Obbligo morale di fare determinate cose o concretamente ciò che l’uomo è obbligato a fare, dalla religione, dalla morale, dalle leggi, dalla ragione, dallo stato sociale ecc.
Nella storia della filosofia la nozione di d. si presenta con gli Stoici che intesero con essa ogni comportamento, dell’uomo come di altri esseri viventi, assunto in conformità al dettato della ragione, principio divino dell’ordine cosmico. Assente dal pensiero etico aristotelico, impegnato nella definizione di un armonico rapporto tra i fini delle azioni umane, e in quello medievale, volto all’elaborazione di una dottrina della salvezza, essa riveste un ruolo dominante nell’etica kantiana. Qui il d. diventa non solo azione conforme alla legge di ragione, ma atto intrapreso unicamente in vista e nel rispetto di quella. In tal modo si pone una netta distinzione tra azione ‘legale’, o azione estrinsecamente conforme alla legge, e azione ‘morale’ o d., cioè azione compiuta ‘per rispetto’ della legge, e cioè prescindendo dalle inclinazioni naturali e spesso in lotta con esse. In J.G. Fichte il concetto kantiano di d. diviene il fondamento non solo dello sviluppo pratico ma anche di quello teoretico dello spirito, per cui la conoscenza del mondo sensibile e il mondo sensibile stesso trovano un senso solo in vista della realizzazione di uno scopo morale. Nell’etica contemporanea la nozione di d. come conformità del comportamento a una norma universale razionale e necessaria è ripresa soprattutto nell’ambito delle correnti neoidealistiche e spiritualistiche, mentre viene sottoposta a critica, e quindi rifiutata, dagli assertori di un’etica utilitaristica o, più recentemente, ricondotta nell’ambito di problematiche logico-linguistiche (➔ anche etica).