Distensione
di Walt W. Rostow
Distensione
sommario: 1. Introduzione. 2. La Russia e l'Occidente prima del 22 giugno 1941. 3. L'inizio della guerra fredda (1941-1946). 4. Il duello Truman-Stalin (1946-1952). 5. La pausa (1951-1956). 6. Il frazionamento del potere (1948-1956). 7. L'offensiva di Chruščëv (1957-1962). 8. La rottura tra Cina e Unione Sovietica. 9. Gli inizi della distensione (1962-1968). 10. L'offensiva cinese e la ‛rivoluzione culturale' (1962-1968). 11. Il periodo Nixon (1969-1973). 12. Le relazioni Est-Ovest in un'epoca caratterizzata da un sempre crescente frazionamento del potere. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Negli anni successivi al 1945, una famosa predizione di A. de Tocqueville trovò, per un certo periodo, la sua conferma. Egli aveva infatti scritto: ‟Vi sono oggi sulla terra due grandi popoli che, partiti da punti differenti, sembrano avanzare verso lo stesso scopo: sono i Russi e gli Anglo-americani; [...] entrambi sembrano chiamati da un disegno segreto della Provvidenza a tenere un giorno nelle loro mani i destini di una metà del mondo" (v. de Tocqueville, 1835-1840; tr. it., pp. 482 e 484).
Questo articolo intende mostrare come si sia prodotta questa concentrazione di potere e di autorità; perché abbia condotto le due potenze a fronteggiarsi con reciproca ostilità; e come l'articolarsi del potere abbia gradualmente trasformato le relazioni Est-Ovest, facendole passare dal confronto ostile alla distensione.
2. La Russia e l'Occidente prima del 22 giugno 1941
Le relazioni tra la Russia e l'Occidente, quali sono venute delineandosi verso la fine degli anni sessanta e all'inizio degli anni settanta, presentano una fisionomia complessa. Sono contrassegnate da un intrecciarsi di faticosa cooperazione, di sospetti mai sopiti e di manovre incessanti per volgere a proprio vantaggio i rapporti di forza. In effetti si e trattato di un ritorno alla situazione esistente dal sec. XVIII - quando la Russia si afferma come grande potenza - fino al 1917, quando i bolscevichi assunsero la guida della Rivoluzione.
La Russia zarista cercò consapevolmente di imparare dall'Occidente; collaborò con quanti in Occidente condividessero il suo obiettivo: che l'Europa non fosse dominata da un'unica potenza; tuttavia non mancò, quando se ne offrì l'occasione, di imporre il proprio potere all'esterno, sia a occidente che in Asia. E continuò ad alimentare - almeno tra gli intellettuali e i poeti dell'Ottocento - l'idea che un destino grandioso e particolare attendesse la Russia quando i servi della gleba fossero stati emancipati e si fossero assimilate le tecniche dell'industrializzazione. In realtà, nel venticinquennio precedente la prima guerra mondiale, la Russia andò modernizzandosi velocemente e conobbe grandi mutamenti economici, politici e sociali. Ma il sanguinoso fardello della prima guerra mondiale risultò eccessivo da sopportare, per questa società modernizzata soltanto a metà.
In un quadro politico in cui la sconfitta sul campo aveva privato l'autocrazia zarista di ogni crisma di legittimità, il bisogno - disatteso - di pace e di radicale rinnovamento provocò, nel marzo 1917, una rivoluzione a largo sostegno popolare e condusse a un governo provvisorio che Lenin, nel novembre, rovesciò con un colpo di stato.
Seguirono tre anni traumatici: anni di guerra civile, di intervento straniero e di collasso inarrestabile dell'economia russa. In un primo momento l'intervento alleato a sostegno delle forze antibolsceviche - che G. F. Kennan ha perfettamente analizzato nella sua classica opera - ebbe la sua principale motivazione nel perdurante stato di guerra con la Germania. Infatti, dopo l'armistizio dell'11 novembre 1918, Inghilterra e Stati Uniti posero fine alla politica di intervento, che di fronte ai loro popoli potevano giustificare ormai solo in termini ideologici. La Francia, invece, più sensibile degli Anglosassoni al ruolo dell'Europa orientale nell'equilibrio delle forze europee, proseguì nell'intervento ed ebbe una parte notevole nella sconfitta dell'Armata Rossa a Varsavia nel 1921. E anche i Giapponesi, che come potenza avevano interessi specifici sulla terraferma asiatica, evacuarono definitivamente Vladivostok soltanto nell'ottobre 1922.
Alla fine Lenin sconfisse tutti i suoi nemici interni, compresi i marinai di Kronštadt ribellatisi nel febbraio 1921 contro la degenerazione della Rivoluzione. Inoltre negoziò trattati di pace che comportavano perdite territoriali rispetto ai confini dell'impero zarista, ma assicurò al potere comunista una vasta base territoriale russa. Con il lancio della Nuova Politica Economica (NEP), che contemplava incentivi per i contadini, e con la partecipazione dei diplomatici sovietici alla Conferenza economica di Genova nel 1922, il regime sovietico si avviò verso la normalizzazione dei suoi affari interni ed internazionali. Dopo la morte di Lenin (1924), quasi tutte le maggiori potenze allacciarono relazioni diplomatiche con l'URSS, anche se gli Stati Uniti e la Cecoslovacchia attesero, rispettivamente, il 1933 e il 1934.
La lotta condotta dai dirigenti sovietici per consolidare il proprio potere contro avversari esterni ed interni lasciò segni profondi nella loro esperienza e nel loro modo di pensare. Antichi elementi di xenofobia, propri della mentalità e dell'esperienza russe, vennero a convergere con la dottrina comunista del conflitto inevitabile con il mondo capitalistico. Questi elementi giocarono un ruolo importante quando, nel 1933, i nazionalsocialisti giunsero al potere in Germania. Fu infatti impossibile ricostruire quell'alleanza anglo-franco-russa anteriore al 1914, che avrebbe, forse, potuto scongiurare il secondo conflitto mondiale. Sospetto e paura - in Occidente come in Oriente - si impadronirono delle classi dirigenti. Stalin decise di accordarsi con Hitler alle migliori condizioni possibili, lasciando la macchina bellica tedesca libera di dedicarsi completamente alla conquista dell'Occidente. Sopraggiunse così il secondo grande bagno di sangue, che, poco dopo, avrebbe coinvolto anche la Russia staliniana e, anzi, l'intera metà settentrionale del globo.
3. L'inizio della guerra fredda (1941-1946)
I capi alleati che avevano combattuto la seconda guerra mondiale e che tentarono di costruire la pace si erano formati, a Est come a Ovest, prima del 1914. Essi non potevano dimenticare, nei loro rapporti reciproci, tutto ciò ch'era avvenuto in Russia dopo il 1917. In modi diversi sia Churchill che Roosevelt tentarono di accantonare questa insopprimibile eredità quando ebbero a che fare con Stalin, prima loro alleato e poi artefice, con essi, del futuro assetto postbellico.
Da quest'ultimo punto di vista, Roosevelt e Truman svolsero un ruolo di eccezionale importanza, giacché la seconda guerra mondiale aveva posto gli Stati Uniti in una posizione di preminenza assoluta, anche se, per sua natura, temporanea. Infatti essa traeva origine in parte dalla sconfitta della Germania, dell'Italia e del Giappone, nonché dalla dipendenza della Cina nazionalista, impegnata nella guerra civile, dagli Stati Uniti; in parte essa fu anche il risultato dell'indebolimento economico dell'Inghilterra, della Francia e degli alleati minori dell'Europa occidentale, causato dalla guerra e dall'occupazione. Inoltre la guerra aveva fatalmente minato la struttura dei possedimenti coloniali di tali paesi. Invece gli Stati Uniti, che nel 1940 avevano il 14,6% delle proprie forze di lavoro disoccupate, poterono, in misura notevole, combattere la guerra impegnando semplicemente gli uomini e la capacità industriale inutilizzati.
Tra il 1940 e il 1944 il PNL americano aumentò, considerando come costante il valore del dollaro, di oltre il 50%; e si verificò persino un leggero incremento (circa il 10%) nelle spese per consumi privati.
Questo balzo in avanti della potenza economica americana fu rafforzato da tre fenomeni peculiari degli anni di guerra: un impiego sistematico della scienza e della tecnologia a fini militari, che comportò, tra l'altro, la creazione delle armi nucleari; un massiccio incremento della forza navale americana; uno sviluppo rivoluzionario del ruolo delle forze aeree. Malgrado la drastica smobilitazione postbellica, da quest'esperienza derivò la costituzione di un organo unico nel suo genere: lo Strategic Air Command (SAC).
Nel 1945, dunque, gli Stati Uniti dominavano dal loro continente tutti gli altri paesi. Essi infatti avevano riportato la loro economia al massimo sviluppo, mentre le altre grandi nazioni si erano indebolite. Dominavano i mari e i cieli, ed erano i soli ad aver prodotto armi nucleari.
L'ascesa della potenza sovietica fu, rispetto a quella degli Stati Uniti, meno clamorosa. Essa non comportò un eccezionale sviluppo economico, e neppure la creazione di nuove armi. Ma fu altrettanto reale.
Come nel caso degli Stati Uniti, l'ascesa della potenza sovietica si spiega in parte in termini negativi, cioè con la temporanea liquidazione della potenza tedesca, italiana e giapponese. Almeno a partire dalla vittoriosa difesa di Stalingrado; alla fine del 1942, Mosca combatté la guerra con un occhio rivolto alla propria posizione postbellica in un mondo in cui i suoi principali nemici sarebbero stati cancellati dalla sfera del potere. Quando la guerra terminò, le forze terrestri sovietiche in occidente erano giunte sino all'Elba. Bulgaria, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e parte dell'Austria, nonché i territori orientali della Germania erano sotto il controllo effettivo dell'Unione Sovietica. Dalla guerra uscì anche un governo comunista a Belgrado, in un primo momento alleato dell'URSS. Mosca inoltre si trovò in una posizione diplomatica e militare tale che in Manciuria e nella Corea del Nord i Giapponesi si arresero nelle mani dei Russi. A causa degli errori commessi negli anni trenta dagli Americani, dagli Inglesi e dai Francesi, la seconda guerra mondiale fu, come afferma G. F. Kennan, ‟essenzialmente ed ineluttabilmente difensiva [...], una guerra in cui noi in Occidente eravamo dapprima la parte più debole, in grado quindi di raggiungere soltanto alcuni dei nostri obiettivi, e di raggiungerli solo collaborando con una controparte totalitaria e pagando un certo prezzo" (v. Kennan, 1951, p. 77). E Mosca, per ragioni storicamente comprensibili, era decisa ad esigere questo prezzo.
Inizialmente gli Americani non erano consapevoli della precarietà della situazione. Osservando la scena mondiale subito dopo la ‛resa incondizionata', essi erano soddisfatti per la guerra vinta e profondamente persuasi della necessità di non ripetere l'errore commesso con la mancata adesione alla Società delle Nazioni: era necessario che gli Stati Uniti svolgessero, in qualche modo, il proprio ruolo nel mantenimento della pace. Ma gli Americani erano scarsamente o per nulla consapevoli di ciò che questo impegno avrebbe comportato e di quale dovesse esserne il prezzo. L'aspirazione più profonda della nazione, infatti, era quella di smobilitare, riportando a casa i soldati americani per restituirli alle occupazioni civili.
La scena si presentava del tutto diversa per uomini che erano contemporaneamente Russi e comunisti. Vista con i loro occhi e la loro esperienza, la situazione appariva quasi incredibile. Tutte le potenze che nel corso dei secoli avevano ostacolato e danneggiato la Russia si trovavano prostrate, o gravemente indebolite: così la Germania e il Giappone, la Polonia e la maggior parte degli Stati minori che avevano fatto parte dell'Impero austro-ungarico, così infine l'Inghilterra e la Francia. Stalin era in grado, grazie ai sacrifici dei Russi e agli sforzi dei loro alleati, di recuperare in Asia tutto ciò ch'era stato perduto nel 1905; gran parte di ciò ch'era stato perduto in Europa dopo il 1917; e molto più di ciò che, nel 1939, aveva tentato di negoziare con Hitler, per non parlare di ciò che effettivamente aveva ottenuto. Dopo la sconfitta di Napoleone nella storia russa non c'era stato un momento paragonabile a quello. Risulta quindi comprensibile, e insieme sinistra, la battuta pronunciata a Potsdam da Stalin, e riferita da W. A. Harriman: ‟La prima volta che lo vidi [Stalin] alla conferenza, gli andai incontro e gli dissi che per lui, dopo tante lotte e tante tragedie, ritrovarsi a Berlino doveva essere un'enorme soddisfazione. Egli ebbe un attimo di esitazione e replicò: ‛Lo zar Alessandro arrivò a Parigi'. Non occorreva una particolare chiaroveggenza per indovinare che cosa avesse in mente" (v. Harriman, 1971, p. 44).
Il disegno di Stalin spaziava oltre i territori occupati dagli eserciti sovietici. In Iugoslavia avevano trionfato forze comuniste. Forze insurrezionali comuniste avevano conquistato importanti posizioni in Grecia. I partiti comunisti francese e italiano si erano notevolmente rafforzati, sia per il crollo dei regimi esistenti al tempo della guerra, sia soprattutto in virtù del ruolo da essi svolto nei movimenti clandestini. A Mosca c'erano Coreani, Polacchi, Bulgari, Romeni, Ungheresi e Cechi ben preparati e pronti ad essere insediati al potere. Infine c'erano i Cinesi, con i quali i rapporti non erano semplici, visto il fallimento della strategia sovietica in Cina nel 1927; legati ideologicamente ai Russi, essi costituivano ancora una forza rilevante, con prospettive considerevoli anche se incerte.
Nel prendere le loro decisioni, Stalin e i suoi compagni si sentirono in dovere di sfruttare al massimo le possibilità loro aperte dall'andamento della guerra, così come aveva fatto Lenin nel 1917. Ma per decidere sin dove potevano spingersi, furono tuttavia costretti a rispondere ad alcune domande di fondo: quali erano le intenzioni e le scelte politiche degli Stati Uniti? Fino a che punto poteva spingersi la Russia senza rischiare un conflitto con gli Stati Uniti? Stalin era perfettamente consapevole della potenza di cui gli Stati Uniti disponevano nel 1945, e non avrebbe rischiato quanto già ottenuto (o che poteva ottenere) gettando il suo paese, vittorioso ma devastato, in una guerra con l'America.
Già nell'agosto 1941 Roosevelt e Churchill avevano presentato al mondo un vasto programma comprendente le ‛quattro libertà' e l'autogoverno. Ma in realtà, durante tutto il corso della guerra, nella politica americana ci fu soltanto un punto chiaro: questa volta gli Stati Uniti dovevano partecipare alla organizzazione mondiale per il mantenimento della pace; le grandi linee di tale programma furono discusse a Tehrān e confermate a Dumbarton Oaks nell'agosto-settembre 1944. Chiave di volta di questo progetto, il mantenimento di buoni rapporti fra i tre alleati degli anni di guerra. La questione territoriale discussa per prima fu quella del futuro della Germania: doveva essere mantenuta unita o divisa? All'interno del governo americano si manifestarono, in proposito, opinioni divergenti, poiché Roosevelt era favorevole alla spartizione, mentre altri temevano che ciò avrebbe provocato antagonismi e conflitti di potere tra i vincitori. La proposta di Roosevelt di divisione della Germania non nasceva tuttavia da considerazioni relative ai rapporti postbellici tra gli Alleati, ma da una preoccupazione più circoscritta: in che modo si poteva prevenire un terzo tentativo tedesco di conquistare l'egemonia in Europa? Nel corso del 1943, tuttavia, era divenuto chiaro alla diplomazia inglese e americana che il problema cruciale del dopoguerra sarebbe stato non già la Germania, ma l'Unione Sovietica.
Il nodo fondamentale delle relazioni postbelliche tra Alleati e Sovietici venne drammaticamente in luce nell'autunno 1944. Gli eserciti russi erano penetrati in profondità nell'Europa orientale. Mosca aveva rotto le relazioni con il governo provvisorio polacco a Londra e i Russi stavano organizzando un governo alternativo basato sul cosiddetto Comitato di Lublino, creato nel dicembre 1941. Gli Alleati occidentali erano a nord di Roma e sul Reno, ma non lo avevano oltrepassato. A questo punto si poneva in termini inequivocabili il problema di chi, nell'immediato futuro, avrebbe esercitato il potere politico nelle nazioni occupate. Inoltre, nella prospettiva di più ampio periodo, in base a quali principi politici sarebbe stata ricostruita la vita di queste nazioni?
Il problema più grave divenne quello della Polonia. Se, in stretti termini di sicurezza, la Polonia fosse stata militarmente neutralizzata e in rapporti amichevoli con l'Unione Sovietica, ma politicamente indipendente, sarebbe stata scongiurata la possibilità di un massiccio blocco politico sovietico. Sarebbe stato inoltre stabilito un principio e un precedente per la ricostruzione della Germania Orientale secondo criteri istituzionali democratico-occidentali (malgrado l'occupazione sovietica). Inoltre Mosca avrebbe dovuto fare i conti con gli Alleati occidentali nei negoziati volti a garantire la neutralità di una Germania unita e democratica. Nel contesto europeo del dopoguerra, una Germania disarmata corrispondeva chiaramente all'interesse sia americano che inglese; e infatti essi avanzarono questa proposta.
La Polonia divenne il problema centrale della diplomazia alleata, poiché la soluzione di quel problema avrebbe influenzato l'esito della vicenda tedesca e l'assetto futuro dell'Europa orientale.
Roosevelt, a Jalta, pose come centrale la questione delle libere elezioni in Europa orientale, riuscendo a strappare a Stalin, nella Dichiarazione di Jalta sull'Europa liberata, un impegno per ‟costituire il più presto possibile, mediante libere elezioni, governi corrispondenti alla volontà popolare". Nella parallela Dichiarazione sulla Polonia, Roosevelt riuscì inoltre a ottenere l'impegno per la formazione di un nuovo governo provvisorio di unità nazionale, comprendente i Polacchi dell'emigrazione, governo che avrebbe dovuto indire ‟appena possibile libere elezioni a suffragio universale e a scrutinio segreto". Nel suo intervento di apertura, tuttavia, Roosevelt fece quello che Churchill definì un ‟gravissimo" annuncio: gli Stati Uniti non avrebbero mantenuto un grosso esercito in Europa e l'occupazione americana della Germania si sarebbe protratta probabilmente per soli due anni.
Nelle settimane successive Stalin non onorò gli accordi di Jalta. Continuò a consolidare, una mossa dopo l'altra, il potere comunista in Europa orientale. Nel periodo immediatamente precedente la sua morte, Roosevelt era vivamente preoccupato dalla linea seguita da Stalin in Polonia. Questi infatti aveva rinviato l'inserimento nel governo polacco degli emigrati di Londra, lasciando che il gruppo di Lublino consolidasse la propria posizione di potere.
Il 23 aprile, undici giorni dopo la morte di Roosevelt, Truman trattò in termini molto fermi con Molotov sul problema polacco e un mese più tardi inviò H. Hopkins, pur gravemente malato, a Mosca. Hopkins ottenne che Stalin si conformasse nella sua azione all'accordo di Jalta sulla Polonia: che accettasse, cioè, la formazione di un governo di unità nazionale, comprendente S Mikolajczyk come viceprimo ministro, e in cui altri tre ministeri fossero affidati a Polacchi estranei al gruppo di Lublino e graditi all'Inghilterra e agli Stati Uniti. Questa e altre concessioni minori aprirono la strada all'incontro dei ‛tre grandi' a Potsdam.
In quella sede fu confermato il riconoscimento del nuovo Governo provvisorio polacco (che già il 5 luglio aveva ottenuto il ‛gradimento' degli Stati Uniti) e si concordò che questo governo interinale avrebbe tenuto libere elezioni a suffragio universale e a scrutinio segreto. Furono inoltre concordate garanzie perché la stampa mondiale potesse liberamente riferire su quanto avveniva prima e durante le elezioni.
Nei primi quattro mesi del suo mandato, la politica dell'amministrazione Truman sembrò in grado di imporre che la questione polacca si sviluppasse secondo le linee dell'accordo di Jalta. Ma in realtà, nell'anno e mezzo seguito a Potsdam, i comunisti, diretti da Mosca, ottennero il controllo della Polonia attraverso una serie di atti che culminarono nelle elezioni del febbraio 1947. Queste furono infatti sapientemente manipolate per evitare la ripetizione del risultato, disastrosamente anticomunista, del plebiscito del giugno 1946. Nell'autunno 1947 Mikolajczyk, da lungo tempo costretto all'impotenza politica, abbandonò il paese per evitare l'arresto.
Tale successione di eventi può essere compresa soltanto tenendo presente la smobilitazione unilaterale del potenziale militare americano e l'idea, largamente diffusa negli Stati Uniti, che la sorte dell'Europa orientale e della Polonia fosse una faccenda di importanza secondaria. Nell'esprimere il suo punto di vista sulla Polonia, Hopkins aveva detto a Stalin, nel maggio 1945: ‟La Polonia è soltanto un simbolo".
Parlando di J. Byrnes e del suo atteggiamento quando nel dicembre 1945 si recò a Mosca, un cronista dell'epoca coglie l'essenziale quando scrive: ‟È chiaro che gli Stati Uniti non intendono sostenere con la forza la loro interpretazione della Dichiarazione di Jalta". La fondamentale inconsistenza della politica americana nei confronti dell'Europa orientale permise a Stalin di procedere in direzione della soluzione a lui più favorevole: il consolidarsi, sotto il suo controllo diretto, di un blocco formato dall'intera Europa orientale sino all'Elba.
Venuta a cadere l'ipotesi di una pronta e risoluta applicazione dell'accordo di Jalta sulla Polonia, i negoziati si concentrarono sulla questione di Berlino e dell'unità tedesca. Malgrado i negoziatori americani in seno al Consiglio di controllo di Berlino facessero ogni sforzo al fine di ottenere una Germania unita, la sconfitta di questa prospettiva apparve chiara fin dalla primavera del 1946. In realtà l'esito della vicenda polacca ipotecò la fisionomia della Germania postbellica. Entrambe le parti, nell'anno che seguì, entrarono nell'ordine di idee che una contesa senza soste si sarebbe svolta lungo i confini di una Germania e di un'Europa divise.
Stalin e i suoi compagni sapevano perfettamente di poter ottenere il disarmo tedesco se avessero accettato che in tutta la Germania si svolgessero libere elezioni. Ma questo assetto della Germania avrebbe reso difficile, e forse impossibile, il totale assoggettamento della Polonia, che era l'obiettivo perseguito da Stalin: una Polonia, cioè, che avesse l'Unione Sovietica ad est e una zona tedesca occupata dai Sovietici ad ovest. Una Germania unita avrebbe infatti reso difficili e, in ultima analisi, inutili l'insediamento e il mantenimento di governi comunisti in tutto il resto dell'Europa orientale.
La scelta di fondo di Stalin non fu tanto, come qualcuno ha sostenuto, di optare per la costruzione di un blocco orientale, rinunciando cosi al ruolo vagamente universalistico che la Russia avrebbe potuto svolgere in seno alle Nazioni Unite. Fu quella, semmai, di negare alla Russia una sicurezza fondata sul disarmo tedesco e, di fatto, europeo. Una volta che l'esercito sovietico fosse rientrato all'interno dei propri confini, e con una Germania disarmata, la Francia e l'Inghilterra da una parte e gli Stati Uniti dall'altra non avrebbero avuto più alcun interesse, almeno per quanto riguardava l'Europa, a mantenere in piedi grossi apparati militari.
Tutte le discussioni sul problema tedesco avvenute nel corso della guerra, che avevano visto a confronto una linea ‛dura' e una ‛morbida', e le ipotesi dello smembramento della Germania o del mantenimento della sua unità, erano ormai destituite di significato. Avrebbero potuto proseguire ed avere un peso pratico, solo se la politica americana fosse stata decisa nell'imporre a Stalin, quale scelta migliore, quella di un'Europa politicamente libera, in cui la sicurezza sia della Russia che degli Stati Uniti fosse garantita mediante accordi multilaterali. In mancanza di una tale politica, gli accordi tattici per l'occupazione di una Germania sconfitta posero le premesse per quella grande lotta continentale che prosegue, pur se in forma attenuata, ancora oggi. Il risultato diretto e immediato di questa situazione fu un'enorme, anche se transitoria, concentrazione di potere nelle mani di Washington e Mosca, proprio mentre la dimensione dei rapporti internazionali diveniva quella della guerra fredda.
4. Il duello Truman-Stalin (1946-1952)
Le cause della guerra fredda sono legate in modo così profondo con avvenimenti, esperienze, mentalità e interessi radicati nel passato, che è difficile fissare una data d'inizio del fenomeno. È probabile che Stalin, all'epoca del suo duro discorso elettorale del 9 febbraio 1946, avesse già optato a favore di un blocco orientale dominato da Mosca e contro l'ipotesi di una Germania unita ma disarmata. L'Occidente rispose un mese dopo, ma solo in termini retorici, con il discorso pronunziato a Fulton, nel Missouri, da Churchill (quello sulla ‛cortina di ferro'), anche se gli sforzi per impedire la spaccatura dell'Europa continuarono. Se si vuole fissare una data d'inizio della guerra fredda, concreta e non retorica, bisogna probabilmente far riferimento alla paralisi del Consiglio di controllo di Berlino a partire dal maggio 1946.
Secondo uno schema non privo di precedenti nella storia russa, lo sforzo di Stalin di sfruttare lo stato di disordine dell'Eurasia postbellica ebbe due fasi. Dapprima concentrò tutte le pressioni a occidente e, in un secondo momento, quando questo tentativo andò frustrato, si rivolse verso le occasioni che si offrivano ad oriente. Gli Stati Uniti gli opposero innanzitutto la Dottrina Truman e poi il Piano Marshall, la difesa di Berlino e la creazione della NATO. Ad oriente si provvide a difendere la Corea del Sud.
Ecco come si svolsero gli avvenimenti. Durante l'estate del 1946 Stalin accentuò la pressione sovietica sulla Turchia ricorrendo a mezzi diplomatici e a minacce aperte. Lo stesso fece in Grecia appoggiando, attraverso la Bulgaria e la Iugoslavia, un grosso movimento di guerriglia, e in Italia e in Francia attraverso gli incalzanti sforzi dei partiti comunisti di quei paesi per conquistare il potere in parlamento. Nel frattempo continuava il processo di stabilizzazione della Germania, divisa in due entità organizzate separatamente. Nel 1947 Stalin fu costretto alla difensiva dal contrattacco di Truman. Egli reagì alla Dottrina Truman e al Piano Marshall accelerando il processo di controllo totale dell'Est, simboleggiato dalla creazione del Cominform nel settembre 1947. I suoi piani ebbero successo a Praga (febbraio 1948), ma fallirono a Belgrado, dove la defezione di Tito fu annunciata nel giugno dello stesso anno. Falli anche il tentativo comunista in Grecia; le elezioni dell'aprile 1948 salvarono l'Italia; e in Francia si formò un gruppo di partiti di centro in grado di governare, anche se con qualche incertezza, e di contenere la minaccia interna comunista. La situazione di stallo del Consiglio di controllo di Berlino, che durava ormai da due anni, fu aggravata dall'abbandono sovietico del Consiglio medesimo (20 marzo 1948): e ciò costituì la premessa del blocco iniziato il 31 marzo.
Questa fase del processo di consolidamento sovietico nell'Europa orientale ebbe termine con il tentativo di cacciare gli Occidentali da Berlino, tentativo sventato con il ricorso al ponte aereo durante l'inverno 1948-1949. In Occidente questa complessa vicenda dette luogo al Patto di Bruxelles (febbraio 1948), alla NATO (marzo 1949) e alla creazione della Repubblica Federale di Germania (maggio 1949), che includeva anche, per motivi economici, le zone occidentali di Berlino; ciò simboleggiava e confermava l'intenzione dell'Occidente di impedire un'ulteriore espansione sovietica.
Nel corso del 1946 si interruppero anche i negoziati per una tregua in Cina. In un primo momento Stalin si oppose a che i comunisti impegnassero immediatamente tutte le forze disponibili per conquistare il potere; ma dopo che la politica di Mao ebbe conseguito notevoli successi, Stalin lo appoggiò, nel periodo 1947-1949, soprattutto con operazioni diversive del movimento comunista internazionale.
La politica comunista in Asia fu ufficialmente modificata nel corso del 1947, con l'enunciazione da parte di A.A. Ždanov, nella riunione di fondazione del Cominform tenuta in settembre, di nuovi ed ambiziosi obiettivi. Una vera e propria guerra di guerriglia scoppiò in Indocina nel novembre 1946, fece la sua comparsa in Birmania nell'aprile 1948, in Malesia nel giugno successivo, in indonesia e nelle Filippine nell'autunno. I partiti comunisti indiano e giapponese, con minori possibilità di utilizzare lo strumento della guerriglia, accentuarono comunque bruscamente la loro combattività nel corso del 1948. Quando i comunisti raggiunsero in Cina la vittoria finale (novembre 1949), la strategia politico-militare di Mao fu apertamente raccomandata dal Cominform ai partiti attivi nelle zone in cui erano in corso operazioni di guerriglia. Stalin e Mao s'incontrarono all'inizio del 1950 e riaffermarono l'ambiziosa strategia asiatica, decidendo inoltre che la sua fase culminante sarebbe stata, aderendo alla richiesta di Kim Il Sung, l'invasione nord-coreana della Corea del Sud: il che avvenne alla fine del giugno 1950.
La reazione dell'America e delle Nazioni Unite all'invasione della Corea del Sud, gli sbarchi a Inch'ŏn, la marcia sullo Yalu, l'entrata in guerra dei comunisti cinesi e la vittoriosa difesa delle truppe dell'ONU contro il massiccio attacco sferrato dai Cinesi nell'aprile-maggio 1951 sul 38° parallelo, posero gradualmente termine a questa fase degli sforzi militari e paramilitari comunisti in Asia. Né Mosca né Pechino erano disposte ad intraprendere una guerra globale e neppure ad accettare il costo di un prolungamento dell'offensiva in Corea. Del resto anche altrove le ottimistiche aspettative degli anni 1946-1949 da parte dei comunisti erano state nettamente disattese. Il successo di Mao non si era ripetuto in nessuna parte dell'Asia. L'Indonesia, la Birmania e le Filippine ebbero facilmente ragione delle rispettive guerriglie. Anche la guerriglia malese fu contenuta e repressa, anche se con grandi costi per l'Inghilterra. Lo slancio comunista rimaneva vitale soltanto in Indocina, dove il colonialismo francese offriva un terreno non meno favorevole di quello della Cina postbellica.
La politica comunista postbellica, in queste prime due fasi, mise in luce i tratti fondamentali della sfida cui dové far fronte l'amministrazione Truman. Fu Truman a condurre contro Stalin - negli anni 1947-1951 - la controffensiva che bloccò l'attacco comunista alle due estremità dell'Eurasia. In questo modo l'Europa occidentale, superati i timori di una guerra nel 1950, aveva costituito attraverso la NATO un imponente apparato militare comune e nel 1952 si trovava in una fase di piena espansione economica. In Corea i negoziati di tregua si prolungarono, ma, Indocina a parte, il resto dell'Asia non comunista (inclusi i nazionalisti di Formosa) ritrovò una sia pur provvisoria stabilità. Fu durante la guerra di Corea che il Giappone, rassicurato dalla disponibilità americana a battersi per la Corea, passò da una fase di ripresa a una fase di sviluppo straordinariamente rapido. La pressione comunista venne così contenuta lungo i confini emersi dalla seconda guerra mondiale.
5. La pausa (1951-1956)
Intorno al 1925 - cioè sei anni dopo l'armistizio - il mondo cessò di essere dominato dalle forze direttamente generate dalla prima guerra mondiale. Problemi ed avvenimenti cominciarono allora ad assumere una fisionomia propria, ancora inestricabilmente connessa al passato e agli sconvolgimenti del periodo 1914-1918, ma tale, tuttavia, da esigere con forza idee e uomini nuovi. Qualcosa di simile - e in un modo perfino più profondo - accadde, dopo un intervallo pressoché eguale, negli anni 1951-1952.
Sino alla metà del 1951 sia Stalin che Truman ebbero a che fare con un tipo di problemi strategici ben noto da circa mezzo secolo. Stalin, sfruttando il caos e la debolezza del mondo postbellico, tentò di oltrepassare i confini della estesa base territoriale acquisita durante la seconda guerra mondiale, sforzandosi di modificare a proprio vantaggio il rapporto delle forze in Eurasia.
In effetti per sei anni Stalin e Truman si scontrarono lungo le linee di tregua determinate dall'esito militare e diplomatico della seconda guerra mondiale: linee che sancirono rapporti di forza favorevoli (anche se di poco) al mondo non comunista. Ne derivò una serie di tacite regole a cui si conformarono gli avversari mentre proseguivano le ostilità. Quando la linea di tregua veniva superata con forme di aggressione diretta o indiretta, la parte colpita contrattaccava, se aveva interesse e forza per farlo, scegliendo qualsiasi mezzo disponibile all'interno delle due frontiere. Al contrattacco si poteva rispondere, ma esso non poteva fornire, a chi aveva aperto le ostilità, una giustificazione per allargare l'area del conflitto o dare avvio a una guerra di più vaste dimensioni.
Dall'accettazione nel 1946 da parte di Stalin dell'ultimatum di Truman sull'Irān settentrionale all'accettazione da parte di Truman della stabilizzazione sul 38° parallelo nel giugno 1951, le linee di tregua emerse fortuitamente in Eurasia nel 1945 vennero rispettate da entrambi i contendenti. Stalin, come è ovvio, le mise sistematicamente alla prova, praticamente lungo l'intero perimetro del suo impero. Gli Stati Uniti da parte loro le misero alla prova soltanto una volta, quando fu decisa, sconsideratamente, la marcia sullo Yalu. Ma, tirate le somme, il mantenimento di questa linea armistiziale e le implicite regole di azione osservate su entrambi i suoi versanti consentirono di evitare dopo la seconda guerra mondiale lo scoppio di conflitti generalizzati (anche se non si arrivò a una vera e propria pace).
Nel giugno 1951 Stalin aveva pressoché esaurito le possibilità di ottenere una vittoria immediata e risolutiva a Berlino e in Corea con i mezzi di tipo paramilitare impiegati in Grecia. Inoltre le nazioni di nuova formazione, estremamente deboli nell'immediato dopoguerra, cominciavano ora a muoversi su un terreno più sicuro, rendendo impossibile in Medio Oriente, in Africa e nel resto dell'Asia una efficace applicazione della tecnica maoista di presa del potere. A Pechino infine, Mao comprese che, avendo riportato la produzione ai livelli prebellici, era ora essenziale porre termine alle operazioni militari su grande scala, trasferire una quota maggiore delle energie e delle risorse cinesi alla crescita economica del paese e definire la strategia da adottare, in un paese ancora all'80% contadino, per realizzare il suo primo piano quinquennale.
Alla metà del 1951 il mondo appariva alquanto diverso anche all'Occidente. La decisione di combattere la guerra di Corea, seguita dall'inserimento di divisioni americane nella NATO, fece comprendere chiaramente che la presenza della potenza americana in Eurasia non aveva carattere transitorio. Messi alla prova, gli Stati Uniti non erano tornati all'isolazionismo postbellico che gli Europei temevano e su cui, in un primo tempo, Stalin aveva potuto nutrire quanto meno una ragionevole speranza. Eisenhower era tornato al comando di un quartier generale alleato per l'Europa e, all'altro estremo dell'Eurasia, si stava negoziando un trattato di pace con il Giappone (firmato l'8 settembre 1951), che trasformò l'occupazione in alleanza, e comportò, nel quadro di essa, un prolungato impegno militare americano.
Nel maggio 1947, in un incontro per l'Europa unita nella Albert Hall di Londra, Churchill aveva detto: ‟Che cos'è oggi l'Europa? È un ammasso di macerie, un ossario, un vivaio di epidemie e di odio". Quattro o cinque anni più tardi non era più possibile ripetere queste parole. A mano a mano che ci si addentrava negli anni cinquanta, in Europa la ricostruzione dava luogo alla prosperità. E nel corso del decennio divenne chiaro che l'Europa occidentale e il Giappone stavano entrando in quello stadio dello sviluppo caratterizzato dai beni di consumo durevoli e dai servizi, in cui gli Stati Uniti erano entrati negli anni venti, godendo nello stesso tempo di una fase di rapida e continua crescita economica, quale l'Europa occidentale non aveva più conosciuto dopo il 1914. Incerti, convinti solo parzialmente, gli uomini dell'Europa occidentale, che avevano vissuto alla giornata, negli ultimi anni quaranta cominciarono a guardare in avanti e a elaborare su più solide basi progetti per il futuro, per se stessi e per le loro società. La NATO acquistava forza ed efficienza militare; lo scetticismo con cui un Monnet e uno Schumann guardavano ad una Comunità europea del carbone e dell'acciaio cedette il passo a un'accettazione realistica della situazione esistente. L'Europa occidentale stava ritrovando forza sufficiente per affermare nuovamente la propria presenza, per reagire, per iniziare a definire i propri problemi, anche se per il momento non era in grado di risolverli. E un'evoluzione assai simile era in corso, a un ritmo appena più lento, in Giappone.
L'impegno americano in Eurasia si era prolungato nel periodo postbellico; Europa occidentale e Giappone avevano dimostrato una sorprendente capacità di ripresa; ma oltre a ciò fecero la comparsa due nuovi importanti fattori che già preannunciavano i problemi di fondo della nuova fase del confronto fra Est e Ovest: una nuova tecnologia militare imperniata sui missili e sulle armi termonucleari (la prima bomba H venne fatta esplodere nel 1953), e l'incremento dei cambiamenti rivoluzionari di stampo nazionalista, orientati a favorire i processi di modernizzazione, in Asia, in Medio Oriente, in Africa e nell'America Latina.
Questi nuovi fattori cominciavano a divenire centrali nella politica mondiale già prima che Truman lasciasse la presidenza e Stalin morisse. L'assistenza tecnica ed economica ai paesi in via di sviluppo ebbe inizio quando fu lanciato da Truman, nel suo Indirizzo inaugurale del 1949, il ‛Programma in quattro punti' e fu costituito il Gordon Gray Committee che, con il rapporto redatto nel 1950, gettò le basi della successiva politica in questo settore. Le grandi linee di una nuova politica comunista, mirante a sfruttare l'instabilità dei paesi in via di sviluppo, furono chiaramente delineate fin dall'ottobre 1952, al XIX Congresso del Partito Comunista Sovietico. Nel loro insieme costituirono una delle principali preoccupazioni di Truman lasciate in eredità ad Eisenhower nel dicembre dello stesso anno. Le questioni principali che la nuova amministrazione si trovò di fronte erano tutte - ad eccezione della Corea e del problema degli armamenti nucleari - localizzate nell'emisfero meridionale: Irān, Sud-Est asiatico, aiuti all'estero.
Ci volle tuttavia del tempo perché le armi termonucleari si imponessero e divenissero chiare le potenzialità dei missili. Ugualmente ci volle del tempo perché l'Unione Sovietica elaborasse una linea politica nettamente definita nei confronti di India, Pākistan, Birmania e Indonesia, benché questi paesi fossero usciti dall'era coloniale già nella seconda metà degli anni quaranta. Infine - e soprattutto - nel 1953 Mosca e Pechino entrarono in una fase dominata da preoccupazioni di ordine interno.
La morte di Stalin provocò nelle fila dei politici e della burocrazia sovietica una sorda lotta di potere e spinse a rivedere quelle scelte della politica staliniana che molti sentivano come superate o sbagliate. Dalle questioni militari all'agricoltura, dal ruolo della polizia segreta all'arte e al- l'architettura, all'interno dell'establishment sovietico si ebbe un periodo di dibattito e di trasformazioni. E nel 1956 Chruščëv con la sua denuncia dei metodi di governo di Stalin apriva un potenziale vaso di Pandora.
È in questo periodo che Mao, compiuta la ricostruzione e terminata la guerra di Corea, pone mano al primo piano quinquennale cinese.
Europa occidentale e Giappone si concentrarono anch'essi, in quel periodo, principalmente sui problemi interni, econornici e sociali. Dopo il fallimento del blocco di Berlino e del tentativo di conquistare la Corea del Sud, essi si trovarono per più di una generazione relativamente liberi di procedere verso uno sviluppo economico senza precedenti, basato sulla diffusione dell'automobile, dei beni di consumo durevoli e degli altri beni di consumo di massa.
Questa fase di relativa tranquillità fu simboleggiata dagli accordi sull'Indocina del 1954 e dal vertice ginevrino dell'estate 1955.
6. Il frazionamento del potere (1948-1956)
Mentre Truman e Stalin cercavano di allargare le rispettive sfere di influenza sui territori dell'Eurasia settentrionale, ch'erano stati i campi di battaglia della guerra mondiale, e quando i due giganti nucleari avevano iniziato, negli anni cinquanta, a scontrarsi sul futuro dei paesi in via di sviluppo, cominciò a manifestarsi un processo di erosione del bipolarismo che aveva caratterizzato l'immediato dopoguerra. Come per molti altri importanti fenomeni storici, esso ebbe numerose cause completamente indipendenti l'una dall'altra. Se però si volesse individuare una causa principale, questa potrebbe essere indicata nella forza ancora operante e anzi crescente dello spirito nazionalistico.
Cominciamo con il mondo comunista. Nel 1948 Tito ruppe con Stalin e, aiutato dall'Occidente, riuscì a conservare il potere. Dietro quella lotta c'era il tentativo di Stalin di porre sotto stretto controllo l'apparato politico e di sicurezza di Tito, nonché di strangolare l'economia iugoslava tagliando le forniture di coke cecoslovacco e di carbon fossile dalle quali dipendeva il programma di sviluppo postbellico di Belgrado. Tito resisté e, attraverso la Commissione economica per l'Europa delle Nazioni Unite, ottenne, senza essere costretto ad alcuna umiliazione, l'accesso alle riserve della Ruhr. Chiuse inoltre il confine con la Grecia contribuendo così alla sconfitta dell'insurrezione comunista in quel paese.
Nel 1953 ci fu in Germania una rivolta di breve durata. Nel 1956 W. Gomulka contrastò con successo le pressioni sovietiche miranti a impedire la costituzione a Varsavia di un regime comunista più aderente alle specificità nazionali, e tale risultato contribuì, a sua volta, a scatenare la rivolta ungherese. Dal confronto con queste manifestazioni di crescente nazionalismo in Europa orientale, Mosca usci vittoriosa. Dieci anni più tardi W. Ulbricht era ancora saldamente al potere, il nazionalismo polacco era stato contenuto entro limiti ristretti e a Budapest dominava un governo prono ai voleri di Mosca. Per riprendere i termini usati - prima degli accordi di Jalta - dal senatore A. Vandenberg, diventava ormai chiaro il prezzo che Mosca doveva pagare per ‟una cintura di Stati divisi o asserviti contro la loro volontà". L'impero staliniano dell'Europa orientale cessò di costituire una base sicura per la politica di pressione ad Ovest, divenendo una fonte di crescente preoccupazione per Mosca.
Intanto Mao vinceva la guerra civile in Cina (1949). Assumendo il potere, egli affermò ch'era sua intenzione ‟schierarsi da una parte". E così fece. In occasione del viaggio di Mao a Mosca nel gennaio 1950, questi e Stalin concordarono un vasto programma, che includeva anche la guerra in Corea. Furono allacciati importanti rapporti commerciali e assistenziali. Malgrado ciò, la Cina non divenne un satellite. Sino alla rivolta di Budapest, Mao appoggiò le forze nazionaliste e liberali presenti nell'Europa orientale, e mantenne - a dispetto dei desideri di Mosca - stretti rapporti con Belgrado. D'altro canto egli criticò la politica chruščëviana di destalinizzazione e scelse in generale la via di una politica interna più dura quando, nel 1957, il movimento dei Cento fiori rivelò la profondità del malcontento esistente in Cina contro il regime comunista.
Sin dall'inizio dunque Mosca trattò con una Cina il cui allineamento non poteva esser dato per scontato, e a cui non si poteva semplicemente impartire degli ordini. Mosca aveva molte carte da giocare, sia sul piano militare che economico, tuttavia le sue relazioni con i Cinesi dovevano essere negoziate.
Anche in Occidente la situazione andava facendosi più complessa, benché in modo diverso. Truman incoraggiò attivamente il movimento verso l'unità dell'Europa occidentale nel contesto del Piano Marshall. In ciò fu appoggiato esplicitamente dal Congresso americano, che nel 1948 ne approvò la relativa legislazione. Il presidente scartò le possibilità offerte da una politica basata sul divide et impera, accettando invece il rischio che un'Europa occidentale unita potesse - a lungo termine - entrare in rivalità con gli Stati Uniti. Perché si stabilisse una solidarietà tra le due sponde dell'Atlantico, egli faceva affidamento sulla sostanziale coincidenza di interessi e sui vincoli di una comunanza di storia e di cultura.
In America l'idea dell'unità europea aveva una lunga storia ed esercitava un grande fascino. Sin dalle prime fasi della loro storia nazionale, molti Americani avevano riflettuto sull'esistenza in Europa di Stati nazionali sovrani, in competizione tra loro, e sui pericolosi e incessanti conflitti di potere che ne seguivano, ed erano giunti a concluderne che il fondamento di una pace stabile in Europa poteva essere costruito solo imitando l'esempio americano di unità continentale. Più recentemente, era parso evidente agli Americani che il fallimento europeo nel tener testa a Hitler era in parte derivato proprio da una mancanza di unità. E c'era di più: ossia l'esperienza di unità de facto compiuta nelle fasi conclusive della guerra, quando lo SHAEF (Supreme Headquarters Allied Expeditionary Forces) era rapidamente riuscito, sotto la direzione americana, a fare dell'alleanza occidentale una realtà organizzativa.
Da parte europea, l'esperienza della seconda guerra mondiale (cioè l'esperienza di un'Europa le cui sconfitte dovettero esser riscattate dagli Americani ad Ovest e dai Russi ad Est) aveva convinto molta gente che il sistema degli Stati europei era sopravvissuto alla sua utilità. A guerra finita, gli Europei, a prescindere dalla minaccia immediata di una dominazione comunista, cominciarono a pensare che, se si voleva che l'Europa continentale mantenesse la statura e la dignità di una potenza anche soltanto di secondo piano (in un mondo che appariva egemonizzato da Mosca e da Washington), occorreva muoversi nella direzione dell'unità europea. In modo ancor più preciso ci furono alcuni francesi e alcuni tedeschi che compresero come l'unità europea fosse l'unica via per porre termine alla deleteria ostilità dei loro paesi. Su entrambe le sponde dell'Atlantico, dunque, l'idea dell'unità europea esercitava un grande fascino, malgrado sollevasse, soprattutto in Inghilterra, anche gravi problemi e perplessità (v.europeismo).
Nel primo periodo della NATO e dell'attuazione del Piano Marshall, gli Stati Uniti costituirono ovviamente una presenza egemone negli sforzi congiunti del mondo atlantico. Ma già nel maggio 1950 veniva lanciato il Piano Schumann, una grande iniziativa di cui i paesi europei erano i protagonisti, e la rapida crescita economica dell'Europa occidentale nel corso degli anni cinquanta gettò le basi per un rapporto più equilibrato, considerando i tempi lunghi, all'interno dello schieramento atlantico. Rafforzando l'Europa occidentale, accettando che il potere si articolasse all'interno del mondo atlantico e contribuendo a creare istituzioni che, lungi dal comprimere il fenomeno, lo organizzassero costruttivamente, Truman stabilì un importante precedente nella politica americana.
Il colonialismo, intanto, andava in pezzi; nuove mentalità e nuove ambizioni andavano affermandosi nelle nazioni indipendenti dei continenti meridionali (America Latina compresa). Erano comparsi sulla scena nuove nazioni e nuovi uomini, con cui gli Stati Uniti, da un lato, e Mosca e Pechino, dall'altro, dovevano fare i conti: Nehru, Sukarno, Nasser e inoltre tutta una generazione di nuovi leaders nazionalisti latinoamericani sostenuti da forze urbane sempre crescenti, i quali non erano più disposti a tollerare il vecchio sistema basato sulle esportazioni di derrate alimentari e di materie prime verso le nazioni industrializzate del Nord atlantico. Inoltre appariva ormai chiaro che stava sorgendo un'Africa nuova, formata da Stati indipendenti. Ragioni geografiche, politiche e storiche: tutto richiedeva che il rapporto con i nuovi paesi in via di sviluppo fosse impostato non nelle forme della semplice subordinazione rispetto a Mosca o a Washington, bensì nascesse attraverso la trattativa e la ricerca di interessi convergenti (v. colonialismo).
Washington e quindi Mosca - con pronta emulazione - lanciarono programmi di assistenza economica. Mosca individuò inoltre due altre leve potenziali. In primo luogo c'erano le umiliazioni, reali o presunte, derivanti dal passato, con le eredità spesso capricciose del colonialismo. Ad esempio, all'interno del mondo arabo c'era Israele; in Indonesia, la Nuova Guinea occidentale, possedimento olandese; nel subcontinente indiano, il Kashmīr. Prendendo partito nelle varie controversie, era possibile per i Sovietici trarne vantaggi politici. Una seconda leva consisteva nella possibilità di sollecitare l'istintivo neutralismo delle nuove nazioni allo scopo di costruire un compatto blocco antioccidentale. Su questo punto Pechino comprese di trovarsi in una posizione particolarmente vantaggiosa, giacché l'Unione Sovietica era, non diversamente dall'Europa occidentale e dagli Stati Uniti, una nazione tecnologicamente avanzata, e non poteva quindi far parte della cerchia dei paesi poveri che aspiravano allo sviluppo. E nella primavera del 1955, a Bandung, la Cina agì con notevole abilità per ottenere la leadership delle nazioni di nuova formazione: atteggiamento questo ripreso nuovamente a New York nel 1971. Anche Belgrado vide nel neutralismo uno spazio in cui avrebbe potuto rafforzare la propria posizione nei confronti di Mosca senza essere costretta ad un rigido allineamento con Washington e l'Occidente.
L'amministrazione Eisenhower, nel corso del suo primo mandato, rimase relativamente passiva nei confronti di queste nuove forze comparse sulla scena mondiale. Essa concentrò i propri sforzi sulla costruzione di un sistema di accordi di sicurezza lungo le frontiere dell'Unione Sovietica e della Cina comunista, al fine di impedire un'altra guerra sul tipo di quella coreana, da poco terminata. Fu solo dopo lo Sputnik e negli anni sessanta che cominciò ad essere elaborata da parte americana una politica più sistematica e attiva nei confronti dei paesi in via di sviluppo.
Mentre queste diverse forze economiche, politiche e organizzative agivano nel senso di frazionare e distribuire un potere che nell'immediato dopoguerra si era concentrato nelle mani di Washington e di Mosca, lo sviluppo tecnologico - ossia la nascita delle armi termonucleari e dei missili a lunga gittata - operava nella direzione opposta. In questo settore il potere di dare inizio ad un'ecatombe di massa si concentrava nelle mani degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica in modo sproporzionato rispetto agli altri paesi. Tuttavia, per quanto reale, questo potere presentava non poche ambiguità se considerato nel suo concreto significato e nella possibilità di utilizzarlo. Esso poteva certamente essere impiegato per scoraggiarne l'uso effettivo da parte altrui. Ma, al di là della sua funzione di dissuasione reciproca non era molto chiaro come esso potesse essere utilizzato a sostegno degli interessi di coloro che ne disponevano.
Il lancio del primo Sputnik (4 ottobre 1957) apri un periodo in cui i Sovietici tentarono appunto di misurarsi con questo problema.
7. L'offensiva di Chruščëv (1957-1962)
Nel giugno 1957 Chruščëv s'impose ai suoi rivali nella lotta per il potere seguita alla morte di Stalin, accedendo alle massime cariche sia nel governo che nel Partito Comunista Sovietico. Il suo potere non era, certamente, tanto assoluto quanto quello di Stalin; ma l'Unione Sovietica aveva di nuovo un unico capo.
Consolidato il proprio potere all'interno, Chruščëv lanciò un'offensiva che avrebbe dominato la scena mondiale per cinque anni. Essa poggiava sui due nuovi fattori emersi all'inizio degli anni cinquanta: la nuova tecnologia militare, costituita dalle armi termonucleari e dai missili, e la possibilità per i Sovietici di sfruttare l'instabilità che caratterizzava nel loro insieme i paesi in via di sviluppo.
Il nesso tra la capacità tecnica sovietica, simboleggiata dal lancio del primo Sputnik, e le possibilità aperte al comunismo dall'epoca postcoloniale divenne pienamente esplicito nella riunione dei dirigenti dei dodici partiti comunisti che avevano conquistato il potere nei propri Stati, tenutasi nel novembre 1957 a Mosca. L'argomentazione più efficace fu quella svolta da Mao.
In un discorso pronunciato all'Università di Mosca il 17 novembre, Mao affermò infatti: ‟Il campo socialista deve avere una guida, e questa guida è l'URSS [...]. I partiti comunisti ed operai di tutti i paesi debbono avere una guida, e questa guida è il PCUS". A sostegno di questa insolita manifestazione di ossequio a Mosca, c'era da parte di Mao la seguente valutazione dei rapporti di forza a livello mondiale: ‟Io ritengo che la situazione internazionale sia giunta a una nuova svolta. Nel mondo odierno soffiano due venti, il vento dell'Est e il vento dell'Ovest. C'è un vecchio proverbio cinese che dice: ‛O il vento dell'Est prevale sul vento dell'Ovest, o il vento dell'Ovest prevale sul vento dell'Est'. E io credo che elemento caratteristico della situazione odierna sia il fatto che il vento dell'Est sta prevalendo sul vento dell'Ovest. Oggi, cioè, le forze del socialismo sono enormemente superiori alle forze dell'imperialismo".
Dietro questa valutazione stava, a sua volta, una certa visione dello sviluppo degli avvenimenti storici successivi alla seconda guerra mondiale. Parlando ai suoi colleghi il 18 novembre, Mao elencò dieci grandi avvenimenti postbellici, tra i quali erano inclusi i seguenti: trionfo dell'Unione Sovietica nel 1945; vittoria dei comunisti cinesi su Chiang Kai-shek; ruolo svolto dai comunisti cinesi nella guerra di Corea; vittoria di Ho Chi-minh sui Francesi; ruolo svolto dalle minacce nucleari di Mosca nella lotta vittoriosa dell'Egitto per il canale di Suez; e, infine, ritiro delle potenze europee dalle loro colonie. Mao così concludeva: ‟La superiorità delle forze antimperialistiche rispetto a quelle imperialistiche dimostrata da questi avvenimenti si è espressa nel modo più significativo, raggiungendo vertici senza precedenti, con il lancio da parte dell'Unione Sovietica dei satelliti artificiali [...]. Ecco perché noi diciamo che ciò rappresenta una nuova svolta nella situazione internazionale...".
Sulla base di questa diagnosi della ‟nuova svolta" del processo storico, Mao sostenne che i tempi erano maturi perché un movimento comunista unificato sfruttasse con forza e sicurezza le occasioni storiche che gli si offrivano in Asia, in Africa e nel Medio Oriente. È chiaro che l'acquisizione da parte del campo comunista di una potenza nucleare e del relativo prestigio, simboleggiati dal nascente arsenale sovietico di missili balistici intercontinentali e dagli Sputnik, era nella diagnosi di Mao un fattore cruciale. Ed egli voleva che questi nuovi mezzi venissero utilizzati nell'azione da svolgere nei confronti dei paesi in via di sviluppo, quelli dell'Asia in particolare.
Come vedremo (v. sotto, cap. 8), sia la questione nucleare che quella della strategia da adottare nei paesi in via di sviluppo avrebbero, di lì a poco, spezzato l'alleanza tra Mosca e Pechino, trasformandola prima in scisma e poi in conflitto. Ma i dirigenti comunisti condivisero ampiamente la diagnosi di Mao secondo cui era giunta l'ora di passare all'offensiva. E in effetti gli anni successivi al lancio del primo Sputnik costituirono un periodo di fiduciosa sperimentazione di avventure espansionistiche.
Per Chruščëv il grande obiettivo era Berlino, dove - come annunciò il 10 novembre 1958 - avrebbe messo l'Occidente con le spalle al muro. Secondo il suo punto di vista la pressione nucleare che i suoi missili balistici a media gittata potevano esercitare sulle cancellerie dell'Europa occidentale, le divergenze tra gli Alleati sulla questione di Berlino, l'immagine - che egli accortamente alimentava - della potenza sovietica nel campo dei missili balistici intercontinentali, il forte desiderio di distensione dell'Occidente in un'era nucleare: tutto ciò gli avrebbe consentito di ‟estrarre questa scheggia dal cuore dell'Europa" e, al tempo stesso, di indebolire considerevolmente la NATO.
La sua pressione su Eisenhower fu, su questo punto, molto forte. Manovrò per realizzare la propria visita negli Stati Uniti (1959) e l'incontro al vertice del maggio 1960. Poi venne l'incidente dell' U-2 e il vertice di Parigi fu annullato. All'inizio del mandato di Kennedy, Chruščëv riaffermò il suo disegno di liquidare a Berlino il ruolo degli Stati occidentali come potenze occupanti, concludendo un trattato di pace separato con la Germania Orientale. A Vienna, nel giugno 1961, mise Kennedy di fronte a un implicito ultimatum. Restando Kennedy sulle proprie posizioni, l'acuirsi della crisi provocò un grosso movimento di profughi dalla Germania Orientale verso Occidente. Era in giuoco, in ultima analisi, la sopravvivenza della Germania Onentale e con essa quella dell'intero impero satellite costruito da Stalin nell'Europa orientale. Chruščëv dovette alla fine accontentarsi del muro di Berlino. Ma non si arrese, e si volse ai Caraibi per acquisire un nuovo strumento di pressione da usare per Berlino.
Nei Caraibi la dinamica della vita politica cubana aveva portato al potere Fidel Castro nel gennaio 1959. Malgrado fosse affiancato da luogotenenti comunisti, egli non era un semplice fantoccio di Mosca. La conquista del potere e le forme da esso assunte erano anzi fortemente segnate dalla sua personalità. Il Partito Comunista Cubano - ortodosso e di ridotte dimensioni - non aveva appoggiato Castro; ma si schierò con lui quando, nel 1958, le sue prospettive di vittoria sembrarono aumentate. E Castro accettò l'appoggio comunista, invece di appoggiarsi soltanto al Movimento 26 luglio, un'organizzazione a larga base popolare, ch'egli stesso aveva creato, e il cui programma consisteva nella sostituzione della dittatura di Batista con uno Stato democratico.
Nel biennio 1959-1960 il regime di Castro andò evolvendosi verso una struttura politica comunista sostanzialmente ortodossa, e la sua politica estera si fondò in misura crescente su vincoli di dipendenza economica e militare da Mosca. Questa tendenza si accentuò ulteriormente dopo il fallimento del tentativo di rovesciare Castro compiuto dai profughi cubani anticastristi (addestrati e armati dagli Stati Uniti) con l'operazione della ‛baia dei Porci'. E fu appunto a Cuba che Chruščëv guardò, nella primavera del 1962, per tentare di spostare a proprio favore l'equilibrio militare, raddrizzando così le sue pericolanti fortune, con l'installazione nell'isola, entro la portata dello schermo radar americano, di una grossa batteria di missili balistici a media gittata, puntati verso gli Stati Uniti. Chruščëv pensava, in sostanza, che questi missili gli avrebbero permesso, dopo le elezioni legislative americane del 1962, di negoziare con Washington da una posizione di forza.
Prima di parlare della crisi dei missili e delle sue conseguenze, è però necessario ricordare gli altri maggiori avvenimenti accaduti dopo il lancio del primo Sputnik. Essi avevano infatti determinato i problemi all'ordine del giorno sulla scena internazionale all'inizio degli anni sessanta: e, possiamo aggiungere, anche quelli degli anni successivi.
Nel 1958 si svilupparono, in rapida successione, due grosse crisi. La prima si verificò in Medio Oriente, dove, in seguito all'accordo per la fornitura di armi sovietiche all'Egitto, la situazione era divenuta molto tesa (1955).
Il 14 luglio 1958 entrarono in crisi contemporaneamente l'Unione Araba tra Giordania e ‛Irāq, di recente formazione, e il Patto di Baghdad. Il monarca hashimita dell'‛Irāq fu rovesciato e assassinato, e la stessa sorte subirono il principe ereditario Abd ul-Ilāh e il primo ministro Nūrī as-Sa′īd. La rivoluzione era guidata da giovani ufficiali dell'esercito, di sentimenti nasseriani e antioccidentali; tuttavia non si aveva la certezza che tale impresa fosse ispirata dal Cairo (per non parlare di Mosca). Le profonde inquietudini della Giordania e del Libano condussero Husain e Sham‛ū'n a chiedere, nel quadro della Risoluzione sul Medio Oriente del 1957, l'intervento armato dell'Inghilterra e degli Stati Uniti a protezione della loro indipendenza. Reparti di marines americani, che si trovavano già nella zona, cominciarono a sbarcare sulle spiagge libanesi, senza incontrare alcuna opposizione, l'indomani stesso del colpo di stato in ‛Irāq. Il 17 luglio reparti di paracadutisti inglesi entrarono in Giordania, dove era appena fallito un complotto contro Husain.
La decisione di Eisenhower di intervenire già il 15 luglio, prima che il significato del colpo di Stato iracheno potesse essere pienamente valutato, si fondava più sull'istintiva sensazione che il Medio Oriente stesse sfuggendo di mano che non su prove precise che si fosse verificata - o che stesse per verificarsi - un'aggressione armata da parte di una nazione controllata dal comunismo internazionale.
L'operazione alleata comportò per alcuni anni la stabilizzazione della situazione in Medio Oriente. Nulla fu fatto contro il nuovo governo iracheno, come avevano temuto Mosca e Pechino. Né d'altronde l'influenza americana fu utilizzata per mantenere Sham‛ū'n al potere, come quest'ultimo aveva forse sperato. E tuttavia l'azione anglo-americana rafforzò la fiducia della Giordania, del Libano e dell'Arabia Saudita nella loro capacità di contenere la spinta dei nazionalisti radicali, appoggiati da Mosca e dal Cairo. L'intervento militare dimostrò che, messi di fronte al ricatto nucleare, gli Stati Uniti erano pronti ad azioni di forza per difendere i propri interessi. E tale dimostrazione accrebbe anche il grado di indipendenza dei nazionalisti arabi radicali, i quali compresero che potevano far valere i propri diritti anche di fronte a Mosca.
Prima che si risolvesse la crisi in Libano e Giordania, e prima dell'apertura formale della crisi nello stretto di Formosa, Chruščëv era giunto a Pechino per una visita di tre giorni (31 luglio 1958). Nel corso del mese di luglio una serie di indizi - pubblicazioni, movimenti di truppe e pubbliche adunate cinocomuniste - avevano fatto presagire una mossa nello stretto di Formosa. Senza dubbio Chruščëv e Mao discussero sia la situazione del Medio Oriente che l'imminente iniziativa contro le isole Quemoy e Matsu, nonché le questioni di portata più generale che in quel momento erano sul tappeto. Probabilmente Mao sperava di dimostrare a Chruščëv che nello stretto di Formosa, dove egli aveva l'iniziativa, era possibile conseguire maggiori risultati nei confronti degli Stati Uniti se si accettava di correre i rischi relativi (e probabilmente Mao sostenne anche che il rischio non era grande).
La crisi fu aperta il 23 agosto con il bombardamento delle isole al largo della costa cinese. Essa raggiunse un primo momento cruciale sul piano diplomatico il 4 settembre, quando J.F. Dulles dichiarò che, in caso di attacco contro Quemoy, gli Stati Uniti avrebbero potuto attaccare la terraferma. Due giorni dopo Chou En-lai offriva di riaprire le conversazioni con gli Stati Uniti a livello di ambasciatori. Sul piano tattico la crisi conobbe una svolta nella terza e quarta settimana di settembre, quando i tentativi degli Stati Uniti e della Cina nazionalista per rifornire le isole ottennero il loro scopo, mentre la giornata più drammatica fu quella del 24 settembre, quando aerei nazionalisti, equipaggiati con missili aria-aria Sidewinder, abbatterono dieci Mig cinocomunisti. Il 6 ottobre Pechino decideva di chiudere l'avventura.
L'appoggio dato da Mosca a Pechino durante la crisi fu minimo, timido e tardivo. Il fatto è che Eisenhower nell'affrontare il tentativo operato da Mao, si dimostrò più temibile di quanto questi avesse calcolato. Mao non disponeva delle risorse necessarie per procedere con sicurezza; e Mosca, da parte sua, non era disposta a impegnare in questa avventura la propria potenza militare, né a utilizzare tutto il suo peso diplomatico.
Mentre le vicende di Berlino, del Medio Oriente e dello stretto di Formosa riempivano le prime pagine dei giornali, e mentre Castro stava per prendere il potere a Cuba, Hanoi stava avviando, senza clamore, azioni destinate a proiettare sulla scena mondiale ombre ancora più pesanti. Sfruttando contrasti esistenti tra Mosca e Pechino, Hanoi ottenne nel novembre 1957, dopo quattro anni di relativa pace nella regione, gli appoggi necessari per riaccendere la guerra nel Laos e nel Vietnam del Sud.
Al rientro dalla conferenza di Mosca, Le Duan, parlando a un gruppo di esponenti nordvietnamiti (7 dicembre), affermò: ‟I documenti di Mosca non si sono limitati a confermare la linea e creare le condizioni favorevoli perché il Vietnam del Nord avanzi verso il socialismo, ma hanno anche indicato la via della lotta per la liberazione nazionale e creato condizioni per il movimento rivoluzionario nel Vietnam del Sud".
Dalla metà del 1958 nel Vietnam del Sud cominciò a crescere la violenza che assunse sia la forma di attacchi armati, sia, soprattutto, quella dell'assassinio e del sequestro sistematico degli esponenti governativi sudvietnamiti. Fu probabilmente in questo periodo che si accelerò l'infiltrazione dal Nord al Sud di quei quadri politici e militari, anche sudvietnamiti, che si erano trasferiti al Nord dopo il 1954 ed erano stati addestrati appositamente per questa missione.
Dopo la riunione del maggio 1959, il Comitato centrale del Partito Comunista del Lavoro (Dang Lao Dong) stilò un documento in cui dichiarava: ‟È giunta l'ora di lottare eroicamente e di colpire con tenacia" il governo del Vietnam del Sud; e poco dopo Giap affermava: ‟il Nord è divenuto la grande retrovia del nostro esercito. Il Nord è la base rivoluzionaria per l'intero paese". ‟È certo che dalla seconda metà del 1959 era in corso una campagna, diretta da Hanoi, che deliberatamente mirava alla conquista del Vietnam del Sud; e la conseguente decisione di Hanoi di impadronirsi del corridoio laotiano, che immette nel Vietnam del Sud, può essere fatta risalire con sicurezza alla riunione del maggio 1959, anche se la presenza in esso di forze nordvietnamite era stata rivelata già alla fine del 1958 e agli inizi del 1959.
Nel corso del 1960 gli attacchi armati dei Vietcong si intensificarono rapidamente, e diedero luogo perfino a operazioni effettuate da reparti delle dimensioni di un battaglione regolare contro capoluoghi provinciali.
Nel settembre 1960 il terzo congresso del Dang Lao Dong definì la conquista del Vietnam del Sud come un ‟processo in due fasi: la prima consistente nella liquidazione degli imperialisti statunitensi e della cricca di Ngo Dinh Diem [...], la seconda nella costituzione di un governo di coalizione democratico e nazionale [...] che avrebbe negoziato con il Nord i termini della riunificazione". Conformemente alla tradizione del Viet-minh (e di altre analoghe iniziative comuniste), doveva trattarsi di una coalizione di fronte popolare.
Il 20 dicembre 1960 fu annunciata la formazione del Fronte di Liberazione Nazionale, imperniato su di un gruppo di personalità che avevano lavorato insieme - e con i comunisti - sin dal 1954 in un Comitato per la pace che aveva sede a Saigon.
Con l'eccezione del Congo, dove Mosca tentò di sfruttare la situazione di disordine connessa al passaggio da una condizione coloniale ad una di indipendenza, l'elenco delle crisi più gravi in campo internazionale affrontate da Kennedy - Berlino, Cuba, Laos, Vietnam - mostra che tutte queste crisi erano il prodotto delle iniziative comuniste del periodo successivo al lancio del primo Sputnik.
Kennedy arginò l'offensiva comunista in ognuna di questa aree e, contemporaneamente, ampliò l'apparato militare americano accrescendo, al tempo stesso, il volume produttivo globale dell'economia statunitense senza ricorrere a provvedimenti inflazionistici. Nell'estate del 1962 Berlino Ovest era tranquilla e relativamente sicura; Cuba era ormai, grazie all'azione dell'Alleanza per il progresso, isolata nell'emisfero occidentale; era stato raggiunto un accordo sulla neutralizzazione del Laos; e si registrava una tendenza, pur se limitata e incerta, verso una stabilizzazione nel Vietnam del Sud.
Tutto ciò ebbe i suoi effetti sulla posizione di Chruščëv a Mosca. Nella primavera del 1962 erano ormai tramontate le sue speranze e fallite le sue iniziative degli anni successivi al lancio del primo Sputnik: s'era vistosamente impegnato per Berlino, ma non era stato capace di modificare la posizione occidentale; non era riuscito a consolidare l'influenza sovietica nel Congo; Castro era isolato e neutralizzato dall'OSA e l'Alleanza per il progresso riduceva per un lungo periodo le prospettive di un'espansione comunista nell'America Latina; anche quelle nel Sud-Est asiatico, infine, risultavano molto ridotte dopo gli accordi di Ginevra sul Laos (luglio 1962) e gli impegni assunti da Kennedy nel Vietnam a seguito della missione Taylor.
Quanto alle armi strategiche, l'immagine del gap missilistico era stata rovesciata e la crisi di Berlino aveva provocato un considerevole ampliamento degli arsenali americani. Ciò, a sua volta, accrebbe le pressioni su Chruščëv perché aumentasse le spese militari sovietiche: egli fu costretto a seguire questa via, a scapito dello sviluppo economico. Ma anche a prescindere dall'aumento delle spese militari, l'economia sovietica stava attraversando una fase di ristagno (con gravi difficoltà nel settore agricolo), proprio mentre lo sviluppo americano si andava accelerando. A tutti questi elementi bisogna aggiungere che l'incontro di Mosca alla fine del 1960 non era riuscito né a unificare il movimento comunista né a isolare Pechino.
Tutto ciò si tradusse in pesanti attacchi politici alla posizione di Chruščëv quale leader dell'Unione Sovietica. Questi attacchi divennero evidenti al XXII Congresso del Partito, che si aprì il 17 ottobre 1961, e che limitò i poteri di Chruscèv. Inoltre il cattivo andamento dei raccolti provocò nella primavera del 1962 restrizioni ai consumi privati e un aumento del prezzo della carne e del burro del 20-30%.
Chruščëv inoltre, sul piano ideologico, veniva implacabilmente attaccato da Pechino (e dall'Albania) perché agisse in modo più deciso contro ‛gli imperialisti', e Ulbricht non era stato pienamente soddisfatto dal ‛muro'.
Nella primavera del 1962, Chruščëv era perciò alla ricerca di un rapido successo che gli permettesse di conseguire diversi obiettivi: rilanciare il suo prestigio politico e il suo potere in URSS; accrescere la sua autorità nel movimento comunista internazionale riducendo le pressioni che gli venivano sia da Ulbricht che dai Cinesi; raddrizzare l'equilibrio militare con un modesto impiego di risorse consentendo, con ciò, di incrementare quelle destinate agli investimenti civili e al consumo; e, infine, avere in mano un nuovo strumento per la soluzione del problema di Berlino, che ricercava invano ormai dal 1958.
In questa situazione egli giocò d'azzardo installando i missili a Cuba, e perse. Con ciò ebbe termine l'offensiva chruščëviana degli anni successivi al primo Sputnik.
Parallelamente all'iniziativa chruščëviana, Mao esercitò una forte pressione sulla frontiera indiana, ma ottenne l'unico effetto di accrescere i timori e le ostilità dell'India, irrigidendone la posizione.
Oltre che indebolire irrimediabilmente la posizione politica di Chruščëv, la crisi dei missili ebbe anche alcune importanti conseguenze immediate, che tratteremo più a fondo nei due successivi capitoli: essa cioè, da un lato, mise in piena evidenza la rottura tra Cina e Unione Sovietica e, dall'altro, spinse Mosca e Washington al Trattato sulla limitazione degli esperimenti nucleari, inaugurando con ciò un decennio di negoziati ininterrotti sulla questione degli armamenti nucleari (v. armamenti).
8. La rottura tra Cina e Unione Sovietica
Numerosi elementi sembrano confortare l'ipotesi che il dissidio tra Mosca e Pechino sul modo di sfruttare le opportunità che si presentarono dopo il lancio del primo Sputnik sia cominciato alla Conferenza di Mosca del novembre-dicembre 1957, in un momento cioè di apparente compattezza e unità. I temi chiave erano: il grado di rischio al quale era opportuno arrivare fomentando ‛guerre di liberazione nazionale' e l'atteggiamento da adottare di fronte all'ipotesi di una guerra nucleare con gli Stati Uniti. Su ambedue i punti Chruščëv assunse una posizione nettamente più prudente di quella di Mao.
Ma il problema cruciale che emerse agli inizi del 1958 fu quello del ruolo nucleare della Cina. Dall'ottobre 1957 al gennaio 1958, l'esercito cinese attendeva in maniera esplicita che venisse messa rapidamente a sua disposizione la moderna tecnologia militare sovietica. In gennaio fu trasmesso alle forze armate un nuovo programma per l'addestramento delle reclute, nel quale si affermava che l'esercito comunista cinese avrebbe dovuto assimilare una scienza militare moderna e le relative tecniche (comprese le bombe atomiche, le armi chimiche e i missili guidati), sulla base delle ‟avanzate esperienze sovietiche". Invece in aprile si era già verificato un rovesciamento completo delle parole d'ordine: ‟Affidarsi a paesi stranieri è cosa spregevole [...], non sono le armi che contano [...]. Il servile affidarsi all'Unione Sovietica [...] ha avuto effetti dannosissimi sul processo di modernizzazione delle forze cinesi...".
Fu probabilmente in questo periodo, tra il gennaio e l'aprile 1958, che Mosca chiarì come il suo aiuto nucleare fosse soggetto a condizioni, avanzando quelle che i Cinesi chiamarono ‟richieste irragionevoli". Esse infatti avrebbero limitato la libertà d'azione politica e militare dei Cinesi e, probabilmente, comportato il controllo sovietico sulle armi nucleari installate in territorio cinese.
Pechino respinse le condizioni di Mosca e iniziò a fabbricare armi nucleari sotto il proprio esclusivo controllo.
Gli inizi di una seria crisi delle relazioni cino-sovietiche in materia nucleare possono dunque esser fatti risalire ai primi mesi del 1958. Da questo punto di vista il ‛grande balzo in avanti', annunciato nel maggio dello stesso anno, può esser considerato come la risposta di Mao di fronte alla prospettiva che la Cina ayrebbe dovuto costruirsi da sola le proprie armi nucleari. Mao deve aver ritenuto che uno sviluppo economico accelerato, fondato essenzialmente sull'impiego intensivo del lavoro, avrebbe realizzato più rapidamente delle strategie economiche di tipo convenzionale la base industriale necessaria alla costruzione di un armamento moderno, anche se il tentativo di Mao di accelerare l'espansione dell'economia cinese aveva indubbiamente altri - ed altrettanto importanti - motivi.
Tra il maggio e il luglio 1958 si svolse in Cina una conferenza dei vertici militari e politici, allo scopo di valutare le implicazioni della nuova situazione. Fu probabilmente quello il momento in cui Mao decise di lanciare un programma di produzione accelerata di armi nucleari e progettò l'operazione militare nello stretto di Formosa.
Sappiamo che questa politica di indipendenza militare incontrò qualche opposizione nelle forze armate, opposizione che si accentrò attorno al ministro della difesa P'eng Te-huai. Egli deve aver chiesto a Pechino di accettare le condizioni poste dai Sovietici per gli aiuti nucleari, al fine di evitare che la Cina si trovasse per qualche tempo sprovvista sia dell'appoggio sovietico sia di un proprio arsenale nucleare. Mosca, al corrente della disputa in corso all'interno del gruppo dirigente cinese, cercò certamente di influenzarne l'esito. La questione nucleare continuò a essere discussa tra Mosca e Pechino sino alla revoca definitiva dell'accordo dell'ottobre 1957, avvenuta il 20 giugno 1959. La rottura avvenne soltanto una settimana dopo il rientro in patria, da una lunga visita in Unione Sovietica e nell'Europa orientale, di una missione militare cinese capeggiata da P'eng Te-huai, che fu destituito dalla sua carica alla fine del settembre 1959.
In conclusione, le esperienze successive al vertice moscovita del novembre 1957, che facevano seguito a trent'anni di relazioni non sempre tranquille con Mosca, convinsero i comunisti cinesi che l'affinità ideologica non bastava. Malgrado gli Sputnik, la Cina non poteva contare sulla Russia per portare avanti i propri interessi né di breve né di lungo periodo. Inoltre la Cina, con tutta la grandezza della sua lunga storia, con tutte le sofferenze che aveva sopportato, non era certo disposta ad accettare la sua attuale condizione di povertà come una ragione sufficiente per rassegnarsi a quello che le appariva, nell'epoca nucleare, un ruolo di terz'ordine. In ultima analisi la posizione di Pechino sulla questione delle armi nucleari fu, nella sostanza, un'affermazione di orgoglio nazionale piuttosto che di fede ideologica. In termini mutuati da un'antica favola cinese, essa suonava così: ‟Non è corretto misurare la statura dei grandi uomini con il metro dei piccoli".
Retrospettivamente, appare chiaro che l'atteggiamento sovietico verso l'ipotesi di una potenza nucleare cinese, culminato nella decisione di ritirare i tecnici preposti all'assistenza nucleare (giugno 1959), costituì il motivo centrale del conflitto. Esso incise profondamente su tutte le altre cause della rottura e fu probabilmente l'elemento determinante.
Ma fu solo dopo l'esito disastroso della crisi dei missili a Cuba che il mondo apprese quanto profonda e irrimediabile fosse divenuta la rottura. I Cinesi attaccarono il comportamento di Chruščëv nei Caraibi come ‟avventurista" e ‟capitolazionista". Ciascuna delle due parti cominciò quindi a rendere di pubblico dominio i documenti del passato. I partiti comunisti di tutto il mondo furono costretti a prendere posizione e alcuni, a causa del conflitto, arrivarono alla scissione.
Uno degli avvenimenti che contrassegnarono questa fase del conflitto cino-sovietico - e anzi lo intensificarono - fu la firma, avvenuta a Mosca nel luglio 1963, del Trattato sulla limitazione degli esperimenti nucleari.
9. Gli inizi della distensione (1962-1968)
Il 30 ottobre 1962, cioè due giorni dopo la conclusione della crisi dei missili, cominciarono le conversazioni tra esponenti statunitensi e sovietici per passare da una situazione di tensione e di confronto nucleare a un trattato sulla messa al bando degli esperimenti. Nel corso dell'anno successivo non solo si mise a punto il trattato, ma si giunse a un accordo per l'istituzione di una linea telefonica diretta tra Casa Bianca e Cremimo. Inoltre i due avversari appoggiarono congiuntamente una risoluzione delle Nazioni Unite contro la messa in orbita nello spazio di ordigni di distruzione di massa.
Quando assunse la presidenza, L. B. Johnson dette immediata priorità alla prosecuzione del processo di normalizzazione delle relazioni tra Unione Sovietica e Stati Uniti; e, malgrado le ricorrenti tensioni nel Medio Oriente e nel Sud-Est asiatico, progressi costanti si registrarono nei negoziati riguardanti i seguenti settori: a) trattato sulla non proliferazione; b) negoziati sulle armi strategiche; c) riduzione parallela della produzione di materiali fissili; d) trattato sul rientro degli astronauti; e) trattato sullo spazio extra-atmosferico; f) demilitarizzazione dei fondi marini; g) accordo sull'aviazione civile; h) convenzione consolare; i) rinnovo dell'accordo biennale sugli scambi culturali; l) rinnovo dell'accordo sugli scambi nel campo dell'energia atomica; m) discussioni sul diritto marittimo; n) accordo sulla collaborazione in materia di dissalazione delle acque marine; o) accordo per discutere gli impieghi pacifici dell'energia atomica; p) miglioramento negli scambi di informazioni meteorologiche.
Naturalmente il centro del problema consisteva nel negoziato per il trattato sulla non proliferazione nucleare (NPT) e nella preparazione dei colloqui sulla limitazione delle armi strategiche (SALT).
I negoziati NPT e SALT, anche se indipendenti tra loro a livello tecnico-diplomatico, erano strettamente collegati, oltre che per i contenuti, anche nei tempi. Essi cominciarono rispettivamente nel dicembre 1966 e nel gennaio 1967, e proseguirono finché, il 1° luglio 1968, non fu firmato il Trattato sulla non proliferazione, e, simultaneamente, fu annunciato l'accordo sullo svolgimento dei colloqui SALT. L'invasione sovietica della Cecoslovacchia e l'insediamento negli Stati Uniti di una nuova amministrazione ne comportarono il rinvio dai primi dell'ottobre 1968 al 17 novembre 1969.
Dietro questi lunghi negoziati stava, se non altro, la soluzione provvisoria di un'importante serie di questioni in sospeso tra Washington e Mosca: del resto esse interessavano, almeno per quanto riguarda l'NPT, anche molte altre capitali.
L'NPT fu, tutto sommato, uno strumento di tipo essenzialmente diverso dal trattato sul bando degli esperimenti, o dal tipo di accordo che costituiva l'obiettivo dei colloqui SALT. Quest'ultimo comportava infatti, tanto per l'Unione Sovietica che per gli Stati Uniti, alcune autolimitazioni; così come la convenzione consolare, la convenzione sugli scambi culturali e l'accordo sull'aviazione civile richiedevano una serie di azioni concrete da parte delle due grandi potenze. L'NPT, invece, non comportava né per Mosca nè per Washington alcuna rinuncia ai loro reali propositi. Infatti nel 1966 né Mosca né Washington avevano interesse a fornire armi nucleari ai loro alleati o metterli a parte della nuova tecnologia nucleare. Entrambi in passato avevano infranto il principio della non proliferazione, ma nel 1966 sia Mosca che Washington si preoccuparono di evitare che il numero delle potenze in grado di utilizzare le armi nucleari aumentasse oltre le cinque che già le possedevano: Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia, Inghilterra e Cina comunista.
L'NPT rappresentava in sostanza un accordo sui principi fondamentali destinati a organizzare il mondo non comunista. All'interno delle principali nazioni interessate (dinanzi ai parlamenti e ai popoli) era necessario presentare questo accordo come proiezione degli interessi nazionali, e non come una benevola esercitazione nel campo della distensione tra Washington e Mosca.
La ragionevolezza del Trattato poteva in parte risultare ovvia e chiara: l'NPT avrebbe, se applicato, limitato il numero di coloro che, del tutto autonomamente, potevano premere il bottone nucleare. Bastava un semplicissimo ragionamento matematico per dimostrare che, quanto minore fosse stato il loro numero, tanto minori sarebbero state le possibilità statistiche che una bomba nucleare esplodesse incidentalmente o anche deliberatamente. Questo era un argomento a difesa dell'intera umanità piuttosto che di un particolare interesse nazionale.
Ma l'NPT si scontrava con radicati, anche se banali, pregiudizi di tipo nazionalistico. Si chiedeva infatti alle altre nazioni di privarsi deliberatamente di armi che pure potevano facilmente produrre. E lo si chiedeva loro in un momento in cui Londra, Parigi e Pechino sembravano annettere a queste armi un grande prestigio e un grande valore politico. E tuttavia la firma dell'NPT poteva trovare una sua fondata giustificazione anche in un'ottica strettamente nazionalistica. Infatti la forza di dissuasione globale dell'apparato militare americano - nucleare e non nucleare - era enormemente maggiore di quello che, nel medio periodo, avrebbero potuto mettere insieme nazioni come, per esempio, la Germania, l'India o il Giappone. E nel caso avessero deciso la produzione di armi nucleari, tali nazioni avrebbero dovuto affrontare una fase estremamente difficile e anche pericolosa: una fase cioè in cui avrebbero dovuto allentare i legami con gli Stati Uniti prima di poter costruire un potenziale di dissuasione autonomo. La Germania e il Giappone si sarebbero inoltre trovati esposti a pressioni diplomatiche esterne estremamente pesanti, e l'india avrebbe corso il pericolo di vedere il Pākistan aprire le porte del subcontinente alla potenza nucleare cinese.
Nel mondo non comunista la tesi della non proliferazione dipendeva quindi in modo essenziale dalla serietà degli impegni americani. E questo stato di cose si è rispecchiato sia nella storia del negoziato che nelle stesse formulazioni del Trattato, le quali contemplano la possibilità per i firmatari di ritirarsi nel caso che ‟eventi straordinari, connessi alla materia del Trattato" mettano in pericolo i loro ‟interessi supremi" .
Il significato essenziale del Trattato venne chiaramente in luce quando il negoziato si avvicinò alla conclusione. I potenziali firmatari esercitarono forti pressioni su Mosca e Washington riguardo a due punti: che si offrisse un qualche tipo di protezione alle nazioni firmatarie contro la minaccia di attacco o di ricatto nucleare; che i Sovietici e gli Americani si impegnassero a porre fine alla corsa agli armamenti nucleari e adottassero misure efficaci di controllo degli arsenali esistenti. Un impegno americano, assunto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 17 giugno 1968, venne incontro alla prima richiesta. Esso prometteva appoggio a qualsiasi Stato firmatario che fosse ‟vittima di un'aggressione reale o fatto oggetto a minacce di aggressione mediante l'impiego di armi nucleari".
Sulla questione del controllo degli armamenti, Johnson rinnovò le pressioni su Mosca subito dopo che Unione Sovietica e Stati Uniti s'erano accordati sul testo del Trattato (18 gennaio 1968). Formalmente l'NPT e i colloqui SALT non avevano alcun legame tra loro, se si eccettua il preambolo del Trattato, in cui i firmatari dichiaravano ‟la loro intenzione di porre fine nel più breve tempo possibile alla corsa agli armamenti nucleari e di adottare misure effettive per il disarmo nucleare". Ma, giudicando in una più ampia prospettiva, sia Mosca che Washington compresero che l'NPT aveva scarse probabilità di sopravvivere a lungo se le due superpotenze avessero praticato una politica di sfrenata corsa agli armamenti.
A. N. Kosygin, in effetti, accettò questo tacito impegno. E, dopo nuove pressioni di Johnson, acconsentì a un comunicato congiunto Unione Sovietica-Stati Uniti, in occasione della firma dell'NPT (1° luglio), nel quale si affermava che i colloqui SALT avrebbero potuto essere avviati ‟in un futuro molto vicino".
Nulla meglio dei negoziati per l'NPT potrebbe evidenziare la realtà del processo di frazionamento del potere al di là del bipolarismo Washington-Mosca. A tali negoziati si giunse proprio perché la forma più pericolosa di frazionamento del potere - quella nucleare - stava divenendo una realtà e probabilmente era destinata a svilupparsi. L'esplosione nucleare cinese dell'ottobre 1964 e i negoziati NATO per una forza nucleare multilaterale costituirono infatti la spinta più immediata verso l'NPT.
Quanto ai colloqui SALT, sia a Washington che a Mosca potevano essere addotti, per avviare il relativo negoziato, argomenti economici e militari di natura strettamente nazionale. Ma c'era anche, almeno in parte, la consapevolezza che, se si voleva che le clausole dell'NPT fossero accolte su scala mondiale, le due superpotenze dovevano perlomeno provare a comportarsi con un maggior senso di responsabilità nella corsa agli armamenti. E così le pressioni di un mondo in cui il potere andava progressivamente frazionandosi contribuirono ad avviare concretamente i colloqui SALT.
10. L'offensiva cinese e la ‟rivoluzione culturale' (1962-1968)
Dopo la crisi dei missili a Cuba, mentre le relazioni tra Unione Sovietica e Stati Uniti cominciavano a migliorare e quelle cino-sovietiche si avviavano invece verso lo scontro aperto, la Cina comunista stava riprendendosi dal grave rovescio economico causato dal fallimento del ‛grande balzo in avanti' del 1958 e dal ritiro degli aiuti economici sovietici. Nell'ottobre del 1964 Pechino fece esplodere il suo primo ordigno nucleare.
In uno stato d'animo di rinnovato ottimismo, Pechino si mosse sulla scena mondiale per sfruttare le occasioni che le si potevano presentare e, in particolare, per affermare la propria leadership su tutti quei governi e gruppi politici che non erano disposti ad accettare il processo di distensione in atto tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Poiché Mosca si spostava a destra, Pechino cercò di organizzare e rafforzare a sinistra, su scala mondiale, un movimento cui Sukarno diede il nome di Nuove Forze Emergenti (NEFO).
Nel perseguire questa strategia Pechino aveva, in Asia, due carte importanti: la spinta impetuosa di Hanoi nel Vietnam del Sud, dove verso la fine del 1964 furono introdotte forze regolari nordvietnamite, e la situazione esistente in Indonesia. Sukarno si era impegnato in una politica di scontro aperto con la Malaysia. Cosa ancora più importante, egli sembrava disposto a far causa comune con il Partito Comunista Indonesiano all'interno e con Pechino sul piano internazionale. Su questa base, infatti, nel gennaio 1965 l'Indonesia si ritirava dalle Nazioni Unite e annunciava la sua alleanza con i comunisti cinesi.
Come Sukarno affermò in seguito: ‟La strategia per sconfiggere l'imperialismo [...] consiste nel fatto che, mentre la Cina comunista vibra un colpo da nord alle forze americane in Vietnam, l'Indonesia lo vibra da sud". Il giorno di capodanno 1965 Ch'en I, ministro degli esteri di Pechino, annunciava: ‟la prossima volta toccherà alla Tailandia". E in effetti una diagnosi obiettiva della scena asiatica all'inizio del 1965 poteva portare a concludere che le varie parti dello scacchiere stavano per esplodere.
Ma Pechino e Djakarta si muovevano anche al di fuori dell'Asia per mettere insieme uno schieramento che sostenesse questa strategia. Cinesi e Indonesiani lavorarono infatti a organizzare e garantirsi una completa egemonia sull'assemblea che il 29 giugno 1965 avrebbe dovuto riunire ad Algeri circa sessanta nazioni asiatiche e africane.
Tuttavia, nel corso del 1965, questo ambizioso progetto sfumò. Dopo aver affrontato numerose difficoltà di carattere organizzativo, Pechino e Djakarta furono messe in crisi dal rovesciamento di Ben Bella (19 giugno) e dalla conseguente cancellazione della conferenza di Algeri. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, dopo che circa quattro mesi di bombardamenti sul Vietnam del Nord non avevano provocato alcuna reazione cinese, Johnson decise (28 luglio) l'invio nel Vietnam del Sud di ingenti forze statunitensi. La posizione di Pechino venne poi ulteriormente indebolita dall'atteggiamento poco risoluto da essa tenuto durante la guerra indo-pakistana del settembre 1965. Infine, nell'ottobre, fallì il tentativo di Sukarno e del gruppo dirigente del Partito Comunista Indonesiano di sbarazzarsi di tutti i membri dello stato maggiore indonesiano: fallimento che condusse al colpo di stato militare, al massacro dei comunisti indonesiani e alla formazione del governo nazionalista di Suharto. Poche settimane dopo iniziava la ‟rivoluzione culturale'.
Con molti alti e bassi, la ‛rivoluzione culturale' dominò la vita cinese nei tre anni successivi. Al centro di essa stava il fermo volere di Mao che la vita politica, sociale e culturale della Cina continentale non si adagiasse nella routine più o meno ordinata di una nazione povera che aspira a modernizzarsi. Non diversamente dai metodi applicati da Mao nella guerra di guerriglia, nella collettivizzazione dell'agricoltura all'inizio degli anni cinquanta e nel ‛grande balzo in avanti', le radici della ‛rivoluzione culturale' vanno ricercate nell'analisi, compiuta da Mao nel marzo 1927, sull'energia e la violenza che potrebbero essere scatenate dall'organizzazione e dalla manipolazione rivoluzionaria di masse umane frustrate. Stavolta non erano i contadini ad interessarlo, ma i giovani. Egli mobilitò i giovani per distruggere il partito comunista e la burocrazia governativa ch'egli stesso aveva costruito, e per screditare Liu Shao-chi e i suoi amici cosiddetti ‛revisionisti'. Il tentativo di Mao in effetti fu come quello di un nonno che decide di allearsi con i suoi nipoti contro i propri figli. Ma alla fine i figli ebbero la meglio e tra loro, soprattutto, i militari e tecnocrati capeggiati da Chou En-lai.
Mao lanciò la ‛rivoluzione culturale' nel momento in cui l'economia cinese si era appena ripresa dal fallimento del ‛grande balzo'. La produzione crollò di nuovo. La lotta produsse inoltre una parziale disintegrazione degli apparati di controllo del partito e del governo, lasciando così i militari, mano a mano che si raggiungeva l'apice del processo, in una posizione di predominio amministrativo e politico. Le scuole vennero chiuse. I giovani - temporaneamente esaltati e incoraggiati a condurre una nuova rivoluzione contro gli anziani - furono alla fine messi da parte e inviati in gran numero nelle zone rurali.
Per qualche tempo la Cina continentale cessò quasi completamente di avere una politica estera, ma in politica interna continuarono a permanere alcune importanti linee di fondo. Ad esempio, mentre negli anni 1966-1968 la produzione bellica in generale declinava, il lavoro nel settore delle armi nucleari e dei missili continuò regolarmente. Ancora, nel mezzo della tempesta scatenata da Mao, si ebbe una svolta silenziosa verso una politica agricola più razionale, caratterizzata da un'accresciuta produzione e importazione di concimi e dalla concessione di alcuni incentivi ai contadini; e ciò in quelle campagne dove la ‛rivoluzione culturale' aveva allentato la presa del partito sui villaggi.
La ‛rivoluzione culturale' fu una lotta per il potere e, insieme, uno scontro tra concezioni contrastanti della Rivoluzione cinese. Ma riguardò anche i caratteri essenziali della politica interna ed estera. Nella sua fase culminante, quando erano i manifesti murali a determinare il tono della polemica, un ex alto funzionario invocò una politica interna fondata sulle ‟leggi economiche oggettive" e una politica estera tale che ‟il mondo possa crogiolarsi al sole della pace", e che ‟i bambini possano dormire tranquilli nelle loro culle, e le madri e le mogli non debbano più vivere una vita di incubi".
La politica economica che si affermò a Pechino dopo la ‛rivoluzione culturale' fu più razionale che nel passato, e la politica estera cinese mirò a normalizzare le relazioni con il resto del mondo. Non c'è dubbio che molti in Cina favorissero queste scelte in base a motivazioni semplici e spontanee. Ma sull'esito politico della ‛rivoluzione culturale' pesarono quasi certamente due grandi fatti strategici. Il primo fu il graduale concentramento di truppe sovietiche lungo il confine cinese, cominciato nel 1965. Nel 1968 Pechino si trovava a fronteggiare circa quaranta divisioni sovietiche, vale a dire quasi un milione di uomini dotati di armamento nucleare. Il secondo fu il rapido affermarsi, nel corso degli anni sessanta, del Giappone quale terza potenza industriale mondiale, cui si accompagnarono elevati tassi di sviluppo economico in numerosi paesi minori dell'Asia, Cina nazionalista compresa. La Cina continentale stava per essere lasciata indietro: era cioè chiaramente giunta l'ora di impegnarsi seriamente nello sviluppo economico e sociale. E Pechino accettò gradualmente la realtà inevitabile del potere militare ed economico determinata dal suo ambiente geopolitico più immediato.
Sebbene i dirigenti di Hanoi persistessero nel loro ininterrotto sforzo di conquistare l'intero territorio dell'ex impero coloniale francese in Asia, alla fine del 1968 era ormai chiaro che la Cina comunista stava rapidamente uscendo dalla fase della politica romantico-rivoluzionaria che, sotto varie forme, ne aveva guidato l'azione sin dal 1949. E l'intera scena asiatica cominciò a riflettere tale mutamento.
11. Il periodo Nixon (1969-1973)
Nixon assunse la presidenza in una situazione che, dal punto di vista della politica internazionale, presentava tre fattori all'attivo e un problema cruciale. Tali fattori erano i seguenti.
1. A partire dalla crisi dei missili dell'ottobre 1962 la rottura tra Mosca e Pechino si era considerevolmente aggravata e Mosca stava perseguendo, nel complesso, una politica di distensione nei confronti di Washington e dell'Occidente in generale. La preparazione dei colloqui SALT, in particolare, era ormai compiuta.
2. La ‛rivoluzione culturale' era finita; a Pechino avevano assunto il potere uomini di orientamento moderato e pragmatico, e i timori nei confronti di Mosca e Tōkyō (già operanti i primi, ancora latenti i secondi) li predisponevano favorevolmente alla distensione con Washington e ad accettare la presenza degli Stati Uniti in Asia con un ruolo stabilizzatore: questi ultimi, cioè, dovevano fare da contrappeso alla pressione sovietica e garantire che il Giappone non utilizzasse il suo grande potenziale economico per costruire un arsenale nucleare.
3. L'offensiva lanciata da Hanoi nel Vietnam del Sud per il Tet 1968 era fallita, e i Sudvietnamiti, nel gennaio 1969, erano molto più forti, sia militarmente che politicamente, di quanto fossero stati un anno prima.
Il grosso problema di Nixon era invece costituito dal fatto che l'offensiva del Tet aveva gettato nella confusione l'elettorato americano e indebolito considerevolmente l'appoggio popolare alla guerra nel Sud-Est asiatico. Più generalmente, si era rafforzato tra gli Americani il desiderio di diminuire il loro impegno sulla scena mondiale, auspicando che in essa svolgessero un ruolo più attivo gli altri paesi: desiderio questo chiaramente evidente sin dalla conclusione positiva della crisi dei missili. Nella vita politica americana stava insomma affermandosi una sorta di riflusso neo-isolazionista.
Valutati attentamente i pro e i contro della situazione, e puntando su un'effettiva riduzione del ruolo americano nella guerra del Sud-Est asiatico, Nixon scelse clamorosamente di dare priorità alle possibilità di negoziato, di riduzione dell'impegno americano e di nuovi rapporti di collaborazione.
I tre temi politici posti in primo piano da Nixon erano strettamente connessi fra loro: se i negoziati con Mosca e Pechino avessero alleggerito la pressione comunista sul mondo non comunista, poteva esser diminuito anche l'onere difensivo, considerato nelle sue dimensioni più generali, e quindi potevano esser diminuiti tranquillamente gli impegni americani. Conseguentemente sarebbe stato più facile per gli Stati Uniti dividere questi oneri con i propri alleati, poiché ciò non avrebbe più comportato per questi ultimi un brusco aumento di responsabilità.
Nixon proseguì i colloqui SALT con l'Unione Sovietica. Malgrado questo complesso negoziato procedesse faticosamente e fosse reso più incerto dalla continua espansione, da parte sovietica, della flotta di sottomarini nucleari e dell'arsenale di missili con base a terra, venivano tuttavia compiuti progressi su altri fronti: un trattato che sanciva la smilitarizzazione dei fondi marini; l'eliminazione delle armi biologiche; la trasformazione della ‛linea calda' in un collegamento via satellite; un accordo formale sullo status di Berlino Ovest, che consolidava i diritti occidentali di accesso alla città e che era chiaramente considerato, da parte sovietica, come un necessario preliminare sia a un trattato tra le due Germanie sia a un eventuale negoziato tra la NATO e il Patto di Varsavia per una riduzione bilaterale delle forze armate in Europa. Oltre che per la conclusione di un primo accordo SALT, il vertice moscovita del maggio 1972 fu assunto come occasione per firmare un nuovo gruppo di importanti accordi bilaterali, ciascuno dei quali costituiva la conclusione di lunghe trattative. Tra questi accordi figurava un progetto di collaborazione in campo spaziale e uno sui problemi ecologici, nonché un ampliamento delle relazioni economiche, cui il disastroso raccolto sovietico del 1972 fece compiere rapidi progressi.
Parallelamente, Bonn si muoveva verso la normalizzazione delle sue relazioni con la Germania Est e con l'Europa orientale, contribuendo a consolidare quell'atmosferà di stabilità ch'era emersa dopo la crisi dei missili e la conclusione della crisi di Berlino aperta dall'ultimatum di Chruščëv.
Nel 1971 la diplomazia nixoniana fu messa in gravissima difficoltà dalla crisi economica americana e dalle radicali misure che Nixon ritenne di dover prendere abolendo la convertibilità del dollaro in oro e imponendo una soprattassa del 10% sulle importazioni. Queste misure ebbero effetti pesanti sui principali alleati dell'America. Esse rivelavano la debolezza americana proprio nel momento in cui gli alleati degli Stati Uniti stavano cercando di valutare che cosa significassero, dal punto di vista della propria sicurezza, le trattative di Nixon con Mosca e Pechino, e la dottrina Nixon in generale.
Tutto ciò incoraggiò la diplomazia sovietica, che già operava per trarre il massimo vantaggio dalle possibilità aperte dal mutamento della politica di Nixon verso la Cina. Mosca aveva a lungo temuto un riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina. Reagì perciò cercando, nel più puro stile della politica di potenza, di sfruttare i timori generati dalle mosse nixoniane. La Russia si avvicinò così all'India, che stava già allontanandosi dagli Stati Uniti a causa di quello che a Nuova Delhi appariva come un atteggiamento di indifferente freddezza di Washington nei suoi confronti. La nuova intesa indosovietica svolse la sua parte nella tragica guerra tra India e Pākistan del dicembre 1971. Mosca si accostò anche a Tōkyō, manifestando una disponibilità nuova, lanciando anche l'esca di una possibile restituzione di alcune delle isole giapponesi occupate dopo la seconda guerra mondiale. Ancora, essa sondò ad Ottawa le possibilità di sfruttare le preoccupazioni dei Canadesi verso il loro gigantesco vicino meridionale. Ma, soprattutto, l'Unione Sovietica cercò di sfruttare la forte preoccupazione di Hanoi per il riavvicinamento tra Pechino e Washington, e ciò al fine di accrescere la propria influenza sul Vietnam del Nord, ed appoggiò l'offensiva scatenata da Hanoi nella primavera 1972: un'offensiva che fallì in modo altrettanto netto di quella lanciata quattro anni prima, ma stavolta senza conseguenze rovinose sulla politica interna americana.
Valutata nel breve periodo, la rielezione di Nixon nel novembre 1972 si spiega in gran parte con il successo ottenuto nello sfruttare il patrimonio politico che egli aveva accumulato imprimendo una svolta alle relazioni con Mosca e Pechino e riducendo il peso gravante sugli Stati Uniti per i loro impegni di potenza mondiale, in particolare le perdite umane nel Sud-Est asiatico.
Tra il novembre 1972 e l'aprile 1975 la posizione americana in Indocina si è sfaldata e i comunisti hanno preso il sopravvento. Il processo che ha condotto a questa situazione è complesso. Due elementi hanno però svolto un ruolo determinante: il ‛Watergate' con le dimissioni di Nixon, e le caratteristiche del Congresso eletto nel novembre 1974. Quando i comunisti hanno scatenato la massiccia offensiva del 1975, Ford si è rivelato incapace, con questo Congresso, di portare avanti la politica indocinese dei suoi quattro predecessori. Questo scacco per la politica americana è stato mitigato da due conseguenze del processo di frazionamento del potere: il conflitto sempre più aspro tra Mosca e Pechino; e gli sforzi crescenti delle nazioni del Sud-Est asiatico. Questi elementi rendono ipotizzabile che non tutto il Sud-Est asiatico cadrà sotto il controllo comunista; anche se forze potenti e silenziose sono al lavoro per indebolire la posizione degli Stati Uniti in Asia, come anche in Medio Oriente e in Europa. Alla metà del 1975 non si riesce ancora a vedere se Ford avrà successo nel tentativo di ristabilire la situazione.
12. Le relazioni Est-Ovest in un'epoca caratterizzata da un sempre crescente frazionamento del potere
Riassumendo, il venticinquennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale ha visto mutamenti profondi nelle relazioni Est-Ovest. In un primo tempo si verificò una concentrazione di potere, nelle mani di Mosca e di Washington, che non ha precedenti nella storia. L'Unione Sovietica acquisì nella sua sfera d'influenza l'Europa orientale; giunti al potere, i comunisti cinesi scelsero inizialmente di ‛schierarsi da una parte', allineandosi a fianco dei loro compagni russi. Quanto agli Stati Uniti, di fronte alle minacce portate all'equilibrio dei rapporti di forza sia in Europa che in Asia, essi si adoperarono a rafforzare e a proteggere l'Europa occidentale e il Giappone con il Piano Marshall e la NATO, e, in seguito, con la difesa della Corea del Sud.
La storia però cominciò presto - lentamente ma inesorabilmente - a muoversi in una direzione opposta. A cominciare da Tito, nei paesi dell'Europa orientale si moltiplicarono i tentativi di affermare l'indipendenza nazionale. Anche se schiacciati dalla potenza sovietica nel 1953 (Germania Orientale), nel 1956 (Ungheria) e nel 1968 (Cecoslovacchia), questi tentativi erano inevitabilmente destinati a moltiplicarsi. L'Europa orientale è divenuta per Mosca sempre più una fonte di inquietudini e sempre meno un solido e sicuro trampolino di lancio per operazioni verso l'Ovest. Inoltre, a partire dal 1958, l'atteggiamento di Pechino evolse dall'alleanza verso l'ostilità aperta, con conseguenze profonde probabilmente irreversibili per gli interessi dello Stato sovietico (e per la dislocazione delle sue forze militari), nonché per l'unità del movimento comunista mondiale.
Nel frattempo l'Europa occidentale e il Giappone recuperavano la loro forza economica e la fiducia politica in se stessi, esercitando sull'Est europeo e sulla Cina un'attrazione silenziosa ma efficace.
Ancora, all'inizio degli anni settanta, l'Europa occidentale si avviò ad ampliare e a rafforzare le sue organizzazioni comunitarie. Malgrado la perdurante dipendenza dagli Stati Uniti in materia di protezione nucleare, Europa occidentale e Giappone migliorarono considerevolmente, all'interno dell'alleanza, la propria forza contrattuale e accrebbero la propria libertà di manovra nei rapporti con l'esterno.
Tale redistribuzione del potere nella metà settentrionale del pianeta fu accentuata dall'emergere a sud di nazioni nuove e dalla crescente sicurezza manifestata dai più antichi Stati nazionali dell'Asia, del Medio Oriente, dell'Africa e dell'America Latina. Malgrado la maggior parte di questi paesi dipendesse in notevole misura dal più industrializzato Nord per aiuti, scambi commerciali e forniture di armi, essi furono anche in grado di affermare in misura significativa - e costantemente crescente - la propria indipendenza nei confronti sia di Mosca che di Washington. Quando una potenza straniera faceva sentire il proprio peso in modo eccessivo, i fattori geografici e la situazione mondiale generale consentivano alle nazioni dell'emisfero meridionale di prenderne le distanze: così ad esempio l'Indonesia nel 1965, il Sudan nel 1971, l'Egitto (in direzioni diverse) nel 1956 e nel 1972. Cosi, nel 1974, il mondo arabo, reso forte dal possesso della massima parte delle risorse petrolifere mondiali, sembrava avviato a consolidare una posizione di indipendenza e, forse, a porre in secondo piano il problema ossessivo dei rapporti con Israele, per concentrarsi, finalmente, sul proprio sviluppo economico e sociale.
All'inizio degli anni settanta il monopolio nucleare degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica era stato infranto già da tempo ad opera dell'Inghilterra, della Francia e della Cina; e anche l'India, nel 1974, nonostante le sue prese di posizione, entrava di fatto a far parte del club atomico. Ciononostante è proprio in fatto di potenza nucleare che Washington e Mosca continuavano ad essere molto più forti di tutti gli altri. Ma il fallimento dei tentativi di ricatto nucleare di Chruščëv, terminati con la crisi dei missili a Cuba, aveva dimostrato, con grande sollievo di tutto il mondo, come fosse modesta la possibilità di strumentalizzazione della potenza nucleare all'infuori del suo valore come deterrente.
D'altro canto la storia della rottura tra Russia e Cina costituì una vicenda esemplare. Essa insegnò che cosa poteva accadere in un'epoca nucleare a due alleati di cui uno insistesse nel produrre armi nucleari affermando, nel contempo, ch'era solo suo il diritto di controllarle.
Più di ogni altro fattore particolare, fu appunto il pericolo di un'ulteriore proliferazione nucleare ad avvicinare Mosca e Washington nel corso degli anni sessanta. E l'NPT comportò la crescita delle pressioni volte a mettere sotto controllo - mediante i colloqui SALT - la corsa agli armamenti. Ma a Mosca e a Washington si ebbe anche l'impressione che il frazionamento del potere comportasse per gli Stati Uniti e per l'Unione Sovietica pericoli che oltrepassavano la questione nucleare e richiedevano che le due maggiori potenze concentrassero i loro sforzi su un fronte più ampio.
Ecco come Johnson formulò il problema in un brindisi in onore di Kosygin a Glassboro, New Jersey, il 23 giugno 1967: ‟Noi non dobbiamo mai dimenticare che in questo mondo ci sono molti popoli, molte nazioni diverse, ciascuna con la propria storia e le proprie ambizioni. E tuttavia in questo stesso mondo una posizione speciale e una speciale responsabilità spettano ai nostri due paesi, a causa della nostra forza e delle nostre risorse. Ciò esige che le relazioni tra i nostri due paesi siano ragionevoli e costruttive quanto più ci sarà possibile. Ci incombe inoltre il dovere di rendere possibile alle altre nazioni di vivere in pace l'una con l'altra in ogni circostanza in cui ciò sia fattibile. E questa è la ragione per cui noi oggi abbiamo qui discusso con voi alcune questioni concernenti la pace dei tre miliardi di persone che formano l'intera famiglia umana".
Dietro quest'appello c'era un programma molto preciso, che Johnson aveva comunicato il 19 maggio in un telegramma a Kosygin. Esso comprendeva naturalmente le questioni nucleari, ma si allargava alle situazioni esplosive esistenti nel Medio Oriente, nel Sud-Est asiatico e nei Caraibi, situazioni che rischiavano di portare Mosca e Washington a scontrarsi contro la loro volontà.
Il mondo così come si presentava all'inizio degli anni settanta era davvero un mondo costituito da ‟molte nazioni diverse, ciascuna con la propria storia e le proprie ambizioni". Il frazionamento del potere, di cui questo mondo era il prodotto, offriva sia occasioni propizie che pericoli; e, come Johnson aveva compreso nel 1967, l'esito sarebbe per buona parte dipeso dall'evoluzione, in un senso o nell'altro, delle relazioni Est-Ovest.
In una società democratica il frazionamento del potere è il fondamento delle libertà umane. Nella comunità mondiale esso è la base dell'indipendenza delle nazioni, giacché rende rischiosi i sogni di egemonia planetaria, o anche continentale. Ma come, senza un'ordinata struttura giuridica, la libertà umana renderebbe la vita democratica di una società nazionale caotica e violenta, effetti non diversi avrebbe sulla scena mondiale un'indipendenza delle nazioni assolutamente incondizionata e non strutturata. La questione centrale nel campo delle relazioni internazionali rimane pertanto la seguente: può la comunità mondiale delle nazioni, stretta da profondi vincoli reciproci, organizzare il frazionamento del potere in modi tali da giungere ad una pace relativamente stabile? Oppure tale frazionamento del potere è destinato a produrre un'aggravarsi incessante della violenza e del caos?
Ad esempio, si può ragionevolmente sperare di impedire la forma più rilevante di frazionamento del potere - la proliferazione nucleare - soltanto se gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica porranno sotto controllo la corsa agli armamenti, se il ricatto nucleare non si ripeterà, e se gli Stati Uniti rimarranno un alleato fidato per l'Europa occidentale, per il Giappone e per le altre nazioni capaci già oggi di produrre armi nucleari (o suscettibili di divenirlo in futuro). E riguardo a queste condizioni le scelte dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti mantengono un'importanza cruciale.
La natura degli interessi degli Stati Uniti permette di ipotizzare un agevole adattamento da parte americana a un mondo in cui il potere si distribuisca sempre più. L'interesse americano, infatti, è essenzialmente negativo: è cioè rivolto da un lato a che non si verifichi alcuno squilibrio nei rapporti di forza a favore di qualsiasi nazione, europea o asiatica, potenzialmente ostile, e, dall'altro, a che nessuna grande potenza extracontinentale, si assicuri importanti basi militari nell'emisfero occidentale. E poiché si tratta di obiettivi condivisi dalla maggior parte dei paesi dell'Europa, dell'Asia e dell'emisfero occidentale, essi non dovrebbero trovar opposizione in una situazione caratterizzata da un crescente frazionamento del potere.
Per l'Unione Sovietica le implicazioni del frazionamento del potere su scala mondiale sono state più profonde, poiché il comunismo porta con sé l'impegno ad agire affinché il trionfo dell'idea comunista, storicamente inevitabile, divenga realtà. Ma le componenti di nazionalismo russo e di pragmatismo, insite nella politica sovietica ed evidenti sin dai trattati di pace negoziati da Lenin dopo la prima guerra mondiale, hanno reso possibile all'Unione Sovietica l'accettazione dell'idea che, in un mondo caratterizzato dal frazionamento del potere e che muove verso una relativa stabilità, il perseguimento pacifico dei propri interessi nazionali rappresenti la migliore soluzione realisticamente disponibile. E non è inverosimile che la Cina, quale è uscita dalla ‛rivoluzione culturale', arrivi ad una conclusione analoga. Lo straordinario venticinquennio di storia contemporanea che ha visto la frustrazione delle spinte espansionistiche comuniste - dall'Azerbaigian ai Caraibi, da Berlino a Djakarta, dalla Grecia alla Corea del Sud - può forse aprire la via a un'epoca relativamente tranquilla, comparabile con il secolo seguito al 1815. Tuttavia ciò potrà verificarsi soltanto se le difficoltà economiche che la comunità mondiale si trova ad affrontare determineranno un accordo e non una rivalità di tipò neomercantilistico. Le variabili cruciali sembrano essere queste: in primo luogo, il perdurare della volontà degli Stati Uniti e delle altre nazioni non comuniste di sostenere la spinta nazionalista che ha portato alla situazione di frazionamento del potere che caratterizza questi primi anni settanta; e, in secondo luogo, la possibilità che tale situazione di frazionamento del potere venga strutturata in modo abbastanza stabile sulla base di un mutuo consenso. Il problema dell'organizzazione, come si pone alla metà del 1975, è diventato un problema di rapporti tra Nord e Sud perlomeno quanto tra Est e Ovest. In un mondo caratterizzato dai costi crescenti dell'energia, dal conflitto potenziale tra ritmi di industrializzazione e riserve di materie prime, molto dipenderà dalla scelta delle nazioni di antica e di recente industrializzazione di muoversi in direzione di uno scontro o, come richiederebbero i loro interessi, in quella di un accordo.
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