DISOCCUPAZIONE (XIII, p. 22 e App. I, p. 520)
La disoccupazione in Italia e nel mondo tra il 1929 e la seconda Guerra mondiale. - Un forte squilibrio tra potenziale di lavoro e possibilità d'impiego, l'esistenza di vaste zone depresse, il basso reddito nazionale, la lenta e scarsa formazione del risparmio, la deficienza di capitali, una spesa inferiore al livello minimo necessario a una piena occupazione, una politica degl'investimenti dettata più da interessi particolari che dai reali bisogni del paese, ma soprattutto una grave sproporzione tra risorse produttive e incremento demografico, hanno fatto della disoccupazione un male cronico dell'economia italiana. Il fenomeno, facilmente determinabile nelle grandi linee, non può essere analizzato con precisione nei suoi molteplici aspetti, né esattamente precisato nella sua entità per la mancanza di rilevazioni sufficientemente attendibili, particolarmente per gli anni che hanno preceduto e seguito la seconda Guerra mondiale. È inoltre mancato in Italia, per motivi complessi, quel fiorire di studî intorno alla disoccupazione e alla sicurezza sociale che in altri paesi, come l'Inghilterra e gli S.U., ha largamente influito sull'opera dei governi e sulla politica economica e sociale.
Il problema non si pone solamente come ricerca dell'"ottima" combinazione dei fattori della produzione, ma come più larga disponibilità dei fattori produttivi, e non sembra che possa essere risolto nell'ambito della struttura economica nazionale. Infatti, contro un aumento del potenziale di lavoro che può essere calcolato, in media, nella misura di 300-350.000 unità annue, l'incremento dell'occupazione non ha mai superato, anche nei periodi di massima espansione, le 80-90.000 unità, mantenendosi, di solito, sulle 45-50.000. Questo spiega il graduale aggravarsi del fenomeno che, nei periodi di depressione, è destinato a manifestarsi più violentemente.
Il notevole sviluppo industriale e commerciale, le opere di colonizzazione e di bonifica, i lavori pubblici, i nuovi organismi nati dalla struttura corporativa, insieme con il graduale, ma sensibile miglioramento della situazione economica, determinarono tuttavia, dopo il 1933 - anno che aveva visto salire la disoccupazione mondiale a livelli mai raggiunti per l'innanzi - una flessione della disoccupazione in Italia. Da 1.000.019 di individui senza lavoro nel 1933, punta massima della congiuntura, si scese a 963 mila nel 1934, a 755 mila nel 1935, a 706 mila nel 1936, per risalire poi a 874 mila nel 1937 e a 810 mila nel 1938. Dopo questo anno mancano dati ufficiali, ma deve ritenersi che nell'immediato anteguerra il fenomeno sia andato notevolmente diminuendo d'intensità, come si può dedurre dall'ammontare dei sussidî per la disoccupazione involontaria.
La gravità del problema, per gli anni che precedettero la guerra, appare tuttavia evidente, né fu sufficiente a risolverlo la politica del fascismo. Per una soluzione totale mancavano del resto, chiusa la valvola dell'emigrazione, le condizioni obiettive e si ricorse così alla tradizionale politica dei lavori pubblici o a soluzioni extra economiche, più come mezzo di lotta immediata alla disoccupazione che come programma organico di rinvigorimento dell'economia italiana attraverso l'industrializzazione delle regioni più arretrate e lo sviluppo delle zone depresse. Negli anni che corrono tra il 1934 e il 1938 furono occupati in media, per opere pubbliche, circa 250 mila lavoratori al giorno per un periodo annuo di 267 giorni; nel quadriennio 1938-41 l'impiego complessivo di mano d'opera per lavori a cura diretta dello stato, di concessionarî, di enti locali e di privati sussidiati dallo stato, fu inferiore a quello del quinquennio precedente, pur superando i 20 milioni di giornate lavorative per anno, con maggiore impiego nel Veneto, in Emilia, in Toscana, nel Lazio, nella Campania, nella Calabria e nella Sicilia.
Risultati migliori hanno dato, in altri paesi, i lavori pubblici, sia per una più chiara visione dei fini ad essi assegnati, sia per le diverse condizioni obiettive. Mentre in Italia, ancora negli anni della guerra, si verificava una eccedenza di mano d'opera che veniva avviata in Germania, in quest'ultima la disoccupazione, che aveva avuto un crescendo pauroso fino al 1934, superando anche i 6 milioni di unità, fu in seguito gradualmente riassorbita attraverso una vera e propria pianificazione dell'economia connessa a un programma di lavori pubblici dettato dalle esigenze dei nuovi indirizzi produttivi. L'intervento del governo per regolare la domanda e l'offerta di lavoro creando, quando occorra, domande aggiuntive di lavoro, ebbe effetti benefici anche in Inghilterra, ove negli anni di depressione 1931-33 la disoccupazione - di oltre 2 milioni di unità - aveva raggiunto la media del 21-22% rispetto alla popolazione attiva. Negli Stati Uniti, il New Deal, concepito soprattutto come intervento finanziario dello stato per stimolare la ripresa, e con esso il grandioso piano di opere pubbliche, non diede gli stessi risultati. La disoccupazione andò, sì, diminuendo lentamente dal massimo del 25,2% nel 1933 (12,6 milioni di disoccupati) al 19,9% nel 1935, e fino al 4,7% nel 1942, ma soltanto con la guerra fu possibile raggiungere una quasi piena occupazione, mentre si facevano strada le nuove teorie sulla sicurezza sociale e sul pieno impiego e si creavano le condizioni per un'organica politica economica che assicurasse il lavoro a tutti, riducendo la disoccupazione ai suoi aspetti tecnolologici e di attrito.
Dalle esperienze fatte nei varî paesi può dedursi però che i lavori pubblici in sé stessi non sono sufficienti a combattere la disoccupazione, anche se dovuta a congiunture cicliche; tanto meno essi lo sono in paesi ove è forte lo squilibrio tra risorse economiche e pressione demografica. Questo dimostrano anche i nuovi programmi di governo e la nuova politica sociale affermatasi in Inghilterra, tendente ad assicurare una più stabile occupazione per tutti. All'esperienza bellica, con l'ampio intervento dello stato nell'economia, insieme al prevalere dei nuovi principî in tema di occupazione, si deve in gran parte se la disoccupazione mondiale si è presentata, nel dopoguerra, con aspetti molto meno pericolosi che nel periodo precedente, salvo che per l'Italia.
La disoccupazione nel periodo postbellico. - Mancano, fino al 1946, rilevazioni statistiche; la mancanza di un'organica disciplina del collocamento - il decr. 28 dicembre 1938, n. 1934, sebbene formalmente in vigore nonostante la soppressione dell'orientamento corporativo, non ha mai avuto nel dopoguerra una completa e regolare applicazione - non permette infatti di seguire l'andamento del mercato del lavoro. Tuttavia, si può affermare che il fenomeno ha assunto aspetti estremamente gravi e preoccupanti.
I primi dati che si posseggono e che si riferiscono a 38 provincie della Italia meridionale, denunciano l'aggravarsi del male mentre ancora la guerra continuava. Il censimento demografico del settembre 1944 accertava 128.552 disoccupati di cui il 92% in settori diversi da quello agricolo. La cifra, inferiore alla realtà, tuttavia rispecchiava una situazione contingente che doveva acuirsi nei mesi successivi. Il male investì in pieno la vita economica nazionale soltanto dopo la liberazione dell'Italia settentrionale e con la graduale restituzione alla vita civile dei militari, dei partigiani e dei reduci dalla prigionia.
Già prima della caduta della "repubblica sociale", la progressiva paralisi dell'apparato industriale aveva determinato una situazione di forte disagio nelle aziende presso le quali erano in forza - per effetto del blocco dei licenziamenti - forti aliquote di lavoratori fuori occupazione. All'atto della liberazione un terzo della mano d'opera industriale era compreso, nel Nord, in turni avvicendati di sospensione per il ridotto ciclo lavorativo. Su un totale di 450.000 dipendenti impiegati nelle aziende della provincia di Milano nella primavera-estate 1945, si è approssimativamente calcolato che 300.000 soltanto erano i lavoratori effettivamente presenti presso le aziende: di questi, 50.000 lavoravano a orario completo e 250.000 a orario ridotto. Gli altri 150.000 erano interamente "sospesi". Questa disoccupazione reale, mascherata dal blocco dei licenziamenti, che fu poi prorogato dai successivi governi, andò man mano aumentando nel corso del 1945 e nei primi mesi del 1946. Nell'ottobre di quell'anno, le proporzioni del problema si erano sensibilmente ridotte: i licenziamenti previsti ammontavano a 180.000 che dovevano scendere, nel corso del 1947, a 100.000.
Secondo una statistica elaborata dal Ministero del lavoro, al dicembre 1946 l'ammontare dei disoccupati era di 2.098.257, di cui 426.482 in agricoltura, 1.101.943 nell'industria, 151.706 nel commercio e 418.126 nelle altre attività. La percerituale femminile era molto elevata, sia in conseguenza dei licenziamenti avvenuti per il ritorno di reduci, sia per un maggior numero di denunce che si ebbe da parte di donne. Il fenomeno avrebbe avuto, durante il corso dell'anno, un andamento costantemente crescente ma le cifre denunciate lasciano sorgere molti dubbî, non solo per quel che riguarda l'ammontare complessivo, ma anche per la sua distribuzione per settore. Il Ministero, infatti, accertava un maggior numero di disoccupati, rispetto ai livelli prebellici, proprio in quei settori - industria chimica, del vetro, carta e stampa, tessile, ecc. - ove la congiuntura aveva creato maggiori possibilità di lavoro o in altri - industria alimentare, servizî pubblici, comunicazioni, ecc. - ove, nel complesso, non si era registrata una diminuzione di attività rispetto al periodo anteguerra. Secondo una valutazione della Confederazione generale dell'industria, le cifre della disoecupazione industriale, alla fine dell'anno 1946, dovrebbero essere ridotte a una proporzione di circa 800.000 unità, di cui oltre la metà di pertinenza della sola industria edilizia. Tale valutazione, contestata dalla Confederazione generale del lavoro, che si rifaceva alle statistiche ministeriali, sembra la più esatta, soprattutto se si tiene conto dell'esistenza del blocco dei licenziamenti e del fatto che l'occupazione nelle aziende industriali associate alla Confindustria ammontava nel 1946 a circa 3.000.000 di unità contro 429.000 nel marzo 1943.
Per quel che riguarda la distribuzione regionale della disoccupazione industriale - sempre con riferimento alle valutazioni del Ministero del lavoro - il massimo fu raggiunto dall'Italia settentrionale con oltre 640.000 disoccupati; seguiva l'Italia meridionale e insulare con oltre 246.000 unità e l'Italia centrale con oltre 214.000: la Lombardia con 210.427 e il Veneto con 200.000, furono le due regioni ove si ebbero le più acute manifestazioni del fenomeno; in Campania, con oltre 83.000 disoccupati e in Sicilia con oltre 67.000, si ebbero le punte massime per il meridione e in Toscana e nel Lazio, rispettivamente con più di 81.000 e quasi 50.000 disoccupati, le punte massime per il centro.
Anche nel settore agricolo la disoccupazione ebbe un andamento crescente nel corso del 1946, passando dalle 308.022 unità del gennaio, a 426.482 nel dicembre. A parte le oscillazioni stagionali, ciò non sembra possa farsi risalire a una contrazione produttiva rispetto al 1945, ché anzi l'ammontare della superficie coltivata, pur rimanendo per quasi tutte le colture inferiore ai livelli dell'anteguerra, registrò nel complesso miglioramenti, in qualche caso notevoli. Contemporaneamente, l'assegnazione delle terre incolte, la pattuizione di accordi sindacali che prevedevano l'imponibile di mano d'opera, l'esecuzione di lavori di miglioria, ecc., favorirono l'occupazione. Il maggior numero d'iscritti all'ufficio di collocamento si giustifica piuttosto con il progressivo ritorno dei reduci dalla prigionia, con il ritorno all'agricoltura di coloro che, fino ad allora, avevano svolto attività di congiuntura e, infine, forse su più larga scala, con un aumento delle denunce da parte di lavoratori - tra cui molte donne - solo parzialmente occupati e in cerca di stabile occupazione. L'incremento demografico ebbe anche il suo peso, dato che l'agricoltura italiana, nel corso della guerra e nel periodo postbellico, non poté assorbirlo.
La distribuzione geografica della disoccupazione agricola raggiunse i suoi massimi nelle regioni a forte bracciantato (soprattutto Emilia, Puglie, Veneto, Campania) ove l'occupazione della mano d'opera in giornate lavorative per anno raggiunge appena i 140 giorni. Ma sarebbe un errore considerare la disoccupazione agricola esclusivamente come disoccupazione di braccianti. Basta pensare che la densità aziendale media, che è di 130 per l'intero paese, sale a 250 nelle piccole aziende da 1 a 3 ettari, a 500 nelle aziende da mezzo a 1 ettaro, a 2000 nelle piccolissime aziende fino a mezzo ettaro. Su 100 persone occupate, solamente 7 nelle aziende fino a mezzo ettaro, 20 in quelle da mezzo a 1 ettaro, e 40 in quelle da i a 3 ettari, hanno una stabile occupazione.
Una rilevante disoccupazione si registrò anche nel settore del commercio, e, più particolarmente, nelle attività varie (impiegati, gente di mare, professionisti, non qualificati, ecc.); sintomo dello stato di profondo disagio in cui venne a trovarsi, nell'immediato dopoguerra, il ceto medio.
Nel corso del 1947 - anno in cui si ebbe un generale miglioramento del fenomeno della disoccupazione, scesa a poco più di un milione e 750.000 unità, secondo le rilevazioni del Ministero del lavoro - nel settore delle attività varie si ebbe una flessione molto più lenta. Al 31 dicembre 1947, su un totale di 1.752.818 iscritti alle liste di collocamento, di cui 1.183, 401 uomini e 569.417 donne: 907.264 appartenevano all'industria, 354.608 all'agricoltura, 86.182 al commercio e 404.764 alle attività varie. Dal raffronto si rileva che, rispetto allo stesso mese dell'anno precedente, nel 1947 si ebbero circa 350.000 domande di lavoro in meno, di cui 71.000 in agricoltura, 195.000 nell'industria, 65.000 nel commercio e 13.000 nelle attività varie. Il miglioramento fu dovuto non soltanto alla ripresa produttiva, ma all'emigrazione di circa 200.000 disoccupati, verificatasi nel corso dell'anno, e ai primi effetti di più organici provvedimenti contro la disoccupazione. Per i soli lavori pubblici per conto dello stato e di enti locali e per lavori di riparazioni edilizie, effettuati con contributo dello stato, furono occupati in media, nel corso dell'anno, 250.000 operai.
L'azione governativa, limitatasi nell'immediato dopo guerra a provvedimenti di emergenza - blocco dei licenziamenti per l'industria del Nord, lavori a regìa, caotici stanziamenti per lavori pubblici, ecc. - atti a creare un'occupazione temporanea senza influire sulle possibilità di occupazione stabile, fu coordinata infatti ai fini di una maggiore utilizzazione del poteriziale di lavoro. Provvedimenti furono adottati per l'assunzione degl'invalidi del lavoro e di guerra, per i reduci e per i partigiani, disciplinando una materia che l'intervento dei prefetti nelle singole provincie aveva reso quanto mai complessa. Con il decr. 16 settembre 1947, n. 929, sulla massima occupazione di mano d'opera in agricoltura, si raggiunse il massimo assorbimento della disoccupazione agricola; in molte provincie l'avviamento al lavoro invernale nel settore agricolo - grazie a questo decreto - avvenne con un'intensità maggiore, rispetto all'anno precedente, del 30% circa. Nel campo dei lavori pubblici, che nei primi tre anni avevano assorbito circa 500 miliardi, stanziati con criterî empirici e tumultuarî, s'impostò un piano triennale da finanziare, in parte, con il ricavo in lire degli aiuti americani, coordinando la lotta contro la disoccupazione coi bisogni della ricostruzione. Il problema della qualificazione e riqualificazione della mano d'opera, fu affrontato con l'istituzione di scuole di avviamento professionale, di cantieri per reduci, di corsi speciali svolti nelle aziende stesse. Fra i provvedimenti più importanti è il decr. 7 novembre 1947, n. 1264, sui corsi di qualificazione professionale.
Parallelamente alla flessione registratasi in Italia, anche la disoccupazione mondiale subì una notevole contrazione tra il 1947 e il 1948, da valutare intorno al 25%. In Inghilterra, dopo i massimi raggiunti nel febbraio-marzo 1947 con oltre 460.000 disoccupati, si scese al di sotto dei 250.000 nell'agosto, per poi aumentare nell'inverno, ma non in misura notevole. In Canada, dove pure nel gennaio dello stesso anno si era raggiunta la punta più elevata con 193.000 disoccupati, la disoccupazione fu rapidamente riassorbita e ridotta a 37.000 unità nel corso dello stesso 1947. Contrazioni si ebbero anche in Austria, in Olanda, in Francia. Negli Stati Uniti, in seguito alla smobilitazione, la disoccupazione, che nel 1944 aveva toccato il suo punto più basso con 670.000 unità, ebbe nel 1945 un rapido aumento, superò i due milioni nel 1946 per poi scendere gradualmente nel corso del 1947 e del 1948.
Nel corso del 1948 la situazione in Italia tornò ad aggravarsi in seguito a un acuirsi della crisi produttiva. Nel maggio la disoccupazione superò i 2,4 milioni di unità e apparve chiaro che il problema non poteva essere risolto entro l'ambito dei confini nazionali e neppure nel quadro della collaborazione economica europea.
La conferenza della mano d'opera (Roma 26 gennaio-9 febbraio 1948) convocata con il compito di studiare, nel quadro del piano Marshall, la possibilità di una più razionale utilizzazione della mano d'opera tra i paesi partecipanti al piano, accertò contro una disponibilità in Italia al 31 gennaio 1947 di 1.752.000 lavoratori, una deficienza complessiva europea di 380.000 unità, di cui 286.000 qualificati e 94.000 non qualificati. In tutti i settori, se si eccettua quello delle miniere di combustibile, le disponibilità italiane erano, in cifra assoluta, nettamente superiori alle deficienze complessive segnalate. Però della disponibilità totale di mano d'opera italiana, solo il 10% risultava "qualificata", per cui i disponibili qualificati erano inferiori alla metà del fabbisogno.
Insieme a quello della sproporzione tra risorse nazionali e potenziale di lavoro, quello della qualificazione delle maestranze si è rivelato il maggior problema, perché da esso dipende, in gran parte, la possibilità dell'emigrazione, unica via attraverso la quale sia possibile sanare lo squilibrio tra domanda e offerta di lavoro in Italia.
Bibl.: M.L. Ambrosini, Nuovi orientamenti sul problema della disoccupazione, in Atti della Commissione per lo studio dei problemi del lavoro, Ministero della costituente, III, Memorie su argomenti economici, Roma 1496; U. Giusti, Disoccupazione e sovrappopolamento: emigrazione, ibidem; P. Sylos Sabini, Disoccupazione e opere pubbliche, ibidem; Confederazione generale italiana dell'industria, Annuario 1947, Roma 1947; id., Relazione alla Assemblea dei delegati delle associazioni aderenti, Roma 1947; id., Analisi delle statistiche della disoccupazione in Italia, in Rassegna di statistica del lavoro, 10 marzo 1948; Bureau international du travail, Revue international du travail, 1948; Commission Mixte Franco-Italienne pour l'étude d'une union douanière entre la France et l'Italie: Annexes au rapport final, II, Roma 1948; oltre all'Annuario statistico e al Bollettino mensile dell'Istituto centrale di statistica.