diritto
In senso oggettivo l’insieme delle norme giuridiche valide in un determinato contesto di vita umana associata e volte a garantire un ordine giusto dei rapporti tra i consociati (➔ anche diritto soggettivo).
In senso oggettivo, dunque, il d. è anzitutto fenomeno normativo e perciò è anche fenomeno linguistico. La norma, infatti, è sempre veicolata da una proposizione. Il linguaggio è, per così dire, il medium necessario del diritto. Rispetto ad altri tipi di proposizioni, le norme si caratterizzano per il fatto di porre regole di condotta, e cioè la necessità o la possibilità di una determinata attività umana. Esse si distinguono perciò dalle proposizioni puramente teoretiche, sia di tipo empirico o descrittivo sia di tipo logico o analitico. Non sono dunque proposizioni delle quali si possa affermare la verità o la falsità. Si tratta piuttosto di proposizioni prescrittive, che esprimono un dover essere o un poter essere con riferimento a una determinata attività umana. Contengono pertanto un giudizio di valore. Non si tratta però di valutazioni puramente descrittive, perché il giudizio di valore in esse contenuto è destinato ad attuarsi attraverso la libera attività di un soggetto. Nel porre l’esigenza, o semplicemente nel garantire la possibilità di una condotta umana al verificarsi di una determinata situazione di fatto, ogni norma è dunque un appello alla libertà del singolo in nome di un valore o di un sistema di valori. Ogni norma contiene cioè il riconoscimento – e dunque il giudizio, la valutazione – che è bene che, in una determinata situazione di fatto, si realizzi o possa realizzarsi una certa condotta.
Non ogni fenomeno normativo è però d.: una qualsiasi proposizione normativa non può considerarsi per ciò solo una norma giuridica. Esistono infatti anche norme sociali, morali, religiose rispetto alle quali la norma giuridica non si caratterizza tuttavia per un suo contenuto peculiare. Una stessa regola di condotta, del resto, può ben essere al contempo norma giuridica, sociale, morale o religiosa. Si pensi al precetto di non uccidere o al dovere di correttezza, che certo appartiene alla morale sociale, ma al quale viene riconosciuta piena rilevanza giuridica nel rapporto tra debitore e creditore (art. 1175 c.c.; paragrafo 242 del Bürgerliches Gesetzbuch). Una proposizione normativa, insomma, non ha in essa il carattere tipico della giuridicità, che si colloca piuttosto al di fuori della norma ed è per lo più riconosciuto nella garanzia sociale di attuazione che la assiste. Norma giuridica è allora ogni regola di condotta socialmente garantita. La sua osservanza non è dunque rimessa alla coscienza del destinatario, ma è assicurata attraverso la minaccia di una sanzione destinata a essere concretamente irrogata, in caso di violazione, da un apparato in grado di disporre della forza. Ciò si verifica senz’altro per tutti i precetti la cui osservanza è garantita dalla forza dello Stato, dunque per tutte le regole poste o riconosciute da un’autorità pubblica a ciò legittimata da altre norme.
Il d. viene così identificato in base a un criterio puramente formale: quello della statuizione o del semplice riconoscimento della norma da parte di pubblici poteri a ciò deputati da altre norme. È d., insomma, ogni regola di condotta che il d. stesso riconosce come tale. Le norme giuridiche non sono tuttavia forme prive di senso. Esse ambiscono pur sempre a realizzare un ordine giusto dei rapporti tra i consociati. Il d., in altre parole, è una tecnica sanzionatoria funzionale alla stabilizzazione di una giusta gerarchia di valori. Esiste pertanto – o dovrebbe esistere – anche un criterio sostanziale di riconoscimento di ciò che è d., un criterio in forza del quale può considerarsi d. solo il comando conforme a giustizia. Il processo di autoriduzione della ragione moderna entro i confini ristretti di ciò che è misurabile, sperimentabile e calcolabile ha favorito tuttavia la diffusione dell’idea che non esistano principi universali di giusta convivenza tra gli individui, o meglio che certi principi non siano suscettibili di conoscenza oggettiva. Di qui il convincimento che la giustizia del d. non dipenda dal contenuto delle sue regole, ma dal semplice rispetto delle procedure previste per la loro statuizione (cosiddetto formalismo giuridico). E anche l’idea, ancor più radicale, che l’ordine giuridico non abbia in realtà alcun fondamento sostanziale, che il d. sia un puro mezzo, una semplice tecnica sanzionatoria al servizio di qualsiasi scopo (cosiddetto nichilismo giuridico). Il problema della giustizia del d., sempre in una prospettiva antifondazionistica, è oggi messo in secondo piano anche da chi ritiene che le soluzioni normative debbano rispondere a una logica puramente strumentale, e cioè che non si debba tanto aver riguardo alla loro giustizia quanto alla loro capacità di massimizzare il benessere della collettività, inteso come somma aggregata delle utilità dei singoli individui (cosiddetto neopragmatismo giuridico). Eppure la statuizione di un ordine giuridico rappresenta sempre il tentativo di dare una risposta alla domanda universale di un ordine giusto della convivenza umana. Il d., cioè, è sempre concepito in termini di giustizia e, sempre in nome della giustizia, è costantemente soggetto a critica. D. e giustizia, perciò, pur nella loro eterogeneità, sono comunque due ordini indissociabili. La giustizia non può non concretizzarsi nel d. e il d. ha sempre bisogno di fondarsi sulla giustizia, di rappresentarsi come la giusta misura dei rapporti sociali. Tuttavia il d. non sarà mai in grado di esaurire in sé la giustizia e perciò continuerà a riproporsi la domanda di un d. più giusto.