diritto
Un insieme di regole con sanzioni
Poiché il diritto è un insieme di regole, per definirne il significato dobbiamo individuare ciò che lo distingue da altre regole, per esempio da quelle della religione, della morale e del costume. Il criterio distintivo sta in ciò: se qualcuno trasgredisce le regole del diritto, subisce delle sanzioni; cioè il diritto reagisce a eventuali trasgressioni con atti di forza disciplinati. Le sanzioni sono dette atti disciplinati perché le norme del diritto stabiliscono non solo chi e quando deve infliggerle, ma anche come e in quale misura debbono essere inflitte. Il diritto, perciò, è il sistema di norme che regola l'impiego della forza, ossia delle sanzioni Per essere valido, ossia obbligatorio, questo sistema deve essere efficace, vale a dire abitualmente obbedito dai suoi destinatari
Il diritto è la regola o l'insieme delle regole che disciplina il comportamento umano (doveri). Quest'affermazione è vera, ma si tratta di verità troppo parziale per essere soddisfacente: anche la morale (etica) regola il comportamento umano, così come lo regolano la religione e il costume; dov'è allora la differenza? Il difetto di questa prima definizione è quindi che non distingue, là dove il problema principale sta proprio nel tracciare una nitida linea di demarcazione tra le regole del diritto da un lato, e le regole della morale, della religione e del costume dall'altro.
Insomma: qual è il carattere proprio del diritto? Cos'è che di una regola fa una regola giuridica? Non il fatto che disciplini un comportamento umano, come abbiamo appena visto. Alcuni hanno pensato che bastasse un piccolo aggiustamento per giungere a una definizione soddisfacente: il diritto ‒ è stato detto ‒ non disciplina i comportamenti umani in generale, ma il comportamento che gli uomini tengono in società, ossia il loro comportamento sociale.
Il diritto, dunque, è la regola dell'uomo che vive in società con i suoi simili. Da qui deriverebbe la differenza con la religione e la morale. Con la religione, perché le regole religiose disciplinano i rapporti fra uomo e Dio; con la morale, perché le norme morali provengono dai comandi della coscienza individuale, e quindi hanno carattere soggettivo, mentre le regole giuridiche hanno una natura intersoggettiva, riguardano cioè l'interazione tra molteplici soggetti.
Secondo questo modo di vedere, dunque, ciò che distingue il diritto dalla morale e dalla religione è che la religione pone l'uomo in rapporto con Dio (e quindi è, per così dire, bilaterale), la morale pone l'uomo in rapporto con sé stesso (e dunque è unilaterale), mentre il diritto pone l'uomo in rapporto con gli altri uomini (e perciò è plurilaterale). La natura del diritto starebbe dunque in ciò: esso disciplina i comportamenti intersoggettivi e plurilaterali.
Ma le cose stanno veramente così? In realtà, non solo nel diritto ma anche nella religione e nella morale sono presenti norme che disciplinano comportamenti di reciproca collaborazione e di mutuo rispetto. Quando la religione ci comanda di amare il prossimo nostro come noi stessi, essa ci dà una regola intersoggettiva; allo stesso modo, la norma morale secondo cui dobbiamo trattare gli altri come fini e mai come mezzi è una regola intersoggettiva. È evidente che tali regole collegano più persone fra loro, ma non appartengono al dominio del diritto. Possiamo allora concludere che la natura specifica del diritto non consiste nel disciplinare i comportamenti intersoggettivi e plurilaterali. Molti hanno allora pensato che tale natura potesse essere rintracciata riflettendo sul fine che il diritto persegue.
Mentre infatti il diritto persegue lo scopo della pace, la finalità propria della religione e della morale è il bene. Ora è senz'altro vero che il diritto mira a eliminare la violenza dai rapporti fra gli uomini, ed effettivamente esso promuove la pace. Meno vero, però, è che il bene sia la prerogativa della religione e della morale. Non foss'altro perché bene è un termine vago e controverso: nel corso della storia si sono avvicendate molteplici concezioni del bene, spesso molto diverse tra loro. Quello che era bene ieri non è bene oggi; e ciò che è bene per alcuni è male per altri.
È proprio dall'urto fra le diverse concezioni del bene che sono derivati i conflitti più sanguinosi ‒ come le guerre di religione o le guerre ideologiche ‒ al termine dei quali gli uomini desideravano soltanto la pace (che, come abbiamo visto, è il fine proprio del diritto). Ne consegue che il criterio del bene serve poco a differenziare diritto e morale (perché la sua definizione è controversa), o non serve affatto (perché capita di risolverlo nel criterio giuridico della pace).
Ma poi, anche a prescindere da tutto ciò, siamo proprio sicuri che il fine della pace sia proprio soltanto del diritto? Come la mettiamo, allora, con le regole del costume, con quelle regole cioè che assorbiamo attraverso la famiglia e la scuola e fin dall'infanzia ci impegnano a certi comportamenti? Quando i genitori e i maestri ci insegnano a usare un determinato linguaggio, a salutare i conoscenti che incontriamo per strada, ad aiutare gli anziani in difficoltà, a non aggredire gli altri e così via, essi ci predispongono a intrattenere rapporti di pacifica convivenza con il prossimo. Ma ciò significa che il fine della pace è proprio anche del costume e non soltanto del diritto.
Siamo dunque tornati al punto di partenza: qual è il carattere specifico 'differenziale' del diritto? Il problema è certamente complesso, ma non insormontabile. Immaginiamo un piccolo centro urbano. È un giorno come un altro. Ciascuno come di consueto attende ai suoi affari. D'improvviso vengono esplosi due colpi: c'è un uomo che cade vittima di un'aggressione e un altro che fugge con la pistola ancora fumante tra le mani. Cosa succede? Come si reagirà all'omicidio? Ecco: è nella reazione al crimine che il diritto si distingue dagli altri sistemi normativi ed è qui che va cercata la sua natura specifica.
Il moralista fulminerà l'azione malvagia ammonendo che essa ha in sé stessa la sua punizione; d'ora innanzi ‒ egli argomenterà ‒ il criminale sarà in preda al rimorso per l'azione compiuta, sarà cioè tormentato dalla sua coscienza. Le norme morali sono dunque garantite da sanzioni interne, nel senso che ‒ all'infuori della coscienza e dell'intimo disagio che esse procurano ai trasgressori ‒ non c'è nient'altro che valga ad assicurarne il rispetto. Ma poiché non tutti gli uomini sono sensibili ai richiami della coscienza, per alcuni le norme morali non saranno affatto sufficienti per frenarne gli impulsi egoistici e aggressivi. È per questo che le regole della morale vengono dette regole a bassa efficacia.
Diverso è il caso della religione. Dinanzi all'omicidio, il sacerdote ricorderà che se il malfattore è così cattivo da non avvertire il rimorso della coscienza, mai e poi mai potrà sottrarsi alla sanzione esterna che lo attende nell'aldilà, dove un Dio giusto e inflessibile lo condannerà alla dannazione eterna. La sanzione religiosa, rispetto a quella morale, è dunque esterna, ma anch'essa ha il difetto di non essere operativa qui e ora, già su questa Terra.
Quanto alle norme del costume, anch'esse colpiscono l'omicidio. Tuttavia, trattandosi di regole che, in genere, nascono come consuetudini proprie di un gruppo sociale, sarà lo stesso gruppo che ne sanzionerà la trasgressione. Le sanzioni del costume sono dunque esterne come la religione (e non interne come la morale); ma a differenza della religione sono terrene e non divine. Inoltre, mentre le sanzioni religiose provengono da un organo preciso e determinato ‒ benché sui generis, come è Dio ‒, al contrario le sanzioni del costume non sono affidate ad alcun organo espressamente incaricato di questa mansione. Sono, come si dice, 'inorganiche' perché è il gruppo stesso, il gruppo nella sua anonima impersonalità, insomma è la folla che punisce l'illecito. Con la conseguenza gravissima che una simile punizione è assolutamente imprevedibile e incostante. E infatti, poiché le sensazioni della folla sono mutevoli, può ben capitare che allo stesso reato essa reagisca oggi in un modo e domani in un altro, secondo l'umore del momento. Per esempio, se l'omicida viene catturato subito dopo il delitto, può rimanere vittima della rabbia popolare e rischia anche il linciaggio; se invece viene catturato qualche settimana o qualche mese più tardi, quando le emozioni si sono raffreddate, potrebbe ricevere una punizione meno istintiva e più misurata. Ecco: con la misura siamo giunti al concetto che ci permette di cogliere la natura del diritto.
La specifica caratteristica del diritto è di garantire una sanzione misurata. Misurata, nel senso preciso che essa è regolata da misure che stabiliscono: quando deve essere inflitta la punizione; chi può infliggerla; come deve infliggerla; quale deve esserne l'entità. Nel mondo del diritto, perciò, non basta catturare l'omicida per punirlo. Bisogna consegnarlo alla polizia. La polizia provvederà a condurlo in giudizio davanti a un magistrato. Il magistrato istruirà un processo seguendo regole ben prefissate, al termine del quale verrà decisa una pena sulla base di norme ben determinate e uguali per tutti. In questo senso, la caratteristica delle regole che costituiscono il diritto è la presenza non tanto di sanzioni e dunque di regole sanzionate, quanto di regole che disciplinano la sanzione o, il che fa lo stesso, di regole che organizzano l'esercizio della forza. Precisamente questo è il diritto: il diritto è un'organizzazione della forza. O, più sinteticamente: il diritto è forza organizzata.
Ma questa conclusione non è ancora sufficiente. O per lo meno non lo è fin quando non raggiungiamo questa consapevolezza: è giusto dire che il diritto è forza organizzata, ma a condizione che per diritto si intenda non la norma singola, bensì l'insieme delle norme e più precisamente quell'insieme di norme che sono così collegate le une con le altre, così strettamente congiunte tra loro da trovarsi riunite in un sistema: nel sistema giuridico, appunto.
Se non ragionassimo così, se partissimo dalle norme considerate una per una anziché dall'insieme ordinato delle norme, dovremmo concludere che tutte le regole del diritto sono sanzionate. Ma sarebbe una conclusione sbagliata. Pensiamo per esempio all'articolo 315 del nostro Codice civile: "Il figlio ‒ così comanda il legislatore ‒ deve rispettare i genitori e deve contribuire […] al mantenimento della famiglia finché convive con essa". Si tratta senza dubbio di una legge, ma non è prevista alcuna sanzione.
Allo stesso modo, l'articolo 154 del nostro Codice penale prevede che i magistrati debbano rispettare il Codice di procedura penale "anche quando l'inosservanza non importa nullità o altra sanzione particolare": anche in questo caso, però, non è prevista sanzione alcuna. Tali norme fanno pienamente parte del sistema giuridico, pur non essendo regole sanzionate: ciò significa che la forza organizzata contraddistingue non tutte le norme giuridiche, ma l'ordinamento nel suo complesso.
L'allargamento della prospettiva dalle singole norme all'ordinamento nel suo complesso ci consente di affrontare un'ultima difficoltà. Partiamo da un esempio: immaginiamo che un ladro, pistola alla tempia, ci ordini di consegnargli il portafoglio. Non c'è dubbio che si tratta di un ordine coercitivo, e per giunta di una coercizione che risponde a tutti i requisiti della sanzione giuridica. Noi infatti sappiamo chi infliggerà la sanzione (il ladro), quando lo farà (lì per lì, se tentassimo di resistere), come lo farà (sparandoci) e quale sarà la misura della pena (la nostra uccisione).
Come si vede, si tratta delle stesse regole che disciplinano gli atti della forza. Eppure nessuno di noi sosterrebbe che il comando del bandito abbia una natura giuridica. Perché? Perché distinguiamo l'intimidazione del malvivente dalla prescrizione del legislatore? La risposta non è difficile: la seconda è un'imposizione autorizzata, la prima no. Il comando giuridico deriva dalla volontà di chi è legittimato a emanarlo. E chi è legittimato a emanarlo è il destinatario di norme ulteriori che autorizzano lui e soltanto lui a creare il diritto in date circostanze. Il rinvio a norme ulteriori è la nozione decisiva. Se stabiliamo che un comando è un comando giuridico quando è collegato con altre norme (e precisamente con le norme che autorizzano il legislatore a emanarlo), evidentemente il diritto sta qui, nell'insieme di norme che sono collegate fra loro e non certo nella regola singola.
Allora, per ritornare al nostro problema: il comando giuridico è tale ‒ e non può essere confuso con la prepotenza del bandito ‒ quando si ricollega a una o più norme di autorizzazione. Che sono proprio quelle che difettano al bandito, i cui atti non sono autorizzati da niente e da nessuno. Si potrebbe però obiettare che il ragionamento tiene, finché il confronto è con la prevaricazione di un malvivente isolato. Supponiamo però che questi, in combutta con altri complici, appartenga a un gruppo terroristico. Noi sappiamo che i terroristi operano secondo le regole di un meccanismo inesorabile, all'interno del quale ciascuno deve agire sulla base dell'autorizzazione dei suoi capi. Come la mettiamo? Anche qui c'è l'autorizzazione. Nondimeno, all'azione terroristica rifiutiamo di attribuire la qualifica della giuridicità. Perché? Perché l'eversore è autorizzato da un organismo che è meno efficace e cioè più debole dell'apparato statale. Ne deriva che se per avventura i terroristi sbaragliassero le resistenze dello Stato e riuscissero a guadagnarsi l'obbedienza abituale dei cittadini, essi e non altri andrebbero ascritti fra gli organi del diritto.
In conclusione, il diritto è, sì, un'organizzazione della forza, con l'avvertenza però che la forza contraddistingue non le norme singole ma l'ordinamento nel suo insieme e che questo ordinamento è valido, ossia obbligatorio, quando è efficace, vale a dire quando è obbedito abitualmente, se non sempre, cioè, per lo meno nella generalità dei casi. La definizione di diritto, dunque, è la seguente: il diritto è un sistema di norme a sanzione organizzata che è obbligatorio se è generalmente efficace.