitutional Pluralism and Multilevel Governance of Interdependent Public Goods, Hart, 2012). Questa impostazione trascura peraltro il fatto che l’OMC vincola solo gli Stati tramite accordi non direttamente efficaci nel diritto interno.
In materia non esiste dunque un diritto amministrativo globale o internazionale, tanto meno caratterizzato da principi comuni. Altro è considerare che le regole di funzionamento interno delle organizzazioni internazionali, sempre più articolate ed improntate a criteri di legittimità e buona amministrazione, evidenzino principi comuni ispirati ai canoni del diritto amministrativo statale.
Il settore del commercio (scambi) internazionali è caratterizzato dal 1995, a seguito della positiva conclusione dei negoziati dell’Uruguay Round del GATT (1986-1994), da una normativa multilaterale molto ampia ratione materiae (scambi di merci, servizi, proprietà intellettuale legata al commercio), dettagliata, vincolante, imperniata su un’organizzazione specifica, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC/WTO). L’organizzazione in sé ha scarsi poteri, che spettano invece ai suoi membri attraverso successivi negoziati per nuovi accordi (dal 2001 il Doha Round, la cui conclusione positiva è assai dubbia). I membri hanno una posizione paritaria (ogni membro ha un voto) ma le decisioni tendono ad essere prese per consenso. Un’altra notevole caratteristica organizzativa è l’assenza di organi a partecipazione ristretta con poteri operativi: tutti gli organi (conferenza ministeriale biennale, consiglio generale, consigli specializzati per materia) sono assembleari, aperti alla partecipazione di tutti i membri. L’OMC è a partecipazione quasi universale dopo l’ammissione di Cina e Russia; l’Unione Europea ne è membro a titolo originario, accanto ai suoi Stati membri, in ragione della sua competenza esclusiva sulla politica commerciale comune. Il sistema è improntato al multilateralismo (pur riconoscendo la legittimità di accordi regionali non protezionistici, attualmente promossi molto attivamente anche quale alternativa alla paralisi del Doha Round), alla riduzione negoziata degli ostacoli di fonte statale agli scambi (liberalizzazione progressiva), alla reciprocità e alla non discriminazione – pur facendo spazio ad un certo trattamento differenziato a favore dei paesi in via di sviluppo.
Caratteristica notevole dell’OMC (che viene conseguentemente definita come rule based in contrapposizione al carattere power based del GATT) è il suo sistema di soluzione delle controversie, interstatuale, obbligatorio, esclusivo, vincolante e relativamente rapido (su cui Sacerdoti, G., Il sistema di soluzione delle controversie dell’OMC a dieci anni dalla sua istituzione, in CI, 2005, 435 ss.). Esso prevede una fase iniziale di negoziati a fini conciliativi, una successiva fase contenziosa, e infine la vigilanza dell’OMC sulla implementazione delle decisioni o, in difetto, l’autorizzazione a contromisure (sanzioni commerciali) temporanee e proporzionali. Tramite la procedura contenziosa, davanti a organi imparziali e indipendenti, in due gradi (Panel ad hoc e Organo di appello quale tribunale permanente per ricorsi in solo diritto), che decidono in base a diritto, qualunque membro può contestare una misura di un altro membro che sia in contrasto con un obbligo sancito in qualsiasi accordo OMC e ottenerne la rimozione, sotto pena di ritorsioni commerciali. Quest’assetto riflette gli interessi commerciali degli operatori del commercio alla sicurezza degli scambi che in ultima analisi il sistema mira a tutelare.
Le numerosissime decisioni intervenute dal 1995 (oltre 150), quasi tutte ottemperate, hanno dato luogo ad una ricca ed autorevole giurisprudenza di interpretazione di norme fondamentali degli accordi OMC, che ha rafforzato la stabilità del sistema e la prevedibilità dell’applicazione delle sue norme da parte dei paesi membri. Essa supplisce, in un certo senso, alla paralisi attuale dei negoziati che dovrebbero mirare non solo ad ulteriori riduzioni dei dazi e delle altre barriere all’accesso ai mercati per i beni e i servizi esteri, ma anche a favorire l’armonizzazione delle discipline interne rilevanti per il commercio e ad estendere le regole multilaterali a nuovi settori, come l’uso di strumenti commerciali per finalità ambientali.
Ben diversa è la struttura del Fondo monetario internazionale (Bretton Woods 1944), così come le regole che disciplinano gli obblighi degli Stati membri tra di loro e col Fondo. Il Fondo, così come la “gemella” Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Banca Mondiale), si caratterizza per essere una “istituzione finanziaria” e non semplicemente come un’organizzazione economica. Esso è strutturato sul modello della società per azioni: la partecipazione è espressa in quote del capitale e implica un versamento corrispondente di un importo proporzionato all’importanza politica ed economica di ciascun membro. Ogni membro dispone di un numero di voti corrispondente alla sua quota e le regole sulle maggioranze consentono di fatto un potere di veto agli Stati Uniti (sin dalla fondazione) ed ora anche agli Stati membri dell’Unione Europea complessivamente considerati. Esistono un Comitato esecutivo a partecipazione ristretta (i membri con le maggiori quote nominano un loro consigliere, gli altri consiglieri esprimono ciascuno un gruppo di membri) e un Consiglio dei Governatori, assembleare, che si riunisce una volta all’anno. Gli Stati membri dell’Unione europea vi partecipano individualmente, senza alcun ruolo per quest’ultima nonostante l’esistenza dell’Euro e dell’euro-gruppo.
Due sono i settori di competenza del Fondo e in cui i paesi membri sono titolari di diritti e doveri. Il primo è quello di sovraintendere al sistema valutario internazionale promuovendo la convertibilità delle valute e la libertà dei pagamenti correnti (mentre i movimenti di capitali possono essere limitati dagli Stati membri, anche se la tendenza storica è stata nel senso di consentirne progressivamente la massima mobilità, fino al punto da rendere oggi i controlli praticamente impossibili). La preminenza di questa prima funzione è venuta scemando da quando nel 1971 il sistema di cambi fissi istituito, imperniato sul gold exchange standard, è stato abbandonato a favore dei cambi flessibili, con correlativa attenuazione, fino alla quasi totale eliminazione, dei rigorosi obblighi originari dei paesi membri in materia di mantenimento dei tassi di cambio.
Il secondo settore è quello dell’assistenza dei paesi in squilibrio della bilancia dei pagamenti, mediante finanziamenti temporanei (in sostanza prestiti a tassi di interesse agevolati) resi possibili dalle risorse finanziarie del FMI, condizionati a programmi spesso gravosi di riequilibrio esterno e interno (politiche economiche, monetarie, di bilancio e fiscali) sotto la vigilanza del Fondo stesso. Con le crisi economiche insorte dall’inizio del XXI secolo, il Fondo non è più chiamato a sostenere, anche con assistenza tecnica- economica-finanziaria, solo paesi in via di sviluppo (anche mediante il condono selettivo e condizionato del debito pregresso) ma pure economie di paesi sviluppati.
Il sistema monetario internazionale è quindi improntato a principi operativi molto diversi da quelli del sistema commerciale. Soprattutto esso non disciplina la materia, attualmente di preminente rilievo, della stabilità dei sistemi finanziari che sono largamente intercomunicanti, in particolare le regole sulla solvibilità delle banche e degli altri operatori nei mercati finanziari internazionali e la disciplina delle loro operazioni. Lo stesso dicasi in tema di relativa sorveglianza prudenziale, che resta di competenza delle autorità nazionali delle principali aree monetarie. Tali autorità, essenzialmente le banche centrali, si ispirano a principi in parte diversi: le regole di soft law di “Basilea II” del 2004-2007 sulla solvibilità (requisiti patrimoniali minimi) delle banche, concordate dalle autorità nazionali di vigilanza, non sono uniformemente applicate e sono attualmente ridiscusse alla luce delle crisi bancarie recenti. Il coordinamento di tali autorità, tramite il “Comitato di Basilea” della Banca dei regolamenti internazionali e di recente ad opera anche del Financial Stability Board, non è inoltre soggetto a regole vincolanti. Ne nascono così lacune, incertezze e divergenze applicative con ricorrenti rischi per la stabilità del sistema finanziario, che si riverberano sulla credibilità degli Stati chiamati a fare da prestatori di ultima istanza con l’eventuale sostegno del Fondo, e sulla fiducia nelle loro valute.
Ancora diverso è il regime degli investimenti privati internazionali, soprattutto di quelli diretti, cioè effettuati da imprese di dimensione nazionale o da multinazionali, costituendo o partecipando a imprese di altri paesi per stabilire durevoli rapporti economici e produttivi, spesso di controllo, con correlativo trasferimento di conoscenze tecniche e manageriali.
L’importanza di tali rapporti è cresciuta con la liberalizzazione degli scambi su scala mondiale, la nuova divisione del lavoro (con il decentramento produttivo dai paesi di vecchia industrializzazione per ridurre i costi, la istituzione di filiere produttive coinvolgenti più paesi e l’emergere della Cina come “fabbrica del mondo”) e la crescita di nuovi mercati di consumo nei paesi “emergenti”.
Il regime di tali investimenti non è definito da regole multilaterali né è sottoposto alla disciplina o alla sorveglianza di organizzazioni internazionali. È infatti fallita nel 1996 l’iniziativa di estendere agli investimenti diretti la competenza dell’OMC così come quella, sviluppatasi negli stessi anni all’OCSE, per un accordo multilaterale sugli investimenti. Essi sono principalmente sottoposti al regime delle imprese, società commerciali e delle specifiche loro attività di ciascun paese dove essi sono localizzati (host countries). A rafforzamento dei principi consuetudinari sulla protezione dei diritti economici degli stranieri all’estero, contestati dai paesi in via di sviluppo dopo la decolonizzazione e affidati alla tutela diplomatica discrezionale del paese d’origine (home country), si è sviluppata la prassi dei trattati bilaterali sulla promozione e protezione degli investimenti (Bilateral Investment treaties – BITs). Inizialmente stipulati dai paesi industrializzati per proteggere gli investimenti delle loro imprese all’estero, tale processo ha coinvolto poi ogni sorta di paesi, anche paesi in via di sviluppo tra di loro, fino a portare ad una rete di oltre duemila accordi (v. Mauro, M.R., Gli accordi bilaterali sulla promozione e protezione degli investimenti, Torino, 2003). Ad essi si sono aggiunti i capitoli sugli investimenti in accordi regionali, quali il NAFTA e in prospettiva quelli dell’Unione europea che ha acquisito competenza in materia con il trattato di Lisbona a partire dal 2009.
Con tali trattati gli Stati contraenti assumono determinati obblighi reciproci a favore dei loro investitori quali il trattamento “giusto e equo”, il divieto di espropriazione anche indiretta senza pieno indennizzo, la libertà di riesportare il capitale investito e i profitti. Soprattutto essi prevedono il diritto dell’investitore che si consideri leso di iniziare un arbitrato diretto contro lo Stato ospitante, a sua scelta nelle forme dell’arbitrato commerciale internazionale o presso il centro all’uopo costituito (ICSID) presso la Banca mondiale dalla Convenzione di Washington del 1965, per ottenere il risarcimento del danno subito (v. Bernardini, P., L’arbitrato nel commercio e negli investimenti internazionali, Milano, 2008, 245 ss.).
Tale impostazione era stata originariamente concepita per “depoliticizzare” le controversie in materia di nazionalizzazioni, evitando il coinvolgimento dello Stato di origine mediante la protezione diplomatica e possibili pressioni politiche, rimettendole a procedimenti arbitrali imparziali e indipendenti concordati tra le parti. Le sempre più frequenti procedure arbitrali istaurate da investitori in base ai numerosissimi BITs esistenti, che consentono il ricorso all’arbitrato anche in assenza di specifico accordo in merito tra investitore e Stato, hanno portato a una giurisprudenza arbitrale molto ricca ma non uniforme sugli standard di trattamento contenuti nei BITs, anche a causa della diversità dei loro testi. Questa evoluzione ha dato luogo a forti critiche anche perché sono sempre più le controversie istaurate non contro specifiche misure, caratterizzabili come arbitrarie, discriminatorie o confiscatorie (dalle quali tali trattati mirano chiaramente a proteggere gli investimenti stranieri, dissuadendo i paesi ospiti dall’adottarle), bensì nei confronti di misure regolamentari, qualificate come espropriazioni indirette in quanto limitanti il pieno esercizio dei diritti di proprietà e di impresa degli investitori. Il sistema potrebbe dunque evolvere o nel senso di ridurre il livello di protezione garantito nei trattati, o in direzione multilaterale, oppure nella riduzione del numero degli Stati disposti a vincolarsi, considerato anche che l’effetto trainante di tali trattati nei confronti degli investimenti stranieri non pare provato.
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