Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
I Discorsi sono l’opera più importante di M., quella che, raccogliendo insieme tutti i temi del suo pensiero politico, storiografico e, lato sensu, filosofico, costituisce forse quanto di più alto si sia scritto in Italia sul tema della ‘repubblica’, ed è anche quella che meno di ogni altra rivela il segreto della sua composizione. Quando, in una data certamente anteriore al 1519, la dedicò a Zanobi Buondelmonti e a Cosimo Rucellai, a quei due giovani amici con i quali aveva conversato intorno alle questioni che sarebbero state trattate nell’opera, M. confidò di avervi «espresso» quanto sapeva e aveva imparato, «per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo» (Dedica 2). Ma a queste parole, chiare per un verso quanto erano criptiche per un altro, non aggiunse la chiosa che avrebbe potuto dischiuderne il senso più autentico. Quelle parole si riferivano alla pratica della sua azione di governo, ossia ai quindici anni da lui trascorsi nella vita politica come segretario della seconda cancelleria fiorentina e all’esperienza che perciò aveva fatta delle «cose del mondo»? O, connesse com’erano a quelle rievocanti la «continua lezione», si riferivano anche a quel che egli aveva appreso leggendo e meditando i testi, deve supporsi, degli scrittori antichi, in un tempo non necessariamente coincidente con quello trascorso fra le pratiche del governo fiorentino? È possibile, dopo averne colto la connessione, distinguere tuttavia il momento del ‘sapere’, realizzato nella lettura e nello studio, da quello del ‘fare esperienza’, realizzato nel governo delle cose? In realtà, ribadita l’ovvia connessione, ma data altresì per buona anche la distinzione fra lo studio, sui testi, della politica e il suo effettivo esercizio, la questione è se, dall’invito che aveva ricevuto dai suoi giovani amici ed estimatori a ragionare negli Orti Oricellari intorno alla sua ‘scienza’, M. avesse tratto l’occasione di riordinare le ‘carte’ messe insieme, non solo negli anni della cancelleria, ma altresì in quelli anteriori al tempo in cui vi era stato assunto. In realtà, è ben vero che a un uomo del suo ingegno, e della sua eccezionale capacità di ideazione teorica, non era impossibile, anche nel periodo del più intenso lavoro politico, congiungere alla prassi tanto studio quanto fosse necessario a meglio illuminarla. Ma vero è anche che gli anni del segretariato furono di un intensissimo e talvolta convulso lavoro. Per limitarsi soltanto alla sua attività di inviato della Signoria presso le principali corti italiane ed europee, e prescindendo dalle questioni concernenti il governo della Repubblica, si pensi ai viaggi diplomatici che lo portarono quattro volte in Francia, per non contare quelli nelle corti italiane, e una volta in Tirolo per incontrarvi l’imperatore Massimiliano. Si pensi alle fatiche e alle tensioni politiche connesse al suo impegno di reclutatore di una milizia cittadina: se ne concluderà che non è realistico immaginare che fra la prassi politica e la teoresi il rapporto si stabilisse nel momento stesso in cui la prima aveva luogo, che, appunto, nello stesso istante, M. fosse un politico e un teorico della politica, un uomo d’azione e uno storico.
Si sa che, in uno dei tanti e tanti tentativi che, più o meno consapevolmente, si misero in atto di neutralizzare lo ‘scandalo’ rappresentato dal Principe risolvendolo nella contingente occasione che ne aveva determinato la nascita, in tempi relativamente recenti si asserì che, mentre il trattato sui principati riassumeva l’esperienza della cancelleria e della cultura che la rifletteva, per scrivere i Discorsi M. ebbe bisogno di rinnovarla alla luce di quella che in effetti vi si riflette; e che questo fu il lavoro a cui egli attese post res perditas. Tesi assurda, non solo perché la cultura che intesse la trama del Principe è, per certi aspetti, la stessa che si osserva nei Discorsi, e basti pensare all’ampiezza delle conoscenze di storia romana imperiale che emerge dal capitolo decimonono; non solo perché la sua acquisizione non può essere affidata a un momento storico contrassegnato da una diversa ispirazione ideale. Non solo per questo. Ma per la terrestre ragione che l’affiatamento con i temi culturali, che nei Discorsi fanno tutt’uno con l’enunciazione delle tesi teoriche, non è tale che possa realizzarsi in una breve stagione. Nemmeno a un personaggio quale fu M. il periodo compreso fra il 1513 e il 1515 sarebbe mai bastato perché egli vi conseguisse quello che i Discorsi rendono palese, e l’altro, altresì, che tengono nascosto. In realtà, a dover essere rivista e messa in più realistici termini è la questione del momento, o dei momenti, in cui M. condusse le sue letture, compì le sue essenziali esperienze intellettuali, maturò, e configurò, un ‘sistema di idee’ che non è pensabile fosse stato messo insieme nei giorni vuoti dell’ ‘esilio’ di Sant’Andrea in Percussina, quando, di ritorno dall’osteria, rientrava in casa e, spogliatosi degli abiti quotidiani, pieni di fango e di loto, indossava quelli regali e curiali, degni degli scrittori che lo attendevano e che egli leggeva e interrogava.
Se la si prende nella sua letterale immediatezza, e non se ne osserva la sapiente, e anche ironica, tessitura retorica, la celeberrima lettera che, il 10 dicembre 1513, M. inviò a Francesco Vettori per informarlo della composizione del Principe è più adatta a far insorgere equivoci che a fornire certezze biografiche. Se la si considera nella sua tessitura retorica, ma cogliendovi tuttavia il tratto realistico che pur ne emerge, se ne cava un ben altro costrutto. In primo luogo, che non è possibile rivolgere domande a testi che non siano stati previamente letti e conosciuti tanto da renderne possibile la formulazione. In secondo luogo, che non è possibile ottenerne risposte se, appunto, la loro ‘umanità’ non sia stata a più riprese sollecitata e messa alla prova. In terzo luogo, che una conseguenza certamente si sarebbe imposta se, traendola da queste semplici osservazioni, si fosse perciò cominciato a considerare la possibilità che il personaggio che usciva all’improvviso come da una buia notte ed entrava, con un alto grado, nella cancelleria fiorentina non poteva essere uno che avesse trascorso i suoi ventinove anni senza far nulla e senza nulla apprendere, e che così comunque, fedeli alla consegna del silenzio documentario, conveniva rappresentarlo.
A parte ciò che la carica alla quale era stato innalzato prevedeva, è difficile immaginare che nel suo bagaglio intellettuale non ci fossero già le linee concettuali che il fuoco vivo della prassi avrebbe ulteriormente determinate. Anche se purtroppo si ignora con quale ambiente culturale e politico egli fosse stato in contatto negli anni della giovinezza, un fatto, quello almeno, emerge dal buio che l’avvolge. Si sa che da giovane, e comunque prima di entrare in cancelleria, M. aveva trascritto di suo pugno l’intero poema di Lucrezio, postillandolo in alcuni punti. Non si sa tuttavia in che anno, e perché, quel compito gli fosse stato affidato e fosse stato eseguito. Non si sa, soprattutto, chi gli avesse dato quell’incarico. Le congetture che sono state proposte e che, di recente, sono state riprese da Alison Brown, alla resa dei conti si sono dimostrate, se non illusorie, quanto meno fragili. Si può ipotizzare che M. avesse seguito le lezioni lucreziane di Marcello Virgilio di Adriano Berti e ne avesse tratto varie suggestioni. Si può discutere intorno all’ipotesi che, non soltanto di lì, ma, piuttosto, da ambienti ideologicamente orientati in senso non ortodosso, un progetto come quello poteva aver preso l’avvio. Ma che fossero personaggi di ambienti radicaleggianti e non ortodossi i committenti ai quali il giovane M. faceva riferimento si deduce più dalla natura del poema di Lucrezio che non da fatti specifici e circostanze verificate. Migliore risultato dà, senza dubbio, la domanda relativa alle tracce che il pensiero del poeta latino lasciò nel suo. Ma un’indagine volta a verificare quanto di lucreziano, a parte l’intonazione genericamente irreligiosa, vi sia nel suo pensiero, pertiene alla storia delle idee o, se si preferisce, dei concetti, e non ha a che fare con una storia che intenda mettere in chiaro circostanze di fatto.
Da quella sua avvenuta esperienza lucreziana possono trarsi, tuttavia, conseguenze non prive di importanza. Che la trascrizione di un poema difficile come il De rerum natura presupponesse, nel personaggio che vi si impegnava, una familiarità con il mondo classico, e in particolare con quello latino, non di seconda o di terza mano, è ipotesi da tenere in ragionevole considerazione; e se quel lavoro fu eseguito in un periodo di poco precedente l’ingresso in cancelleria, tanto più occorre ammettere che M. doveva aver dato prova, a chi glielo affidava, di essere all’altezza del compito, e che il suo profilo culturale era quello di uno che negli studi aveva passato ben più che qualche ora. Alle spalle del personaggio che nel 1498 entrava nella cancelleria fiorentina, c’era la trascrizione del De rerum natura. Ma dietro quella trascrizione c’era altro, di cui non sappiamo, ma che è necessario, tuttavia, presupporre come cosa certa. La cultura classica di cui M. dette prova nelle opere scritte post res perditas non è certamente paragonabile a quella, per fare solo questo nome, di Poliziano. Ma non è di quelle che s’improvvisano in pochi giorni, leggendo in volgare gli storici latini e greci. Non è dunque da una conoscenza estemporanea e rapsodica, ma da una che dalla letteratura e dalla filosofia trapassava nella storia, che derivarono le non infrequenti, e a volte sorprendenti, citazioni del mondo romano che s’incontrano non solo nei suoi scritti d’ufficio (si pensi al Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati), non solo nei suoi componimenti letterari (si pensi, per es., ai Capitoli), ma anche nelle sue lettere diplomatiche, ossia nei dispacci inviati a Firenze dalle corti presso le quali svolgeva le sue missioni. Il breve scritto sulla Valdichiana ribellata, tante volte lo si è notato, costituisce una sorta di anticipazione dell’uso di Livio nell’analisi di una situazione contemporanea; e a parte il riferimento al fatto specifico che ne fu l’occasione, è tuttavia importante, non tanto, e non solo, per l’anticipazione che, in astratto, vi si può scorgere del metodo che, arricchito e perfezionato, sarebbe stato poi posto a fondamento dei Discorsi, quanto per la familiarità, che dimostrava già conseguita, con l’opera dello storico romano, ben prima che, com’è ragionevole supporre, l’assunzione in cancelleria gli togliesse l’agio di uno studio sereno e disteso. Di questa già conseguita familiarità sono prova gli accenni al mondo antico e alla ripresa della teoria concernente la successione degli imperi nel capitolo “Di Fortuna”, vv. 127-47; gli spunti rievocativi di momenti della storia di Roma, con particolare riferimento a Scipione («un uom divino, / qual mai fu, né ma’ fie simile a quello»), nel capitolo “Dell’Ingratitudine”, vv. 76 e segg.; le considerazioni sulla decadenza determinata in Italia dalla rovina dell’impero romano nel capitolo “Dell’Ambizione”, vv. 109-20: un’idea, questa, o un concetto di cui non si esagererà mai l’importanza se si intende comprendere a fondo i Discorsi, e poi, in riferimento a questi assai più che al Principe, le Istorie fiorentine.
Si avrebbe torto se tali accenni, spunti, considerazioni si pretendesse di valutarli alla stregua di luoghi comuni e di giudicarli mediocri a causa della non eccellenza della resa letteraria che per allora ricevettero. Non è a questa, infatti, che qui si deve guardare, ma a ciò che, per il suo tramite viene alla luce: e cioè una conoscenza della storia di Roma, e una valutazione della sua importanza nel quadro di quella del mondo, che doveva ben esser già saldo patrimonio della sua mente quando, impegnato nella politica, di continuo aveva occasione di misurare i ‘modelli’ antichi con le realtà del presente. L’uomo che, in Francia, il 21 novembre 1500, aveva spiegato a Georges d’Amboise come e perché Luigi XII dovesse, se avesse voluto essere virtuoso, «seguire l’ordine di coloro che hanno per lo addrieto volsuto possedere una provincia esterna: che è diminuire e’ potenti, vezzeggiare li sudditi, mantenere li amici, e guardarsi da’ compagni, cioè da coloro che vogliono in tale luogo avere equale autorità» (LCSG, 1° t., p. 525), non pensava in modo diverso da quello che questi medesimi concetti, ricordando la lontana occasione che per prima li aveva provocati, avrebbe riesposti nel terzo capitolo del Principe. Allo stesso modo, non era un qualsiasi politico dotato di ingegno l’uomo che, essendo in missione per la seconda volta presso Cesare Borgia, in un momento critico di quella aveva chiesto al suo coadiutore, Biagio Buonaccorsi, che gli fosse urgentemente mandato un Plutarco.
Si è ironizzato sull’importanza che da alcuni fu attribuita alla curiosità suscitata in M. dal duca Valentino e ai pensieri a cui questo personaggio lo costringeva: come se da politico egli non pensasse mai e solo dopo aver perso l’ufficio si concedesse questo lusso, anche se con la dovuta moderazione. In realtà, non era soltanto un politico e diplomatico quello che svolgeva il suo lavoro dentro e fuori della cancelleria. Era, in primo luogo, un intellettuale che non aveva perso tempo prima di entrarvi e che, quando vi entrò, era già in possesso di un ‘sistema’ di idee che attendeva di esser messo alla prova di un’esposizione compiuta, quando l’occasione si fosse presentata. Il che non si dice per mettere in dubbio che l’esperienza delle cose moderne fosse servita a far sì che quanto era stato studiato e pensato in precedenza trovasse la sua migliore espressione negli scritti composti post res perditas. O per presentare l’assurda idea di uno scrittore per il quale l’essere stato quindici anni a studio dell’arte dello Stato a niente di importante avesse dato l’avvio e concesso espressione. Non per questo si dice così. Ma per richiamare l’attenzione degli studiosi sulla natura del buio che include in sé e nasconde la giovinezza di Machiavelli. Un buio nel quale ben si vorrebbe penetrare avendo fra le mani un lume che, pur modesto, bastasse a far intravvedere qualcosa almeno di quel che vi si nasconde; un buio che umilia l’orgoglio degli studiosi nell’atto in cui li costringe a congetturare, e magari a contentarsi di quel che congetturano. Ma del quale non si può tuttavia dire che sia un puro buio, una coltre nera sovrapposta a una realtà ignota. Sono infatti i quindici anni trascorsi in cancelleria e, a parte i versi, le centinaia di pagine che allora M. scrisse a rendere non solo possibile, ma necessaria e non gratuita, la congettura relativa a quel che doveva aver appreso prima di essere chiamato a farne parte, alle molte iniziative culturali, oltre che politiche, nelle quali, con l’ingegno di cui la natura l’aveva dotato, egli si era coinvolto nella Firenze che viveva la sconvolgente, per tanti versi, esperienza savonaroliana. Di quella esperienza egli fu certamente partecipe, nel senso che, criticandola, a essa non fu indifferente. La lettera famosa che inviò a Ricciardo Becchi per ragguagliarlo intorno al contenuto di due prediche tenute da Savonarola il 10 e il 18 febbraio 1498 è stata spesso letta, da Francesco De Sanctis in primo luogo e poi da Giosue Carducci e da altri, come un documento di razionalismo, di laicismo intellettuale, di pungente ironia. Il che, a parte esagerazioni e anacronismi, è certamente vero. Ma non lo sarebbe se nell’ironia si cogliesse un rifiuto opposto alla necessità di conoscere quello che pure la suscitava, e se non si considerasse con la dovuta attenzione l’accenno che, in Discorsi I xlv, M. fece agli scritti del Frate e alla dottrina che vi era contenuta. Scritti che dunque non gli erano ignoti; dottrina che, leggendoli, e non solo ascoltandolo, aveva appresa.
L’idea alla quale si dovrebbe dare adeguato risalto e, nei limiti pur angusti della documentazione, conferire il necessario svolgimento è perciò che era un uomo tutt’altro che inesperto di ‘lettere’ e di nozioni storiografiche quello che, nel 1498, era entrato in cancelleria e a tal punto si era coinvolto nella Repubblica soderiniana che, tornati i Medici nel 1512, per lui nella vita politica non ci fu più posto. L’idea alla quale, senza paura che la fantasia usurpi il luogo della certezza, sarebbe opportuno dare più netto risalto è che dovettero essere anni di studio, non superficiale, ma intenso, quelli che M. visse prima dell’ingresso in cancelleria; e che tuttavia non lasciarono tracce in documenti in cui egli avesse parlato di sé o altri avesse detto qualcosa di lui. Certo, e non si sa perché, egli non fu avviato dal padre a frequentare lo Studio pisano e a conseguirvi un titolo (quello di ‘messere’ spettava a Bernardo, che era infatti uomo di legge, non a lui). Ma che la sua giovinezza trascorresse fra i libri, e non solo necessariamente fra quelli che il padre aveva in casa; che, oltre a leggere cose platoniche e aristoteliche, si avventurasse nello studio di libri giuridici, e non disdegnasse di informarsi sulla cultura dei medici, è ipotesi anch’essa più che plausibile: anche se il riscontro che di queste possibili nozioni si ricercasse nelle sue opere potrebbe dar luogo a sorprese o, se non a sorprese, a singolari constatazioni.
Non può infatti essere senza nesso con il modo da lui tenuto, non tanto nell’apprendere quanto piuttosto nel giudicare di queste scienze, la satira con cui nella Mandragola le rappresentò e che, essendo feroce e irridente, non poteva tuttavia non presupporre che egli avesse dovuto dedicare a esse qualche studio. Del resto, poiché la materia è tale che, nell’atto in cui consiglia di non abusarne, invita alla congettura, non si riesce a non pensare che vi fosse dell’autobiografia dissimulata nella rappresentazione del giovinetto fiorentino affetto dalla malattia della corsa, che, dopo esser stato visitato da molti medici, fu affidato dal padre a un «ceretano» il quale pretese di averlo risanato e con questa sicurezza glielo restituì: salvo che dopo pochi giorni, alla vista della via Larga, così «dritta e spaziosa», la frenesia della corsa lo riprese,
e posposta da parte ogni altra cosa, / di correr gli tornò la fantasia / che mulinando mai non si riposa; / e giunto in su la testa de la via / lasciò ire il mantello in terra e disse: / “Qui non mi terrà Cristo”, e corse via (Asino i, vv. 79-84).
Non si può escludere che il personaggio che, durante gli anni della cancelleria, era apparso cursitandi avidus («avido di correre qua e là») al suo collega e sottoposto Agostino Vespucci, avesse trovato il suo riscontro nel giovane corridore dell’Asino; che allegorizzava, peraltro, non solo il Segretario fiorentino e il suo frenetico attivismo, ma anche il giovane che M. era stato negli anni precedenti, quando, forse, la cura paterna di affidarlo a qualche bravo maestro era stata regolarmente frustrata da lui che, avido di corse intellettuali, nemmeno a Cristo era disposto a ubbidire, e soltanto dei suoi interessi era disposto ad ascoltare il richiamo; e qui risuona una nota che troppe rispondenze ha nella sua opera di prima e dopo l’esilio, perché qualcuno possa sul serio dubitare del significato allusivo di quell’espressione (che sulle labbra di uno che non avesse avuto quel nome e cognome potrebbe anche esser presa come un modo di dire). Ma anche qui, se è alla sua natura ribelle che con l’apologo del giovane corridore M. alludeva, sarebbe difficile banalizzarlo prendendolo nella sua materialità e non come la metafora di una autentica frenesia intellettuale, di una sete di conoscenze e di esperienze intellettuali che non poteva essere vinta se non moltiplicandone la forza.
Per restare sul tema della sua pregressa formazione culturale, certamente errata è l’ipotesi, di recente proposta, secondo cui, riprendendo un pensiero che nel suo De legibus et iudiciis dialogus Bartolomeo Scala aveva attribuito a messer Bernardo, quando trattò di Numa Pompilio e dei suoi conversari con la ninfa Egeria, M. avrebbe sostenuto l’origine divina della religione. Altro che origine divina! Se mai, in effetti, quel passo gli stette in mente quando dissertava del secondo re di Roma, che giudicava superiore a Romolo per la finzione religiosa cui aveva dato luogo con la favola di quei suoi colloqui con la ninfa, dovrà dirsi che, con uno dei suoi ironici procedimenti dissacranti, ne stesse capovolgendo il concetto, e che proprio contro un’idea sostenuta, fra gli altri, da suo padre, egli allora volgesse la punta acuminata della sua critica. Il che dimostrerebbe non errata la precedente congettura e la confermerebbe. Non si sarebbe invece nel vero se si ritenesse che, nell’affermare che «né ancora la medicina è altro che sperienza fatta da gli antichi medici, sopra la quale fondano i medici presenti i loro giudizii» e che non altro sono le leggi che «sentenze date da gli antichi iureconsulti, le quali ridotte in ordine a’ presenti nostri iureconsulti giudicare insegnano» (Discorsi, proemio 3), M. non desse voce che a un’opinione corrente e priva, per lui, di particolare importanza. In realtà, quel suo giudizio era da mettere in relazione non solo con la famosa disputa umanistica relativa alla superiorità della medicina sulle leggi, o di queste sulla medicina, ma, per quanto concerneva le leggi e le sentenze degli antichi giureconsulti, con idee che forse erano di uso corrente nell’ambiente di messer Bernardo e che egli potrebbe aver ripreso sottolineando con forza il significato che doveva attribuirsi a questo concetto della loro antichità. Un concetto che non si dura troppa fatica a penetrare nel significato e nell’intenzione polemica se lo si interpreta nel quadro della sua rivendicazione del carattere esemplare dell’antichità; che era per lui come la trama più profonda delle cose da rivendicare e trarre di nuovo alla luce, rimuovendo quel che ne impediva la diretta e semplice percezione. La svalutazione dei giureconsulti moderni a paragone di quelli antichi, e la riduzione delle loro alle sentenze di questi, può avere, senza dubbio, più di un significato; e come non può escludersi che la coincidenza delle asserzioni di M. con tesi come quelle di Bartolo da Sassoferrato e della sua scuola riguardasse, non la tesi stessa, quanto piuttosto la possibilità di trarne un argomento favorevole agli antichi e non ai moderni, così su questa via deve procedersi oltre. Deve infatti essere preso in considerazione l’argomento, o se si preferisce l’ipotesi, secondo cui, sostenendo la sua tesi, M. intendeva prendere posizione nei confronti della filologia che, anche in relazione all’universo delle leggi, costituiva e avrebbe costituito il fondamento delle tesi di Poliziano e di Andrea Alciato. La storicizzazione dell’antico, ottenuta per il tramite della più raffinata filologia, implicava bensì che esso fosse meglio valutato e conosciuto, ma nell’atto stesso in cui, attraverso la sua valorizzazione, il moderno si poneva come il vero criterio del vero e del falso, e sull’oggetto del suo studio affermava, per conseguenza, una superiorità che, per parte sua, M. non era disposto a riconoscere. Era vero, senza dubbio, che nella filologia poteva scorgersi l’atto di amore che ne costituiva la premessa, l’oggetto di questo amore essendo l’antico a cui essa rivolgeva le sue cure. Ma restituire il volto autentico del passato significava necessariamente storicizzarlo; storicizzarlo importava la restituzione della sua particolarità e, con questa, della sua differenza dal presente che, da quel che particolareggiava e storicizzava, perciò, necessariamente, si distingueva. Il che, come non dovrebbe sfuggire, non poteva piacere a M. che, in questa sotterranea disputa degli antichi e dei moderni, non stava dalla parte di questi, ma dalla parte di quelli. Insomma, M. sarà pure da considerare, in omaggio a Francesco De Sanctis, come il fondatore dei tempi moderni, ma non era un amico della contemporaneità. L’antichità richiedeva, a suo giudizio, di essere riproposta per quel che era stata, nell’esemplarità che le era intrinseca. Quel che, a proposito di questa sua asserzione, si legge nei libri di Myron P. Gilmore e di Alison Brown richiederebbe perciò di essere ripreso e riesaminato in relazione al modo in cui la questione dell’antico e del moderno si poneva nell’ambito culturale cui apparteneva messer Bernardo. Non è una ricerca facile; e non è detto che sia destinata al successo. Ma deve rimanere fermo che quel che, nel proemio dei Discorsi, M. asseriva è da mettere in relazione con esperienze di lettura, di studio, di discussione, risalenti agli anni della sua anonima giovinezza: con esperienze che non è pensabile fossero state acquisite nell’anno o nei due anni trascorsi dall’allontanamento dagli uffici, quando, perduta la politica, ricercò la cultura.
Se, per motivi che hanno dalla loro parte forti elementi di ragionevolezza, è giusto che nel buio che avvolge la giovinezza di M. si cerchi di individuare quello che, alla luce di quanto poi sarebbe avvenuto, è ben possibile che vi fosse contenuto e nascosto, la cosa singolare, il fatto strano che ne emerge è, d’altra parte, la cura scrupolosa con la quale egli sembrò volerlo ribadire nella sua impenetrabilità, è l’impegno che sembrò voler mettere a non far sapere nulla di quel che lo aveva riguardato fino al momento in cui la sua vita divenne pubblica: come se, in quegli anni, la sua esistenza fosse stata vuota di avvenimenti ed egli avesse vissuto in solitudine gli anni della sua formazione. Chi ha letto con attenzione i suoi carteggi, non solo quelli d’ufficio scambiati con i colleghi di cancelleria, ma i due maggiori, quello con Francesco Vettori e l’altro con Francesco Guicciardini, non ha tardato a comprendere che, malgrado i suoi vari talenti letterari e artistici, il gusto della descrizione psicologica e persino la potenziale vena novellistica, M. non era uomo che scoprisse facilmente le proprie carte e a sguardi indiscreti consentisse di penetrare nelle cose sue. In una lettera del 17 dicembre 1517, indirizzata a Ludovico Alamanni, parlò dell’Orlando furioso, disse che il poema era «bello tutto» e «in di molti luoghi» mirabile e solo si lamentò del fatto che, avendo nominati tanti poeti, l’Ariosto non avesse pensato di citare anche lui, che era stato lasciato indietro come cosa vile e trascurabile (l’espressione nel testo è, come si sa, più forte) e aveva perciò subito un trattamento che nell’Asino non gli avrebbe restituito. Così, per via quasi indiretta, gli accadde di citare una sua opera, che con il Furioso non poteva intrattenere alcun paragone e che rimase in effetti interrotta. In lettere dirette a Guicciardini gli accadde anche di citare la Mandragola, ma solo perché la commedia era stata rappresentata e perciò, se qualcuno gliene domandava, parlarne era inevitabile. E quanto al Principe, lo ricordò bensì al Vettori (nella lettera del 10 dicembre 1513) quando si trattava di «darlo» o di non darlo al signore mediceo dal quale si aspettava che quanto meno gli facesse «voltolare un sasso». Ma, passato quel momento, non ne parlò più, sebbene il piccolo libro avesse preso a circolare e fosse cominciata la sua grande e pericolosa avventura. Di opere nelle quali fosse impegnato a trasferire l’esperienza sua delle cose antiche e moderne non c’è, nel suo vario carteggio, menzione che tenga dietro a quella che per caso gli era una volta accaduto di aver fatta. E totale e impenetrabile fu il silenzio mantenuto sui Discorsi, che nemmeno negli altri suoi scritti furono mai citati, tranne che per quel criptico accenno all’opera sulle repubbliche, delle quali aveva, «altra volta», ragionato «a lungo». Un accenno che, poiché si trova all’inizio del secondo capitolo del Principe, costituì il tormento dei molti studiosi che si chiesero se, dunque, il trattato sulle repubbliche era già stato incominciato quando M. mise mano a quello sui principati, oppure se la questione non poteva esser posta in questi termini dal momento che il trattato sulle repubbliche non era necessariamente la stessa cosa di quelli che poi sarebbero stati i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Questione sfuggente, in effetti, e che non si può essere certi di aver avviato alla soluzione quando, aggirando (con purissimo arbitrio, peraltro) l’ostacolo costituito da quell’accenno, s’intendesse che, nati nell’ambiente oricellario che, non si sa con quanta continuità, M. aveva frequentato fra il 1514 e il 1517, fu in questi anni che i Discorsi furono messi al mondo. Se, come non c’è ragione di dubitare, il Principe fu iniziato nella prima estate del 1513 e fu composto nell’ordine progressivo segnato dal numero dei capitoli, la trattazione (se non la si vuol chiamare ‘opera’) sulle repubbliche deve necessariamente appartenere a un periodo precedente, che potrebbe essere collocato subito dopo la perdita degli uffici, quando a M. fu prescritto il soggiorno fuori di Firenze e, ritiratosi a Sant’Andrea in Percussina, per vincere la tristezza dell’‘esilio’ egli riprese in mano le sue carte e, fra queste, quelle che contenevano, se non i primi diciotto capitoli dell’attuale primo libro, la loro materia. Materia già elaborata per altro secondo un’idea che, essendovi presente e ben individuabile, imponeva che l’ulteriore messa a punto non potesse avvenire se non nel modo in cui avvenne, ossia rielaborando bensì, ma anche conservando, quel che già aveva ricevuto una prima espressione. Se poi i primi diciotto capitoli siano da considerare come l’inizio di un’opera che originariamente non era stata concepita nella forma di un libero commento a Livio e soltanto in seguito ne divennero la parte iniziale, è questione insolubile in termini di certezza. L’unica cosa certa è che, così com’erano, erano anteriori al Principe. Il che riapre comunque la questione del periodo nel quale le idee di M. cominciarono a determinarsi e a prendere forma. Una questione che certo, per le ragioni fin qui discusse, non può essere trattata se non per via di congetture: che, per quanto nel formularle si usi prudenza, sono, in quanto tali, pur sempre destinate a generarne altre, di diverso e anche di opposto segno, e a dar luogo perciò a una guerra di opinioni che rischia ogni volta di riuscire tanto monotona quanto inevitabile.
Sia probabile o improbabile che da un documento fin qui rimasto inaccessibile venga qualche luce sulla giovinezza di M., resta tuttavia che la congettura relativa al suo carattere operoso non può essere considerata priva di fondamento. Non può esserlo perché quel carattere risulta da quanto si legge negli scritti, sia letterari sia di governo, anteriori all’esilio; che certo, per come si presentano all’occhio che pur cerchi di scrutarli in profondità, non rivelano la trama dei concetti presenti nei primi diciotto capitoli del primo libro dei Discorsi, ma nemmeno contengono pensieri che si rivelino contrastanti e per quelli richiedano perciò una datazione più tarda. Insomma, è ragionevole pensare che la lettura di Livio e degli altri storici, latini e, in traduzione, anche greci, di cui M. si servì nel Principe e nei Discorsi, debba essere assegnata al periodo anteriore al segretariato, senza escludere che a quello risalgano altresì, almeno in parte, le notazioni, le riflessioni, il materiale che, subito dopo la perdita dell’ufficio, e forse anche prima che questo evento funesto si determinasse, egli mise insieme e ordinò, allo scopo di farne l’opera sulle repubbliche che, citata all’inizio del secondo capitolo del Principe, fu rifusa nel commento liviano, del quale venne così a costituire l’inizio. L’ipotesi in questione non può farsi, d’altra parte, così stringente da dar conto anche dell’anno o degli anni in cui quel materiale e quei pensieri furono raccolti: basti il suggerimento che materiale e pensieri si saranno accumulati sullo scrittoio del giovane M. via via che le letture producevano dei risultati e questi, a loro volta, orientavano le letture nella direzione che alla fine prevalse. Questo, beninteso, non significa che quando, nel 1513, il pensiero del Principe prevalse su ogni altra idea che potesse essergli passata per il capo, M. lasciasse da parte un’opera sulle repubbliche che quindi, com’è stato detto, nacque e morì. Se mai di quell’opera fosse sul serio possibile decretare la morte, certo non potrebbe parlarsi di una sua trasfigurazione in altro, perché ciò che muore, muore e non si trasfigura, e quel che si trasfigura segno è che non è morto. In realtà, nata come progetto da attuare quando i tempi lo avessero reso possibile, non c’è ragione di credere che l’opera citata nel secondo capitolo del Principe fosse altra cosa da quella che ora ci sta dinanzi come il nucleo iniziale (capp. i-xviii) del primo libro dei Discorsi. A provare che la trattazione delle repubblica a cui M. alluse nel secondo capitolo del Principe coincide sostanzialmente con i capitoli iniziali del primo libro dei Discorsi, è la compattezza che li caratterizza rispetto alle altre sezioni in cui l’opera si articola, e che certo, con l’eccezione forse dei primi cinque capitoli del secondo libro, in nessun’altra sua parte presenta un carattere altrettanto organico. Insomma, quando il progetto di un commento liviano, del quale (sia ribadito) fin lì non si era visto l’esempio, prese forma determinata, o più determinata, ed egli si trovò fra le mani l’abbozzo dell’opera sulle repubbliche, che in quella forma non poteva essere mandata avanti perché l’altra premeva e chiedeva spazio, ma nemmeno poteva essere distrutta, perché attuale in lui era il pensiero che l’aveva ispirata, M. le impose un destino che era, come si è detto, non di morte, ma di trasfigurazione. E la rielaborò, la adattò alla nuova forma che gli si era delineata nella mente: per non dire che la trasformazione dell’opera delle repubbliche nei capitoli iniziali del primo libro dei Discorsi avvenne via via che egli ne rileggeva le pagine e, correggendole e integrandole, si accorgeva che ormai stava lavorando a un’opera che, rispetto a quella che pur aveva sotto gli occhi, andava oltre ed era una cosa nuova.
Difficile, allo stato delle conoscenze, pensare che egli l’avrebbe citata, e messa in ideale contrapposizione alla materia che si accingeva a trattare, se essa non fosse stata presente sul suo scrittoio, fra le sue carte e, naturalmente, alla sua mente, che era in effetti impegnata a definire le forme dei principati anche in relazione alle repubbliche e alla loro struttura interna. Difficile pensare che l’avrebbe citata se fosse uscita dal numero delle cose che considerava attuali o se, quantunque materialmente presente, non avesse avuto per lui niente in cui potesse riconoscere l’interesse che lo costringeva a continuarla in quella forma. Si può discutere, naturalmente, se, quando nell’estate 1513 M. mise mano al Principe, i capitoli dei Discorsi nei quali l’opera sulle repubbliche aveva avuto, come si è detto, la sua trasfigurazione, fossero già quali li leggiamo oggi o, il processo della revisione essendo cominciato, quelli ne fossero stati trasformati in profondità. Nemmeno si può sapere se la radicalità eventuale della trasformazione avesse riguardato lo stile, l’organizzazione della materia o qualcosa, anche, di più profondo. Dare una risposta a queste domande è, allo stato della documentazione, impossibile. Ma non per questo l’ipotesi proposta dev’essere abbandonata. A sua conferma, deve piuttosto tenersi fermo che, nel metter mano al materiale che gli si era via via accumulato nelle carte così come era cresciuto e gli si era definito nella mente, M. lo riprese, lo integrò, forse, di nuove considerazioni e di esempi tratti dalle vicende che avevano visto, con il ritorno dei Medici nel 1512, la fine della Repubblica soderiniana, e tutto questo fece rifluire nel progetto del commento liviano, che forse anch’esso risaliva indietro nel tempo, ma ora gli si presentava in una luce più netta di quella che prima lo aveva illuminato. Non lo mutò tanto, tuttavia, che osservandolo con attenzione non fosse possibile riconoscervi il segno di quel che era stato in precedenza. Ma fece in modo che, rispetto al nuovo che intanto poco alla volta era venuto al mondo, non presentasse caratteri che, formalmente, ossia in relazione alla struttura complessiva, determinassero disparità e disarmonie.
La questione più rilevante e, nello stesso tempo, la meno disposta a farsi ridurre a un’ipotesi plausibile riguarda la conoscenza che M. si era procurato, e quindi l’uso che ne aveva fatto, dei frammenti del sesto libro di Polibio nella sua parte costituzionale. Riguarda altresì la forma e quindi, il carattere dell’opera a cui aveva messo mano. Le due questioni possono essere brevemente trattate, l’una dopo l’altra. Come la forma dei Discorsi non ha nel passato esempi ai quali la si possa riferire e da cui la si possa far derivare, lo stesso deve dirsi per la conoscenza e per l’uso dell’opera dello storico di Megalopoli. Se, almeno nella sua struttura esterna, il Principe ripete il modello dei trattati de principatibus, ai quali è ben possibile che M. avesse rivolto lo sguardo, giovandosi altresì, per la costruzione del suo, dell’ordine che in quelli era stato dato alla materia, niente di simile può dirsi per i Discorsi; che sono un’opera di teoria politica presentata nella forma, non di un commento a Livio, sistematicamente ordinato, non sul modello, per es., di quelli che, nel campo della filosofia, erano stati forniti in gran quantità dalle opere di Aristotele, ma di una serie di glosse di diversa estensione, nate in margine a capitoli della prima deca, scelti secondo un criterio che, non dichiarato in termini espliciti, era ricavabile tuttavia dalla logica interna al tutto, una volta che di questa si fosse venuti in possesso. Quella a cui M. aveva messo mano era, in sostanza, un’opera del tutto particolare, nata dalla convinzione che il meglio della saggezza politica antica si trovasse concentrata ed essenzializzata, con particolare riguardo alla Repubblica romana, nei libri di Tito Livo e che su quella si dovesse ragionare per delineare, sul suo fondamento, una sorta di fenomenologia dell’eterna vicenda delle cose politiche. Chi, perciò, per i Discorsi, ha pensato ai Miscellanea di Poliziano, ha anche dovuto escludere che questi, per quelli, avessero potuto costituire un modello, sia pure estrinseco. E se fosse andato oltre, se si fosse spinto a guardare dentro il pensiero che M. vi svolgeva, avrebbe dovuto rassegnarsi a pensare che a quell’opera la forma era stata suggerita, non da una regola presa dal di fuori e usata per ordinare e classificare, non dal confronto sistematico con il testo di Livio, non da altri schemi di consimile natura, ma dal pensiero che si andava definendo e dettava esso i tempi e i modi del rapporto con Livio. A misura che lo leggeva e la lettura che ne faceva era corroborata da quella degli storici antichi, e a contatto con questi, ricavandolo perciò non dalle idee dei filosofi ma dall’esperienza delle storie, delineava il suo modello teorico, a M. veniva spontaneo riferire le sue idee a quelle parti dell’opera liviana che erano state all’origine di queste. Il che dovrebbe bastare a far intendere perché il riferimento dei capitoli machiavelliani a quelli di Livio non segua un ordine che sia definibile per sé stesso e perché sarebbero destinati al naufragio i tentativi di dedurlo dal suo testo come se vi fosse implicito e solo si trattasse di renderlo palese. Furono infatti le idee che in M. si svolgevano secondo la loro logica necessità e coerenza a determinare il riferimento al testo dello storico antico e se ne intenderà la ragione solo se a quelle si farà ricorso.
Meno intricata, ma in compenso assai più difficile da formulare in termini, si dica così, culturali, è la questione posta dal sesto libro di Polibio. A parte il riferimento che nel De urbe Roma Bernardo Rucellai fece a questa parte dell’opera, nessuno prima di M. se ne era servito adoperandola in modo sistematico per descrivere, secondo lo schema dell’anakỳklosis, le forme dei governi e la loro successione. Nessuno, e tanto meno Rucellai, il quale aveva bensì osservato, e non senza acume, che, se avessero recte interpretato Polybii sextum volumen, coloro che nel leggere dei tempi dei Gracchi non avevano potuto non commoveri («non esserne turbati») e non rivolgere il loro rimprovero ai consules praevalidi («consoli prepotenti») e ai turbulenti tribuni, profecto longe aliter («certo in modo assai diverso») avrebbero giudicato de romana gravitate («della saggezza romana»). Ma, per dir questo, e come il suo discorso richiedeva, non si era riferito a un solo luogo di quel sesto libro, tanto che, leggendo il suo latino, nessuno che non avesse avuto il testo del sesto libro sotto gli occhi avrebbe potuto immaginare che cosa vi fosse contenuto. M., che di Polibio conosceva certamente il volgarizzamento latino di Niccolò Perotti, del quale si era servito in alcuni luoghi del Principe, fu invece il primo che, in Occidente, con decisione entrasse dentro quel testo e, dopo averne individuato i punti essenziali, ne offrisse una sintesi che, al di là delle varianti che vi introdusse e che certo non furono aggiunte per caso, non avrebbe potuto essere più essenziale ed efficace. È stato tuttavia fin qui impossibile determinare da quale fonte M. avesse avuto notizia della sezione costituzionale del sesto libro e da chi quel testo gli fosse stato fornito. L’ipotesi che proprio dall’ambiente dei Rucellai, che aveva preso a frequentare intorno al 1515-16, M. potesse aver ricevuto informazioni su quel testo e quindi il testo stesso in traduzione latina o volgare non ha niente che la sostenga al di là del fatto di quelle frequentazioni; e non vale più dell’altra, in verità vacua, formulata da chi pensò al tramite di non meglio precisati ambienti filoellenici o al passaggio da Firenze di Giano Lascaris, o ad altre cose del genere. D’altra parte, per le ragioni che a più riprese sono state fin qui addotte, non può escludersi, in linea di principio, che, lungi dall’essergli pervenuto post res perditas, quel testo gli fosse stato noto addirittura nel periodo della sua giovinezza intellettuale quando, da coloro stessi che lo avevano indotto a trascrivere Lucrezio o da altri con i quali avesse avuto stretti rapporti, potevano essergli pervenute, al riguardo, le necessarie informazioni. Cercando di divinare, sul fondamento del noto, il volto probabile di quel che noto non è, e perciò partendo da Discorsi I ii non può non osservarsi che notevole vi era stata l’insistenza sui molti che delle forme di governo, della loro successione e dello Stato misto avevano parlato in antico, e che è difficile perciò ammettere che di quegli autori niente egli avesse saputo negli anni anteriori alla perdita degli uffici e tutto avesse appreso in seguito quando, secondo un modulo interpretativo che resiste tenace malgrado la sua fragile rigidità, dalla politica si volse alle lettere.
In realtà a proposito della tripartizione delle forme di governo, M. mostrava di essere bene informato, già nel 1503, quando scrisse le Parole da dirle sopra la provvisione del danaio: «Tutte le città, le quali mai per alcun tempo si son governate per principe soluto, per ottimati, o per populo, come si governa questa, hanno auto per defensione loro le forze mescolate con la prudenza» (§ 1). Certo (ma non era quello il luogo in cui potessero prodursi svolgimenti molto complessi) la tripartizione era enunciata con semplicità e lasciata lì; e soprattutto non era completata dall’aggiunta alle forme positive delle corrispondenti negative e dall’indicazione della forma mista come della sintesi delle tre positive, ciascuna delle quali vi trovava il riparo dalla sua possibile rovina. Ma l’esordio dottrinario, necessario a lui che si apprestava a criticare il modo fiorentino di intendere il governo delle città, presupponeva, per ciò che si è detto fin qui, informazioni ottenute in un tempo anteriore alla sua assunzione in cancelleria. Se è così, si potrà escludere con certezza, o come ipotesi non irragionevole dovrà invece ammettersi, che di quel testo polibiano egli avesse avuto notizia e conoscenza quando non era che un giovane in cerca di esperienze intellettuali e che fuori delle sue carte egli lo traesse quando l’ispirazione, o la necessità, lo indusse a ragionare, in termini teorici, delle repubbliche? Escluderlo con certezza è altrettanto impossibile che ammetterlo. Quel che, però, in questa materia è certo, è che, comunque gli fosse pervenuto, da chiunque gli fosse stato dato, l’utilizzazione che egli ne fece fu larga e, per un altro verso, così puntuale, che deve ritenersi che il testo gli stesse per intero, o in buona parte, sotto gli occhi quando, dopo averlo studiato e meditato, si diede a riesporlo. Certo è altresì che, essendosene appropriato con simile puntualità e larghezza, M. non ne citò mai l’autore; e quel che esponeva lo presentò come se a pensarlo in quella forma fosse stato lui. Il che apre, senza che tuttavia si possa risolverlo, un delicato problema. È vero bensì che, nell’usare materiali altrui come se li si traesse da un fondo a cui tutti potessero liberamente attingere, non solo gli antichi ma anche gli scrittori dell’età di mezzo e poi di quella alla quale M. appartenne usavano di una libertà che per i moderni sarebbe impensabile. Altro, tuttavia, è appropriarsi di parole appartenenti a un testo noto o anche di un concetto che si fosse ritenuto patrimonio di un’intera cultura, altro è riprodurre così da vicino e, in certe parti, quasi alla lettera un testo specifico come questo di Polibio, che noto per certo non era ai più, tanto che, per quel che si sa, a parte la citazione interessante, ma generica, fattane da Rucellai, a nessuno era accaduto di accorgersi della sua esistenza. Perché questo sia avvenuto non è facile a spiegarsi. La mancata citazione dell’autore non è argomento sufficiente a far pensare che M. intendesse presentarsi come colui che aveva scritto il testo, operando perciò un plagio in piena regola. A rigore, sebbene in modo non altrettanto massiccio, anche Lucrezio era presente in quel capitolo e, ciò nonostante, nemmeno a lui era riservato l’onore di una citazione esplicita. Se questa è una difficoltà, come se ne esce? In realtà, a osservare con attenzione il punto in cui la citazione polibiana stava per avere inizio, si può notare che, lungi dal procedere come chi si accinge ad appropriarsi di cosa non sua, M. fece in realtà tutt’altro. Introducendo l’argomento delle forme di governo, si riferì a una tradizione di pensiero che, su questo punto, si presentava particolarmente ricca: «alcuni che hanno scritto delle republiche dicono» (Discorsi I ii 10), «alcuni altri, e secondo l’opinione di molti, più savi, hanno opinione» (11). E le parole che deduceva dal testo di Polibio presentò come se fossero una sorta di riepilogo, o di riassunto, di quel che sull’argomento era stato scritto e che, essendo in realtà, opera di molti autori, non richiedeva che fosse citato quello che li aveva messi insieme dopo averne semplificato, come diceva, il pensiero (→ costituzione mista). Se è così, la questione del plagio forse cade, ma il problema del modo in cui la notizia di quel testo fu comunicata al quondam Segretario resta, la sua soluzione non potendo costituire se non materia di congettura.
In realtà, se, in un modo o in un altro, di quel brano non breve M. entrò in possesso, si potrebbe suggerire che gli fosse stato dato, a conclusione di una disputa che aveva avuto a oggetto la Repubblica romana, i suoi progressi e la sua possibile decadenza, da qualcuno che, essendone a conoscenza, colpito dagli argomenti da lui usati nella disputa, aveva provveduto a fornirgli il passo in cui si faceva questione delle forme semplici, di quelle corrotte, del loro giro necessario e del governo misto che, come sintesi delle tre forme buone, costituiva un fiero ostacolo alle tendenze degenerative presenti nelle società umane. Ma, come si è detto, questa non è che una congettura.
Risolta in questa forma, non più che congetturale e certo deludente, la questione relativa al modo in cui di quel testo M. entrò in possesso, altro resta da dire e di più importante, perché riguarda il modo in cui quell’antico testo fu sfruttato da Machiavelli. Se lo si osserva nel capitolo del quale costituisce una cospicua parte, due cose, innanzitutto, colpiscono. La prima è che il passo polibiano vi è utilizzato in modo da rendere completo il quadro delle forme, che essendo tali che ciascuna aveva di contro a sé la forma negativa a cui corrispondeva, la questione della decadenza era, per dir così, messa subito all’ordine del giorno.
La seconda è che, con l’indicazione della forma sintetizzante le tre positive (la miktè di Polibio), nell’atto in cui ne era evocato lo spettro esso era, per dir così, esorcizzato e tenuto lontano, anche se non per sempre sconfitto: come, nei suoi momenti salienti, il resto della trattazione ampiamente avrebbe dimostrato. Dalla considerazione attenta di quel che avveniva nello schema polibiano della anakỳklosis ton politèion («cerchio dei governi»), da una parte, e della miktè, da un’altra, M. fu indotto a ritenere che, conseguita la forma mista o dalla virtù di un uomo o dall’esperienza tesaurizzata da una repubblica nel processo della sua storia, la questione della decadenza poteva considerarsi risolta. Il «cerchio» delle repubbliche, come egli traduceva nel suo linguaggio il greco di Polibio, sarebbe durato in eterno, ribadendo, attraverso la crisi di una forma e l’emergere della corrispondenza, la imperfetta permanenza nella realtà delle sue parti, se l’eccezione non fosse stata rappresentata dalla presenza di una repubblica più forte che, prossima a quella che intanto persisteva nel suo carattere, non l’avesse soggiogata e vinta. Era un rilievo realistico che, se non entrava in contrasto con lo schema dell’anakỳklosis, lo limitava tuttavia entro un orizzonte geografico particolare, esponendolo al rischio permanente di un evento esterno capace di infrangerne il ritmo senza nessuna particolare considerazione del carattere positivo o negativo proprio, in quel momento, della sua forma; che, infatti, in quel momento, cedeva alla maggior forza di un’altra repubblica e ne era soggiogata. Se a questo destino di morte la forma mista sembrava poter non sottostare era perché il suo esempio era rappresentato da una repubblica, quella di Roma, che fin dall’inizio aveva avuto, e aveva realizzato, la tendenza a dilatarsi in un impero inclusivo di ogni realtà particolare da cui, al suo potere, avesse potuto provenire una minaccia. Se, ciò nonostante, l’ombra del dubbio persisteva tenace, e anche sugli imperi universali pesava un cupo destino di morte, due ne erano le ragioni. Una era interna al sistema polibiano; e, sia pure senza rilevarla, M. l’aveva notata provvedendo, in questo stesso atto, a correggerla. L’altra gli era suggerita dalla considerazione di qualcosa che non poteva essere contestato: la caduta dell’impero di Roma e le gravi conseguenze che ancora ne erano derivate al presente italiano. La ragione interna al sistema polibiano, e alla sua logica, era che, al di sopra della, o accanto alla, miktè, ma comunque al di fuori del suo ambito, agiva la physis, alla cui forza irresistibile anche la forma mista era infine destinata a soccombere. La ragione che gli proveniva dalla storia era esprimible attraverso il fatto indiscutibile che ne era esibito: gli imperi si affermano, poi decadono.
Per sfuggire a quest’ultima M., come si è detto, non aveva argomenti che potessero essere considerati irresistibili. Il più che potesse ottenersi dalla virtù preveggente degli uomini era la lunga durata delle città e degli imperi: non era poco, come si vede, ma non era tutto. Ottocento anni era durata Sparta, da ottocento anni durava Venezia (che M., tuttavia, considerava ormai alla fine), a lungo era durato l’impero di Roma: ma alla fine la loro potenza o era crollata o era entrata in netto processo di decadenza. L’esperienza delle cose storiche dimostrava, senza possibilità di confutazione, che la decadenza delle formazioni politiche poteva avere più cause, alle quali le meglio organizzate erano bensì in grado di resistere a lungo, essendo tuttavia inevitabile che alla fine soccombessero o al loro stesso peso o all’impeto di una forza giovane che le aggredisse o a entrambe queste «cagioni». Che M. dovesse avvertire con particolare intensità questo tema della decadenza degli Stati non è cosa che debba e possa meravigliare: almeno quando ci si sia posti al di fuori del clima variamente retorico in cui si sono svolti gli studi dedicati al suo pensiero. Se ci si riflette con calma, non può, infatti, e non deve sfuggire che, quale che sia il tempo in cui cominciò a delinearsi, la sua riflessione si svolse tutta a partire dell’acuta consapevolezza della infelicità politica che il crollo dell’impero romano aveva inflitto ai suoi superstiti frammenti. Lo sforzo che, per conseguenza, con vari strumenti e in più dimensioni, nelle sue opere maggiori egli compì era diretto al superamento di questa condizione e alla previa discussione della sua possibilità. La virtù in ogni senso eccezionale, e scevra di errore, che egli pretendeva che il principe possedesse per aver sempre partita vinta con la fortuna era equivalente, in questo senso specifico, alla costituzione mista, che anch’essa aveva per fine la vittoria sulle potenze della disgregazione e della morte.
Ma, per una ragione o per un’altra, entrambe erano destinate a incontrare il momento della sconfitta. Interno agli Stati, anche ai meglio ordinati, era un limite che, con altro volto, anche nelle individuali virtù era presente. Circoscritta al mondo politico, e per intero risolta in esso, l’ansia di assoluto, ossia, in termini politici, di una vittoria che non avesse mai a incontrare il giorno della sua sconfitta, era insidiata da un limite che non poteva essere superato; e che era potenzialmente intrinseco alla physis della virtù, anche della meno imperfetta. Questa non poteva infatti determinarsi se non come prudenza o come impeto, e implicava perciò che il caso – una forza, dunque, a essa estranea, anche se generata dal suo limite – favorisse, o non favorisse, il suo riscontro con il tempo adatto alla qualità che, di per sé stessο, non poteva mutare con i tempi e si rivelava perciò come il dominus effettivo delle cose del mondo. Lo stesso accadeva nell’ambito degli Stati, anche dei meglio ordinati. Non c’era infatti equilibrio dinamico di forze sociali e politiche che alla fine non consumasse sé stesso, rendendosi estraneo a quel che si agitava nel fondo delle società e piegandole al declino.
Per sfuggire all’insidia concettuale che proveniva dal modo in cui Polibio aveva lasciato irrisolta la relazione fra miktè e physis, M., che della difficoltà forse si era accorto e all’idea di quella così rigida necessità, a quella implacabile phỳseos oikonomìa intimamente repugnava, provò a mutare i termini della questione. Appellandosi forse alla fisica epicurea che egli aveva appresa nello studio che, per trascriverlo, aveva fatto del De rerum natura, alla physis, e alla sua anànke, sostituì il caso («nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini», Discorsi I ii 14): ossia una potenza che, senza restituire alla volontà e alla libertà degli individui il potere di sottrarre le loro costruzioni alla sentenza senza appello di quelle potenze fatali, lasciava tuttavia aperto il campo, o così dovette sembrargli, a migliori possibilità. Se il variare delle repubbliche dipendeva, non dalla rigidità assoluta di una legge che non ammetteva appello, ma dal limite della volontà e della libertà umane, poteva pensarsi che, meglio dell’altro, che non accettava eccezioni, questo potesse essere corretto e superato. Era un’illusione, perché anche l’alternativa dell’impeto e della prudenza si presentava, nella visione machiavelliana, come intessuta di naturalistica necessità. Ma era un’illusione che, scegliendo l’impeto, consapevolmente M. era disposto a correre. E, senza mezzi termini, con piena consapevolezza, lo dichiarava. Che il mutamento di registro sia avvertibile in questa sostituzione del caso alla necessità, dell’autòmaton («evento»), come avrebbero detto i Greci, all’anànke, è reso evidente anche dall’uso che in questa parte del capitolo M. fece del quinto libro del De rerum natura. Ma quel che altresì, e soprattutto, deve notarvisi è il sottile trapasso, avvenuto, peraltro, non per via astrattamente concettuale, ma per la logica interna alla sua visione storico-politica delle «cose» romane, dai concetti di physis e di ‘caso’ a quello che si definirebbe di ‘provvidenza’ se a questo termine non rimanesse connessa la coloritura religiosa e teologica e si potesse invece intenderlo come la necessità di una situazione definibile in termini di esperienza e di virtù. In questi termini, infatti, nell’ultima pagina del capitolo M. spiegò il passaggio dal principato alla repubblica; e fece vedere come, per necessità interna e non esterna, dal regno che Romolo aveva fondato, il ‘genio politico’ che dall’interno determinava le cose romane provvedesse a conservare l’istituzione del duplice consolato, mentre, in prosieguo di tempo, furono le lotte sociali insorte fra i grandi e il popolo a determinare la condizione che, rendendo necessaria l’istituzione di una magistratura plebea, condusse a compimento la miktè romana. C’era, in questo modo machiavelliano di considerare i progressi dello Stato romano verso la perfezione della costituzione mista, che Polibio aveva esaltato come quella che lo rendeva invincibile, qualcosa che, per quell’idea delle ‘traversie’ (le lotte sociali) dalle quali nascono grandi ‘opportunità’, fa pensare a Vico; che, come si sa, a sua volta pose M., pur considerato ateo al pari di Epicuro e Lucrezio, fra gli autori sui quali meditò con profitto nell’atto in cui in molte cose, anche pertinenti alla storia romana, tuttavia gli si contrapponeva.
Se, con la sua struttura complessa, il secondo capitolo costituisce una sorta di introduzione generale ai temi che in seguito sarebbero stati trattati, già con il terzo si entra nel vivo dell’analisi machiavelliana e si fa esperienza della sua novità. Il terzo è infatti il capitolo nel quale è contenuto l’elogio del tribunato della plebe, una magistratura della quale, poco interessato alle definizioni di tipo giuridico e costituzionale, M. non sottolineò con le parole, ma fece intendere tuttavia nel giro della sua argomentazione, il carattere semirivoluzionario nell’atto, altresì, in cui ne indicava il carattere fondamentale per la forza e l’unità della Repubblica romana. Si è parlato di unità, e gioverà allora, a questo punto, dare un avvertimento. L’unità delle repubbliche, che M. non poteva, lui pure, non considerare come la massima espressione della loro salute politica, non era concetto che per lui andasse confuso con quelli dell’armonia, della homònoia, della pace sociale e simili, quando questi siano intesi in modo statico e abbiano il loro corrispettivo pratico in ordini e leggi sovrapposti alla realtà sociale e non espressivi di questa. L’unità alla quale M. aveva la mente giungeva a realizzarsi e allora la repubblica poteva dirsi che avesse conseguito la sua perfezione, quando lo strumento legale fosse stato in grado di mediare in sé stesso le esigenze fondamentali che il corpo sociale esprimeva; quando l’umore del popolo avesse trovato bensì un freno nelle leggi e negli ordini, ma solo in quanto, a sua volta, quello dei grandi fosse stato impedito nella sua intrinseca tendenza all’imposizione violenta dei suoi propri interessi e tenuto a freno in giusti confini. Poiché era il più possente, il più ambizioso, e quello perciò da cui alla stabilità della Repubblica provenivano le più gravi minacce, era infatti l’umore ottimatizio quello che richiedeva di essere contenuto in un forte quadro di leggi; e occorreva perciò che quanto, nel periodo regio, era stato operato dai Tarquini, che quell’umore avevano contenuto nei giusti confini, fosse operato, una volta che lo Stato avesse preso forma repubblicana, da un magistrato nuovo che, come appunto avvenne con i tribuni della plebe, sempre stesse «intra la plebe e il Senato», ovviando così «alla insolenzia de’ nobili» (Discorsi I iii 9).
Che dunque nell’interpretazione della storia arcaica di Roma, questo capitolo introducesse un concetto nuovo che, considerato nelle conseguenze teoriche scaturitene, potrebbe, senza esagerazione, essere definito ‘rivoluzionario’, è innegabile. E a partire da Barthold Georg Niebuhr la cosa fu poi più volte ribadita in sede storiografica. Ma a più forte ragione, e con la piena consapevolezza di colui che lo scrisse, rivoluzionario è il quarto capitolo, dedicato alle più antiche contese civili insorte fra i grandi e la plebe, alla cui tesi avrebbe poi opposto la sua, che tornava a quella tradizionale, Francesco Guicciardini quando prese a scrivere le sue Considerazioni sui «Discorsi» del Machiavelli. Un’antica tradizione di pensiero aveva fatto consistere nell’idea della homònoia ο, per dirla in latino, della concordia ordinum, la felicità delle repubbliche. Di questa tradizione di pensiero M. era perfettamente consapevole; sapeva che era l’opinione dei più e che dagli antichi era passata ai moderni. Dovette provare perciò una particolare soddisfazione nel capovolgerla nel suo paradosso. Non la «concordia», staticamente concepita, era il fondamento dello Stato bene ordinato, ma la discordia, il conflitto, lo scontro dei contrapposti «omori» che sempre si trovano a confliggere nel cuore profondo delle repubbliche e mai avrebbero trovato, e troverebbero, espressione se il loro accordo fosse stato cercato e raggiunto, e si cercasse e raggiungesse, al di fuori di essi e delle irrinunziabili esigenze rappresentate da ciascuno. Non ciò che resta fermo in sé stesso merita di essere lodato, ma ciò che si muove e, nel muoversi, dà forma agli impulsi che, venendo dal basso, sarebbero causa di rovina se, pronto ad accoglierli nelle loro esigenze di novità, non trovassero un sistema duttile, capace di imprigionarla e disciplinarla, questa novità, senza ucciderla. Il sistema romano fu reso duttile, e capace di assorbire le sfide che gli venivano dal di dentro, dal tribunato della plebe, che fu il principale effetto scaturito dalle contese patrizio-plebee; e queste, proprio perché a quello dettero vita, dovevano, a giudizio di M., essere sommamente lodate.
L’elogio del conflitto a cui M. stava, in questo capitolo, per dare l’avvio, conteneva in sé un elemento di fortissima provocazione, che non soltanto il pensiero degli antichi riguardava, ma anche la saggezza dei moderni. I quali, proprio a causa di quei conflitti, solevano definire Roma una repubblica «tumultuaria», che sarebbe stata inferiore a ogni altra se la fortuna, da una parte, e la virtù delle armi, da un’altra, non avessero provveduto a farla sopravvivere. Il giudizio faceva inorridere M. e lo irritava nel profondo. Nella preferenza che i personaggi con i quali polemizzava accordavano a Sparta, fra le città antiche, e a Venezia, fra le moderne, egli rilevava, innanzi tutto, un errore, per dir così, di metodo e di concetto. Quei personaggi, infatti, non consideravano che non è un caso se le buone armi sono in una repubblica, perché dove queste hanno luogo, ivi è necessario che siano buoni ordini, e dove, insieme alle armi, siano buoni ordini è impossibile che anche non vi sia buona fortuna. Ma il passo cruciale del capitolo è quello in cui è enunziata la tesi generale e merita di essere citato per esteso, perché veramente contiene il cuore del pensiero di M., la sua parte più viva:
io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori e alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da’ Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue (Discorsi I iv 5).
L’enunciazione del principio si drammatizzava quindi nella polemica:
e se alcuno dicessi: i modi erano straordinarii e quasi efferati, vedere il popolo insieme gridare contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte spaventano non che altro chi le legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo (8).
L’animazione stilistica che caratterizza questa pagina, la drammatizzazione letteraria della materia storica, il compiacimento provato nel dar risalto a quel che scrittori meno di lui amici del paradosso e della provocazione avrebbero attenuato e non ingigantito non debbono distrarre dall’essenziale. E del resto, dopo essersi innalzato ai vertici della polemica, subito il passo rientrava nei limiti dell’analisi. La positività dei tumulti si misurava dal fine; il fine fu il tribunato della plebe; il tribunato della plebe contribuì a fare grande Roma; e anzi di questa grandezza fu il principale, anche se indiretto, strumento. La grandezza della Repubblica conteneva in potenza nella sua struttura, la sua estensione a impero. Si vedranno in seguito le conseguenze paradossali che da questo principio debbono necessariamente esser tratte: non prima, peraltro, che a questo concetto, centrale in M., si sia dato il dovuto rilievo. A richiederlo è infatti la logica dell’argomento; la quale, del resto, include in sé un principio che non ha ricevuto fin qui l’attenzione che, a partire da questo momento, è invece indispensabile concedergli.
Si è pensato talvolta che la estrema crudezza che M. ha individuato nella politica e nel suo esercizio concreto appartenga soprattutto al mondo del Principe; che a quest’opera spetti essenzialmente di aver divulgato nel mondo il concetto con cui M. ha capovolto le massime fondamentali dell’etica antica e di quella cristiana, quelle secondo cui pacta sunt servanda, le armi debbono cedere alle toghe, la logica ferina del potere alla vita regolata dalle leggi; che, senza averla specificamente confutata, a questa logica i Discorsi abbiano invece opposta una visione meno cruda, attenta piuttosto al mondo delle istituzioni che a quello spietato, e tanto più perciò esposto al rischio (o alla necessità) delle soluzioni estreme, che caratterizza le avventure principesche. Ma è una contrapposizione frivola e che, comunque, non coglie nel segno. Non solo perché, come i Discorsi, il Principe è nato dalla mente di M. ed è stato elaborato nel medesimo scrittoio che vide altresì la nascita del commento liviano. Ma soprattutto perché lo spostamento dell’attenzione dal quadro delle soggettive azioni individuali a quello delle istituzioni non presuppone una diversa idea del mondo in cui le une e le altre si attuano, trionfando o conoscendo la catastrofe. Che gli uomini siano cattivi e il legislatore debba presupporli «rei» è affermazione del Principe come dei Discorsi. E l’unica questione che, se mai, resta da chiarire è, nell’una opera come nell’altra, il senso che deve darsi a questa cattiveria. Che non è da intendere come il risultato di una naturalistica predisposizione al male, come la ritraduzione in termini immediatamente umani dell’idea teologica secondo cui incancellabile è nell’uomo la presenza del peccato originale, come la secolarizzazione, con il conseguente inasprimento mondano, di un concetto religioso. Ma è bensì, se si guarda con attenzione non alle formule e alle definizioni, ma alla concretezza delle specifiche realtà, da intendere come l’altro volto di un mondo prigioniero della fortuna, in cui uomini e istituzioni sono esposti al rischio della precarietà, alla legge dell’insecuritas, e in particolare gli uomini politici sempre sono in lotta, per riprendere (ma in senso opposto) la celebre immagine albertiana, con l’onda impetuosa a cui il braccio cerca di opporre il suo problematico potere. Storicizzata, o, se si preferisce, esistenzializzata in questi termini estremi, la politica è speculare alla rischiosità del mondo, ai venti impetuosi che lo percorrono e rendono precaria la vita che vi si svolge: precaria e necessitata a contrapposizioni radicali, eseguite con mezzi spietatamente idonei al raggiungimento della securitas, precaria e necessitata a non conoscere mai il momento del suo trascendimento e superamento. E questo vale per i Discorsi non meno che per il Principe, ai cui cruciali capitoli, il decimosettimo, il decimottavo, può ben corrispondere, nel commento liviano, il ventisettesimo del primo libro, con l’esempio di Giampaolo Baglioni che, avendone la possibilità, non uccise Giulio II e l’intero Collegio dei cardinali che, temerariamente, si erano presentati disarmati nella sua città di Perugia.
L’espressione che M. usò all’inizio del terzo capitolo del primo libro, quando scrisse che «chi dispone una republica e ordina leggi in quella» deve «presupporre tutti gli uomini rei» (2), non può esser presa come se con quella egli avesse inteso dire che la cattiveria dev’essere presupposta per ragioni interne alla costruzione politica, ma tale non è in sé stessa, e non necessariamente cattivo è l’uomo. Non può essere presa in quel senso, edificante e banale, per più di una ragione: non solo perché in quello stesso testo si legge della «malignità dello animo» e questa non è espressione che possa esser presa come un modo di dire, ma perché, soprattutto, è l’idea stessa della presupposizione che, lasciando indeciso il punto relativo all’‘in sé’ della disposizione malvagia la introduce nel mondo politico come un elemento insuperabile, la rende necessaria nell’atto in cui non offre alcun elemento che valga a dimostrare fallace il suo assunto. Anche l’idea della legge, che non sarebbe necessaria se altre fossero le condizioni interne all’umanità e al quadro di rapporti che essa istituisce, ma lo è, con il suo forte carattere coercitivo, perché la materia è esposta al rischio del male, anche questa idea, nella quale può avvertirsi una lontana reminiscenza agostiniana, è da mettere in relazione con il rischio dell’esistere e con la cattiveria che ne discende: con la conseguenza che la stessa distinzione che nel Principe M. istituì fra il combattere con le armi, che è proprio delle bestie, e il combattere con le leggi, che è proprio dell’uomo, non restituirebbe a pieno il senso del suo pensiero se non si considerasse che i modi sono diversi, ma la sostanza è la stessa, la legge non essendo se non un’arma per il contenimento e la repressione degli istinti distruttivi.
Si ricava di qui una tesi che, per la comprensione del pensiero di M., è da giudicare essenziale. Le conseguenze di ordine generale che egli trasse dalla sua analisi della miktè polibiana e della conquista che, per un verso, la richiedeva perché quella sola la rendeva possibile avevano entrambe il loro presupposto in quel che ai suoi occhi si presentava con il carattere dell’estrema evidenza. Senza che con ciò se ne attenuasse il carattere, la malvagità non era tuttavia un attributo moralisticamente dedotto dalla natura dell’anima umana, la conseguenza di un limite peccaminoso gravante su di essa. Era la stessa cosa dell’essere storico dell’uomo, del rischio intrinseco alla sua natura, che era «respettiva», come aveva detto fin dai Ghiribizzi a Giovan Battista Soderini e ribadito nel venticinquesimo del Principe, o «impetuosa»: e dipendeva perciò, in ultima analisi, dalla casualità del «riscontro» se la sorte gli sarebbe stata propizia o avversa. Di qui, in questa situazione di estrema rischiosità, l’esigenza imprescindibile di andare oltre questo limite, pur giudicato non oltrepassabile, e l’impossibilità che, ove si ragionasse della salute propria o dello Stato, il criterio della condotta fosse diverso da quello della politica, intesa nella massima estensione delle sue possibilità. Di qui la necessità della potenza e della conquista, e dei corollari, tutti essenziali peraltro, che M. ne trasse già nel quinto capitolo e condusse alle conseguenze estreme nel sesto con gli esempi contrapposti di Roma, di Sparta e di Venezia e l’analisi, sottile e potente, che egli ne dette. Chiunque legga con attenzione questi capitoli non tarderà a capire che, di fronte alla mente di M., l’«ampliare», che fu il destino che Roma si scelse, e il «non ampliare», che fu quello scelto da Sparta e da Venezia, non costituiscono alternative dotate entrambe di pari valore, come se la prima fosse in funzione di un’astratta ambizione imperiale e l’altra si caratterizzasse attraverso il desiderio di una vita tranquilla entro confini ristretti ma sicuri; come se a entrambe dovesse riconoscersi la stessa legittimità, e quelle opposte virtù e opposte ambizioni avessero pari diritto all’esistenza all’interno del mondo umano. In realtà, non è così. Per M. non si dava un’autentica alternativa. C’era un solo modo per chi intendesse esistere e durare nel mondo precario della politica: quello della conquista. Come meglio non si sarebbe potuto, M. espose le sue conclusioni in questi passi nei quali i molti fili della sua analisi si strinsero in un insieme ineluttabile:
considerando adunque tutte queste cose, si vede come a’ legislatori di Roma era necessario fare una delle due cose, a volere che Roma stesse quieta come le sopraddette republiche [Sparta e Venezia]: o non adoperare la plebe in guerra, come i Viniziani, o non aprire la via a’ forestieri, come gli Spartani. E loro feciono l’una e l’altra: il che dette alla plebe forza ed augumento, e infinite occasioni di tumultuare. Ma venendo lo stato romano a essere più quieto, ne seguiva questo inconveniente, ch’egli era anche più debile, perché egli si troncava la via di potere venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo che volendo Roma levare le cagioni de’ tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare. E in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene, che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro. Pertanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi maneggiare a tuo modo; se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta. E però in ogni nostra diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per miglior partito, perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai (Discorsi I vi 17-22).
Che il miglior partito, anzi l’unico che l’analisi obiettiva della realtà consentiva e imponeva, fosse quello della conquista e della potenza necessaria a conseguirla era dimostrato, secondo M., proprio dal carattere della realtà, dal volto minaccioso delle cose. Senza dubbio, se fosse possibile tenere le cose bilanciate in modo che allo Stato che avesse deciso di seguire la via opposta a quella della conquista riuscisse di mantenersi integro all’interno dei suoi confini, niente vieterebbe che la sua fosse giudicata una buona scelta.
Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde conviene che le salghino o che le scendino; e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità: talmente che avendo ordinata una republica atta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi e ad farla rovinare più tosto (34).
La conclusione del suo ragionare, a questo punto, era ovvia:
non si potendo […] bilanciare questa cosa, né mantenere questa via del mezzo a punto, bisogna nello ordinare la republica pensare alle parte più onorevole, ed ordinarle in modo che quando pure la necessità la inducesse ad ampliare, elle potessono quello ch’elle avessono occupato, conservare. E per tornare al primo ragionamento, credo ch’e’ sia necessario seguire l’ordine romano, e non quello dell’altre republiche (36-37).
Questa linea di pensiero si prolungò nei capitoli quinto e sesto che, di quanto detto fin qui, costituiscono l’ulteriore documento; e, in una sede come questa, essi non richiederebbero particolare attenzione se non fosse per la questione della «guardia della libertà», ossia, come potrebbe tradursi in linguaggio moderno, della sede delle garanzie costituzionali. La questione che nel quinto capitolo M. si poneva era politica, ma anche giuridica; toccava infatti da vicino il corpo vivo dell’ordinamento repubblicano e sottolineava l’esigenza che questo trovasse in sé stesso, ossia nel suo proprio quadro, il principio e la garanzia della sua salvezza, con l’avvertenza che, dovendo scegliere fra l’ordine patrizio e quello plebeo, era a questo che bisognava dare la preferenza. Poiché, d’altra parte, la Repubblica era fondata bensì sulla contesa dei nobili e della plebe, ma su una contesa ormai regolata dalle leggi che essa stessa aveva contribuito a far venire al mondo, la risposta teoricamente più rigorosa alla domanda se la garanzia dovesse essere affidata al popolo o ai grandi avrebbe dovuto essere diversa da quella che M. suggeriva. Un sistema fondato sull’equilibrio degli organi che lo costituiscono non può riporre in uno di essi la sua propria garanzia. Deve riporla nell’equilibrio stesso degli organi, nel reciproco controllo, nella non prevalenza dell’uno sull’altro: pena, altrimenti, non l’equilibrio, ma lo squilibrio. Che fu in sostanza il rilievo che, nelle Considerazioni sui Discorsi, Francesco Guicciardini mosse al loro autore: rilievo giusto, costituzionalmente ineccepibile, al quale si deve ritenere che M. si esponesse, non perché a lui mancasse la capacità di formularlo, ma per la diversa ragione che, sebbene mista dei tre organi fondamentali del consolato (principio monarchico), del senato (la nobiltà), del tribunato (la plebe), la sua era una repubblica mista inclinata verso la parte popolare, nella convinzione, strettamente politica, che fra la plebe, da una parte, e i grandi, dall’altra parte, fossero questi a nutrire le più pericolose ambizioni di sovversione e di dominio. La conseguenza era che assegnare alla parte popolare la tutela e la garanzia del tutto significava realizzare l’equilibrio assai meglio che se le si fosse attribuite al formale equilibrio delle parti. Che questo fosse appunto, o rischiasse di essere, un equilibrio soltanto formale se non si fosse considerato che la disparità delle fortune economiche e l’ambizione patrizia avrebbero alla fine avuto su di esso un effetto politicamente negativo, fu intuito da M. come il vero centro della questione; che era colto, tuttavia, nell’atto stesso in cui, per un altro verso, poiché l’aspetto sociale restava in ombra, il controllo politico esercitato dai tribuni della plebe rischiava di dovere, a sua volta, subire il contraccolpo di ciò che non riusciva a venire in piena luce, cioè della disparità delle fortune economiche, che erano state prese bensì in considerazione, ma non abbastanza, tanto che erano state assorbite nel generico concetto dell’ambizione, dell’amore del potere, della libido dominandi, di cui parlavano gli storici antichi (Sallustio, per es.). L’aspetto sociale della questione restava in ombra e non perché M. non avesse compreso che la disparità delle ricchezze, se la si fosse lasciata sussistere all’interno di una repubblica pur caratterizzata dalla distinzione e dall’equilibrio degli ordini, avrebbe costituito un difetto e posto un problema. Lo aveva capito, in realtà, benissimo. Restava in ombra nella teoria per ciò stesso che in ombra restava nella realtà: e cioè nel senso che era sua convinzione che, se, com’era accaduto a Roma, una città era nata nel segno di una grave disparità economica sottendente l’unità degli ordini, ogni tentativo che in seguito si fosse fatto di rimuoverla riconducendo la città alla regola secondo cui ricco dev’essere lo Stato ma poveri invece i privati cittadini, avrebbe provocato irrimediabili disastri.
La questione alla quale si sta accennando è assai delicata perché, studiandola, si entra nella parte più problematica della teoria, che in questo punto mostrava, in effetti, il suo limite più grave. M. la affrontò nel capitolo trentasettesimo del primo libro, insistendo, non senza qualche inesattezza di ordine storiografico, sui negativi effetti che nell’età dei Gracchi la Repubblica romana aveva patito per effetto della legge agraria e del suo, come egli si espresse, «guardare indietro», ossia sul carattere retroattivo per il quale si intendeva rimediare oggi al difetto che vi era stato determinato ieri dalla persistente disparità delle ricchezze: con la conseguenza che, come alla radice della volontà plebea di essere partecipe di una ricchezza, dalla quale fin lì era stata esclusa, si manifestava la tendenza a essere partecipe non solo dei beni politici ma anche dei beni economici, così questo desiderio, del resto naturale e insopprimibile, era destinato ad avere, ed ebbe, per conseguenza la reazione rabbiosa e incontenibile dei grandi, decisi con ogni mezzo a difendere quel che a essi apparteneva: con ogni mezzo, e cioè con Silla prima, con Pompeo poi, dai quali la Repubblica fu in pratica distrutta e avviata, attraverso lotte convulse e senza regola, sulla via dell’impero.
Per la stessa ragione, si può dire (e con questo argomento M. difese, nel capitolo trentasettesimo, la sua coerenza), per la quale le lotte sociali che avevano dato origine al tribunato della plebe erano state considerate cagione della grandezza repubblicana, quelle che si combatterono alla fine della Repubblica furono condannate. Le prime infatti erano state determinate dal giusto desiderio dei plebei di condividere l’onore politico e di essere parte dello Stato; e tanto più il desiderio loro era politicamente legittimo in quanto era sulla gioventù plebea che gravava il peso degli eserciti e delle guerre conquistatrici. Le seconde furono condannate perché non a quel fine erano dirette, ma all’ottenimento di quel che i patrizi non intendevano cedere all’ambizione dei plebei, che riguardava ormai la divisione e il possesso delle ricchezze. E fu qui che si manifestò il lato problematico intrinseco alla teoria generale dei conflitti sociali e politici che M. aveva delineata nei primi capitoli del primo libro. Se, nei termini della sua teoria, il conflitto sociale produceva bene e non male quando una delle due parti (quella plebea) combatteva per i diritti e non per le ricchezze, ma produceva male e non bene quando, ottenuti i diritti, a questi intendeva aggiungere le ricchezze strappandole a chi le deteneva ed esasperandone perciò l’animo, ecco che alla sua radice si manifestava un luogo di minore resistenza logica, un inconveniente che non riusciva a eliminare. Era inevitabile, infatti, tale essendo la natura degli uomini, che la passione dell’oro e delle terre si rivelasse là dove fin lì non aveva avuto modo di manifestarsi, tenuta a bada da altri, e preminenti, interessi. Era inevitabile che, di fronte all’insorgere di questa passione incontrollabile da leggi che, per di più, invece di contenerla la stimolavano, il sistema degli ordini si irrigidisse, perdesse la sua duttile capacità di accogliere, disciplinandolo, quel che dal fondo oscuro delle passioni plebee veniva alla superficie con volto minaccioso. Era inevitabile, inoltre, che quel che M. attribuiva all’improvvida azione dei Gracchi, dei quali lodava perciò «più la intenzione che la prudenzia» derivasse in realtà da uno stato di cose che era nella plebe e del quale quei due tribuni furono, non tanto o non solo, gli autori, quanto piuttosto le conseguenze. Era infine inevitabile che, di fronte a questa situazione, M. si trovasse in difficoltà. Quando, nei primi capitoli, aveva delineato la sua teoria del conflitto, nella celebrazione del suo essere stata la causa essenziale della grandezza romana, aveva altresì celebrato il suo distacco dal moralismo degli antichi storici, di Sallustio per esempio, che aveva attribuito alla bontà primitiva la felicità dei primi tempi della vita romana e al rivelarsi dell’ambizione e della cupidigia l’inizio del suo declino. Non si trattava di bontà, di una purezza che il progresso dei tempi non era ancora riuscito a contaminare; si trattava di politica: di una politica volta al conseguimento di diritti a giovarsi dei quali sarebbe stata alla fine la Repubblica considerata nel suo complesso, perché solo attraverso il conseguimento di quelli essa sarebbe pervenuta al suo autentico equilibrio. Ma ora che dalla lotta per i diritti si era trascorsi a quella per il potere economico o, almeno, per la sua condivisione, era a un esito venato di moralismo che M. approdava quando suggeriva che lo Stato tenesse per sé le ricchezze lasciando il privato in povertà e, se non a quello, a una sorta di compromesso, inidoneo, nei tempi lunghi, a contenere, e a controllare, una materia che ormai si era fatta esplosiva. Non più che un compromesso era infatti quello che egli delineava quando scriveva che «a volere levar via uno disordine cresciuto in una republica, e per questo fare una legge che riguardi assai indietro, è partito male considerato» (Discorsi I xxxvii 27). Partito «male considerato» era infatti in questo passaggio anche il suo, che, in effetti, contava sul ‘beneficio del tempo’ che, in virtù del suo stesso trascorrere, o avrebbe allontanato il momento della crisi o addirittura l’avrebbe poco alla volta dissolto. E c’era di più. Senza dubbio, nell’affidarsi al tempo, M. contraddiceva un suo convincimento, più volte ribadito in polemica con la ‘saggezza’ della classe dirigente fiorentina, che tante volte al trascorrere del tempo aveva affidato la soluzione di problemi che per sé stessi non era in grado di affrontare e di risolvere. Ma egli incorreva poi in una incongruenza anche più grave quando, dopo aver lodato il conflitto come fonte di libertà e di potenza, e avere, d’altra parte, considerata inestinguibile la passione per le ricchezze che, summa cum laude, lo Stato libero celebrava e favoriva riscuotendo il consenso dei cittadini, di questo medesimo Stato era costretto, per un altro verso, a fare il centro e il padrone di ogni cosa e a contrassegnarlo perciò non più come repubblicano e libero, ma come tendenzialmente imperiale e tirannico. L’importanza cruciale del capitolo trentasettesimo del primo libro sta qui; sta nell’aporia che inevitabilmente si rivelava alla radice della questione delineata dalla problematica compresenza e, in ultima analisi, dall’inconciliabilità delle due passioni fondamentali degli uomini: quella dei diritti, l’altra delle ricchezze, che, se il loro conflitto fosse uscito dai modi della civiltà e della misura e non avesse trovato soluzione nel quadro delle leggi e degli ordini, a delinearsi sarebbe allora stato, da una parte il governo tirannico, che M. aborriva, o da un’altra, e per drastica opposizione, quello il cui profilo, per vie indirette, viene fuori dello straordinario discorso dell’anonimo Ciompo nel terzo libro delle Istorie fiorentine. Questa aporia, che dal di dentro insidia la tesi machiavelliana, questa fatalità per la quale, conquistati i diritti politici, i plebei alzarono la mira e puntarono alle ricchezze, facendo sì che da fisiologico il conflitto si rendesse patologico e la Repubblica si avviasse sulla via che conduceva all’impero, ha qui il suo riscontro: in quest’altra fatalità per la quale fu proprio dalla virtù della Repubblica che si liberarono le forze che condussero la sua forma al tramonto. La virtù repubblicana era attesa dall’impero, la libertà dal governo di uno; e questo era il suo contrappasso.
Con i capitoli settimo e ottavo, dedicati al problema delle pubbliche accuse e, quindi, delle calunnie, produttive di bene le prime, di male le seconde, dalle questioni della potenza e della conquista era come se, dopo esserne uscito, con il suo discorso M. rientrasse fra le mura della città e studiasse un rimedio da opporre al pericolo, sempre serpeggiante nel profondo, della corruzione degli ordini e della decadenza delle repubbliche. Il tema si era fatto attuale. E sia pure, ancora una volta di scorcio, il capitolo nono lo affrontava nella discussione della tesi secondo cui
mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia da principio ordinato bene, o al tutto di nuovo fuora degli ordini vecchi riformato, se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione (Discorsi I ix 5).
Non a torto, queste parole hanno fatto pensare che questo è il luogo in cui, urgendo nella mente di M., per la prima volta il Principe faceva avvertire il suo tema e imponeva la sua presenza. E non c’è ragione di non accoglierla, o di non ribadirla, questa osservazione: salvo che avrebbe torto chi la interpretasse nel senso che, affermando la necessità che il legislatore e riformatore fosse solo nel fondare, o riformare, una repubblica, M. rivelerebbe l’inclinazione principesca, o addirittura tirannica del suo pensiero. Non è così, in effetti. E non solo perché, nella loro varia fenomenologia, i principati non si lasciano affatto ridurre al solo lineamento di quello assoluto, e non è a questo che comunque M. concesse le sue preferenze. Ma per la specifica ragione che da questo assunto il repubblicanesimo non era messo in crisi e M. in persona era lì a smentire che questa si fosse manifestata nel suo pensiero. Osservava infatti con forza che
uno prudente ordinatore d’una republica, e che abbia questo animo di volere giovare non a sé ma al bene comune, non alla sua propria successione, ma alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere l’autorità solo; né mai un ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione straordinaria che per ordinare un regno o constituire una republica, usasse. Conviene bene che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà: perché colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere (6-7).
Il passo ha un ritmo incalzante. Nel proclamare la necessità che il savio ordinatore di un regno e di una repubblica sapesse servirsi della violenza quando per il suo fine farne a meno era impossibile, M. non esitava a riprendere i temi più forti del Principe e a riesporli nel nuovo contesto: si pensi, per fare un esempio, al settimo capitolo e a quello che vi era asserito a proposito della crudeltà di Cesare Borgia. Ma, se il regno era il regno, la repubblica era la repubblica. E la violenza a cui può essere necessario ricorrere per rendere forte la sua libertà non aveva niente a che vedere con quella di chi, con quello strumento, avesse mirato all’interesse suo e dei suoi e l’interesse pubblico avesse sottomesso a quello privato. Dopo di che, è evidente che se ora ci si mettesse a discutere in astratto sulla relazione che, nella genesi di un ‘vivere civile’ e nella sua esistenza concreta, stringe, o non stringe, la violenza alla libertà, si uscirebbe dal quadro machiavelliano, e si scriverebbe, in termini generali, il capitolo di una teoria; che sarebbe, nella circostanza specifica, un modo, se non si vuole dire un espediente, escogitato per non considerare la limpida fermezza dell’assunto di M., la incrollabile sua convinzione che, nel gioco arduo della politica, qualunque sia il carattere che si vuole imprimere sulla costruzione che si ha in animo di innalzare, l’occhio deve essere diretto al fine, all’‘effetto’ da cui il fatto è scusato. Quel che contava, nella politica quale M. la intese, era la costruzione: «e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli» (Principe xviii 18).
Del resto, che nel toccare questo punto scabroso e nel far risuonare senza ambiguità il crudo tema della forza, M. fosse ben consapevole non solo della delicatezza del passaggio a cui era di nuovo pervenuto, ma degli equivoci che avrebbero potuto nascerne presso lettori non a sufficienza esercitati nell’arte difficile della distinzione concettuale, è dimostrato dal capitolo decimo. La questione della forza riguardava le repubbliche non meno dei principati: non era un criterio per distinguere quelle da questi. Con il suo andamento retorico e con l’insistenza messa nel far risuonare il tema anticesariano degli imperatori buoni di contro a quelli cattivi, il capitolo rivelava il suo intento particolare, che era di non lasciar dubbi sulla fede repubblicana che animava i Discorsi e di fornirne un eloquente e vibrante documento. Dopo di che, chiusa questa parentesi, eliminati i dubbi, il discorso entrava in uno degli argomenti più scabrosi: quello della religione e del suo posto nella genesi e nella vita degli Stati.
Sull’importanza che M. le assegnava e che, trattando della storia antichissima di Roma, lo persuadeva a mettere Numa Pompilio innanzi a Romolo, molto si è discusso, con varia fortuna, nella critica di ieri e di oggi. Con varia fortuna, perché, accanto a coloro che con decisione rilevarono, e rilevano, il carattere politico, e soltanto politico, da essa assunto nella vita delle repubbliche, non è mancato chi, in nome della cosiddetta religione civile, ha dato luogo a un diverso giudizio. E ha sostenuto che, traducendosi nell’aggettivo ‘civile’, il tratto politico si sublimava, come se nel lemma ‘religione civile’ si desse un duplice scambio del soggetto e del predicato, e, nell’essere predicata della civiltà, la religione in qualche misura si mondanizzasse, ma, nell’essere predicata della religione, la civiltà vi rientrasse e quella riacquistasse il suo diritto a essere considerata una vera religione: non uno strumento per ottenere altro, bensì piuttosto un valore, una cosa dunque dotata, per essenza, di un pregio intrinseco. In realtà, non è questa la via da seguire.
L’elemento di verità che questa tesi contiene si coglie con maggiore determinatezza se si cerca di penetrare nel concetto che M. dibatteva con sé stesso e la cui essenza si sarebbe dispiegata e resa comprensibile se si fosse considerato che, pur prospettandola alla stregua di uno strumento foggiato dall’abilità di chi si faceva credere in diretto contatto con Dio, e con ciò acquistava reputazione presso il popolo, in quella credenza egli senza dubbio cercava qualcosa di ulteriore; che aveva, peraltro, a che fare, non con la sua verità e con il dio che la ispirava, ma con la forza persuasiva che dal credere nell’una e nell’altro tuttavia derivava al popolo che, per questa via, usciva dalla pura passività, dalla dipendenza da colui che imprimeva una forma sulla sua materia, e di questa in qualche modo si rendeva, non solo oggetto, ma, entro certi limiti, anche soggetto. Sarà vero, e si può senz’altro ammetterlo, che rispetto al modo assai sbrigativo in cui l’idea della religione sarebbe stata più tardi prospettata, o piuttosto riassunta, nel quinto capitolo dell’Asino, vi fosse nei Discorsi un senso assai più complesso della sua importanza, non però della sua natura, che restava politica, soltanto politica. E può ben comprendersi che le cose andassero così: l’Asino è un poema dissacrante, i Discorsi sono una teoria politica.
Instrumentum regni, per un verso, la religione era dunque anche una persuasione che dischiudeva una rudimentale partecipazione morale alla vita associata, qualcosa che andava al di là della semplice immediatezza del vivere. E potrà, al riguardo, ricordarsi quel che nell’Arte della guerra M. avrebbe detto e ribadito a proposito dell’importanza della religione per la costituzione degli eserciti e della sua irrinunziabilità per uomini che, ogni giorno, professionalmente sfidavano la morte.
Potranno ricordarsi le parole di Fabrizio Colonna, persuaso che si dovesse pur indurre gli uomini della milizia a credere in qualcosa di alto e di sacro per innalzarli sulla loro precedente vita, che si era trascinata «su per li bordelli». Al di là di questo, tuttavia, non è possibile andare. E più che mai è necessario che l’analisi si mantenga entro questi limiti e non prenda fantasiose direzioni. Troppo grave, infatti, sarebbe il rischio che si correrebbe se non si tenesse fermo il rapporto da M. stabilito con la religione, e in particolar modo con la «nostra», come egli si compiaceva di definire il cristianesimo. Rapporto che, non senza abilità e malizia, fu da lui giocato sul filo sottile della provocazione intellettuale, della proclamata, o quasi proclamata, miscredenza, talvolta dell’ironia, ma netto poi e tale da non poter essere in nessun modo equivocato alla maniera di chi, prendendo alla lettera e di conseguenza non capendo il senso della contrapposizione da M. stabilita fra il cristianesimo ‘interpretato secondo l’ozio’ e il cristianesimo ‘interpretato secondo la virtù’, ha creduto che anche questo fosse cristianesimo e non invece, quale certamente era, schietta religione antica, schietto paganesimo, che non predicava l’abiezione e la rinunzia, non ‘effeminava’ il mondo, ma lo prendeva per quel che era e per come doveva essere affrontato. In realtà, l’attacco che, nei capitoli che vanno dall’undicesimo al quindicesimo, M. diresse contro il cristianesimo, di quella religione non salvava niente: non sceglieva una parte contro l’altra, un’interpretazione contro un’interpretazione, rifiutava tutto. Non era infatti soltanto alla sua dimensione mondana, al tradimento che i suoi preti e i suoi uomini potessero aver fatto della sua realtà profonda, alterando secondo i propri mondani interessi il suono della voce di Dio. Non era soltanto la polemica che nella Mandragola lo avrebbe condotto a scolpire la statua, grandiosamente negativa, di frate Timoteo: dopo tutto, costui era pur sempre un uomo di questo mondo e niente avrebbe potuto contro l’essenza della religione che, per suo conto, disonorava. Come deve ripetersi, la polemica di M. colpiva non la dimensione mondana, ma l’essenza. Non aveva niente in comune con quella che egli aveva incontrato nella Commedia di Dante che, se dirigeva il suo strale contro papi e prelati, lo faceva in nome di Cristo. Inoltre, nella convinzione che fondatore ne fosse stato un uomo che nell’ambito della politica ritraduceva le sue verità, il giudizio che ne dava era che intanto fosse stato un mediocre politico in quanto era pur sempre l’auctor di una religione il cui spirito era la rinunzia alla gloria terrena e l’abiezione del mondo, era, con le conseguenze disastrose che da ciò conseguirono, dopo la caduta dell’impero romano, nella storia dell’Italia, un monumento di insipienza politica. Se il giudizio dato su Cristo in I xii fosse da leggere nel segno della positività e nella religione da lui predicata fosse stato presente lo stesso spirito che era nella religione antica, ne sarebbe derivata la paradossale e irriverente sua contrapposizione sia allo spirito autentico del cristianesimo, religione dell’ozio e della rinunzia, sia a quanti l’avevano amministrato nei secoli e che, fedeli alla sua parola, ne avevano in pratica tradito lo spirito. Il quale era in realtà, alla luce di questa interpretazione, quello non del figlio di Dio, ma di un politico tradito dai suoi seguaci ai quali non aveva saputo trasmettere il senso autentico delle parole che pronunciava: di un politico, in altri termini, che non era stato avveduto abbastanza da far intendere quale fosse il vero intendimento di parole che, sotto il manto della religione e della rinunzia mondana che sembrava comandare, non erano in realtà se non parole politiche.
A parte quest’ultima considerazione, che non è del resto se non un corollario, resta fermo che nel primo caso Cristo doveva essere considerato il maggior responsabile della rovina di un mondo che dalla sua predicazione era stato persuaso ad abbandonare i princìpi in forza e in ragione dei quali si sta, appunto, al mondo. Nel secondo era un uomo politico che, non credendo affatto a quel che predicava in tema di rinunzia e di abiezione, perseguiva, con mezzi comunque inadeguati, il suo programma, non religioso ma mondano. Come ai politici, infatti, si conviene, in mente non aveva se non la preoccupazione di conseguire il successo nelle cose mondane. E proprio per questo deve ribadirsi che agli occhi di M. meritava la condanna: una condanna diversa dalla prima, senza dubbio, ma pur sempre una condanna, perché non si costruisce una politica esprimendola con concetti e termini che, dicendo il contrario di quel che la sua essenza comanda, inducono a comportamenti necessariamente inadeguati e contraddittori. Qui era il nodo della questione che M. poneva, qui era il tratto più profondo della sua critica del cristianesimo; che, come già si è detto, presupponeva non tanto, o non solo, il giudizio dato su una prassi che, corrompendo la Chiesa, aveva fatto sì che gli italiani, i quali non avevano potuto riconoscersi in essa, si fossero perciò ridotti a essere «sanza religione e cattivi», quanto piuttosto un’idea del mondo che con i principi del cristianesimo non aveva niente a che vedere. Il modo, non privo forse di qualche necessaria cripticità, che M. tenne nell’alludere alle tesi che di lui facevano un critico radicale del
cristianesimo, prima ancora che della Chiesa romana e della sua prassi, non può essere con facilità ricondotto a determinate tradizioni di pensiero. Non sarebbe infatti se non una semplificazione inutile parlarne come di un aristotelico, di un averroista o, in modo indeterminato, di un materialista, oppure di un libertino avant la lettre esercitante la libera critica nel segno di una ratio estranea a ogni religione rivelata. Si aggiunga che nessuno, come M., mise più arte nel dissimulare e nel nascondere, che nel dichiarare e nell’esibire, le proprie fonti, sia che questo avvenisse per ragioni polemiche che egli avesse nei confronti dell’Umanesimo e del difetto, che era tale nei riguardi della politica e della storia, con cui esso guardava all’antichità, sia che fosse invece la prudenza a far sì che egli non dichiarasse fino in fondo gli argomenti che lo tenevano fuori del quadro della «nostra religione». Non che, nei riguardi di questa, e non solo di questa, la prudenza fosse mai stata la sua più preclara virtù. Può darsi, e anzi è certo, che quando nel primo Decennale scrisse i vv. 152-63 sul rogo in cui era finita in cenere la predicazione religiosa e politica di Girolamo Savonarola, l’audacia, e persino la ferocia, del giudizio fossero rese possibili dal mutato clima politico della città, che a quel momento della sua vita poteva guardare senza alcun riguardo e senza alcuna preoccupazione di storica giustizia. Ma una cosa era il giudizio formulato sull’azione del frate, che da tanti punti di vista, non necessariamente coinvolgenti in sé il giudizio sul cristianesimo e la sua essenza, poteva essere criticato. Un’altra era quello che, appunto, coinvolgeva il cristianesimo, la «profetica dottrina» a cui Savonarola aveva affidato le sue fortune politiche e quindi il «suo lume divin» che «un maggior foco» aveva spento. Il primo poteva essere messo in conto al recente passato e chiuso entro i suoi limiti: anche se, com’è facile vedere, la critica proseguiva, in quel componimento, nella direzione del presente e rivelava nel Segretario della seconda cancelleria una libertà di giudizio, che era da mettere forse in relazione proprio alla carica da lui rivestita e all’autorevolezza che gliene derivava. Il secondo non poteva invece non essere messo in conto alla religione e all’estraneità che M. dichiarava nei suoi confronti. Il che potrebbe spiegare perché, se nel Principe si era permesso l’ironia, certo non lieve, con cui, senza peraltro far giudizio del cristianesimo, aveva giudicato dei principati ecclesiastici, nei Discorsi, dove proprio di quello si trattava, egli avvertisse che quell’atteggiamento dello spirito costituiva, per i suoi ardimenti, una difesa troppo fragile. Di qui la necessità che egli dovette avvertire di nascondere la radice della sua critica e anche, tuttavia, la decisione di correre il rischio che potesse venirgliene una volta che qualcuno l’avesse messa a nudo e recata alla luce del sole.
La questione, come si vede, è complessa e non la si risolve attribuendo alla critica machiavelliana del cristianesimo un titolo filosofico (averroismo, aristotelismo, epicureismo) e chiudendo così la partita. Si rinunzierebbe tuttavia a capire l’importanza che il suo autore le attribuiva se la si riferisse a non più che a un generico anticlericalismo, a uno ‘spirito’ ricavato da una tradizione di miscredenza popolare, senza nessi con l’alta cultura. Per convincersi della povertà intrinseca a proposte come questa basterebbe pensare che, fra i vari temi che i capitoli sulla religione intrecciano e a cui di volta in volta danno la prevalenza, uno, di particolare rilievo, riguarda la questione della decadenza della Repubblica romana o, se si preferisce, dell’impero che la virtù di quella aveva contribuito a far nascere; ed è questione di alto pensiero politico e di alta storiografia intrecciati insieme e destinati a restare al centro della considerazione fino ai nostri tempi, nei quali, cadute la preoccupazioni costruttive che erano nella mente di M. e caduta altresì la sua particolare passionalità, del problema che egli aveva contribuito a porre e a delineare ancora si discute e in vari modi lo si considera centrale. Non si era mai letta, prima che M. la tracciasse con mano sicura nel primo libro dei Discorsi, un’analisi che, come questa, tenesse insieme il tema politico e quello storiografico. Ma non si direbbe tutto se non si aggiungesse che alla radice ultima di questo atteggiamento insieme storico e politico agivano convinzioni che né alla politica né alla storia avrebbero mai potuto essere ridotte. Convinzioni alle quali, come si è detto, non è facile attribuire un aggettivo che le specifichi e dirle aristoteliche, averroistiche o altro che si creda aggiungere. Ma tali, comunque, che certamente rimandavano a un’idea del mondo che, restando fermo nel suo nucleo e sottraendosi, in questo, alle variazioni che avvenivano nel suo quadro, suggeriva quella della sua eternità. E qui, anticipando i tempi previsti da un’ordinata esposizione, deve concedersi spazio a una digressione, che non è poi, in nessun senso, una digressione.
Collocati nel punto in cui è conclusa l’analisi delle ragioni che avevano fatto grande la Repubblica romana e di quelle che, per contro, avevano dato inizio al processo della sua decadenza, i capitoli sulla religione rivelano un’intenzione strategica e insieme simbolica. Se, infatti, la religione cristiana fu tra le cause della decadenza romana, l’atteggiamento assunto nei confronti di essa era come una firma filosofica o, se si preferisce, ideologica che M. poneva sul suo quadro, era un segno, collocato in un luogo strategico, per il riconoscimento delle sue più autentiche intenzioni. Per intenderne fino in fondo il senso, occorre che perciò si trascorra a considerare l’aspetto generale della questione, la radice, come si è detto, della radice. E, da una parte, deve andarsi ai luoghi dei proemi al primo e al secondo libro, nei quali, per rendere esplicito il fondamento dal quale la teoria dell’imitazione ricavava la sua possibilità, M. alludeva alla sua idea del mondo e degli elementi che lo compongono; da un’altra, al cruciale capitolo quinto del secondo libro, dedicato alla questione della «memorie delle cose» nel quadro dell’eternità del mondo. Nel proemio al primo libro, M. rivolse la sua polemica contro coloro che, leggendo le «istorie» e traendo diletto dalla «varietà degli accidenti che in esse si contengono», non pensavano tuttavia di imitare quanto di grande quelle restituissero del passato al presente: «come se il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini, fussero variati di moto, di ordine e di potenza da quello ch’egli erano anticamente» (6). Parole e ragioni impegnative e da prender in senso non generico, ma specifico, il riferimento andando infatti a un’idea della permanenza dell’universo che non poteva esser messa in dubbio dal succedersi delle generazioni, dallo sparire e dal ricomparire, nel suo quadro, degli uomini; i quali erano bensì, di volta in volta, diversi, ma erano poi anche identici, repliche identiche di quelli che non erano più, perché né di moto, né di ordine, né di potenza, al pari delle cose, essi differivano, secondo la legge del tempo, gli uni dagli altri. Parole e ragioni che si avrebbe torto, e non ragione, se, affidandosi a una lettura generica e impressionistica, non vi si sapesse cogliere un riferimento a un’idea del mondo che, nella sua identità e permanenza, non poteva integrarsi all’interno del creazionismo cristiano: un’idea, quindi, della sua eternità che, con forza anche maggiore, emergeva dalla pagina del proemio al secondo libro, nella quale la tesi dell’eternità era messa insieme a quella della variazione degli imperi. A M. perciò veniva naturale di scrivere che, «pensando» a «come queste cose procedino», la conclusione era che il mondo sempre era stato
uno medesimo modo, e in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo, ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia: come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variavano dall’uno all’altro per la variazione de’ costumi, ma il mondo restava quel medesimo (12).
«Restava quel medesimo» e questo era il punto irrinunciabile, l’elemento che non poteva esser messo in dubbio, perché a farlo insorgere certo non sarebbe bastato l’esempio del variare degli imperi, Assiria, Media, Persia, Roma, che non incidevano il loro segno sull’identità che, al contrario, al modo di un hypokèimenon, di un sostrato, li sottendeva.
Oltre che dalla loro interna struttura e dal significato che si vi rende manifesto, l’interpretazione che si dà di questi due luoghi è richiesta anche dal già richiamato capitolo quinto del secondo libro. Capitolo che, per le considerazioni che qui si stanno svolgendo, ha importanza fondamentale; e che non avrebbe dato luogo a fraintendimenti, anche cospicui, se si fosse considerato il modo, senza dubbio sottile e di voluta ma apparente ambiguità, che M. tenne nel mettere fuori gioco la possibilità che, in accordo con la fede e con il pensiero cristiani, la tesi dell’eternità fosse non confermata, ma respinta. In realtà, la sua conferma risulta chiara non appena si consideri con qualche cura la questione della memoria e della sua cancellazione; che non permette infatti di andare indietro nel tempo tanto quanto l’assunto della sua eternità altrimenti consentirebbe. L’obiezione fondata sulla brevità della memoria varrebbe, in effetti, contro la tesi dell’eternità se non fosse vero che, nel quadro del mondo che non muta, per diverse cagioni le cose subiscono variazioni e distruzioni di ogni tipo: ed è proprio, perciò, dal fatto che queste variazioni e mutazioni e distruzioni avvengono spegnendo la memoria delle cose che ne sono travolte, è proprio per questo che dalla brevità della memoria non si potrebbe mai arguire che il mondo non sia eterno e sia invece stato creato con il tempo. Che poi, pur avendo presentato la sua tesi alla maniera, quasi, di una quaestio scolastica e stretto in un solo periodo l’argomento contra e quello pro l’eternità, risultato alla fine non confutato dal primo, M. non fosse interessato a guardare con ulteriore attenzione dentro la tesi dell’eternità per ritrovarvi difficoltà e problemi, si può e si deve concedere. Che avesse considerato che, se fosse stata pensata con rigore, la tesi dell’eternità del mondo avrebbe implicato il concetto dell’eternità del tempo, e con questo avrebbe imposto come corollario che il tempo eterno è un tempo fermo, è un tempo che non ha tempo e non scorre perché, se scorresse produrrebbe mutamenti e fra la sede eterna dei mutamenti e questi ultimi si darebbe perciò contraddizione, è indubitabile. Come lo è l’impossibilità che, posta l’eternità, vi si possa andare indietro fino alla sua origine. È evidente che se l’eternità è l’eternità, essa non ha un’origine e non c’è memoria che possa aversi di eventi che si fossero dati nel suo ambito perché, nel suo ambito, non si danno eventi dei quali possa aversi memoria.
Svolgimenti interessanti se fossimo in sede aristotelica, o averroistica; se ci trovassino nella dimora dei fautori o in quella dei critici della tesi. Non essenziali invece nella sede in cui ci troviamo, nella quale non avrebbe nessun senso della storia chi suggerisse che quella dell’eternità del mondo è un’opinione che, in quanto tale, non può essere né affermata né negata. A M. infatti interessava non di svolgere in un discorso filosoficamente coerente i fili interni all’assunto dell’eternità del mondo, ma, per il tramite di una tesi che ne dichiarava inconfutata la teoria, di arrecare un colpo mortale alla presunta verità del cristianesimo. E a tutto questo aggiungeva un corollario polemico di estrema efficacia. Nella vicenda delle distruzioni che, nel corso della storia, si erano susseguite a opera della natura o degli uomini, un’eccezione si era data che, anch’essa, segnava, per il cristianesimo, una dura sconfitta. Nei confronti della civiltà antica i cristiani avevano dimostrato l’inflessibile volontà di spegnere ogni memoria che l’avesse tramandata alla futura umanità. Ma, a differenza di quanto, a giudizio di M. (che così, ante litteram, arrecava un argomento a sfavore del mito etrusco che, al tempo della scrittura dei Discorsi, non risultava ancora affermato), i Romani antichi avevano fatto nei confronti della civiltà degli «antichi toscani», della quale erano riusciti a spegnere ogni memoria, e in primo luogo la lingua, in questa impresa i cristiani non erano riusciti. Dei Romani avevano infatti conservato la lingua, che era anche loro, e con questa,inesorabilmente la loro memoria. È possibile, come in altra sede fu proposto, che in questo polemico e malizioso finale M. alludesse anche ai roghi savonaroliani delle vanità, e che ancora una volta il fuoco del frate avesse dovuto cedere a un «maggior foco»? Deve rispondersi di sì, che è possibile: anche perché in Savonarola M. aveva letto certamente le pagine dedicate alla critica della tesi affermante l’eternità del mondo. E a questa tesi egli fortemente inclinava.
Si può, dopo questo excursus che, come fu avvertito, non è propriamente un excursus, tornare a dipanare il filo progressivo delle argomentazioni machiavelliane: anche perché non è questa la sede in cui possa avviarsi un discorso relativo al peso negativo che il drastico atteggiamento da M. assunto, e non nascosto, nei confronti del cristianesimo e del suo stesso fondatore possa aver avuto in ordine alla possibilità che i «signori Medici» gli consentissero di rientrare nella vita politica e di spendere lì il suo talento. La fama di ateo e di «irrisor» che Paolo Giovio avrebbe rievocata quando scrisse il testo posto, negli Elogia, sotto il medaglione includente il ritratto del quondam Segretario, non era immeritata; aveva certamente varcato i confini della cerchia nella quale si contavano i suoi amici; e, senza potere dire nulla del periodo precedente, già nell’età della cancelleria quella doveva essersi ben più che radicata in una città che, restituita ai Medici, poteva esercitare, nei confronti di atteggiamenti quali erano i suoi, qualche tolleranza, non certo comprensione. Di qui il procedere coperto di alcuni passaggi che, mentre rivelavano, nascondevano, anche se, nel nascondere, accadesse poi che rivelassero. Dalla consapevolezza che dalla sua imprudenza nell’esprimere con parole aperte ed esplicite il suo pensiero sul cristianesimo potessero derivargli guai ulteriori dopo quelli che avevano spezzato in due il corso della sua vita, si svolse perciò la tendenza, se non a nascondere le idee più radicali, a esprimerle tuttavia nel giro di periodi abilmente costruiti per dire e non dire, per suggerire piuttosto che per asserire. Si aggiunga che, sebbene parti ne fossero state rese ‘pubbliche’, e non sia da escludere l’ipotesi che dei Discorsi Guicciardini possedesse un testo completo già nel 1521 mentre attendeva alla composizione del Dialogo del reggimento di Firenze e criticava le tesi principali dell’opera machiavelliana, vero è anche che la circolazione di questa fu nel complesso piuttosto ristretta. Fu come se, non convinto che quella che le aveva data fosse la forma definitiva, M. esitasse a renderla pubblica per il timore, giova ripeterlo, che non solo il forte accento anticristiano ma anche la dura svalutazione del presente nei confronti dell’antico fossero per nuocere alle sue fortune, già così precarie. Impossibile, allo stato delle conoscenze, dire di più; esercitarsi nell’arte della congettura è attività spesso mortificante. Ma non è una congettura, bensì un fatto da chiunque constatabile, che se, nel sovvertimento dei punti fermi dell’etica e della teoria del diritto comunemente accettati, i Discorsi non toccarono il traguardo raggiunto dal Principe, il rapporto si capovolse a favore dell’opera sulle repubbliche nella valutazione negativa del cristianesimo, che in questa, come si è detto, riguardava l’essenza, non la prassi.
Terminata la trattazione del cristianesimo, considerato nella sua essenza e nei rovinosi effetti politici che ne conseguirono, nei tre capitoli che tengono dietro al quindicesimo, ai temi svolti fin lì M. ne aggiunse un altro, anch’esso essenziale. Con le sue molte variazioni, il tema era quello della ‘equalità’. La sua approfondita trattazione (un corollario si trova nel cinquantacinquesimo di questo medesimo primo libro) lo mise in condizione di proporre il paragone, e con questo la differenza, fra la repubblica e il principato; in considerazione anche del fatto che, al pari di questo, che non è di un solo tipo e presenta differenze rilevanti a seconda che il popolo vi abbia o non vi abbia parte essenziale, anche la repubblica si dice in più di un modo, a seconda, anche qui, che a prevalervi sia, o no, l’elemento popolare. Fu a causa della presenza, in questi capitoli, del tema principesco che, quando si discusse sulla data dei Discorsi e, di riflesso, su quella del Principe, o, viceversa, su quella del Principe e quindi, dei Discorsi, l’attenzione degli studiosi si fece particolarmente vigile: anche se i risultati conseguiti non uscirono dall’ambito congetturale. Ma, accanto al criterio che offre per la distinzione o, se si preferisce, per la classificazione delle repubbliche e dei principati, il tema della equalità ne introduce un altro, che in M. è presente anche quando non è nominato, ed è come un fiume carsico che si fa avvertire, sebbene l’occhio non sia in grado di discernerlo accompagnandolo in ogni parte del suo corso. Sul serio questo tema costituisce il Grundakkord del suo pensiero, che dal suo avvertimento nacque e da quello svolse tutte le sue conseguenze. Il tema è quello della decadenza, al quale, anche in considerazione della sua centralità e dei molti problemi che poneva al pensiero, M. aveva forse deciso di consacrare una particolare attenzione, ripetendo a piena orchestra le linee dell’antica teoria dell’anakỳklosis. Era evidentemente suo convincimento che, fin dall’inizio, chi si fosse avvicinato alle questioni concernenti la vita degli Stati si sarebbe bensì trovato di fronte ai modi in cui quelli conseguono la grandezza, non senza che pari attenzione egli dovesse dedicare ai modi attraverso i quali pervenivano alla decadenza. Le due questioni erano infatti connesse. Fossero repubbliche o principati, il compito ultimo delle formazioni politiche non consisteva infatti se non nello studio dei mezzi atti ad allontanare il più possibile quel momento fatale. Se si guarda a fondo, se si scrutano i movimenti della sua mente e si dà ascolto alle sue più tenaci preoccupazioni, non può non comprendersi che M. è, in primo luogo, un pensatore della decadenza. Non nel senso che il suo compito si risolvesse nel descriverne, a freddo, la teoria quasi compiacendosi di averne scoperto la legge fatale. Ma nell’altro, e opposto, che il suo studio, la sua riflessione, il suo impegno furono tutti fatti convergere nello sforzo volto a dimostrare in che modo si potesse porre un freno alla sua potenza e sconfiggerla: impresa impossibile, tuttavia, perché la decadenza apparteneva al novero delle cose umane che o salgono o scendono, e ferme non possono stare. Apparteneva alle cose umane nelle quali è intrinseco un processo che, attraverso vari accidenti, le inclina verso la corruzione; che si rivela perciò come il più arduo dei problemi che, legislatore repubblicano o principe, un uomo politico si trovi di fronte. Non era solo questione di naturalismo. La disposizione che, senza dubbio, era in M. a rappresentare questo processo attraverso l’analogia che gli si manifestava fra, da una parte, il corpo umano e, da un’altra, quello delle società, è uno dei tratti in cui quel suo concetto della corruzione, che lavora all’interno delle costruzioni politiche e le consuma dal di dentro, prese forma. E, senza possibilità di smentita, questa era una disposizione naturalistica che, anche in ragione della suddetta analogia, lo induceva talvolta a proporre il paragone fra la politica e la medicina, scienze entrambe, o arti, dei «corpi misti».
Si andrebbe tuttavia in una direzione decisamente impropria se a questo naturalismo volesse imporsi il sigillo di una legge in forza della quale i corpi misti, ossia le società, passano attraverso fasi necessarie di decadimento, contrassegnate, ognuna, da un carattere specifico. Il naturalismo di M. ha un volto assai più duttile di quanto non risulti da quell’idea, un volto meno rigido e perciò tanto più drammatico del rilievo secondo cui i corpi misti sono sottoposti a una legge per la quale quel che in essi, per un certo tempo, sta insieme consentendone la vita, a un certo punto necessariamente si separa e ne provoca la morte. Molteplici, e certamente non tutti prevedibili, sono infatti gli ‘accidenti’ che concorrono a determinarne il profilo; irriducibile alla rigidità di una legge il percorso che ne realizza il principio. Troppo, in M., era vivo il senso della storia perché egli potesse ridurla a una successione di fasi previste da una regola. E senso della storia significava bensì senso della fortuna che – come si era letto nel 1506 nei Ghiribizzi al Soderini e si era tornati a leggere nel capitolo venticinquesimo del Principe, nonché nel nono del terzo libro dei Discorsi – era fatta dipendere dal limite stesso della natura umana, dalla sua non superabile unilateralità. Ma anche significava che del gioco faceva parte il suo contrario, la virtù, che non aveva in sé garanzie di sorta, era destinata a percorrere una via rischiosa in cui la vittoria era attesa dalla sconfitta, l’ascesa dalla caduta e la salute dalla corruzione, supremo veicolo di decadenza; ed era, tuttavia, pur sempre una virtù. Era infatti l’altra protagonista di un dramma che non aveva fine, e che mai si sarebbe potuto considerare chiuso. Era perciò inevitabile che, forte di questa sua persuasione, nell’affrontarne e patirne il problema il pensiero di M. rivelasse il suo fondo tragico e l’amarezza che ne derivava all’intera sua visione. Era inevitabile, perché un filo unitario legava insieme il progresso e il regresso, la salute e la corruzione; e, come si è detto, il gran problema era quello della decadenza.
Nei tre capitoli in cui analizzò questi temi, M. propose alcune fondamentali equazioni, destinate peraltro a complicarsi a misura che l’analisi affrontava situazioni nelle quali un ruolo decisivo fosse stato svolto dalla virtù del legislatore o del principe. L’equazione fondamentale aveva come suoi termini, da una parte, l’assenza di libertà, da un’altra la virtù del principe; e la conseguenza che M. ne ricavava era che, dove a lungo un popolo fosse stato sottoposto al governo di uno e non avesse perciò avuto alcuna nozione della libertà, se mai per qualche accidente l’avesse conseguita, non sarebbe stato in grado di mantenerla e presto sarebbe tornato sotto l’antico giogo. Questa incapacità a mantenere e a far fruttare il dono della libertà si manifestava, a suo giudizio, in identico modo anche nel caso di città use a vivere sotto il governo di altri, sotto il quale alla prima occasione sarebbero ritornate. Interveniva, per altro, nell’analisi che M. proponeva di queste due situazioni, diverse, ma pur identiche nel risultato che erano come costrette a conseguire, il concetto che già è stato indicato. E che riguardava la corruzione, che qui era senz’altro identificata non con il risultato dello sfaldamento che uno Stato avesse subìto del suo ordinamento, ossia con il corrompimento di qualcosa che all’inizio aveva avuto opposto carattere, ma in tutt’altro. Nel caso qui considerato della monarchia romana, si trattava del tratto originario di un popolo che, a causa del suo non aver mai conosciuto la libertà, era disposto a cercare e a preferire la servitù, simile in questo a
un animale bruto, il quale, ancora che di natura feroce e silvestre, sia stato nutrito sempre in carcere ed in servitù; che dipoi, lasciato a sorte in una campagna libero, non essendo uso a pascersi né sappiendo i luoghi dove si abbia a rifuggire, diventa preda del primo che cerca rincatenarlo (Discorsi I xvi 3).
Fra corruzione e corruzione, dunque, occorreva distinguere, a seconda che si trattasse di questa che meglio si definirebbe come rozzezza, primitività, estraneità a ogni forma di vita civile, o di quella che si determinava dopo che, per vari accidenti, la sintesi degli ordini e delle leggi si fosse incrinata e fatta meno forte, in modo che gli uni e le altre vivessero una loro vita indipendente dal nesso che li aveva stretti insieme: una vita indipendente e, appunto per questo, corrotta. M. la affermò con chiarezza questa distinzione quando, in questo capitolo, disse che intendeva rivolgere i suoi ragionamenti a «quelli popoli dove la corruzione non sia ampliata assai, e dove sia più del buono che del guasto» (5). Certo, la differenza introdotta fra corruzione e corruzione avrebbe forse richiesto di essere segnata con maggiore nettezza, perché non è assimilabile a un rozzo animale un popolo che si trovi a vivere i giorni di uno Stato in decadenza, e niente ha a che vedere con questo un popolo che non sia mai entrato nella vera vita politica e sia perciò come un rozzo animale. Ma il nodo della questione non stava, malgrado tutto, qui. La difficoltà era quella che comunque avrebbe incontrato chi si fosse cimentato nell’impresa di governare uno Stato che, non avendo mai conosciuto la libertà, «diventa libero». Com’era nella logica delle cose, questo Stato avrebbe infatti avuto non amici, ma nemici, tali essendo tutti coloro che, nel precedente, avevano goduto dei privilegi della tirannide e ora, poiché se ne sentivano e ne erano stati privati, congiuravano per riconquistarli: il che recava con sé la conseguenza che chi avesse preso a governare un simile Stato che, da poco diventato libero, della libertà e dei benefici che essa reca con sé necessariamente fosse stato ignaro e, secondo la potente espressione machiavelliana, non avesse provveduto ad «ammazzare i figliuoli di Bruto», avrebbe messo al mondo uno Stato di poca vita.
La questione che M. aveva preso a trattare nel sedicesimo capitolo si arricchiva, nei due successivi, di elementi essenziali. Qui il tema della decadenza, delle sue ragioni e degli strumenti indispensabli al tentativo volto a contrastarla, raggiungeva la sua pienezza. Non si andrebbe perciò lontano dalla verità se, dopo aver detto che in queste pagine batteva veramente il cuore dei Discorsi e la teoria politica di M. svelava il suo significato più profondo, si aggiungesse che il tema della grandezza degli Stati vi s’intrecciava con quello della loro decadenza in un circolo necessario; del quale non si arriverebbe a comprendere la necessità se la coppia ‘equalità/inequalità’ non fosse messa al centro del quadro e considerata nelle varie sue implicazioni e conseguenze. Se la corruzione che aveva cominciato a investire il corpo della monarchia romana si fosse, quando questa ebbe fine, estesa dal ‘capo’ alle ‘membra’ in modo che in ogni sua parte quella fosse risultata corrotta, sarebbe stato impossibile «mai più riformarla». Se riformarla fu invece possibile, se fu possibile fare di una monarchia una libera repubblica, ne fu ragione la solo parziale estensione del male, che si sarebbe rivelato incurabile se dal capo si fosse esteso alle membra e in ogni sua parte il corpo sociale e politico ne fosse stato affetto. La regola che, al riguardo, M. poneva era chiarissima:
debbesi presupporre [scriveva] per cosa verissima che una città corrotta che viva sotto uno principe, come quel principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può ridurre libera; anzi conviene che l’un principe spenga l’altro; e sanza creazione d’uno nuovo signore non si posa mai, se già la bontà d’uno, insieme con la virtù, non la tenesse libera; ma durerà tanto quella libertà quanto durerà la vita di quello (I xvii 4).
Era una conclusione rigorosa, segnata di pessimismo. Chi la traeva non era tuttavia uno che fosse disposto a contentarsene o a rassegnarvisi. Non era uno che, non essendo incline a rinunziare al rigore, fosse tuttavia indifferente alla conseguenza negativa che ne discendeva e l’accettasse, per così dire, senza provare a contrastarla. Le ragioni del pessimismo erano, d’altra parte, incontestabili. Emergevano, fra gli altri, dall’esempio di Tebe,
la quale per la virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere forma di republica e imperio; ma morto quello, la si ritornò ne’ primi disordini suoi. La cagione è, che non può essere uno uomo di tanta vita che ’l tempo basti ad avvezzare bene una città lungo tempo male avvezza. E se uno d’una lunghissima vita o due successione virtuose continue non la dispongano, come la manca di loro […], rovina; se già con di molti pericoli e di molto sangue e’ non la facesse rinascere (13-15).
Ma ciò non implicava che, come si è accennato, a questo esito pessimistico M. fosse disposto a sottostare. Con l’accenno ai pericoli e al sangue, che, se fosse ristretto a questo solo passaggio e non messo in relazione sia alle linee che seguono sia, poi, al diciottesimo capitolo, riuscirebbe oscuro, egli si riferiva infatti ai modi straordinari che chi era a capo di una siffatta città non avrebbe potuto non usare se avesse sul serio provato a mantenerla libera. Rinviava quindi a quel che sarebbe stato chiarito nel successivo capitolo. E, per intanto, accanto alla conclusione pessimistica, che era ribadita «perché tale corruzione e poca attitudine alla vita libera nasce da una inequalità che è in quella città» (16), egli ne profilava un’altra che, anch’essa, si presentava nel segno del più alto rischio, nell’atto, tuttavia, in cui, dischiudendo la via all’uso di quei «grandissimi straordinari, i quali pochi sanno o vogliono usare» (16), riapriva il gioco della politica e alla corruzione lanciava la sua ultima sfida.
Se, nello svolgere i concetti, distinti ma connessi, dell’‘equalità’ e dell’‘inequalità’ si dicesse che alla prima corrispondeva il vivere libero e repubblicano, mentre all’altra solo il principato si rivelava conforme, si direbbe bene per un verso, ma non per un altro. Si direbbe bene se, disponendo le equazioni in modo statico, si constatasse che effettivamente, dove c’è uguaglianza lì è richiesta la forma repubblicana, che in quella ha infatti il suo fondamento, e dove invece ci sia diseguaglianza soltanto la mano forte di un principe potrebbe tenere le cose bilanciate in modo che, autori di quella, i grandi fossero tuttavia messi nella condizione di non nuocere. Come già comincia a vedersi, non si direbbe tuttavia soltanto bene e si darebbe luogo a un’impropria semplificazione, se non si osservasse che, nel campo delle soluzioni principesche, quella che prevedeva la persistente diseguaglianza delle sorti era la meno sicura, tanto che al principe savio si richiedeva non di mantenerla e di fondarvisi, ma di eliminarla riducendo il potere dei grandi, ampliando quello del popolo e facendo perciò in modo che, da aristocratico, il principato assumesse il volto di quello popolare. La questione che a questo punto si delineava in relazione ai principati – la cui interna fenomenologia prevedeva che, per interna necessità, dalla forma aristocratica, in cui il principe è circondato dai grandi che ne limitano il potere, si passasse a quella popolare, in cui il principe ha nel popolo il presidio da far valere contro le sempre possibili reviviscenze aristocratiche – era delle più complesse che M. si fosse poste. E andrebbe affrontata dove si trattasse non delle repubbliche, ma dei principati, sebbene anche l’analisi che si faccia di quelle e di questi conduca a risultati non dissimili. Questi risultati culminano e trovano la loro migliore espressione nell’argomento secondo cui l’equilibrio dei nobili e dei plebei dev’essere inteso in modo che, come si vide già a proposito del quinto capitolo, le garanzie della libertà siano messe nelle mani di magistrature popolari o, genericamente, del popolo. Su questo destino popolare, che si rivela comune ai principati non meno che alle repubbliche, si potrebbe discutere in modo più dettagliato se ci si proponesse di rispondere alla domanda relativa al modo in cui, in un principato popolare o civile-popolare, il popolo fa pervenire il suo favore e il suo sostegno al principe: se si tratti di un modo reso obiettivo in un ordine o se si esprima attraverso il consenso che l’azione principesca suscita e tiene desto del popolo.È una questione non facile. Ma qui, dove si tratta non tanto di porre una tavola in cui siano raffrontate analogie e differenze, quanto di entrare nel congegno concettuale machiavelliano, quel che interessa è di stabilire se la decadenza possa arrestarsi quando si sia rivelata e abbia cominciato a fare progressi in una repubblica che, dall’iniziale equalità, nella quale aveva trovata la ragione della sua eccellenza, fosse passata alla situazione opposta e, per gli accidenti capitati in essa, si fosse perciò resa diseguale. Oppure se questa possibilità non si dia e la virtù debba rassegnarsi, quando il momento sia giunto, a constatare il suo fallimento.
La risposta che M. cercò di dare alla domanda che, attraverso le analisi e le distinzioni svolte e poste nei capitoli sedici e diciassette, egli stesso aveva poco alla volta formulata, fu data nel capitolo diciottesimo, il più drammatico e, nello stesso tempo, forse il più importante dell’opera; un capitolo il cui tema ebbe, come si vedrà, una ripresa nel cinquantacinquesimo del primo libro, senza che, peraltro, in questo, con la volontà di non dare partita vinta alla potenza della corruzione, riuscisse a esserne conservata la tensione drammatica. La questione era se e «in che modo nelle città corrotte si potesse mantenere un stato libero, essendovi, o, non vi essendo, ordinarvelo»; e in entrambi i casi si delineava nei termini della massima complessità e incertezza. In entrambi i casi, si trattava infatti di procedere con mezzi atti a modificare radicalmente l’esistente situazione di fatto, a determinarvi una sorta di metàbasis dal ‘cattivo’ al ‘buono’, quello essendo identificato nell’inequalità che della corruzione è nello stesso tempo la causa e la conseguenza, questo nell’equalità, che, al contrario, è condizione indispensabile all’esserci di repubbliche bene ordinate. Poiché si trattava di un passaggio da una situazione estrema a un’altra, la prima contrassegnata da negatività, l’altra da positività (per dare, il più che fosse possibile ragione della difficoltà, M. presupponeva «una città» non corrotta, ma «corrottissima»), era evidente che il compito fosse dei più ardui e si presentasse al limite dell’ineseguibilità. L’analisi della situazione che M. si era messa sotto gli occhi fu condotta con estremo rigore; e merita di essere riferita con le essenziali parole che egli usò per delinearla. «Presupporrò», scrisse, «una città corrottissima, donde verrò ad accrescere più tale difficultà: perché non si truovano né leggi né ordini che bastino a frenare una universale corruzione» (4). Il contrassegno della corruzione poteva dunque, e doveva,
essere individuato in ciò che, divenuti gli ordini, sui quali le repubbliche avevano fondata la loro virtù, estranei alla loro vita concreta e non disposti a lasciarsene permeare e in questo atto a disciplinarla, alla loro rigidità si contrapponeva la moltiplicazione delle leggi, che, d’altra parte, non bastavano, così moltiplicate, a porre un rimedio, perché, «stando saldi», erano proprio gli ordini a ulteriormente corromperle. Si legge qui di seguito:
Questi ordini poco o nulla variarono negli accidenti. Variarono le leggi che frenevano i cittadini, come fu la legge degli adulterii, la suntuaria, quella della ambizione e molte altre; secondo che di mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma tenendo fermi gli ordini dello stato, che nella corruzione non erano più buoni, quelle legge che si rinnovavano non bastavano a mantenere gli uomini buoni; ma sarebbono bene giovate, se con la innovazione delle leggi si fussero rimutati gli ordini (10-12).
Notevole, al riguardo, l’esempio che M. trasse dall’analisi della facoltà, che ai tribuni era riconosciuta, di
preporre al Popolo una legge, sopra la quale ogni cittadino poteva parlare o in favore o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine buono quando i cittadini erano buoni: perché sempre fu bene che ciascuno che intende uno bene per il publico lo possa preporre, ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l’opinione sua, accioché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo, perché solo i potenti proponevano leggi, non per la comune libertà, ma per la potenza loro; e contro a quelle non poteva parlare alcuno per paura di quelli: talché il popolo veniva o ingannato o sforzato a diliberare la sua rovina (19-21).
Di qui, nel passo che a questo teneva dietro, la conseguenza che M. non esitava a trarre e che era altamente problematica. La difficoltà che egli rinveniva nell’impresa volta al rinnovamento degli ordini e delle leggi era tale da sfiorare l’impossibilità, sia se si fosse tentato di rinnovarli di un solo tratto sia se si fosse scelto di rinnovarli nel tempo. Al che doveva aggiungersi che, se si fosse data la preferenza al rinnovamento simultaneo di tutti gli ordini e di tutte le leggi, anche si sarebbe dovuto fare che, a rinnovarli secondo questa modalità, fosse uno che, agendo da solo, sarebbe di necessità incorso in due inconvenienti di particolare gravità e l’uno all’altro strettamente connessi. Constatata l’evidente inutilità di quelli ordinari, avrebbe dovuto fare ricorso a mezzi straordinari, e cioè alla violenza e alle armi, con il paradossale risultato, nel migliore dei casi, di avere, per voler salvare una repubblica, dato vita a un principato nell’atto in cui, essendosi proposto quel nobile scopo, era stato altresì costretto a realizzarlo con quei modi cattivi.
E perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo, per questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene e che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene che gli ha male acquistata (27).
Come si vede, l’analisi si svolgeva sul doppio binario di questo paradosso, per il quale il riformatore repubblicano assumeva su di sé le sembianze del principe, mentre il bene assumeva il volto del male e, permanendo in questo suo carattere, il male lasciava intravvedere, in controluce, il lineamento di un volto buono. Era il consueto modo machiavelliano di leggere la realtà con la disposizione a rilevarvi coincidenze inconsuete, convergenze paradossali, che capovolgevano il modo tradizionale di osservarla e valutarla: sì che occorre dire non che, in questo punto, nella trama dei Discorsi s’intravvede il mondo del Principe, che si annunziava, ma che in realtà non c’era che un solo mondo, del quale e i Discorsi e il Principe non erano che espressioni.
Chi, dopo aver letto questi capitoli del primo libro, vada al cinquantacinquesimo non potrà non notare che, nella permanenza dei concetti, il clima vi si era fatto diverso, la tensione era scemata, le equivalenze stabilite fra equalità e repubblica da una parte, inequalità e principato da un’altra, avevano perduto quella tendenza a superarsi nel segno e a opera della politica che le aveva caratterizzate nei capitoli che vanno dal sedicesimo al diciottesimo e da sé avevano come esclusa la possibilità che la loro regola fosse contraddetta da un’eccezione. Nei capitoli che vanno dal sedicesimo al diciottesimo, l’eccezione aveva avuto, appunto, il volto della politica, dell’impresa diretta a raggiungere, con mezzi straordinari, risultati straordinari. Nel cinquantacinquesimo le equazioni tornarono a essere equazioni, statici rapporti fra termini non modificabili; e sebbene, a quanto aveva detto in precedenza, in questo capitolo M. aggiungesse le considerazioni relative ai ‘gentiluomini’, per quanto riguardava la sostanza teorica il quadro non ne fu arricchito. Per gentiluomini egli intendeva coloro che, poiché
oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di coltivazione o di altra necessaria fatica a vivere [...] sono perniziosi in ogni republica e in ogni provincia, ma più perniziosi sono quelli che oltre alle predette fortune comandano a castella, e hanno sudditi che ubbidiscono a loro (18-19).
Il che, come si è detto, a parte il pregio intrinseco, non ebbe per effetto se non il ribadimento di quelle statiche equazioni, dalle quali sembrava ormai che la passione politica intesa a trasformare le sorti e a non accettare il destino imposto dalle cose fosse volata via come un impossibile sogno. Da quel fenomeno sociale, ben presente e osservabile nel regno di Napoli, Terra di Roma, Romagna e Lombardia, derivava che «in quelle provincie non [fosse] mai surta alcuna republica né alcuno vivere politico» (21); e altresì derivava la conseguenza che «a volere in provincie fatte in simil modo introdurre una republica, non sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra via che farvi uno regno» (22), perché le repubbliche non sorgono e non si radicano se non dove sia equalità e dove questa manchi non hanno possibilità di sopravvivenza. La conclusione era, del resto, perentoria nella sua rassegnazione alla forza invincibile delle equazioni e delle corrispondenze obiettive: «constituisca adunque una republica colui dove è o è fatta una grande equalità, e all’incontro ordini un principato dove è grande inequalità; altrimenti farà cosa sanza proporzione e poco durabile» (35). Era perentoria, anche se, a rigore, qualcosa sembrava sacrificare al pessimismo subentrato allo spirito combattivo che, nella consapevolezza delle difficoltà, aveva animato i precedenti capitoli. Là dove il testo indicava una «grande equalità», che era in una provincia o «era fatta», forse che non si alludeva a un’azione trasformatrice che, a rigore, il rigido sistema delle corrispondenze obiettive avrebbe dovuto escludere? Ma qui c’era come il residuo bagliore di un fuoco che, per il resto, era quasi completamento spento.
Difficile, leggendo i Discorsi, resistere alla tentazione della diacronia. Impossibile, infatti, leggerli come se fossero un trattato di scienza politica, diviso in capitoli e in paragrafi, e sottoposto al controllo dell’attenta considerazione unitaria che i professori dispongono per l’istruzione e l’edificazione dei loro scolari. Posto che opere siffatte esistano, o non siano piuttosto il frutto di esegeti che, essendo in difficoltà con il procedere di M., provano nostalgia per i manuali idealizzati come opere ordinate e coerenti, resta che i Discorsi sono un’altra cosa. Le passioni della storia vi hanno lasciato una traccia altrettanto profonda delle delusioni della vita: sì che, se, per es., li si legge collocandoli sotto il segno della decadenza e della possibilità di arrestarne il corso, la differenza degli stati d’animo si rende evidente in quelle che impone alle stesse teorie. In altri tempi si sostenne che al mutamento di tono che si nota fra la prima e la seconda parte del primo libro dei Discorsi non fu estranea la vicenda del Principe, venuto al mondo, si potrebbe dire, per assistere al suo fallimento pratico, che non fu soltanto quello delle speranze che il suo autore aveva riposte in esso. A questa tesi si può anche oggi, dopo aver rimeditato su questa materia, concedere il credito che allora si concesse, ribadendo altresì che, se la seconda metà del primo libro è assai meno fusa della prima e, con capitoli importanti, non regge il suo confronto, il mutamento di tono si avverte più forte se dal primo libro si passa al secondo. Nel quale è ben vero che l’insistenza messa, fin dal proemio, nel proclamare la necessità che gli antichi tempi dei Romani fossero lodati nel confronto con quelli dei moderni non è in contrasto con ciò che già era stato asserito nel proemio che va innanzi al primo libro. Ma certamente più accentuata, rispetto al primo libro, è la contrapposizione dei tempi antichi ai moderni: come si comprende se si tien conto proprio dell’insistenza che M. mise nel ricostruire l’atteggiamento di chi loda il passato e deprime il presente per ragioni che solo con la sua soggettiva psicologia, e con niente di obiettivo, hanno a che fare, e nel distinguerlo dal suo, che certo anch’esso avrebbe potuto essere accusato della medesima unilateralità e del medesimo pregiudizio, se non fosse stata più chiara del sole la differenza che i moderni avevano fatto crescere fra sé e i Romani antichi. In realtà a farla risaltare, questa differenza che, essendo di accento, beninteso, non di concetto, i capitoli del secondo libro rivelavano nei confronti di quelli del primo, fu proprio il tono pedagogico che discese dal suo rilevamento: come se, chiusa la possibilità che, sia pure superando grandi difficoltà, sulle cose ancora si tentasse di agire, altro non restasse che l’insegnamento, ai moderni tempi, dell’antica virtù e questo solo potesse farsi nella speranza, diceva, che «gli animi de’ giovani che questi mia scritti leggeranno» potessero fuggire i presenti vizi e «prepararsi» a imitare gli antichi,
qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perché gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amato dal Cielo possa operarlo (proemio 24-25).
Che è già, alla lettera, l’atteggiamento di Fabrizio Colonna, il protagonista dei dialoghi sull’Arte della guerra.
La tonalità etico-politica che caratterizza il secondo libro ha la sua conferma culturale nel primo capitolo, nel quale, sul fondamento di Plutarco, ma avendo forse in mente, fra le altre cose, anche il famoso paragone istituito da Livio fra Alessandro Magno e i Romani per decidere chi dei due avrebbe vinto se si fossero incontrati su un campo di battaglia, M. riprende, e di nuovo discute, la questione della fortuna e della virtù nel quadro di quella, più ampia, concernente l’acquisizione, da parte dei secondi, dell’impero. La riprende e la ridiscute, non ponendola di nuovo nei termini in cui l’aveva prospettata nel Principe, ossia per decidere quale potere dovesse riconoscersi all’una o all’altra, e quale fosse la ragione per la quale la prima dominava nelle cose umane e da cosa nascesse e fosse determinata. La riprese e la ridiscusse avendo già deciso che, nella questione specifica che aveva di fronte, la palma spettasse alla virtù, non alla fortuna: non perché necessariamente e sempre, nella varia vicenda delle cose umane, la vittoria appartenesse alla prima, al cui potere niente poteva resistere, ma per la diversa ragione che qui in questione era il debito che, nell’acquisto dell’impero, Roma aveva contratto con l’una o con l’altra, e a lui sembrava evidente che quello fosse stato contratto con la prima, non con la seconda. Rispetto a Livio che, ogni volta che fece «parlare ad alcuno Romano, dove ei racconti della virtù», è raro «che non vi aggiunga la fortuna» (i 4), M. pensava in tutt’altro modo. In questo caso aveva in testa non lo storico del quale commentava le pagine, ma, se mai, Polibio che, nel sesto libro delle Storie, aveva dato risalto all’importanza dell’assetto costituzionale romano. Scriveva perciò di non volere in nessun modo condividere l’opinione liviana, «perché, se non si è trovata mai republica che abbi fatti i profitti che Roma, è nato che non si è trovata mai republica che sia stata ordinata a potere acquistare come Roma» (6). La capacità di conquistare, che a questa repubblica doveva essere riconosciuta, tanto più, in effetti, era destinata a rifulgere quanto più si fosse considerato che la sua espansione era avvenuta vincendo la resistenza, non di città use a essere serve e a sottostare all’altrui dominio, ma di città e di popoli «ostinati a difendere la loro libertà» (33). «In ogni minima parte del mondo», si legge nel capitolo successivo, i Romani «trovarono una congiura di republiche armatissime e ostinatissime alla difesa della libertà loro. Il che mostra che il Popolo romano sanza una rara ed estrema virtù mai non le arebbe potute superare» (ii 40-41).
Il punto che sta emergendo è importante e deve essere valutato con attenzione, perché consente di afferrare il paradosso che per questa via si stava determinando nel pensiero di Machiavelli. Per un verso, era la libertà di cui al tempo della Repubblica i Romani godevano, ad aver reso possibile la vittoria conseguita sulla libertà altrui, sì che sempre, per un altro verso, l’elogio della conquista poteva coincidere con quello della libertà che l’aveva resa possibile. Ma era una libertà che aveva distrutto una libertà quella che a Roma aveva meritato l’impero. E in questo punto era inevitabile che il favore con cui M. guardava alla libertà e ai tanti benefici che da essa derivavano al vivere civile conoscesse una sorta di contrappasso. Nel momento stesso in cui la esaltava, nella libertà romana doveva infatti condannare il sacrificio che essa aveva imposto alle città circonvicine che, anch’esse libere, della libertà erano state private; e doveva essere filoromano nel nome di una libertà che aveva conquistato un impero e, almeno in senso oggettivo, antiromano per avere quel popolo spento in altri il fuoco di una nobile passione. Il paradosso che si era lentamente venuto costituendo era che la libertà aveva dentro di sé una potenza che non solo le libertà altrui era destinata a spegnere, ma ineluttabilmente, in progresso di tempo, anche sé stessa. Era infatti, come si era già accennato, quella antinomia interna alla libertà che, attraverso la conquista, conduceva alla sua propria fine nell’impero. Se a questo cruciale capitolo del secondo libro non si guarda avendo in mente questo concetto, il suo significato non potrà che sfuggire. E sfuggirà anche il senso della ripresa che, in esso, M. fece della sua polemica anticristiana. Alla «nostra religione» ora egli imputò, in sostanza, di essere persuaditrice non di libertà, ma di servitù. E detto questo, per lui era detto tutto.
Non sarà il caso, dopo quello che già si ebbe occasione di dirne, di intrattenersi sulla distinzione tra il cristianesimo interpretato ‘secondo l’ozio’ e quello interpretato ‘secondo la virtù’ e di ripetere che, nel primo essendo riassunte tutte le peculiarità per le quali il cristianesimo è il cristianesimo, il secondo non è in effetti se non paganesimo. Ma sulla pesante coltre di servitù che, a causa del suo essere quale agli occhi di M. appariva, il cristianesimo aveva depositato sulle province italiane, occorre insistere, perché qui è la radice di un’interpretazione della storia dell’Occidente cristiano, e delle città italiane in particolare, che, per es., al massimo differenziò M. da un politico e storico quale fu Francesco Guicciardini; che ancor meno di lui amava il governo dei preti e sognava Martin Lutero, ma sul giudizio formulato sull’essenza del cristianesimo dissentiva come sull’interpretazione della storia d’Italia, che negli ultimi decenni del quindicesimo secolo, prima che Carlo VIII intervenisse ad alterarne per sempre l’equilibrio, di questo aveva goduto e, con questo, di molta felicità. Questo insieme di motivi, che si sogliono per lo più considerare ciascuno in sé e non nel loro nesso, richiede invece di essere assunto in questo e perciò nella sua sostanziale unità: non si comprenderebbe infatti il senso dell’interpretazione machiavelliana della storia d’Italia se non la si considerasse nella sua relazione con quella data del ruolo decisamente negativo svolto non solo dalla Chiesa come istituzione, ma dalla religione che ne costituiva il fondamento. A sua volta, l’interpretazione della storia d’Italia, della religione cristiana e della Chiesa che la rappresentava non poteva prescindere dal nesso che con forza la legava all’idea che M. aveva dell’antico e dell’imitazione che doveva darsene; e che, a sua volta, implicava concetti assai meno innocenti di quelli che sono emersi alla luce a opera di chi, sia pure virtuosamente, si è ristretto a considerare il congegno concettuale che, ai suoi occhi, la rendeva possibile e non ha considerato che l’uniformità della storia, la permanenza dell’animo umano attraverso i tempi, l’idea dell’eternità del mondo sono tutti concetti estranei alla tradizione cristiana perché radicalmente mettono in crisi o, meglio, escludono la plausibilità dell’idea di creazione.
Se ora, giunti quasi alla fine di questa indagine ricostruttiva dei Discorsi, si provasse a darne una definizione unitaria, nella quale non solo dei nuclei più forti e compatti si tenesse conto, ma dell’intera successione dei capitoli che costituiscono i tre libri in cui l’opera si divide, l’impresa non riuscirebbe senza qualche difficoltà. Per certi aspetti, se si prescinde dai suddetti nuclei e dalla forte unità concettuale che li caratterizza, i Discorsi potrebbero essere definiti come l’opera di un moralista della politica che, dal nucleo compatto del suo pensiero, sulla falsariga di una serie di casi e di esempi, fa scaturire i più vari argomenti e li svolge in modo che, a sua volta, di ciascuno, senza difficoltà, si immaginano gli ulteriori, possibili sviluppi. Non che qui si vogliano paragonare i Discorsi all’opera che più forse questo rilievo avrà rievocata alla mente del lettore. Per ciò che attiene alla loro struttura, i Discorsi non hanno niente a che vedere, se non per il carattere parzialmente miscellaneo, con gli Essais di Michel de Montaigne. Che tuttavia, sia pure per escludere che abbia a che fare con i Discorsi, e viceversa i Discorsi con essa, quella celebre opera sia affiorata alla memoria, è prova che in comune quei testi debbono pur avere qualcosa e che, se è stato per il loro andamento divagante che è sorta l’idea di paragonarli, c’è tuttavia un altro aspetto, opposto al primo, che li accomuna; ed è il nucleo forte di una riflessione unitaria che emerge anche dai frammenti. Restando sul piano dischiuso da queste osservazioni, deve aggiungersi che non è facile dire quale credito sia da dare alla notizia fornita dall’editore giuntino dei Discorsi, il quale si premurò di far sapere che dell’opera, così com’era, M. non si contentava, tanto che avrebbe voluto «ridurre i lor capi a minor numero, e alcuni meglio trattare». Lasciamo da parte l’ulteriore notazione secondo cui, tracciati dalla sua mano, alcuni segni di questa avviata (e subito interrotta) revisione erano o sarebbero stati visibili, nel primo originale: la notizia non è verificabile e non giova dissertarne. Ma l’altra, relativa all’insoddisfazione che l’aspetto frammentario che, in certe sue parti, l’opera suscitava nel suo autore, non è in contrasto con quel che qui su si notava; e se fosse possibile confermarne l’autenticità, potremmo dire che il primo autore dell’osservazione fu proprio lui, M., l’autore dei Discorsi. Dal che potrebbe trarsi persino un motivo di soddisfazione.
D’altra parte, non c’è disposizione a una lettura essa stessa frammentaria, e aliena da responsabilità sistematiche, che possa far dimenticare che il tema unitario resiste, se si abbia la capacità di individuarlo, a ogni tentativo che, per incapacità o ostilità, si compia di metterne in discussione l’esistenza. Non c’è, nella storia del pensiero e delle lettere, autore più controverso di Machiavelli. E la controversia dura ancora, le ragioni della condanna trovano, per esprimersi, le vie più impensate. Nessuno tuttavia, a meno che non giudicasse per partito preso, potrebbe negare che ci sono, nei Discorsi, temi che si ripresentano con tenacia e testimoniano di un nucleo di pensiero che si ripropone attraverso le sue stesse variazioni; e anzi ce n’è uno che, sottilmente orchestrato, emerge nei momenti essenziali e si lascia percepire anche da chi si trovasse a essere attratto da altre note. Si pensi, a proposito dell’ininterrotta meditazione machiavelliana sulla fortuna, al ritorno in III ix del tema che, per la prima volta enunciato, nel 1506, nei Ghiribizzi al Soderino, era stato ripreso nella seconda parte del cruciale capitolo venticinquesimo del Principe. Un tema che, culminando nel riconoscimento della casualità del ‘riscontro’, quasi che l’autore fosse entrato in lotta con il suo stesso pensiero e non ne accettasse le conclusioni, nel trattato sui principati era stato contrastato con l’unilaterale preferenza accordata all’«impeto» nei confronti del «respetto», nella celebre immagine della donna che, amica com’è dei giovani che procedono con audacia, «è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla» (Principe xxv 26), mentre nel capitolo dei Discorsi era stato mantenuto nella sua nuda enunciazione, senza fare che l’impeto prevalesse sulla prudenza: come, pure al di fuori di questa stretta cornice teorica, era invece avvenuto in II xxix, con quelle parole indimenticabili sugli uomini che, «in qualunque fortuna e in qualunque travaglio si truovino», hanno «sempre a sperare e, sperando, non si abbandonare» (25). Si pensi al tema della decisione che è degli Stati forti, e dell’indecisione che è dei deboli. Si pensi al capitolo sulle congiure (III vi) o a quello sull’inutilità delle fortezze e così via.
C’è un tema, tuttavia, che, agli occhi di chi consideri non solo la trama concettuale dei Discorsi, ma anche la tonalità emotiva che caratterizza le tesi che vi sono esposte, non può non assumere un aspettopreminente. È quello che M. svolse nel capitolo primo del terzo libro: un capitolo che, se si prescindesse dalla sua materiale collocazione nell’opera, potrebbe con pieno diritto esserne considerato come l’ideale suggello, come quello in cui la coscienza della crisi sempre immanente nella vita degli Stati, e della difficoltà estrema che s’incontra a risolverla, non riesce tuttavia a spezzare il filo della speranza, le ragioni della politica e della virtù. Nell’apparente semplicità della sua struttura, il capitolo non è di facile interpretazione. E subito, a eliminare equivoci indotti da citazioni non pertinenti, e comunque estrinseche, di fonti antiche, dovrà notarsi che ci si incamminerebbe lungo un sentiero, suggestivo ma sbagliato, se con la mente si andasse al mito della rinascita e alla sua presenza nella mente e nella memoria di M.; e che, altresì, si seguiterebbe a camminare su quel sentiero e ad allontanarsi pertanto dalla meta, se si alludesse a movimenti ciclici.
Le rinascite, le problematiche rinascite, a cui M. aveva la mente, non hanno niente a che fare con il mito umanistico della rinascita e con i significati che gli sono stati riconosciuti; e non danno luogo a nessuna figura ciclica, dal momento che si ha ciclo dove, percorso un cammino necessario, le cose si ritrovino, per realizzarlo di nuovo, nel punto di partenza e qui, nei casi in cui l’impresa abbia buon fine, non si ha se non un ritorno al punto di partenza, ottenuto non percorrendo un ciclo, ma realizzando un cammino a ritroso sulla linea che aveva proceduto fino al punto della corruzione. Niente esclude, beninteso, che nel presentare a sé stesso l’idea della mortalità delle cose, tutte, da natura, destinate ad avere il fine loro, M. possa aver pensato a Sallustio e alla sua idea delle cose che nascono per morire; o a Lucrezio e al suo assunto della senescenza del mondo. Ma sono riscontri generici; e più importa invece che non sfugga l’idea che certamente era, ancora una volta, nella mente di M.: l’idea che le cose muoiono sì, ma sotto un cielo eterno e un mondo che, eterno anch’esso, non partecipa delle variazioni che pure avvengono nel suo quadro. Se non si fosse in grado di avvertire il grave rintocco della campana anticristiana, che apre il capitolo, intenderlo sarebbe impossibile. E per andare subito al punto delle sette e della necessità che anch’esse, e le loro chiese, fossero di tempo in tempo ritirate verso il loro principio, non è difficile, se si fa conto della premessa, comprendere che niente poteva esserci di più provocatorio e, per un cristiano, di blasfemo di questa idea secondo cui, a far sì che la setta cristiana ritrovasse la virtù delle origini, era stato necessario l’intervento di due uomini di santa vita, Francesco e Domenico, che, se non fossero esistiti con la loro virtù, quella si sarebbe spenta al pari di una qualsiasi realtà umana. Nel quadro del mondo eterno e sotto l’eterno suo cielo, anche le religioni, anche le sette infatti mutano, si corrompono, scompaiono; e questo era un assunto libertino, o prelibertino, a seconda che poi, in sede storiografica, questo fenomeno sia giudicato.
L’altro, fondamentale, tema a cui il capitolo deve il suo complesso svolgimento, concerne la corruzione e la decadenza; che, rispetto al modo in cui, nei precedenti del primo libro, M. aveva tenuto nel trattarne, si presentano qui in una tonalità alquanto diversa e, nell’insieme, più semplice. Nei luoghi in cui in precedenza era stata affrontata, la questione era stata considerata in relazione alla possibilità, o all’impossibilità, che se ne venisse a capo quando, in un principato e, soprattutto, in una repubblica, si fosse dovuto affrontarla nella sua forma più grave (nel capitolo diciottesimo, come si ricorderà, M. aveva ipotizzato una «città corrottissima»); e non sarà ora il caso di ricordare al lettore la varia fenomenologia delle possibilità e delle impossibilità che l’analisi della situazione aveva individuata. Qui, invece, senza che la si specificasse in termini di ‘inequalità’, la corruzione si presentava come il momento finale di un processo che, in forme naturalistiche, avendo avuto un inizio felice, aveva poi inesorabilmente proceduto nella direzione di un progressivo decadimento: donde, appunto, la necessità non, per es., di introdurre una repubblica in terre segnate da inequalità e perciò da inettitudine al vivere civile, che significa corruzione, ma di ripassare da questa al momento felice degli inizi mercé il dispiegamento di un’adeguata virtù. Non che, alla resa dei conti, la questione non si presentasse sostanzialmente, nei due casi, con le stesse caratteristiche. Non toglieva infatti niente alla difficoltà dell’impresa che la materia, su cui doveva realizzarsi, fosse o no previamente definita mediante l’impiego di quei termini, dovendo restare chiaro che, per M., corruzione significava inequalità e questa significava corruzione.
Notevole, se mai, era invece che sulla questione della difficile realizzazione del ritorno ai princìpi M. facesse battere l’accento assai meno che nei precedenti capitoli; e che piuttosto insistesse sui due modi in cui quel ritorno poteva realizzarsi. Ossia, o per la virtù di un ordine o, nel caso che l’ordine avesse esso pure cominciato a corrompersi, dalla virtù di un uomo; e questo era appunto quello che soprattutto stava sotto la lente analitica di M., non essendo a rigore necessario che il ritorno ai princìpi avvenisse quando gli ordini erano ancora funzionanti. Altri, infatti, da quelli resi necessari dalla corruzione in cui lo Stato era finito, erano questi che la virtù di un uomo operava per impedire, appunto, che quello si corrompesse e si dovesse perciò sottoporlo alla fatica e al rischio di quel più drastico ritorno. Si dava tuttavia un altro caso; ed era che il ritorno ai princìpi fosse, se non materialmente eseguito, sollecitato tuttavia da quelle che M. definiva «battiture estrinseche»; ossia da eventi che, a causa della loro stessa gravità, rendevano necessario quel che altrimenti non sarebbe entrato nella consapevolezza degli uomini politici e non li avrebbe indotti all’azione. La teoria, per chiamarla così, delle «battiture estrinseche», assumeva in M., come anche nel Principe era avvenuto, una movenza che potrebbe definirsi previchiana. Lì, nel sesto capitolo, si era letto che
era adunque necessario a Moisè trovare el populo d’Israel in Egitto stiavo e oppresso da li egizi, acciò che quegli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo. Conveniva che Romulo non capessi in Alba, fussi stato esposto al nascere, a volere che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria. Bisognava che Ciro trovassi e’ persi malcontenti dello imperio de’ medi, ed e’ medi molli ed effeminati per la lunga pace. Non poteva Teseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli ateniesi dispersi (11-14).
Qui, nel primo capitolo del terzo libro dei Discorsi, poteva leggersi che
era necessario che Roma fussi presa dai Franciosi a volere che la rinascesse e, rinascendo, ripigliasse nuova vita e nuova virtù e ripigliasse la osservanza della religione e della giustizia, le quali in lei cominciavano a macularsi (11).
E, come nel Principe, anche qui l’analisi politica incontrava nella storia una disposizione che si sarebbe persino potuto definire provvidenzialistica e, appunto, previchiana, se non fosse più giusto avvertire che questa era una provvidenza che si constatava ex post, dopo cioè che, per sé stesse, e non per decisione di un dio, le cose avevano assunto quel carattere.
Venne dunque questa battitura estrinseca, acciocché tutti gli ordini di quella città si ripigliassono, e si mostrasse a quel popolo non solamente essere necessario mantenere la religione e la giustizia, ma ancora stimare i suoi buoni cittadini, e fare più conto della loro virtù che di quegli commodi che e’ paresse loro mancare mediante le opere loro. Il che si vede che successe appunto: perché subito ripresa Roma rinnovarono tutti gli ordini dell’antica religione loro, punirono quegli Fabii che avevano combattuto “contra ius gentium”, e appresso tanto stimorono la virtù e bontà di Camillo che, posposto il Senato e gli altri ogni invidia, rimettevano in lui tutto il pondo di quella republica (15-16).
Non deve credersi, tuttavia, che la disposizione semiprovvidenzale che M. scorgeva in alcuni momenti della storia umana implicasse che nel suo animo la nera coltre del pessimismo si fosse diradata al punto da far filtrare, senza che incontrasse ostacoli, quella luce rischiaratrice. In realtà, se lo si osserva con attenzione, sembra di poter dire che la novità che questo difficile e sfuggente capitolo arrecava alla teoria della decadenza, da M. elaborata in altra sede, non fu se non di aver richiamato l’attenzione sulla necessità che mai si giungesse a tanto che quello ai princìpi si presentasse nel segno di un totale ritorno dalla decadenza alla rinascita; e che piuttosto si provvedesse a operarlo, questo ritorno, ogni «dieci anni», senza aspettare che tutto si fosse consumato e tanto più difficile fosse perciò la sua attuazione. Consapevole della difficoltà che quel più drastico e totale ritorno implicava, era come se M. avesse voluto anticiparlo a tempi in cui la corruzione si annunziava, ma era ancora agli inizi. Era come se in questa anticipazione del ritorno avesse voluto indicare un rimedio alla altrimenti quasi impossibile esecuzione di quest’ultimo. Quel che anche in questo capitolo restava fermo, e forse addirittura accentuava la sua asprezza, era la consapevolezza dell’insostituibilità nella vita concreta degli Stati, accanto alle leggi e agli ordini, degli uomini particolari; che erano quelli ai quali principalmente spettava non solo di tentare la sorte del «ritorno ai princìpi» quando le condizioni obiettive lo richiedessero, ma in genere di conferire realtà ed efficacia agli ordini, «i quali [… ] hanno» infatti «bisogno di essere fatti vivi dalla virtù d’uno cittadino, il quale animosamente concorra a esequirli contro alla potenza di quegli che gli trapassano» (21). Alla resa dei conti, dopo avere per l’intera opera cercato di far vedere in azione la virtù obiettiva delle leggi e degli ordini, attraverso i modi concreti del suo pensiero, se non con le parole, M. era come costretto ad ammettere che negli inevitabili momenti di crisi, non sono di per sé gli ordini, che appunto sono in crisi, a poterla risolvere, ma serve la virtù degli uomini particolari che, lavorando in solitudine, sfidano la sorte e tentano di vincerla. Con il che M. confermava di essere un pensatore della crisi, un grande diagnosta della decadenza e delle molteplici sue manifestazioni, innanzi tutto perché la crisi e la decadenza erano l’elemento nel quale viveva, si muoveva e soffriva. Al di là delle differenze di accento, questo è l’elemento che, nella mano che scrisse i Discorsi, scopre la stessa che aveva scritto il Principe.
I Discorsi furono stampati a Roma, da Antonio Blado, il 18 ottobre 1531 (data della Dedica dell’editore a Giovanni Gaddi); e a Firenze, da Bernardo Giunti, il 10 novembre dello stesso anno (data del colophon). L’unico manoscritto completo dei Discorsi indipendente dalle stampe e perciò utile alla costituzione del testo, è l’Harleian 3533 della British Library, del secondo quarto del 16° secolo. Oltre all’abbozzo autografo del primo proemio (BNCF, CM, I 74), si conservano due copie parziali (Discorsi III vi; I i, iv, vii; BNCF, Palatino 1104, cc. 45-56, e ASF, Dieci di Balìa, Carteggio, Resp. 119, cc. 290-319). Lo ‘stemma’ dei testimoni è delineato da Giorgio Inglese, nella Premessa al testo dell’edizione del 1984 (p. 38); poi nell’ed. critica, con apparato, a cura di Francesco Bausi (2001).
Bibliografia: Tra le edizioni commentate dei Discorsi si vedano quelle curate da: L.J. Walker (London 1950); G. Inglese (Milano 1984); G.M. Anselmi, C. Varotti (Torino 1993); R. Rinaldi (Torino 1999); A. Fontana, X. Tabet ([Paris] 2004). Sulla tradizione manoscritta e le prime stampe si veda: C. Pincin, Sul testo del Machiavelli. I Discorsi, «Atti dell’Accademia delle scienze di Torino, Classe di Scienze morali», 1961-1962, 96, pp. 71-178.
Per l’analisi dei Discorsi si vedano tutte le monografie su M., e anzitutto G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 1993 (1a ed. Napoli 1958), pp. 479-622 (con l’indicazione dei contributi particolari dedicati da Sasso a temi dei Discorsi). Cfr. inoltre P. Larivaille, La pensée politique de Machiavel. Les Discours sur la première décade de Tite-Live, Nancy 1977; H.C. Mansfield, Machiavelli’s new modes and orders. A study of the Discourses on Livy, Ithaca-London 1979; G. Inglese, Per Machiavelli, Roma 2006, pp. 93-155.