Dispositivo cinematografico
Per 'dispositivo cinematografico' si intende una delle forme simboliche in cui si è organizzata la rappresentazione del mondo tramite la visione (e l'ascolto) e che riguarda le condizioni di proiezione e di fruizione del film nella sala cinematografica.
Il primo nucleo della nozione di d. c. nacque in Francia alla fine degli anni Quaranta nell'ambito della filmologia (v.) e dell'analisi degli effetti del cinema sugli spettatori. Ne parlarono per primi, sulla "Revue internationale de filmologie", lo psicologo della percezione Albert Michotte van den Berck e lo psichiatra e psicologo infantile Henri Wallon, i quali si soffermarono su quel complesso di meccanismi psicologici che la 'situazione cinematografica' mette in atto, quali la percezione, l'impressione di realtà, la comprensione, la memorizzazione e la partecipazione emotiva e affettiva.
Wallon, studiando "l'analogia tra la percezione e il film", sostiene che così come noi percepiamo la realtà attraverso delle forme, nello stesso modo lo spettatore è indotto a strutturare le immagini proiettate sullo schermo, poiché il film è costruito in modo tale da operare "al posto e in vece dello spettatore" (Wallon 1947), mimandone la visione psicologica. È il film, che mette in atto un mondo audiovisuale dove si presenta l'oggetto successivamente sotto differenti angoli; è il film che sceglie i dettagli e i primi piani, che sostituisce la sua indagine alla nostra, che sottolinea corpi e azioni catturando la nostra attenzione, che offre sintesi, variazioni e simultaneità delle coordinate spazio-temporali, che sovrappone le immagini e trasforma oggetti e persone.
Se nella percezione normale il soggetto percipiente appartiene allo stesso campo di esperienza dell'oggetto percepito, che è reale e presente, al cinema invece si trova in una sala e ciò che percepisce sono delle immagini di oggetti assenti, riprodotti sullo schermo. La conseguenza è che ciò che appare sullo schermo è totalmente separato e inaccessibile allo spettatore che siede nella sala, al contrario di quello che succede a teatro dove non vi è alterità tra il palcoscenico e il pubblico e dove attori e spettatori condividono lo stesso spazio, la stessa atmosfera e, soprattutto, la stessa realtà. Al cinema vige quindi un regime di "segregazione degli spazi", di separazione e di opposizione tra la "serie visiva" che passa sullo schermo e le "sensazioni propriocettive" che appartengono alla soggettività dello spettatore. Ed è proprio l'incompatibilità tra questi due spazi, tra lo spazio della sala buia e quello dello schermo luminoso che attrae completamente l'attenzione dello spettatore, a obbligare quest'ultimo a "sacrificare una serie all'altra", la serie propriocettiva a favore di quella visiva e a permettergli quell'oblio di sé e quella situazione di regressione e di passività grazie alle quali si instaurano i profondi fenomeni di identificazione e di proiezione studiati, in particolare, dalla teoria psicoanalitica del cinema. "Non sono più nella mia vita, sono nel film che è proiettato davanti a me" scrive Wallon (1953).
Dal momento in cui nella sala cinematografica si spengono le luci e inizia il film, lo spettatore si trova in una situazione di isolamento e di abbandono e passa, secondo Erich Feldmann (1956), da una "situazione reale" a una "situazione irreale", del tutto illusoria. Michotte (1948) ‒ al quale si devono gli importanti esperimenti sull'impressione di realtà, il cui fattore essenziale è il movimento, che dà corporeità e rilievo agli oggetti filmati ‒ sostiene, a sua volta, che l'esperienza cinematografica è una singolare congiunzione di reale e di artificiale in cui lo spettatore vive la contraddizione tra ciò che "sente" (la percezione quasi "sensoriale" di ciò che vediamo e le reali emozioni e sentimenti che il film provoca) e ciò che "sa" (il fatto che ciò che vediamo non è reale) e che giustifica la formazione del concetto di illusione, concetto molto vicino a quel processo di scissione dell'Io, di dialettica tra "sapere" e "credere", tra presenza vissuta e assenza reale (dell'oggetto filmato) che sta alla base del feticismo dello spettatore, analizzato in seguito da Christian Metz (1977).
Tutte queste riflessioni (il particolare regime di percezione, l'effetto di senso che il film induce sullo spettatore, i fenomeni di credenza, la segregazione degli spazi, l'illusione, l'impressione di realtà) furono riprese in seguito, in modo originale, da Jean-Louis Baudry (1970 e 1975), che elaborò il concetto vero e proprio di dispositivo, compiendo, grazie al passaggio dalla psicologia alla psicoanalisi, un salto teorico. Secondo Baudry, infatti, il dispositivo non mima semplicemente i processi mentali e coscienti dello spettatore, come già aveva detto, prima della filmologia, anche Hugo Münsterberg nel 1916, ma è il luogo di un desiderio costitutivo del soggetto, è una macchina simulatrice che produce nella psicologia dello spettatore una regressione artificiale simile al sogno e alla scena dell'inconscio.
Baudry distingue l'apparato di base (appareil de base), che concerne l'insieme degli strumenti tecnici e delle operazioni necessarie alla produzione e alla proiezione di un film (pellicola, macchina da presa, sviluppo, montaggio, proiettore ecc., intesi nel loro aspetto tecnico) dal dispositivo (dispositif) vero e proprio, che concerne unicamente gli effetti che le condizioni di proiezione del film hanno sul soggetto-spettatore e che sono stati compresi e chiariti grazie alla psicoanalisi, soprattutto quella lacaniana. Sembra quindi che per Baudry il termine dispositivo sia una modalità specifica interna al concetto di istituzione e di apparato cinematografici e che non rimandi tanto a una tecnica o a una macchina, quanto agli effetti metapsicologici che questa tecnica produce, alle simulazioni (il cinema simula un'organizzazione anteriore del soggetto, una regressione allo stadio pre-edipico in cui non vi è distinzione tra sé e gli altri) e alle metafore (il sogno, la scena dell'inconscio, il mito della caverna di Platone) che sottende.
Il primo testo di Baudry, Effets idéologiques produits par l'appareil de base (1970), fu scritto a seguito di un'intervista rilasciata da Marcelin Pleynet a Gérard Leblanc ‒ per la rivista "Cinéthique" ‒ che ebbe una vasta eco e scatenò un ampio dibattito e numerose polemiche a proposito del rapporto tra il sistema di rappresentazione e gli effetti ideologici che il sistema stesso (il modo in cui è costruita la macchina da presa, in questo caso) produce sullo spettatore. Oltre a Baudry, intervennero, tra gli altri, Jean-Paul Fargier, Jean-Patrik Lebel, Jean-Louis Comolli, Jean Narboni e Pascal Bonitzer.
La macchina da presa ‒ sostengono i fautori della concezione 'materialista' del cinema, come Pleynet ‒ non è una grande finestra aperta sul mondo che registra in modo oggettivo e neutrale la realtà, ma è una ricostruzione di questa realtà in base ai canoni della prospettiva rinascimentale e a leggi ottiche che annullano qualsiasi "naturalità" della visione e riproducono la realtà in modo ideologicamente falsato, assegnando allo spettatore una posizione privilegiata e prefissata, poiché il suo occhio coincide con il punto di fuga delle linee prospettiche e gli oggetti, i corpi e le proporzioni all'interno dell'inquadratura ne determinano, di volta in volta, la distanza. "La macchina da presa è minuziosamente costruita per 'rettificare' ogni anomalia prospettica, per riprodurre, attraverso la sua autorità, il codice della visione speculare così come è definito dall'umanesimo rinascimentale" (Pleynet 1969).
In questo modo lo spettatore, sostiene Baudry (1970), diventa un "soggetto trascendentale", dotato di una visione onniveggente, in grado di vedere meglio e di più degli stessi personaggi implicati nella scena del film, indotto all'immaginaria illusione di dominare ciò che vede, come avrebbe sottolineato anche Thierry Kuntzel (1972). "Il mondo si costituisce per lui e attraverso di lui", ribadisce ancora Baudry.
Il cinema insomma si basa su un sistema di rappresentazione, quello del codice prospettico, strettamente legato a un'ideologia elaborata dall'Umanesimo del Quattrocento per sostenere la nascente borghesia. Tale codice veicola quindi una concezione idealista, metafisica e trascendente, fautrice di un'idea di omogeneità, di pienezza e di armonia, in cui il lavoro di trasformazione, che sia dalla materia prima alla merce o, come avviene nel caso del cinema, dalla realtà alla sua rappresentazione, deve essere occultato e dissimulato. A questa operazione "ideologica", basata sul modo in cui è costruita la macchina da presa, si aggiunge il dispositivo in atto nella fruizione del film, dove i differenti elementi ‒ proiettore, sala buia e schermo ‒ pongono lo spettatore in uno stato di sottomotricità, di sovrapercezione visiva e di fascinazione e attrazione, di gioco identificatorio con lo specchio-schermo. Ne consegue, secondo Baudry, non soltanto, come sostenevano i filmologi, l'individuazione di uno stato di regressione artificiale dello spettatore stesso, ma anche l'ipotesi di un'analogia con lo "stadio dello specchio" descritto da J. Lacan, in cui lo spettatore rivive, specchiandosi nello schermo, la formazione immaginaria del proprio Io. Al cinema, continua Baudry, si sviluppa in questo modo una doppia identificazione: quella primaria, con ciò che permette allo spettatore di vedere, quindi con il suo sguardo, che coincide a sua volta con il punto di vista della macchina da presa, e quella secondaria, con ciò che lo spettatore vede, con i personaggi e le storie che passano sullo schermo (v. psicoanalisi e cinema).
Cinque anni dopo, all'inizio del saggio successivo Le dispositif, Baudry stabilisce un'importante analogia, quella tra il mito della caverna di Platone (La Repubblica, libro VII, 514a-515d) e il dispositivo cinematografico. Platone parla di prigionieri vissuti "fin da fanciulli" in una "sotterranea dimora", ivi incatenati, immobili, costretti a guardare sempre davanti a sé sul fondo della caverna dove, grazie a un fuoco che arde "dall'alto e da lungi", vengono proiettate delle ombre che ai prigionieri, nella loro condizione di "profonda ignoranza", sembreranno "cose vere e proprie", mentre sono solo "cose vane". Queste ombre infatti non sono che il riflesso di statue e di simulacri (immagini in pietra e in legno) che dei passanti (simili a dei burattinai), dietro un piccolo muro, portano al di sopra delle loro teste. Incatenato sempre allo stesso posto e nella stessa posizione, il prigioniero della caverna di Platone "crede" di vedere cose "più vere degli originali" e scambia vaghe ombre per uomini in carne e ossa.
Tra il mito platonico e il dispositivo le somiglianze sono davvero sorprendenti: sostanzialmente il dispositivo ideato da Platone descrive, in termini mitici e arcaici, quello del cinema sonoro e la situazione dello spettatore, il quale è vittima, come il prigioniero della caverna, di un'illusione di realtà ‒ la cosiddetta impressione di realtà ‒ e di una immobilizzazione forzata, "incatenato" allo schermo come i prigionieri "in catene" di Platone. E così come il prigioniero di Platone è vittima di un'allucinazione o di un sogno, di un'illusione nel rapporto di conoscenza della realtà, nello stesso modo lo stato e la posizione dello spettatore sono simili a quelli del sognatore o di chi è in preda ad allucinazioni. Quindi "Il cinema, come il sogno, corrisponderebbe a una forma di regressione passeggera, ma mentre il sogno, secondo l'espressione di Freud, sarebbe "una psicosi allucinatoria normale", il cinema proporrebbe una psicosi artificiale […]. Riteniamo che la possibilità di una tale regressione riguardi la sopravvivenza di stadi superati dello sviluppo, ma che essa si trovi investita da un desiderio, come prova l'esistenza del sogno. Desiderio notevolmente definito, consistente nell'ottenere dalla realtà una posizione, uno stato nel quale la percezione non si distingua dalle rappresentazioni. Si può supporre che è questo desiderio che influenza la lunga storia dell'invenzione del cinema: fabbricare una macchina simulatrice capace di proporre al soggetto delle percezioni che hanno il carattere di rappresentazioni prese per delle percezioni" (Baudry 1975).
L'invenzione del cinema si fonda quindi ‒ come ci suggeriscono i prigionieri di Platone ‒ su una necessità archetipica: è l'appagamento di un desiderio arcaico, il risarcimento di una perdita, il ritorno, "artificiale", a uno stadio di sviluppo anteriore, a quella situazione di narcisismo primario in cui l'Io non è ancora separato dall'altro e in cui rappresentazioni mentali e percezioni reali si confondono. Il dispositivo, infatti, è una macchina simulatrice, non tanto, come è stato sempre detto, perché riproduce e restituisce la realtà, ma in quanto è modellato sull'apparato psichico del soggetto-spettatore, inteso nel senso di soggetto dell'inconscio, di soggetto diviso e pulsionale. L'impressione di realtà che si ha al cinema è dovuta non soltanto al fatto che, grazie al montaggio e alle condizioni in cui il film viene proiettato, lo spettatore può dare unità, continuità e movimento ‒ e quindi senso ‒ a immagini fisse e discontinue, ma anche al fatto che il dispositivo (l'oscurità della sala, le immagini luminose in movimento, l'immobilità forzata e la situazione di passività dello spettatore) crea un effetto sul soggetto, quello che Baudry chiama "l'effet cinéma" (l'effetto cinema), che risulta paragonabile all'impressione di realtà che si ha nel sogno, a una forma di esperienza simile a quella del fantasticare e del sognare, ed è quindi assimilabile ai meccanismi di funzionamento dell'inconscio.
Il d. c. è sostanzialmente una scena: è contemporaneamente la scena a cui assiste lo spettatore (il film che sta passando sullo schermo), ciò che permette che questa scena possa aver luogo (la sala, lo schermo, la cabina di proiezione e, prima ancora, la macchina da presa e gli altri mezzi tecnici che hanno reso possibili le riprese) e soprattutto ‒ e questa è la caratteristica precipua del concetto di dispositivo messo in luce da Baudry ‒ è "l'altra scena", qualcosa che ha a che fare con il sogno, con il fantasma e con l'immaginario, in cui il soggetto-spettatore è implicato e grazie alla quale rappresenta a sé stesso la "scena" del proprio inconscio.
Dopo Baudry, con le riflessioni di Metz, Stephen Heath e altri, si può riscontrare un'oscillazione tra i termini istituzione, apparato e dispositivo e quindi anche una loro sovrapposizione o sinonimia. Per esempio, in area angloamericana il termine apparatus serve a tradurre sia appareil de base, sia dispositif, proponendo una reciprocità e un intreccio tra la componente 'istituzionale', vale a dire industriale, tecnologica e ideologica‒ che sottende il modo in cui il film è prodotto (un testo con le caratteristiche di continuità visiva, illusione spazio-temporale e impressione di realtà) e in cui è fruito (la sala buia, lo schermo illuminato, il fascio di luce del proiettore, lo spettatore immobile e silenzioso) ‒ e la componente 'psicologica' e 'metapsicologica' dello spettatore, i processi percettivi, consci e inconsci, del piacere e del desiderio.
Metz (1977), a sua volta, parla, oltre che di dispositivo, di istituzione cinematografica, intendendo con questa espressione sia la macchina esterna, l'industria del cinema, sia la macchina interna, i meccanismi mentali dello spettatore, intesi in senso sociologico (il desiderio e l'abitudine sociale di andare al cinema), psicologico (il cinema mima i procedimenti percettivi della mente dello spettatore) e psicoanalitico (il cinema riattiva processi inconsci quali lo stato onirico, lo stadio dello specchio, la scena primaria e il complesso di castrazione).
H. Münsterberg, The photoplay: a psychological study, New York 1916 (trad. it. Parma 1980).
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M. Pleynet, J. Thibaudeau, Économique, idéologique, formel…, intervista raccolta da G. Leblanc, in "Cinéthique", 1969, 3, p. 10.
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