Abstract
La nascita e l’evoluzione del diritto internazionale penale sono strettamente correlate alla costruzione e allo sviluppo di un sistema di giustizia penale internazionale. L’obiettivo principale di questa branca del diritto è quello di disciplinare e far valere la responsabilità penale individuale per la violazione di norme di importanza fondamentale per la comunità internazionale, i crimini internazionali, e di porre in capo agli Stati obblighi per la prevenzione e repressione di tali crimini. In particolare, vengono delineati gli elementi fondamentali dei cd. core crimes¸ che sono stati inseriti sin dalle origini negli Statuti dei Tribunali penali internazionali: crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e aggressione.
Il diritto internazionale penale, inteso in senso stretto, è costituito dalle norme internazionali che disciplinano la responsabilità penale individuale per la violazione di norme di importanza fondamentale per la comunità internazionale, i cd. crimini internazionali. Il diritto internazionale penale sostanziale definisce gli elementi costitutivi dei crimini internazionali e stabilisce gli obblighi degli Stati in materia di repressione di tali crimini. Il diritto internazionale penale processuale disciplina le regole di procedura del processo penale celebrato di fronte a tribunali penali internazionali.Non esiste una definizione univoca di crimine internazionale. Nel diritto internazionale penale inteso in senso stretto (Kress, C., International Criminal Law, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, 2009, www.mpepil.com) vengono inclusi tra i crimini internazionali i cosiddetti core crimes, vale a dire i crimini previsti dal diritto internazionale consuetudinario e inseriti negli Statuti dei tribunali penali internazionali: crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e aggressione. Vi sono poi i crimini transnazionali, definiti in via pattizia con trattati che solitamente prevedono l’obbligo per gli Stati di criminalizzare una data condotta nell’ordinamento interno e quello di perseguire i presunti responsabili in base alla regola aut dedere aut judicare. I crimini transnazionali comprendono offese che spaziano dalla corruzione, alla tratta di schiavi, a atti terroristici di varia natura fino al crimine di tortura. Quest’ultimo merita una particolare considerazione: sebbene sia previsto in via pattizia e destinato ad essere perseguito solo nell’ambito delle giurisdizioni interne – la tortura non è mai stata inserita nell’ambito di giurisdizione di un tribunale penale internazionale come crimine a sé stante – viene da molti considerato come un crimine di carattere consuetudinario, cogente e inderogabile, alla stregua degli altri core crimes (Cassese, A., Lineamenti di diritto penale, vol. I, Bologna, 2005, 160 ss.). Nonostante il dibattito in materia, ad oggi non si può dire invece che esista una definizione univoca del terrorismo come crimine internazionale.
Le origini storiche del diritto internazionale penale si intrecciano con la costruzione di un sistema di giustizia penale internazionale. L’idea che l’individuo debba rispondere della commissione di gravi crimini direttamente di fronte alla comunità internazionale si è affermata di pari passo con la creazione di meccanismi giudiziari internazionali preposti alla repressione penale dei medesimi crimini. Già nel 1872 Gustave Moynier, Presidente del Comitato internazionale di Croce Rossa, propose la creazione di un tribunale penale internazionale che fosse competente a reprimere le violazioni della Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei militari feriti in guerra, stipulata a Ginevra nel 1864. La proposta però non trovò seguito e si dovette attendere la fine della prima guerra mondiale per assistere a un ulteriore e più articolato tentativo di creare un organismo di giustizia penale internazionale. Il Trattato di pace siglato a Versailles nel 1919 prevedeva, all’art. 227, che l’ex imperatore tedesco Wilhelm II di Hohenzollern fosse processato da un Tribunale speciale – composto da giudici nominati da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone – per “offesa suprema contro la morale internazionale e la sacra autorità dei trattati”. Gli artt. 228 e 229 stabilivano inoltre che tutte le persone accusate di aver commesso atti in violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra a danno degli alleati dovessero essere tradotte in giudizio di fronte a tribunali militari delle potenze alleate. È interessante rilevare che nel Trattato di Versailles si profilava una differenza tra il capo di Stato, che venne accusato di offese di carattere politico e morale e per processare il quale fu prevista l’istituzione di un Tribunale speciale, e gli altri organi di Stato, per i quali invece si prevedeva una responsabilità di carattere penale per le violazioni del diritto bellico commesse durante le ostilità, responsabilità che poteva essere fatta valere dai tribunali militari dei singoli alleati. Alcuni, già all’epoca, criticarono aspramente questa differenza di trattamento, configurando invece già con chiarezza la “command responsibility” del Kaiser per le violazioni commesse dai propri subordinati, e sostennero che il Trattato di Versailles avrebbe dovuto prevedere la responsabilità penale del Kaiser (Garner, J.W., Punishment of Offenders against the Laws and Customs of War, in American Journal of International Law, 1920, 70-94). Tuttavia, le disposizioni del Trattato di Versailles trovarono scarsa attuazione. Nonostante la lista dei ‘grandi colpevoli’ tedeschi contenesse più di novecento nomi – tra i quali figuravano alti ufficiali militari e le più alte cariche pubbliche, incluso il Cancelliere del Reich – i tribunali militari delle Potenze alleate riuscirono a processare soltanto alcuni ufficiali tedeschi fatti prigionieri durante la guerra e sei ufficiali estradati dal governo tedesco nel 1919 (Herzog, J., Nuremberg: un échec fructuex?, Paris, 1975, 19 ss.). Il governo tedesco si rifiutò di procedere a ulteriori estradizioni e propose di tradurre in giudizio gli indagati davanti al Reichsgericht di Lipsia. I processi celebrati davanti alla Corte suprema tedesca furono una delusione: soltanto pochissimi processi terminarono con una condanna e, in questi casi, gli ufficiali tedeschi furono condannati a pene lievi. Vi furono forti resistenze, da parte degli Stati sconfitti, a estradare i propri organi per farli processare da tribunali stranieri e si preferì far ricorso alla soluzione tradizionale del processo degli organi militari da parte dello Stato di appartenenza, con tutti i limiti che questa soluzione comporta. Per quanto riguarda il processo al Kaiser, il Tribunale speciale previsto dal Trattato di Versailles non fu mai istituito poiché i Paesi Bassi, che non erano parte contraente del Trattato, rifiutarono l’estradizione dell’ex-imperatore adducendo la motivazione che i crimini di cui il Kaiser era accusato non erano previsti dalla legge olandese.
In questa fase, solo pochi autori in dottrina ritenevano che le norme di diritto internazionale bellico si indirizzassero direttamente anche agli individui e che i criminali di guerra dovessero essere processati e puniti per aver violato il diritto internazionale e non il diritto interno dello Stato cattore (Lauterpacht, H., The Law of Nations and the Punishment of War Crimes, in BYIL, 1944, 64-65). Non si può ancora parlare propriamente di diritto internazionale penale.
La seconda guerra mondiale e le drammatiche vicende prodotte dalla sistematica violazione delle norme di diritto bellico – eletta a metodo di combattimento – e dall’inosservanza delle più elementari regole di umanità portarono ad una svolta.
Il primo passo verso la punizione, sul piano del diritto internazionale, dei responsabili delle atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale fu la stipulazione dell’Accordo di Londra, con il quale si istituiva un Tribunale militare internazionale, con sede a Norimberga nella Germania occupata, competente a giudicare gli alti gerarchi nazisti in base all’accusa di aver commesso non solo crimini di guerra in senso tradizionale, ma anche crimini contro la pace e crimini contro l’umanità, come definiti nell’art. 6 dello Statuto del Tribunale allegato all’accordo.
Con la definizione dei crimini contenuta nello Statuto di Norimberga si iniziano a profilare i core crimes e si delinea un primo nucleo di norme di diritto internazionale penale. I crimini di guerra, unica categoria già esistente, erano definiti come violazioni delle leggi e delle consuetudini della guerra e se ne stilava un elenco non esaustivo. I crimini contro la pace consistevano nella preparazione e nella condotta della guerra di aggressione, mentre i crimini contro l’umanità erano essenzialmente quei crimini commessi da individui – quasi sempre organi di Stato – nel proprio Paese a danno della propria popolazione, non a danno della popolazione nemica come i crimini di guerra. A complemento delle norme che stabilivano la responsabilità penale individuale per i crimini previsti dallo Statuto, fu inserita una norma che sanciva l’impossibilità di invocare a propria difesa il fatto di aver agito in qualità di organo statale al momento della commissione del crimine, applicabile anche agli individui che avevano ricoperto le più alte cariche dello Stato (art. 7).
Il Tribunale militare di Tokyo – incaricato di procedere contro i grandi criminali di guerra giapponesi – fu istituito con atto esecutivo del Comandante supremo delle forze alleate nel Pacifico, il generale MacArthur e il suo Statuto fu modellato su quello di Norimberga, con alcune lievi differenze.
Nei fatti, a differenza di quanto era avvenuto dopo la prima guerra mondiale, i due tribunali militari alleati processarono e condannarono rispettivamente i personaggi chiave dell’apparato politico e militare tedesco e giapponese: basti pensare a Von Ribbentrop, Ministro degli esteri della Germania nazista e a Tojo, Ministro della guerra e Primo Ministro del Giappone durante la guerra. Inoltre, molti esponenti dell’apparato statale della Germania nazista furono processati da tribunali militari alleati, creati in base alla legge n. 10 emanata dal Consiglio di Controllo alleato e operanti nelle diverse zone di occupazione in cui era stato diviso il territorio tedesco dopo la seconda guerra mondiale. Le autorità alleate condussero decine di procedimenti penali contro membri della classe dirigente nazista; salirono sul banco degli imputati non soltanto organi militari, ma anche medici, giuristi e magistrati e anche semplici civili, che non avevano agito in qualità di organi dello Stato tedesco.
La dottrina ha sostenuto che i Tribunali militari alleati non erano propriamente organi di giustizia internazionale, ma organi giurisdizionali comuni degli Stati che li avevano istituiti (Cassese, A., Lineamenti, cit., vol II, 19). Ciò nonostante, la loro creazione e i processi celebrati dopo la seconda guerra mondiale rappresentano un punto di svolta per il diritto internazionale penale. Anzitutto sono state individuate tre categorie di crimini internazionali (due delle quali rappresentavano un’assoluta novità, i crimini contro umanità e i crimini contro la pace), che sono divenute il cuore del diritto internazionale penale. Inoltre, insieme al primo nucleo di norme incriminatrici, sono state poste altre norme ad esse complementari e a loro volta consolidatesi nel tempo come norme consuetudinarie, basti pensare all’irrilevanza della posizione ufficiale ricoperta dagli individui sospettati di uno di tali crimini. Inoltre, l’esercizio della giurisdizione penale in materia di violazioni di diritto internazionale viene trasferito dal livello nazionale a quello sovranazionale. In questa fase si è enucleato anche un principio di legalità sostanziale enunciato in risposta alle critiche di coloro che sostenevano che non si poteva far valere la responsabilità penale per crimini previsti da norme emanate in seguito alla loro commissione. I giudici di Norimberga ritennero opportuno applicare un principio generale di giustizia che consentiva di punire determinate gravissime condotte perché estremamente pericolose per la società anche se non previste fino a quel momento come reato.
Nel dicembre del 1946, a pochi mesi dalla sentenza emessa dal Tribunale di Norimberga, l’Assemblea Generale dell’ONU (AG) adottò due importanti risoluzioni. Con la ris. 95 (I) riaffermò i principi di diritto internazionale penale riconosciuti dallo Statuto del Tribunale e dalla sentenza, indicando chiaramente come priorità la codificazione della materia. Con la ris. 96 (I) affermò che il genocidio costituiva un crimine di diritto internazionale che gli Stati avevano l’obbligo di perseguire e incaricava il Consiglio economico e sociale di preparare una bozza di Convenzione da sottoporre all’AG. La Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio fu adottata dall’AG il 9 dicembre 1948 e contiene la definizione dettagliata del crimine, delle forme di responsabilità cui dà luogo, di alcuni principi generali, come quello relativo all’irrilevanza della posizione ricoperta dai sospettati, nonché gli obblighi degli Stati per la prevenzione e repressione del genocidio. Nel frattempo, al di fuori del quadro dell’ONU, furono intrapresi, sotto l’auspicio del Comitato internazionale della Croce rossa, i negoziati che hanno portato all’adozione delle 4 Convenzioni di Ginevra del 1949, che qualificano le infrazioni gravi delle Convenzioni stesse alla stregua di crimini di guerra. I negoziati relativi alla codificazione dei crimini di guerra hanno quasi sempre seguito una strada separata rispetto a quella relativa alle altre categorie di crimini internazionali. La criminalizzazione di alcune condotte vietate ha infatti avuto luogo nell’ambito assai più ampio di negoziati relativi a vari aspetti del diritto internazionale umanitario. Non esiste quindi una convenzione specifica sui crimini di guerra, ma esistono numerose convenzioni che si occupano di disciplinare mezzi e metodi di combattimento o di tutelare alcune categorie di vittime della guerra che includono disposizioni relative alla responsabilità penale per la violazione di alcune disposizioni inserite nei medesimi trattati.Per quanto riguarda le altre categorie di crimini, i tentativi di codificazione sono avvenuti nell’ambito dell’ONU e sono stati portati avanti principalmente dalla Commissione del diritto internazionale (CDI). Alla CDI fu affidato, già nel 1949, il compito di elaborare un Progetto di Codice di crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità e di elaborare un progetto mirante alla creazione di un meccanismo di giurisdizione penale internazionale, già evocato anche nella Convenzione sul genocidio del 1948; nel 1954 tuttavia si giunse a una fase di stallo, che portò a una sospensione dei lavori della CDI su entrambi i Progetti. La battuta d’arresto fu dovuta in larga parte a punti di vista divergenti tra gli Stati sulla definizione del crimine di aggressione.
I lavori della CDI hanno vissuto fasi alterne su entrambi i fronti fino a sbloccarsi definitivamente all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, concludendosi con l’adozione di una bozza di Statuto per un tribunale penale internazionale a carattere permanente nel 1994 (che è stata alla base dei negoziati per l’istituzione della Corte penale internazionale) e con l’adozione in seconda lettura del Progetto di Codice dei crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità nel 1996.
Per quanto riguarda l’aggressione, l’AG era arrivata già nel 1974 ad adottare una definizione di aggressione, con la risoluzione 3314, ma per definirla come crimine internazionale che implica la responsabilità penale individuale si è dovuto attendere ancora molto a lungo (cfr. infra par. 4.4).
Il mutato clima politico verificatosi all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, oltre ad aver sbloccato i lavori della CDI in tema di codificazione della materia, ha innescato una nuova fase di sviluppo del diritto internazionale penale, caratterizzata dalla creazione di due tribunali penali internazionali da parte del Consiglio di sicurezza e, nel giro di pochi anni, ha condotto all’adozione del trattato istitutivo della Corte penale internazionale (CPI).
Il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia (TPIJ) fu istituito dal Consiglio di sicurezza dell’ONU con la risoluzione 827 del 25.5.1993, in seguito ai rapporti di una commissione di inchiesta che denunciava gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e crimini contro l’umanità commessi nel contesto del conflitto che caratterizzava la regione. Il TPIJ – che ha chiuso i battenti alla fine del 2017 – aveva competenza sui crimini di guerra, crimini contro umanità e atti di genocidio commessi nel territorio della ex-Jugoslavia a partire dal 1991 (cfr. Della Morte, G., Tribunali penali internazionali, Diritto on line, 2014, in www.treccani.it). Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR) fu creato con la risoluzione 955 dell’8.11.1994, anche in questo caso dopo alcuni rapporti di inchiesta che indicavano nel Paese era in atto un genocidio. Al TPIR fu affidata la giurisdizione su violazioni del diritto internazionale umanitario, crimini contro l’umanità e atti di genocidio commessi in Ruanda e negli Stati limitrofi tra il 1° gennaio e il 31 dicembre del 1994, giurisdizione che ha esercitato fino al 31 dicembre 2015.La giurisprudenza dei due tribunali ad hoc ha dato un impulso cruciale alla seconda fase di sviluppo del diritto internazionale penale, contribuendo al passaggio da una fase prevalentemente normativa a una fase applicativa, e ha altresì esercitato una notevole influenza sulla stesura delle norme dello Statuto della Corte penale internazionale (CPI) e sull’evoluzione del diritto penale sostanziale.I due Tribunali ad hoc hanno dato anche un contributo decisivo alla ripresa dei negoziati per la creazione di un tribunale permanente. Nel 1996, l’AG istituì infatti la ICC Preparatory Commission, che durante una serie di rounds negoziali condotti fra il 1996 e il 1998 elaborò un progetto che costituì la base per i lavori della Conferenza diplomatica di Roma, che, il 17 luglio 1998, adottò lo Statuto della Corte penale internazionale.Alla CPI è stata affidata la competenza su crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e aggressione. In parallelo alla creazione della Corte penale internazionale sono stati istituiti anche alcuni Tribunali misti o internazionalizzati (Corte speciale per la Sierra Leone, Camere straordinarie della Cambogia, Panels Speciali per Timor Est e Tribunale speciale per il Libano), organismi creati attraverso varie forme di cooperazione tra l’ONU e gli Stati interessati, caratterizzati da una combinazione di elementi di diritto interno e diritto internazionale e a loro volta preposti all’applicazione del diritto internazionale penale. (Cimiotta, E., I tribunali penali misti, Padova, 2009).
Dopo la chiusura dei due Tribunali ad hoc, la CPI rappresenta la principale istituzione internazionale competente ad applicare il diritto internazionale penale. Sebbene lo Statuto di Roma sia stato ampiamente ratificato (123 le parti contraenti ad ottobre 2018), resta il fatto che alcuni degli Stati più importanti della comunità internazionale (in particolare USA, Russia e Cina, tre membri permanenti del Consiglio di sicurezza) non hanno aderito alla CPI e hanno a più riprese messo in discussione l’operato della Corte, pregiudicandone in maniera significativa il potenziale e la credibilità. Inoltre, l’operato della CPI è stato oggetto di pesanti contestazioni da parte di alcuni Stati e dell’Unione Africana per la presunta “selettività” nella scelta dei casi sui quali ha aperto le proprie indagini e per la vicenda dell’incriminazione di Omar al Bashir, Presidente in carica della Repubblica del Sudan.
Sul versante della codificazione, negli ultimi anni la CDI ha ricominciato a occuparsi di temi collegati al diritto internazionale penale, ma gli sforzi non sembrano aver per ora prodotto risultati particolarmente significativi. Nel 2014 la CDI ha adottato un rapporto finale su “Obbligo di estradare o processare (aut dedere aut judicare)” concludendo per l’inesistenza di un simile obbligo generale in materia di repressione dei crimini internazionali. Nel contempo i crimini contro l’umanità sono stati inseriti tra i temi di studio della CDI, che nel 2017 ha adottato in prima lettura un Progetto di articoli, poi sottoposto all’attenzione degli Stati per i loro commenti (cfr. infra, par. 4.2).
Si tratta della categoria la cui origine risale più indietro nel tempo. Non esiste una convenzione specifica dedicata ai crimini di guerra e quindi neanche una loro definizione di carattere generale adottata in via pattizia. In dottrina essi sono stati definiti come violazioni gravi del diritto internazionale umanitario pattizio e consuetudinario (Cassese, A., Lineamenti, cit., vol I, 53 ss.). Per individuare le offese che rientrano in questa categoria è utile anzitutto fare riferimento a numerose convenzioni di diritto internazionale umanitario, dalle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907, alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e ai Protocolli addizionali del 1977, senza dimenticare altri trattati di carattere più specifico, come ad esempio la Convenzione del 1954 sulla tutela del patrimonio culturale in caso di conflitto armato e il suo secondo Protocollo aggiuntivo del 1999.
Un contributo importante alla definizione delle offese che rientrano nella categoria è venuto dalla giurisprudenza del TPIJ e del TPIR, a sua volta confluita in larga parte nell’art. 8 dello Statuto della CPI. In particolare, il TPIJ ha contribuito ad affermare e consolidare la categoria dei crimini di guerra commessi nei conflitti armati interni (a partire dalla nota decisione della Camera d’appello nel caso Prosecutor v. Tadić, del 2.10.1995). L’art. 8 è infatti diviso in due parti, una dedicata ai crimini di guerra commessi nei conflitti internazionali e una dedicata ai crimini commessi nei conflitti non internazionali.
Caratteristica fondamentale dei crimini di guerra è il nesso tra la condotta criminosa e il conflitto armato, ribadita costantemente nella giurisprudenza e atta ad escludere dalla categoria i crimini comuni commessi durante un conflitto armato, ma non ad esso collegati. Gli elementi oggettivi e soggettivi dei crimini di guerra si ricavano di volta in volta dalla norma primaria violata. Quando la norma non stabilisce l’elemento soggettivo richiesto, la dottrina ritiene che esso debba corrispondere al dolo intenzionale e, solo se le circostanze lo permettono, al dolo eventuale come previsto nella maggior parte dei sistemi giuridici per i crimini sottostanti.
Neanche per i crimini contro l’umanità esiste una convenzione ad essi dedicata, anche se la CDI sta lavorando a un Progetto di Articoli, adottato in prima lettura nel 2017, elaborato con l’intento di costituire la base per una futura convenzione in materia (testo disponibile sul sito internet della CDI: www.legal.un.org). I crimini contro l’umanità possono essere commessi sia in tempo di pace sia in tempo di guerra e l’elemento che li caratterizza è il fatto che debbano essere perpetrati nel contesto di un attacco esteso o sistematico compiuto ai danni di qualsiasi popolazione civile.
I tratti distintivi dei crimini contro l’umanità si sono delineati nel tempo attraverso le definizioni inserite negli Statuti dei Tribunali penali internazionali, dalla Carta di Norimberga allo Statuto di Roma, e grazie alla loro giurisprudenza, in particolare quella di TPIJ e TPIR. Le definizioni contenute nei vari Statuti sono simili, ma non identiche. La definizione inserita nell’art. 5 dello Statuto del TPIJ, ad esempio, stabiliva la giurisdizione del tribunale solo sui crimini contro l’umanità commessi in collegamento con un conflitto armato interno o internazionale (come già per lo Statuto del Tribunale di Norimberga), mentre lo Statuto del TPIR, per la prima volta, faceva espresso riferimento al carattere esteso o sistematico dei crimini contro l’umanità e chiedeva che fossero caratterizzati da un elemento di discriminazione su base nazionale politica, etnica, razziale o religiosa (Bassiouni, C.M., Crimes against Humanity: Historical Evolution and Contemporary Application, Cambridge, 2011, 186). L’art. 7 dello Statuto della CPI rappresenta, secondo larga parte della dottrina, una sorta di codificazione dei crimini contro l’umanità (Kress, C., International Criminal Law, cit.). Esso contiene un elenco dettagliato di crimini contro l’umanità, che però secondo alcuni autori corrisponde solo in parte al diritto internazionale consuetudinario (Cassese, A., Lineamenti, cit., vol. II, 115 ss.). La CDI, nel Progetto di articoli adottato nel 2017, ha deciso di riprodurre verbatim la definizione dello Statuto di Roma facendo prevalere, sulle proposte di modifica suggerite da alcuni suoi membri, la volontà esplicita di non creare eventuali conflitti con trattati già esistenti.
Il termine genocidio, come è noto, si deve al giurista polacco Raphael Lemkin che già nel 1944 lo aveva coniato per descrivere la Shoah (Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation – Analysis of Government – Proposals for Redress, Washington, Carnegie Endowment for International Peace, 1944) e si diffuse rapidamente tanto da essere ripreso prima dall’AG, che nel 1946 definì il genocidio alla stregua di un crimine internazionale, e poi nella Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948, che definì il crimine in tutte le sue componenti. L’art. 2 definisce l’elemento oggettivo e quello soggettivo del crimine: sono indicate cinque condotte proibite caratterizzate dall’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Gli atti comprendono: a) l’uccisione dei membri del gruppo, b) le lesioni gravi all’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo, c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica totale o parziale, d) l’adozione di misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo ed e) il trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo all’altro.I lavori preparatori della Convenzione furono caratterizzati da ampio dibattito intorno all’identificazione dei gruppi-vittima da includere nella definizione di genocidio. In particolare si discuteva se dovessero essere compresi i gruppi politici e i gruppi culturali insieme ai quattro gruppi già individuati, ma l’opposizione dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti impedì l’inclusione di tali gruppi nel testo finale.La definizione di genocidio contenuta nella Convenzione si è cristallizzata in questa forma. Essa è infatti stata ripresa in maniera identica anche negli statuti dei due Tribunali ad hoc e in quello della CPI e può considerarsi corrispondente al diritto internazionale consuetudinario. La Convenzione stabilisce anche altre forme di responsabilità oltre a quella diretta per atti di genocidio: i) l’intesa mirante a commettere genocidio, ii) l’incitamento diretto e pubblico al genocidio, iii) il tentativo di genocidio e iv) la complicità nel genocidio. Punto debole della Convenzione è stato, per lungo tempo, il fatto che l’unico criterio giurisdizionale previsto per perseguire il crimine fosse quello territoriale, con l’ovvia conseguenza – essendo il genocidio un crimine commesso spesso da esponenti dell’apparato statale – che non si è avuto, fino agli anni ’90, nessun procedimento interno per genocidio. La Convenzione rinviava altresì a un Tribunale penale internazionale competente, che però all’epoca non fu istituito.
Il precedente per il crimine di aggressione è rappresentato dai crimini contro la pace, previsti nello Statuto del Tribunale di Norimberga. I giudici definirono l’aggressione come “il più grave dei crimini internazionali” e condannarono a morte alcuni degli imputati colpevoli di questo crimine. Ciò nonostante, le divergenze sulla definizione del crimine di aggressione hanno influito negativamente sulla codificazione e sullo sviluppo del diritto internazionale penale per un lungo periodo. L’AG dell’ONU arrivò nel 1974 a dare una definizione dell’aggressione senza fare alcun riferimento alla responsabilità penale individuale e si è dovuto attendere il 1998 perché il crimine di aggressione fosse inserito nell’art. 5 dello Statuto della CPI, ma senza che si fosse ancora raggiunto un accordo sulla sua definizione. Tale accordo si è trovato nel 2010 alla Conferenza di Revisione dello Statuto della CPI tenutasi a Kampala, in Uganda, durante la quale è stato approvato l’art. 8 Bis (1) che definisce l’aggressione come «pianificazione, la preparazione, l’inizio o l’esecuzione, da parte di una persona in grado di esercitare effettivamente il controllo o di dirigere l’azione politica o militare di uno Stato, di un atto di aggressione che per carattere, gravità e portata costituisce una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite». Al par. 2 sono poi stati inclusi, tra gli atti di aggressione, l’uso della forza armata in contrasto con l’art. 2, par. 4 della Carta ONU e gli atti identificati dalla risoluzione 3314 (XXIX) dell’AG del 1974 come atti di aggressione.
L’aggressione è definita come “leadership crime”: l’accusato deve ricoprire una posizione di vertice nell’apparato politico o militare di uno Stato. Secondo una parte della dottrina non sarebbe possibile incriminare per aggressione gli organi degli attori non-statali (Politi, M., The ICC and the Crime of Aggression, Journal of International Criminal Justice, 2012, 285-286). L’esercizio di giurisdizione sul crimine di aggressione da parte della CPI sarà finalmente possibile a partire dal 17 luglio 2018, 20 anni esatti dopo l’adozione dello Statuto di Roma, come deciso dall’Assemblea degli Stati parte al termine di intensi negoziati conclusi nel dicembre del 2017 (ICC-ASP/16/Res.5, Decision Activation of the jurisdiction of the Court over the crime of aggression: www.icc-cpi.int).
Trattato di Pace tra le Potenze Alleate e Associate e la Germania, Versailles, 28.6.1919; Accordo per il processo e la punizione dei principali criminali di guerra dell’Asse europeo, con annesso lo Statuto del Tribunale militare internazionale di Norimberga, Londra, 8.8.1945; Statuto del Tribunale militare internazionale per l’estremo oriente, Tokyo, 19.1.1946; Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, New York, 9.12.1948; I. Convenzione per migliorare la sorte dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna; II. Convenzione per migliorare la sorte dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle forze armate di mare; III. Convenzione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; IV. Convenzione relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra, Ginevra, 12.8.1949; Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite n. 3314 (XXIX), contenente la Definizione di aggressione, 14.12.1974; Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 827, 25.5.1993, con annesso lo Statuto Tribunale internazionale penale ad hoc per l’ex Iugoslavia; Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 955, 8.11.1994, con annesso lo Statuto del Tribunale internazionale penale ad hoc per il Ruanda; Trattato istitutivo della Corte penale internazionale, Roma, 17.7.1998; Progetto di Articoli sui crimini contro l’umanità, adottato dalla Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite in prima lettura, 26.5.2017.
Bassiouni, C.M., Crimes against humanity: Historical Evolution and Contemporary Application, Cambridge, 2011; Bergsmo, M.-Ling, C.W.-Ping, Y., (eds.), Historical Origins of International Criminal Law, Brussels, Torkel Opsahl Academic EPublisher, 2014, vol. 4; Cassese, A., International Criminal Law, II ed., Oxford, 2008; Gaeta, P., (ed.), The UN Genocide Convention. A Commentary, Oxford, 2009; Kemp, G., (ed.), Individual Criminal Liability for the International Crime of Aggression, Antwerp, 2017; Kress, C., International Criminal Law, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, 2009, www.mpepil.com; Shabas, W., (ed.), The Cambridge Companion to International Criminal Law, Cambridge, 2016; Werle, G.-Jessberger, F., Principles of International Criminal Law, Oxford, 2014; Tochilovsky, V., The Law and Jurisprudence of the International Criminal Tribunals and Courts, II ed., Antwerp, 2014.
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