ANIMA, Disposizioni per l'
Sotto il nome di disposizioni per l'anima (donationes, testamenta, legata pro anima, pro remedio animae, pro animae redemptione, ad pias causas) nel più largo senso s'intendono le donazioni e le disposizioni testamentarie fatte a favore della chiesa o d'istituzioni di beneficenza o di poveri per giovare all'anima propria o di altri; si può raccogliere sotto questa generale categoria anche la devoluzione per legge a favore della chiesa di cose o di quote dell'eredità di coloro che siano morti intestati o senza aver disposto per l'anima; in senso più ristretto si chiamano disposizioni per l'anima le donazioni e le disposizioni testamentarie con cui si dispone la celebrazione di messe in suffragio.
L'idea della virtù meritoria ed espiatoria delle buone opere e principalmente delle elemosine, che sta a fondamento dei lasciti per l'anima, si trova già accennata nel Vecchio Testamento, dove si promette la ricompensa divina a chi faccia l'elemosina e si afferma che l'elemosina cancella i peccati (Ecclesiastico III, 30; Tobia, IV, 7-11; XII, 8-9), ma è espressa in modo chiaro soltanto nei Vangeli, dove Gesù addita la via della perfezione, dicendo di dare ai poveri per raccogliere un tesoro in Cielo (Matteo, XIX, 21), rappresenta il regno dei Cieli come ricompensa di azioni benefiche (Matt., XXV, 31 segg.), proclama quod superest, date eleemosynam et ecce omnia munda sunt vobis (Luca, XI, 41). L'idea è stata poi sviluppata e divulgata dai Padri e dagli scrittori ecclesiastici, specialmente da Tertulliano, da Cipriano e da Agostino con argomenti pratici e con termini schiettamente giuridici. Secondo Tertulliano, Dio è acceptator e remunerator: bonum factum Deum habet debitorem (De poen., 2); fra tutte le buone opere: digiuni, orazioni, elemosine, Cipriano pone in rilievo specialmente queste ultime, incita a far partecipe Cristo dei beni terreni per ricevere l'eredità di quelli celesti (De opere et eleemosynis, 13), a largheggiare in proporzione dei figli per redimerne i delitti e purgarne le anime (18); Agostino insiste specialmente nei sermoni sull'immagine del mutuo traiettizio, incitando a dare in terra le cose periture per raccogliere in cielo beni imperituri (Serm. 42) e a computar Cristo fra i figli nel disporre dei proprî beni (Serm. 86). Queste idee furono in seguito ripetute, adattandole alle particolari condizioni di tempo e di luogo, in scritti innumerevoli, tra i quali il più eloquente e significativo è quello di Salviano di Marsiglia, Adversus avaritiam, che è stato giudicato un vero manuale per la captazione delle eredità a favor della chiesa (Loening, Geschichte des deutschen Kirchenrechts, I, Strasburgo 1878, p. 225), nel quale è particolarmente da notare l'adattamento di passi scritturali (così, ad es., di Matteo, XIX, 21 nel libro III, § 74) alle diverse relazioni di vita e di famiglia per spingere ad elargizioni, specialmente con atti di ultima volontà, a vantaggio della chiesa e dei poveri. Accanto all'idea della meritorietà delle elemosine e delle donazioni alla chiesa in pro del disponente si venne formando, a cominciare da Agostino (Enchiridion ad Laurentium, c. 109 seg.), e si consolidò per opera di Gregorio Magno (Dialog. IV, capp. 55, 57, 58), la dottrina del Purgatorio e del vantaggio che per mezzo di esse, come di altre buone opere, si può recare alle anime purganti.
La credenza nel valore espiatorio e satisfattorio delle elemosine e delle donazioni alla chiesa fece sì che esse avessero una parte notevole, fin dai primi secoli, nella penitenza ecclesiastica per ottenere la riammissione nella comunione dei fedeli e fossero infine ingiunte come satisfactio nel sacramento della penitenza per ottenere l'assoluzione sacerdotale. Nei libri penitenziali, partendo dal principio che alla diversità delle colpe deve corrispondere diversità di pene, si additano, secondo i peccati e secondo le condizioni dei penitenti, digiuni, preghiere, elemosine; queste, ad esempio, sono indicate come penitenze per il furto e per lo spergiuro (Poenit. Vinn., § 22; Columb., c. XX, in Wasserschleben, Die Bussordnungen der abendländischen Kirche, Halle 1851, p. 113, 358). Ma esse vengono specialmente indicate come mezzo di redenzione dalle penitenze ingiunte; così, ad es., in luogo dei digiuni talvolta s'indica la somma fissa da pagare, tal'altra si ha riguardo alla condizione patrimoniale del penitente e si stabilisce a chi debba andare l'elemosina: ai poveri, alla chiesa, al riscatto di prigionieri; quando, si tratti di potentes si addita l'esempio biblico di Zacheo (Luca, XIX, 8-10) e s'ingiungono larghe donazioni di argento ai poveri e di terre alle chiese, oltre alla liberazione di schiavi e alla redenzione di prigionieri (Poen. Egb., § 11, Conf. Ps. Egb., c. II, Poen. Cummeani, in Wasserschleben, op. cit., pp. 245, 304, 464). Dalle commutazioni e dalle redenzioni della prassi penitenziale, secondo la comune opinione, sono derivate le indulgenze, vale a dire le remissioni generali delle pene temporali da espiarsi in terra o nel Purgatorio, concesse, a cominciare dal sec. XI, da papi e da vescovi, in determinate circostanze, ai peccatori che compiano atti di pietà o di beneficenza, così, ad esempio, a quelli che contribuiscano alla costruzione di chiese, di ospedali, di ponti, e, dalla seconda metà del sec. XV, per modum suffragii anche alle anime dei defunti.
La dottrina del valore meritorio ed espiatorio della messa, la seconda fonte dei lasciti per l'anima, si venne svolgendo e fissando specialmente da quando, accanto alle messe pubbliche, nelle quali i fedeli intervenuti presentavano e facevano deporre sull'altare le offerte, destinate, oltre che al sacrificio, ai poveri e agli ecclesiastici, sorsero e si diffusero le messe private, celebrate a richiesta di singoli fedeli e secondo la loro intenzione, anche senza la presenza del pubblico, e dopo che tali messe divennero frequenti, specialmente nelle chiese appartenenti a privati, e s'introdusse l'uso di dare ai sacerdoti l'onorario per la messa, cioè una somma, con l'obbligo di celebrare la messa secondo l'intenzione del donante (v. Del Giudice, Stipendia missarum, Roma 1922). Per quanto si sia venuta diffondendo l'opinione che il fructus della messa (cioè il fructus medius o specialissimus a vantaggio di colui al quale la messa è applicata) sia uberior di quello delle pie opere, e il concilio di Trento abbia insegnato: animas (in Purgatorio) detentas fidelium suffragiis, potissimum vero acceptabili altaris sacrificio iuvari (Sess. XXV, decr. De Purgatorio), tuttavia la chiesa non ha mai prescritto di dare la preferenza alle messe in suffragio piuttosto che alle elemosine ai poveri, anzi ha costantemente raccomandato di non trascurar queste per moltiplicare i sacrifici per i defunti.
Quando nel sec. IV la chiesa ottenne giuridico riconoscimento, il diritto romano offriva già strumenti adatti per l'attuazione dei precetti evangelici sui lasciti per l'anima: si potevano infatti secondo le norme del diritto classico istituire eredi e legatarî con l'onere fidecommissario di compiere pie elargizioni in pro di chiese o di poveri o di istituzioni di beneficenza; successivamente fu riconosciuta la personalità giuridica di queste e delle chiese, a cui direttamente si poterono fare i lasciti. Ma quando la chiesa divenne chiesa ufficiale e privilegiata, le leggi romane mirarono a togliere ogni difficoltà di tecnica giuridica per rendere valide in ogni caso le ultime volontà che avessero scopi benefici o religiosi. Già Valentiniano e Marciano avevano disposto che i testamenti a favore dei poveri non dovessero ritenersi nulli, come fatti a favore di persone incerte (anno 455: Cod., I, 3, § 24); ma fu specialmente Giustiniano, secondo il quale animae redemptio aliis omnibus rebus pretiosior (Nov. LXV praef.), che regolò nel modo più favorevole le disposizioni ad pias causas e cioè pro salute animae (S. Cugia, Il termine "piae causae", XV, in Studi in onore di Carlo Fadda, V, Napoli 1906, p. 225 segg.). Egli stabilì, infatti, quali chiese si dovessero ritenere istituite nel caso che alcuno avesse nominato erede Gesù Cristo o un arcangelo o un martire (Cod., I, 2, § 25) e a quali istituzioni benefiche dovessero pervenire i beni se alcuno avesse nominato eredi i poveri o i prigionieri (Cod., I, 3, § 48); diede ai vescovi ampî poteri per l'esecuzione dei lasciti pii e per la vigilanza sull'adempimento di essi da parte degli eredi (Cod., I, 3, § 48; Nov., CXXXI, c. 12); escluse per i relicta ad pias causas l'applicazione della falcidia (Nov., CXXXI, c. 12; cfr. Knecht, System des Justinianischen Kirchenvermögensrechts, Stoccarda, 1905,p. 18 segg., 72 segg., 102 segg.).
Viceversa le idee cristiane sui lasciti per l'anima trovarono un resistente ostacolo alla loro attuazione negli istituti giuridici dei popoli germanici, principalmente nella rigida comunione domestica, che rendeva impossibile la disposizione dei beni comuni senza il consenso dei familiari; ma esse, specialmente per mezzo della predicazione e della misurata esortazione di Agostino fac locum Christo cum filiis tuis, come da ultimo Alfredo Schultze ha dimostrato con profonde indagini estese a tutti i diritti germanici (Augustin und der Seelteil, ecc.; si veda, prima, dello stesso autore, Der Einfluss der Kirche, ecc., e B. Pitzorno, L'adozione privata, Perugia 1914, pp. 39 segg., 133 segg.), riuscirono a penetrare presso i Germani e a far riconoscere al capofamiglia il diritto di disporre per l'anima o di una quota uguale a quella di ciascun figlio, o di una quota fissa, corrispondente a un numero medio di figli, o di una terza parte della eredità. Così vediamo, ad esempio, nel diritto longobardo: ancora secondo l'editto di Rotari, se vi erano figli legittimi, il padre non aveva nessuna parte di cui potesse disporre; la quota disponibile si sviluppò a poco a poco, dopo il passaggio dei Longobardi dall'arianesimo al cattolicesimo romano e fu fissata da Liutprando (c. 113) nella quota di un figlio; la stessa quota disponibile troviamo presso gli Alamanni, i Bavari e in fonti giuridiche svedesi; così una legge visigota fissa ad un quinto la quota disponibile, mentre nel diritto anglo-normanno la dead's part, di cui si può disporre per la chiesa, ammonta a un terzo del patrimonio mobiliare, quanto spetta alla vedova ed ai figli. In alcuni luoghi poi riuscì alla chiesa di trasformare la quota disponibile in una porzione legittima in suo favore, o almeno di ottenere una quota della disponibile; così accadde con la quinta pro anima del diritto visigoto-spagnolo, con la tertia pro anima delle fonti portoghesi, col tertiagium dei beni mobili in Bretagna (Schultze, Augustin und der Seelteil, ecc., p. 64 segg.).
Parimenti riuscirono le idee romano-cristiane a far penetrare nel diritto germanico le forme giuridiche adatte alle particolari esigenze dei lasciti per l'anima: mentre era norma generale del diritto barbarico che la donazione richiedesse sempre una controprestazione, Liutprando stabilì, sotto l'influenza delle idee cristiane, che fosse valida la donazione fatta alle chiese o ad istituzioni di beneficenza senza launegild (c. 73), appunto perché fatta pro anima, e riconobbe o, in genere, - secondo l'opinione dominante difesa con ampia dimostrazione dal Roberti (Le origini dell'esecutore testamentario nella storia del diritto italiano, in Studi econ. giur. della università di Cagliari, Modena 1913, p. 172 segg.) - la forma romana del testamento unilaterale per chi volesse iudicare pro anima sua, o, almeno, - secondo l'opinione dello Schultze (da ultimo: Augustin u. der Selteil, ecc., p. 45, n. 168) - riconobbe tal forma soltanto per l'ammalato giacente in letto, che volesse disporre per l'anima e in seguito all'infermità venisse a morte, richiedendo la forma normale della donazione bilaterale nel caso che risanasse; e aprì, ad ogni modo, con tale norma, il varco all'introduzione del testamento unilaterale. Inoltre dal diritto romano, secondo la tesi sostenuta dal Roberti nell'opera sopra citata, rivolta a combattere la comune opinione (sulla quale si veda Schultze, Die Langobardische Treuhand und ihre Umbildung zur Testamentsvollstreckung, Breslavia 1895), i diritti barbarici dedussero l'importantissimo istituto dell'esecutore testamentario, svoltosi principalmente per l'erogazione dei lasciti pii.
D'altra parte, però, se i popoli germanici non conoscevano i testamenti, né ammettevano che alcuno potesse sottrarre beni alla comunione familiare, avevano usi funerarî, che fornirono un ponte di passaggio alle nuove concezioni. Secondo la rappresentazione dell'al di là come continuazione corporale della vita terrena, il morto portava con sé nella tomba o sul rogo le cose di cui certo aveva la proprietà individuale e di cui abbisognava: le vesti, le armi, il cavallo, i cani. La chiesa non estirpò completamente questi usi pagani, ma li trasformò; avendo spiritualizzato la vita futura, fece del culto del morto il culto dell'anima; quindi quello che era dato al morto diventò ora Seelgerät, cioè aiuto dell'anima (sulla origine e sul significato della parola si veda Schultze, Der Einfluss der Kirche ecc., p. 82, n. 2; Augustin und der Seelteil ecc., n. 4); il dono del morto, consistente ancora negli stessi oggetti: vesti, armi, cavallo, non fu più sepolto con lui, ma andò alla chiesa, alla quale fu riconosciuto un diritto alla prestazione del morto; così vediamo in Inghilterra che, secondo una legge di re Etelredo, il Seelschatz, chiamato più tardi mortuarium, corpspresent, dev'essere pagato davanti alla tomba aperta; mentre altrove da contadini e da cittadini si pretende il miglior capo di bestiame o il miglior vestito (H. Brunner, Der Totenteil in germanischen Rechten, in Zeitschr. der Savigny-Stiftung für Rechtsgesch., Germ. Abt., 1898, p. 107 segg.; A. Schultze, Augustin und der Seelteil ecc., p. 1 segg.).
La chiesa, che fin dai concilî dei primi secoli comminò pene contro coloro che non adempissero le pie disposizioni dei defunti, accolse e canonizzò le leggi giustinianee a favore di esse; pretese che tutta la materia appartenesse alla sua legislazione e alla sua giurisdizione; aumentò ed estese i privilegi delle cause pie, tra i quali i più importanti furono quelli che i testamenti ad pias causas fossero sempre validi anche quando mancassero delle forme prescritte dal diritto civile e che fosse valida la trasmissione dell'eredità a un fiduciario con l'obbligo di devolverla interamente a scopi pii (c. 11, 13, X, de test. et ult. volunt., 3, 26: J. F. Schulte, Über die testamenta ad pias causas nach canonischem Rechte ecc., in Zeitschrift für Civilrecht und Prozess, 1851, p. 157 segg.).
Nella pratica, quale ci è attestata dai documenti dei primi secoli, dalle innumerevoli carte medievali, dai formularî notarili e dalle opere dei giureconsulti (si veda: Bruck, Totenteil und Seelgerat; A. Schultze, Augustin und der Seelteil d. germ. Erbrechts e, specialmente, la fondamentale monografia di Francesco Brandileone, indicata nella Bibl.), i lasciti per l'anima ebbero in ogni tempo e in tutti i paesi cattolici diffusione larghissima; assunsero le svariate forme giuridiche offerte dalle varie legislazioni: istituzioni in erede, legati, legati modali, fondazioni testamentarie, donazioni tra vivi e post obitum; frequentissimo fu l'uso di nominare esecutori testamentarî, incaricati di erogare i beni destinati alle cause pie; i lasciti mirarono, da un lato, ad erigere, a dotare, ad arricchire chiese e monasteri, a soccorrere poveri e sacerdoti, a riscattare prigionieri, a manomettere schiavi, a fondare e a beneficare ospedali, orfanotrofî, brefotrofî ecc., o anche a compiere o a sussidiare opere di pubblica utilità; dall'altro lato, a far celebrare messe in suffragio, in quantità sempre maggiore, per tempo determinato o in perpetuo, a fondare e a dotare benefici e cappellanie laicali con oneri di messe. La disposizione per l'anima prende il primo posto nei testamenti, quia anima est plus quam corpus; essa consiste, ora nell'enunciazione dell'intera somma destinata al suffragio dell'anima e nella successiva ripartizione per i singoli scopi pii, ora nell'indicazione dei varî lasciti particolari. Risale al secolo decimosesto l'uso dell'istituzione in erede dell'anima propria.
Dall'altro lato l'idea della ricompensa celeste e della virtù espiatoria delle buone opere esercitò influenza anche sulla successione ab intestato. Già nel diritto bizantino era stabilito che, in mancanza di testamento, una quota dell'eredità dovesse andare a vantaggio dell'anima del defunto per cerimonie religiose o per la distribuzione di elemosine; così Leone il Savio (886-911) dispose che quando il fisco succedeva ad un prigioniero di guerra, in mancanza di ascendenti e di discendenti, la terza parte dei beni dovesse essere distribuita per l'anima; Costantino Porfirogenito (945-959) statuì in maniera più generale che, in mancanza di figli, un terzo dei beni di chiunque fosse morto intestato dovesse andare a Dio per l'anima del defunto; la Πεῖρα (sec. XI) attesta che per consuetudine nella successione dei collaterali ab intestato un terzo veniva dato per mercede, per vantaggio dell'anima (Zacharias v. Lingenthal, Geschichte des griechisch-römischen Rechts, 3ª ed., 1892, p. 139 segg.; Schultze, Augustin und der Seelteil, ecc., p. 118 segg.). Sotto l'influenza di queste norme bizantine fu disposto nella Assisa deintestatis di Guglielmo II (1170-1175) che, se alcuno fosse morto senza testamento, una terza parte dei beni dovesse essere erogata pro defuncti anima (F. Brandileone, Il diritto greco-romano nell'Italia meridionale sotto la dominazione normanna, in Archivio giuridico, 1886, p. 268 seg.; Bruck, Totenteil u. Seelgerät, p. 322 segg.). Disposizioni analoghe si trovano largamente diffuse in molti altri diritti; secondo alcune fonti, in mancanza di eredi, tutta l'eredità doveva essere erogata per l'anima; così, ad esempio, secondo la costituzione Omnes peregrini di Federico II del 1220, i beni dello straniero, se non si presentavano gli eredi, dovevano essere erogati dal vescovo in pias causas; secondo altre fonti la riserva per l'anima, in mancanza di eredi, era fissata in una metà, in un quarto, in un terzo dell'asse; secondo altre ancora era rimessa al signore la determinazione della misura delle elemosine (Schultze, Augustin und der Seelteil ecc., p. 63 seg.), mentre in alcune diocesi, come è attestato, ad esempio, dalla tassa innocenziana del foro ecclesiastico del 1678 (Ferraris, Prompta bibliotheca canonica, VIII, s. v. Taxa, p. 217), il vescovo faceva il testamento per l'anima del morto ab intestato; secondo altre fonti, infine, inspirate anche dall'orrore della morte senza testamento, vale a dire dall'orrore della morte senza confessione e assoluzione e quindi senza lasciti per la salvezza dell'anima, i beni mobili furono dapprima confiscati e, più tardi, affidati alla chiesa perché li devolvesse a scopi pii; così accadde specialmente in Inghilterra, dove fu affidata al vescovo l'erogazione benefica della dead's part (Pollock e Maitland, History of English law before the time of Edward I, II, Cambridge 1898, p. 357 segg).
Il moltiplicarsi dei lasciti per l'anima, specialmente sotto la forma di fondazione di anniversarî perpetui di messe e il conseguente smisurato aumento della proprietà ecclesiastica provocarono, specialmente a cominciare dalla seconda metà del Settecento, una vivace reazione da parte delle leggi civili. Le quali o posero limitazioni di carattere economico in odio alla manomorta sulla quantità e sulla natura dei beni legati (come le leggi di Modena del 14 marzo 1764 e del 14 maggio 1767, la prammatica di Parma del 25 ottobre 1764 e la dichiarazione del 29 maggio 1768), o interpretarono le disposizioni generiche a favore dell'anima, dando una parziale o totale preferenza alla beneficenza in confronto del culto (come il decreto austriaco del 17 settembre 1812, che, nel caso in cui l'anima fosse stata istituita erede universale, destinava due terzi dei beni ai poveri e solo un terzo alla celebrazione di messe: Alexander Gál, Totenteil und Seelteil nach süddeutschen, Rechten in Zeitschr. der Savigny-Stiftung f. Rechtsgesch., Germ. Abt., 1908, p. 237, o come il codice civile albertino, che nell'art. 808 devolveva le disposizioni generiche a favore dell'anima propria alla Congregazione locale di carità), oppure dichiararono senz'altro nulle siffatte disposizioni (come il dispaccio napoletano del 22 agosto 1772, che dichiarò nullo e come non fatto il testamento, in cui fosse istituita erede l'anima del testatore).
Nel diritto italiano vigente i lasciti per l'anima presentano due questioni, una relativa alla nullità delle "disposizioni per l'anima o a favore dell'anima espresse genericamente", stabilita dall'articolo 831 del codice civile, l'altra relativa alla trasformabilità a favore della pubblica beneficenza dei lasciti per l'anima, e cioè relativa all'applicabilità ai lasciti per l'anima della disposizione dell'art. 91 della legge 17 luglio 1890, n. 6972, che sottopone a trasformazione "le opere pie di culto, i lasciti e i legati di culto".
La prima questione, che ha dato luogo a lunghe controversie nella dottrina e a discordi risoluzioni giurisprudenziali (sulle quali sono da vedere gli scritti del Filomusi-Guelfi e di Roberto de Ruggiero, indicati nella Bibl.) va risoluta secondo il senso letterale della disposizione, come una reazione contro l'interpretazione di favore delle formule generiche, quale quella della istituzione in erede dell'anima propria; il codice civile non ha quindi né vietato, né limitato i lasciti di messe, applicando, però, anche ad essi le norme del diritto testamentario comune; cosicché è sempre valido il lascito per l'anima quando sia indicato l'erede o il legatario e l'oggetto della disposizione.
L'altra questione, che ha fornito l'occasione alle profonde indagini del Ruffini e del Brandileone sul tema generale dei lasciti per l'anima (si vedano gli scritti indicati, sotto, nella Bibl.), sembra si debba risolvere nel senso della trasformabilità, secondo la tesi del Ruffini e della giurisprudenza più recente. È certo esatto il resultato delle diligentissime indagini del Brandileone sulla successiva individuazione dei lasciti per l'anima come lasciti destinati alla celebrazione di messe di suffragio e sull'avversione della chiesa alla commutazione di essi in pro della beneficenza, ma, - a prescindere anche dalla scarsa importanza della stessa commutabilità delle messe per l'anima secondo il diritto della chiesa per indurne la trasformabilità secondo il diritto dello stato, per l'ovvia ragione che la commutazione è operata dal pontefice - posto che indubitabilmente le messe per l'anima, per quanto offrano un frutto specialissimo per colui al quale sono applicate, non cessano per questo di essere atti di culto pubblico (A. C. Jemolo, La trasformazione dei lasciti per messe, in Rivista di diritto pubblico, II, 1913, p. 321 segg.), se il legislatore sottopone a trasformazione i legati di culto, non v'è ragione per escludere da questa categoria le messe in suffragio dell'anima.
Bibl.: F. Filomusi-Guelfi, Delle disposizioni per l'anima o a favore dell'anima nel diritto civile italiano, in Riv. it. p. le scienze giuridiche, I (1886), p. 47 segg.; F. Ruffini, Trattato del diritto ecclesiastico di E. Friedberg, Torino 1893, p. 700 segg.; R. de Ruggiero, Anima (Disposizioni per l'), in Dizionario pratico del diritto privato diretto da V. Scialoja, I, Milano, p. 180 segg.; M. Falco, Le disposizioni per l'anima, ecc., Torino 1906; F. Ruffini, La trasformazione dei così detti "legati per l'anima" a favore della beneficenza pubblica, nel giornale La legge, 1908, nn. 7-8 e nel libro Le spese di culto delle opere pie, Torino 1908; M. Falco, Le disposizioni "pro anima", Torino 1911; F. Brandileone, I lasciti per l'anima e la loro trasformazione, in Memorie del R. Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia 1911; A. Schultze, Der Einfluss der Kirche auf die Entwicklung des germanischen Erbrechts, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Germ. Abt., 1914, p. 75 segg.; H. Henrici, Über Schenkungen an die Kirche, Weimar 1916 F. Scaduto, Diritto ecclesiastico vigente in Italia, 4ª ed., II, Cortona 1925, p. 67 segg.; E. F. Bruck, Totenteil und Seelgerät im griechischen Recht, in Münchener Beiträge zur Papyrusforschung u. antiken Rechtsgeschichte, fasc. 9, Monaco 1926; A. Schultze, Augustin und der Seelteil des germanischen Erbrechts. Studien zur Entstehungsgeschichte des Freitelsrechtes, in Abhandlungen der phil.-hist. Klasse der Sächsischen Akademie der Wissenschaften, XXXVIII, n. IV, Lipsia 1928.