Dittatura
Il concetto di dittatura, come tutti i concetti storico-politici fondamentali, ha subito nel corso della sua storia bimillenaria un mutamento di significato, che rende necessaria una distinzione tra le forme storiche e il contenuto politico.
Nell'accezione contemporanea il concetto di dittatura designa in generale il potere illimitato di un individuo, di un gruppo o di un partito al di sopra dello Stato. Esso è usato soprattutto in contrapposizione al concetto di democrazia; ambedue le designazioni hanno le loro radici nelle forme di potere e di organizzazione politica proprie dell'antichità greco-romana. Una definizione più precisa deve tuttavia muovere dal fatto che il significato originario del termine 'dittatura' era molto più ristretto. Nella teoria romana dello Stato esso designava un assetto costituzionale volto a proteggere la repubblica di fronte a un'emergenza politica. Pertanto il concetto di dittatura si differenziava in modo essenziale dai concetti più comprensivi di tirannide e dispotismo, con i quali nell'antichità, nel Medioevo e all'inizio dell'età moderna venivano designate le forme degenerate della monarchia.
Nello sviluppo storico-politico moderno la distinzione è quella fra dittature autoritarie e totalitarie. La giustificazione autoritaria della dittatura - sia essa fondata in senso più tradizionalista o più tecnocratico - è spesso altrettanto lontana dall'ideologia dei movimenti totalitari quanto dall'ideologia democratica. Di fatto, l'autoritarismo appare rivolto essenzialmente alla conservazione o all'imposizione dittatoriale di posizioni di potere cetuale, militare, economico, o anche tribale, mediante la neutralizzazione di tutte le altre forze presenti all'interno dello Stato. Il totalitarismo, per contro, è rivolto proprio alla mobilitazione pseudodemocratica di tutte le forze politiche al servizio di un movimento rivoluzionario unico ed esclusivo e di una Weltanschauung quasi religiosa con pretese totalizzanti.
Questa prima, approssimativa distinzione va ulteriormente precisata: innanzitutto, in base al carattere di destra o di sinistra radicale, nazionalista, socialista o imperialista degli elementi costitutivi e degli scopi della dittatura; in secondo luogo, in relazione alle sue concezioni della società o della comunità fondate su idee razziali o di classe, così come in relazione al sistema economico privato o statale, dirigistico o pianificato-centralizzato; infine, in base agli strumenti di coercizione, di repressione e di manipolazione. Di grande rilievo è poi la questione se la dittatura si sia sviluppata dalla crisi di una democrazia o da rapporti di potere predemocratici, assolutistico-feudali o autocratici. In ogni caso rivestono notevole significato le specifiche tradizioni storico-politiche, la situazione geografica e il clima, il livello di sviluppo delle istituzioni politiche e sociali così come dell'economia, la cultura materiale e spirituale, le forme della religione e della morale. Così come esiste un'ampia gamma di specifiche variazioni nazionali nello sviluppo della democrazia, allo stesso modo vi sono notevoli variazioni ideologiche nella giustificazione della politica dittatoriale, soprattutto nella sua forma autoritaria.
Nell'uso attuale del termine dittatura sono presenti sia il significato più ristretto che quello più comprensivo. Il concetto moderno di dittatura è così duplice: vengono distinte dittature costituzionali da un lato e dittature assolute, rivoluzionarie e anticostituzionali dall'altro. Le prime rendono possibile una maggiore rapidità nelle azioni e nelle decisioni mediante la concentrazione del potere nelle mani del dittatore, però sempre entro una cornice legale. La dittatura rivoluzionaria, per contro, è "legge a se stessa" (G.E. Kafka).
Già nella lunga e tormentata storia della dittatura romana era presente tale doppio significato e la relativa ambivalenza. Caratteristico in tal senso è il passaggio dalla dittatura costituzionalmente limitata a quella globale e permanente, ovvero la trasformazione d'una istituzione politica d'emergenza nel sistema di dominio d'un regime autocratico. Tale trasformazione era immanente alla dittatura sin dai suoi esordi nell'antica Roma; il cambiamento della dittatura costituzionale in quella assoluta si è sempre ripetuto nella storia.Il dittatore romano del III secolo a.C. fece la sua comparsa in modo conforme alla costituzione con lo scopo di difendere la repubblica dai nemici interni ed esterni: nominato, su proposta del Senato, dal console in carica, egli esercitava il più alto potere, ma solo per un periodo di sei mesi. Né poteva egli stesso dichiarare o prolungare tale stato d'eccezione: il pieno potere della dittatura gli era concesso solo temporaneamente, mentre la forma e la costituzione dello Stato dovevano rimanere immutate.
Questo potere limitato nel tempo ma di fatto illimitato, inteso come istituzione d'emergenza per la difesa dello Stato e della costituzione, con l'ascesa di condottieri autorevoli nella guerra civile del primo secolo a.C. (Silla) venne dilatato in modo rivoluzionario e utilizzato infine per rovesciare la repubblica. Con la nomina di Cesare a dittatore a vita (44 a.C.) si manifesta un mutamento fondamentale, un periodo dittatoriale di transizione dalla repubblica al principato. La dittatura rappresentava la forma apparentemente legale in cui poteva essere compiuta la trasformazione militare-rivoluzionaria della costituzione con la pretesa di una continuità rispetto alla tradizione statuale romana.
Questa ambivalenza del concetto di dittatura, il suo duplice significato di potere costituzionale e potere rivoluzionario, emerge anche nell'esperienza moderna. A partire dalla Rivoluzione francese esso diventa un concetto chiave della moderna teoria del potere e dei regimi politici. Mentre 'dispotismo' e 'tirannide' decadono a "denominazioni di antiquariato" (E. Nolte), il concetto di dittatura nell'epoca della democrazia moderna comprende tutte quelle forme di monocrazia che vanno da quella apparentemente legale a quella fondata in modo totalitario sul partito e sul capo, dalla dittatura militare alla 'democrazia popolare' e alla 'dittatura del proletariato'. Inoltre un regime dittatoriale può perseguire una politica più tradizionalistico-conservatrice (dittatura autoritaria) oppure essere progressistico-totalitario (Lenin-Stalin, Hitler, Mao). La congiunzione di elementi legalistico-costituzionali e pseudodemocratico-rivoluzionari fa sì che il concetto di dittatura soddisfi la duplice pretesa dei sistemi di potere moderni: il loro richiamarsi a una legittimità più alta in nome del popolo e della sovranità popolare, ma anche la pretesa alla centralizzazione e alla concentrazione della politica dello Stato, all'omogeneità sociale e alla comunità ideale nel nome di scopi assoluti.
In tal senso, la dittatura moderna è diversa dalle forme tradizionali di tirannia o di regime dispotico di tipo monarchico o teocratico. L'ambivalenza delle funzioni e delle possibilità di sviluppo della dittatura nell'epoca moderna si mostra nella varietà delle sue connotazioni. Negli Stati costituzionali democratici (USA, Inghilterra, Svizzera, Francia, Repubblica Federale Tedesca) è presente la forma limitata di dittatura come istituzione d'emergenza per la protezione dello Stato e della costituzione. Rimane tuttavia il pericolo che una dittatura di tipo costituzionale venga ampliata in virtù di circostanze interne o esterne e, legittimata su un piano pseudolegale, conduca a una situazione duratura caratterizzata dall'assenza di costituzione o dalla incostituzionalità. Questa sorta di colpo di Stato attuato in forme pseudolegali mediante plebisciti e decreti d'emergenza si è verificata nel corso della Rivoluzione francese, nella istituzione della dittatura 'cesaristica' di Napoleone I e Napoleone III, nella presa fascista del potere da parte di Mussolini, nella dittatura totalitaria pseudolegale di Hitler e nelle trasformazioni autoritarie delle repubbliche formatesi dopo la prima guerra mondiale in dittature militari o basate su un capo carismatico: in Polonia (Piłsudski), nei paesi balcanici e in Ungheria (Horthy), in Turchia (Atatürk), in Grecia (Metaxas), in Spagna e in Portogallo (Franco, Salazar), in Austria (Dollfuss-Schuschnigg) e in Sudamerica (Perón). Tutte queste dittature sono scaturite da sistemi costituzionali democratici e sono caratterizzate da una pretesa di legittimazione democratica.
Una tendenza generale alla dittatura pseudolegale trasformò il trionfo della democrazia dopo il 1918 in un predominio dei regimi dittatoriali in Europa. Dopo la seconda guerra mondiale tale tendenza si affermò su scala mondiale. L'eccezione diventa la regola nella maggioranza dei nuovi Stati. Il trapianto di sistemi democratici nelle ex colonie del Terzo Mondo sfocia quasi immancabilmente in regimi dittatoriali militari con pretese socialiste di democrazia popolare o, anche, con la pretesa di garantire lo sviluppo in virtù d'un potere dittatoriale. A partire dal 1918 si diffuse anche la dottrina marxista-leninista della 'dittatura del proletariato', anch'essa con la pretesa di realizzare un potere assoluto del popolo, ovvero di dare una legittimazione democratica alla dittatura. Tale forma di dittatura comunista appartiene tuttavia, assieme al regime nazionalsocialista, al contesto del totalitarismo, il quale, mediante la compattezza ideologica, l'equiparazione totale di Stato e società, il partito di massa e la mobilitazione di massa, sopravanza di gran lunga le forme storiche della dittatura.
Un significativo esempio del passaggio dalla democrazia alla dittatura, in cui diviene chiara l'ambivalenza del concetto di dittatura nelle condizioni poste dallo sviluppo dello Stato e delle società moderne, è offerto dal destino della repubblica di Weimar (1918-1933). La prima democrazia tedesca aveva nel presidente del Reich un'istituzione capace di costituire per la democrazia parlamentare, anche dopo la caduta della monarchia, il simbolo di un potere supremo al di sopra del parlamento stesso e capace altresì di guidare il giovane Stato nei periodi di crisi tramite l'impiego di un potere dittatoriale vincolato alla costituzione. Le disposizioni sui poteri eccezionali del presidente del Reich erano contenute nell'articolo 48 della costituzione di Weimar, nei cosiddetti paragrafi sulla dittatura. Tale articolo autorizzava il presidente del Reich a sostituire temporaneamente la normale via legislativa parlamentare con la promulgazione di decreti d'emergenza e, in caso di necessità, a costringere i Länder all'applicazione della politica del Reich tramite un'azione militare. Tale potere dittatoriale era però limitato: il parlamento poteva chiederne l'abolizione a maggioranza semplice; inoltre, in base all'esplicita norma della costituzione, le disposizioni molto generali dell'articolo 48 dovevano essere circoscritte e precisate mediante una legge del Reich (e dunque per via parlamentare). E tuttavia il ruolo di contrappeso costituzionale del parlamento era ostacolato in modo decisivo da un'altra facoltà che la costituzione attribuiva al presidente del Reich, quella cioè di sciogliere il Reichstag, sottraendo così in larga misura al suo controllo i propri decreti; una legge parlamentare per una più precisa definizione dell'articolo 48 non vide mai la luce.
Qui potevano anche inserirsi gli sforzi ulteriori da parte d'una 'opposizione nazionale' dei partiti di destra, che miravano al rafforzamento dei poteri dittatoriali e al loro impiego nel senso d'una trasformazione autoritaria dello Stato o d'una distruzione dell'ordinamento democratico-parlamentare a favore di uno Stato dittatoriale guidato da un capo. Introdotto originariamente con lo scopo di proteggere l'ordinamento costituzionale di Weimar e al tempo stesso come contrappeso possibile di fronte ai rapidi cambiamenti della politica parlamentare, sancito dall'assemblea nazionale di Weimar, adoperato in tal senso contro i tentativi di sovversione del radicalismo di destra e di sinistra dal primo presidente del Reich (Friedrich Ebert), il potere dittatoriale eccezionale divenne con la presidenza Hindenburg, a partire dal 1930, il fondamento della politica di governo. Durante il cancellierato di Papen (1932) si rafforzarono i tentativi di utilizzare tale sistema presidenziale per il consolidamento duraturo di una dittatura autoritaria. Anche la presa pseudolegale del potere da parte di Hitler avvenne in ultima istanza con l'ausilio dei decreti d'emergenza presidenziali (il decreto emanato il 28 febbraio 1933 a seguito dell'incendio del Reichstag: stato d'eccezione permanente); l'allineamento nazista dei Länder e l'abolizione della costituzione poterono dunque essere compiuti tramite l'abuso di un potere dittatoriale introdotto per proteggere la costituzione.
In Russia, nel 1917, fu una rivoluzione in due fasi a preparare la strada alla dittatura comunista bolscevica basata sul partito unico. La 'rivoluzione di febbraio' nacque non da ultimo dall'esigenza di concludere la guerra perduta e di trasformare in senso parlamentare la politica. Essa rovesciò il vecchio regime con un movimento insurrezionale di soldati e della maggioranza della popolazione contro l'autocrazia zarista. Essa si differenzia dalla rivoluzione d'ottobre, con la quale Lenin conquistò il potere guidando il Putsch di una minoranza. Tale presa del potere da un lato si associò alla rivoluzione democratica sfruttandola abilmente, dall'altro costituì un rovesciamento condotto in modo dittatoriale, che eliminò ogni possibilità d'una democrazia parlamentare in Russia istituendo un collegamento diretto tra l'assolutismo zarista e l'assolutismo comunista del partito. In luogo dell'aspettativa marxiana d'una evoluzione graduale dalla democrazia borghese al socialismo comparve, in rapporto alla situazione russa, la teoria leninista della necessaria dittatura dei rivoluzionari di professione (bolscevichi); il 'marxismo-leninismo' venne eretto a dogma del 'vero' comunismo contro tutti gli altri orientamenti del socialismo. Non in quanto partito di maggioranza, bensì in quanto minoranza in possesso della verità assoluta, i bolscevichi rivendicarono la presa del potere e trasformarono in seguito il Putsch armato e la mobilitazione e organizzazione delle 'masse' controllate e finalizzate nella legittimazione della dittatura permanente, che dopo la morte di Lenin (1924) poté essere trasformata nel potere totalitario di Stalin.
Si discute ancora oggi su quali fossero le alternative, e se in particolare la soluzione democratico-parlamentare, che in quell'epoca non riuscì a sopravvivere nelle ben più favorevoli condizioni degli altri paesi europei, avesse in Russia delle chances che solo la presa comunista del potere avrebbe annullato. Comunque, al contrario della rivoluzione di febbraio, essa non fu una sollevazione popolare spontanea. Anche la storiografia e la propaganda sovietiche hanno trattato la Rivoluzione di ottobre e le sue conseguenze essenzialmente come opera di Lenin (tacendo del ruolo fondamentale di protagonisti come Trockij); senza il culto del leninismo tali conseguenze non sono pensabili. Ma Lenin, teorico del colpo di Stato bolscevico e della dittatura d'una minoranza radicale (la quale intendeva se stessa come dittatura del proletariato e in tal senso pretendeva di interpretare o anticipare la maggioranza e la verità), nutriva per la democrazia fondata sulla maggioranza parlamentare una simpatia tanto scarsa quanto quella manifestata da Mussolini e soprattutto da Hitler, artefici d'una dittatura monocratica con pretese di giustezza assoluta e identità totale con la volontà popolare.
Questa pretesa di verità e di infallibilità, propria già di Lenin e del suo movimento, e ancora più assoluta con Stalin e il suo sistema, costituiva al tempo stesso la loro forza nei confronti dei rivali, democratici o rivoluzionari. Da questa pretesa inaccessibile al dubbio, che sin dall'inizio può essere definita totalitaria, derivavano il pensiero unilaterale, l'intolleranza e la crudeltà che si allacciavano direttamente al tipo di potere zarista, per il quale poco valore aveva la vita umana. Si tratta di presupposti che condussero ben presto all'edificazione totalitaria dell'Unione Sovietica sotto Stalin. A differenza di Stalin, Lenin era ancora pronto alla discussione con le persone di fiducia, ma nell'esecuzione delle decisioni e in rapporto alla disciplina di partito non veniva più tollerata alcuna opposizione. Il suo decantato contatto con le masse poteva ancora apparire 'democratico', ma il consolidamento della dittatura del partito unico e la costruzione del sistema statale comunista, il cui carattere totalitario era in pieno contrasto con l'idea marxista dell' 'estinzione dello Stato', avvenne mediante inganni, minacce e un regime di terrore. L'aspirazione radical-democratica della rivoluzione e del sistema dei Soviet fu una parvenza che presto scomparve non appena il potere nominale dei 'consigli' (Soviet) lasciò il posto alla dittatura di fatto del partito e infine di un uomo, Stalin.
Questa via alla dittatura assume un valore altrettanto paradigmatico delle vie al potere seguite alcuni anni più tardi dal fascismo e dal nazismo. La tecnica della presa del potere e della instaurazione del dominio totalitario consisteva ogni volta nella congiunzione di atti di violenza e di modificazioni apparentemente legali nell'ambito militare e burocratico, e ciò veniva mascherato con una politica pseudodemocratica imposta e consolidata mediante l'indottrinamento ideologico. Già le prime e uniche elezioni parzialmente libere che ebbero luogo dopo la rivoluzione d'ottobre dimostrarono in modo inequivocabile la vera posizione del nuovo regime. Allorché infatti i bolscevichi, appena ascesi al potere, nelle elezioni per l'Assemblea nazionale costituente ottennero solo il 25% dei voti, rimanendo una minoranza, l'Assemblea venne sciolta il giorno stesso della sua apertura con l'uso della forza con la motivazione che le liste elettorali erano state predisposte prima della rivoluzione e incarnavano quindi ancora il vecchio regime. Nuove elezioni libere tuttavia non vennero indette per i successivi sette decenni del nuovo regime; si ebbero solo le elezioni a lista unica dello Stato monopartitico.
Questo primo esempio del modo sovietico di intendere le elezioni e la democrazia non indica solo una manipolazione senza scrupoli del potere. Esso mostra anche in linea generale che le dittature di sinistra e di destra riconoscono come valide solo le elezioni che producono il risultato auspicato - ovvero, in condizioni totalitarie, il consenso del 99%.
In caso contrario esse ricorrono a legittimazioni di tipo ideologico-propagandistico. Nello stesso senso i Soviet, che non possedevano alcuna rappresentatività, vennero conservati come una sorta di parlamenti, controllati totalmente dal partito unico. D'altro canto, il regime si arrogava anche l'infallibilità nella definizione dei concetti di socialismo e comunismo, con i quali poteva all'occorrenza essere giustificata qualsiasi politica uniformante e repressiva.In quanto prima dittatura totalitaria della storia moderna il caso dell'Unione Sovietica è di importanza fondamentale per la politica e la teoria del potere del XX secolo. Dal rifiuto o dall'ammirazione, dall'opposizione o dall'imitazione e dall'accettazione (coatta) di tale sistema risulta determinata larga parte della storia europea dopo il 1917, di quella mondiale dopo il 1945.
Il trapasso da una dittatura costituzionale al potere totalitario e arbitrario di un capo e del suo partito, non sottoposti più ad alcun controllo, appare una manifestazione estrema dei pericoli che si annidano inevitabilmente nelle disposizioni relative all'emergenza, allo stato di eccezione o alla dittatura previste dalle costituzioni democratiche. Là dove l'ordinamento costituzionale viene sospeso per salvare o per ricostruire lo Stato, è sempre presente il pericolo che si verifichi una trasformazione illegale o pseudolegale della dittatura limitata in dittatura permanente.Tuttavia la definizione formale di dittatura non dice ancora nulla circa la sua struttura reale. Essa può appoggiarsi a un partito unico, così come a forze sociali e spirituali (Chiesa, forze economiche, intellettuali, burocrazia). Può presentarsi in forme mascherate e tollerare apparentemente altri organi politici, che però domina o manipola in larga misura: per esempio, un monarca come nel caso del fascismo; oppure un parlamento degradato a mero organo di acclamazione, o una costituzione per così dire paralizzata, superata dalla costituzione reale, come nel caso del parlamento e della costituzione di Weimar nel Terzo Reich. Dopo un certo periodo di tempo è possibile che - per via graduale o semirivoluzionaria - la dittatura venga ricondotta a forme costituzionali (come in Grecia e Portogallo nel 1974); essa può permanere a lungo in una forma intermedia di tipo personalistico, oscillante tra Stato costituzionale e autoritario (Spagna fino al 1976), ma può anche degenerare nelle forme più estreme del totalitarismo, come nel caso del nazionalsocialismo, conducendo alla catastrofe totale.
Nelle recenti indagini sull'autoritarismo sono state introdotte le teorie relative alla politica dello sviluppo: si parla di 'regimi autoritari modernizzatori', che si presentano come fasi di transizione alla democrazia e sono perciò da distinguere dalle dittature conservatrici e reazionarie. In ogni caso la teoria politica si trova dinnanzi al difficile compito di distinguere l'ideologia autoritaria, generalmente vaga, mutevole, poco elaborata, da una visione del mondo totalitaria, che è al contrario incentrata su un concetto chiave. A differenza infatti del comunismo, del nazionalsocialismo e anche del fascismo, le ideologie autoritarie non possono o non vogliono far valere né quantitativamente né qualitativamente la pretesa quasi religiosa che sta alla base dell'assioma di identità delle ideologie totalitarie: la finzione o mistificazione d'una piena identità politica e spirituale di capo, partito e popolo. Il ruolo minore dell'ideologia e del partito unico (o la loro assenza), così come della mobilitazione politico-spirituale, costituisce un altro criterio essenziale di distinzione. Soprattutto l'assenza della componente utopico-chiliastica appare di fatto un elemento cruciale per distinguere non solo le teorie, ma anche le forme della dittatura, allorché distinguiamo concetti e sistemi autoritari da quelli tendenzialmente totalitari. Tutti differiscono però dalle democrazie per alcuni aspetti fondamentali: sia nell'ideologia che nella prassi mancano in essi i diritti umani, la separazione dei poteri, il pluralismo dei partiti e un'opposizione, con tutte le conseguenze che ciò può avere per il cittadino. Juan Linz ha fornito una definizione convincente, soprattutto in rapporto alla Spagna di Franco e all'America Latina: i regimi autoritari sono sistemi politici con un pluralismo limitato, non responsabile, e privi di una ideologia guida elaborata, sebbene caratterizzati da mentalità ben definite; non presentano una mobilitazione politica totale, estensiva o intensiva, se non in momenti particolari del loro sviluppo; certamente l'esercizio del potere è reclamato da 'capi' o piccoli gruppi elitari, ma ciò accade entro certi limiti, formalmente poco definiti, ma in pratica agevolmente intuibili. In questo caso si tratta più di mentalità autoritarie che di ideologie compiute.
I tratti principali dell'autoritarismo appaiono così determinati negativamente: esso giustifica l'esercizio monocratico od oligarchico del potere, e tuttavia con la limitazione del pluralismo politico e con la rinuncia a un'ideologia elaborata esso ha una posizione intermedia tra i regimi totalitari basati sulla mobilitazione e un'apertura in senso democratico della politica. La sua finalità principale è la legittimazione della dittatura tramite argomenti ispirati sia alla tradizione che alla modernizzazione, composti ecletticamente da temi ideologici di destra e di sinistra. Allo Stato viene attribuita una centralità assoluta: i sostegni del potere quali esercito, Chiesa, gruppi sociali o strutture oligarchiche servono al rafforzamento e all'accrescimento dell'autorità dello Stato.
Come nel fascismo, ma in modo totalmente diverso rispetto al nazionalsocialismo e al comunismo, le forme di pensiero autoritarie tra le due guerre erano incentrate in modo particolare sull'idea del 'vero Stato': l'influente libro di Othmar Spann, teorico austriaco dello Stato cetuale, si intitolava appunto Il vero Stato (1920), e servì quale punto d'avvio ai teorici della fusione organica e integrale di Stato e società, laddove idee antiliberali, conservatrici e cristiano-sociali venivano collegate con i modelli d'organizzazione corporativi d'una gerarchia economica e professionale. Era l'idea, nata in un paese sull'orlo della guerra civile, d'una 'terza via' tra democrazia e dittatura che venne realizzata nello Stato cetuale austriaco dal 1934 al 1938. La sua posizione intermedia tra fascismo e nazionalsocialismo era antidemocratica ma marcatamente non totalitaria, differenziandosi inoltre dalle dottrine del razzismo nazista e dall'idea comunista di classe, entrambe le quali trascendevano lo Stato, postulando un'autorità ideologica sovrastatale annidata al fondo sia del razzismo dello 'spazio vitale', che della rivoluzione mondiale proletaria. In un modo o nell'altro, tutti i regimi autoritari del periodo tra le due guerre cercavano in primo luogo di rafforzare lo Stato. Dal Portogallo di Salazar alla Spagna di Franco, dalla Polonia di Piłsudski, alle dittature nei Balcani e in Grecia, fino ai regimi caudillisti latinoamericani, si trattava del rafforzamento della nazione e del consolidamento dell'autorità statale rispetto alla crisi delle democrazie liberali, alla minaccia del totalitarismo comunista e poi di quello nazionalsocialista, ma anche rispetto ai conflitti nazionalistici tra Stati o ad una eventuale supremazia imperialistica, degli Stati Uniti in America Latina e delle grandi potenze in Europa.
Durante la seconda fase dell'autoritarismo, dopo il 1945, acquistò sempre più rilievo l'idea di un partito di Stato così come il concetto di modernizzazione. Al tempo stesso, mentre i sistemi politici tra le due guerre si presentavano come non- o antidemocratici, ora si avanza anche una pretesa democratica, seppure nel senso della democrazia 'guidata dall'alto' (come nell'Indonesia di Sukarno). Oltre una vaga ideologia comunitaria e un'organizzazione meno rigida del sostegno politico delle 'masse', il carattere progressista della dittatura e la sua dimensione popolare acquistano un rilievo particolare. Il carattere carismatico d'un capo o il populismo organizzato dall'alto caratterizzano spesso le pretese di democrazia delle dittature. Orientato in senso tradizionalista o modernista, l'autoritarismo si differenzia comunque dalle forme totalitarie in virtù del ruolo secondario del partito di Stato, di una mobilitazione finalizzata principalmente alla stabilità dello Stato, di una minore rilevanza dell'ideologia, che oscilla tra concezioni di tipo nazionalistico e quelle proprie del socialismo di Stato.
La legittimazione politica viene rafforzata mediante operazioni elettorali semi- o pseudo-democratiche, che costituiscono comunque un mascheramento dell'oligarchia reale. A differenza del periodo tra le due guerre, dopo il 1945 non era più possibile fare a meno del richiamo alla democrazia: le ideologie anti-democratiche si trasformarono in ideologie parzialmente o tendenzialmente democratiche, le quali basavano la 'terza via' tra comunismo e democrazia in modo molto più deciso sull'idea di una 'sovranità popolare' sui generis e sulla ispirazione nazionale. Due esempi latinoamericani mostrano lo spazio in cui si compì questa ulteriore evoluzione dell'autoritarismo: il peronismo in Argentina (al potere con interruzioni dal 1943) e la 'rivoluzione istituzionalizzata' in Messico (ininterrottamente dal 1929). Entrambi risalgono quindi a prima del 1945, entrambi contengono una pretesa rivoluzionaria e una componente socialista di modernizzazione, entrambi si richiamano a un partito di Stato, ai sindacati e a procedimenti di conferma elettorale di tipo plebiscitario. La differenza emerge però già nel modo in cui tali esperienze designano se stesse, mostrando rispettivamente il carattere personalistico (peronismo) o istituzionale (nel caso del Messico) che le definisce.
Senza entrare in ulteriori dettagli è però opportuno stabilire che anche gli sviluppi semi- o pseudo-democratici dei sistemi autoritari non modificano in modo decisivo la loro concezione dittatoriale della politica. Tipico rimane anche qui lo strapotere dell'esecutivo, la sua inconciliabilità con strutture statali decentralizzate o federalistiche, il monopolio dell'autorità politica da parte di una persona o di un gruppo, il cui movimento o partito rimane meramente funzionale o strumentale a tale potere e strutturato gerarchicamente. Ciò vale anche per la maggior parte dei 'movimenti di liberazione', che nell'epoca della decolonizzazione posteriore alla seconda guerra mondiale entrarono in lotta per il potere avendo come obiettivo l'indipendenza dello Stato e l'edificazione della nazione.
Quali che fossero le condizioni politiche e istituzionali dei nuovi Stati nati dalle ex colonie, la loro attenzione si rivolse necessariamente, soprattutto in Africa, all'integrazione di popoli e tribù spesso assai diversi tra loro e alla concentrazione del potere per il conseguimento dell'unità nazionale. Non v'era posto per le strutture decentrate basate sulla divisione dei poteri, che i modelli democratici delle potenze coloniali avevano lasciato o raccomandato; le colonie portoghesi dell'Angola e del Mozambico, totalmente impreparate, seguirono semplicemente il regime autoritario della madrepatria. Dal punto di vista ideologico il 'socialismo' si presentò in tutti questi casi in una forma nazionale o 'autenticamente' africana: una variopinta mescolanza di sistema monopartitico, culto della personalità, statalizzazione e potere militare, che eliminò anzitutto gli avversari della lotta di liberazione, ma fu presto dominata quasi senza eccezioni da dittatori militari.
Anche qui, tuttavia, sono emerse come sempre le particolarità che caratterizzano i regimi autoritari non solo rispetto al pluralismo democratico, ma anche rispetto al socialismo di stampo comunista. La forma autoritaria del 'socialismo nazionale' nei paesi in via di sviluppo si distingue nettamente dalle dottrine razziste e imperialiste del nazionalsocialismo tedesco o del fascismo italiano; nella tracotanza del dittatore militare Gheddafi, nell'ex colonia italiana della Libia, si può comunque trovare anche una reminiscenza islamica del fascismo.
Il risultato dei tentativi politici autoritari nel quadro dei rovesciamenti sociali e politico-militari prima in Europa e poi nelle sue colonie, consiste in una fusione, teoricamente difficile da definire, di elementi tradizionalisti e progressisti, nazional-politici e rivoluzionario-socialisti, connessi con frammenti ideologici della plurisecolare evoluzione dello Stato moderno, che quei nuovi Stati cercano di ripetere in pochi anni. Distinguere l'autoritarismo sia dalle antiche tendenze autocratiche che dalle nuove tendenze totalitarie appare particolarmente difficile laddove esso è associato a pretese missionarie di rinnovamento religioso: ciò vale per le dittature islamiche fino alla recente rivoluzione iraniana di Khomeini, così come per l'idea di 'nazione araba', che ha mobilitato il mondo arabo a partire dalla rivoluzione egiziana di Nasser del 1952.
Si profilano però anche concezioni liberalizzanti del potere autoritario, come nel caso del successivo sviluppo dell'Egitto con Sādāt e Mubarak. Le opportunità in tal senso si fondano sui miglioramenti economici e sociali nonché sui mutamenti del personale di governo e della politica internazionale. Come dimostra l'esperienza europea, però, esse dipendono anche da fattori ideologici. Il grado di compattezza e assolutezza di un'ideologia politica rimane un momento essenziale nella concezione politica dell'ordinamento statale e sociale, ma anche in relazione alla sua modificabilità. Il fatto che dopo la fine del fascismo e del nazismo non si sia imposta, al di fuori del dominio politico comunista, nessuna ideologia analogamente totalitaria, con pretese di assolutezza, consente per il futuro una fondata speranza.
La crescente diffusione dell'idea dei diritti umani in tutte le dittature può consentire importanti aperture, soprattutto se collegata con una de-ideologizzazione del pensiero politico capace di superare le ricadute nei movimenti fondamentalistici. In tali condizioni l'autoritarismo, in quanto idea politica relativa a fasi di transizione, in quanto 'mentalità' capace di mutamenti e non ideologia definitiva, tende a riavvicinarsi con forza all'idea della democrazia, com'è evidente nei paesi dell'America Latina e del Terzo Mondo. Anche il pensiero totalitario non rimane immune da tali influssi; esso può perdere credibilità di fronte a concreti progressi delle riforme, rivelandosi mera facciata d'un potere coercitivo. Nell'Europa dell'Est dominata dai sovietici dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto a partire dagli anni settanta, si resero evidenti le conseguenze del contrasto fra idea e realtà, fra il postulato comunista dei diritti dell'uomo e la forma di potere dittatoriale. Questo infatti insegna la storia contemporanea: non è l'Internazionale che "lotta per i diritti dell'uomo", ma tali diritti sono affermati dall'idea antidittatoriale di costituzione propria della democrazia liberale.Nell'attuale perdurante confusione dei concetti politici la contrapposizione tra la democrazia pluralista d'uno Stato di diritto e tutte le forme di dittatura in ultima analisi arbitraria conserva una rilevanza basilare e innegabile; essa indica la fondamentale differenza tra il cittadino come soggetto o oggetto della politica, tra la persona e il suddito, la libertà e la repressione. (V. anche Autoritarismo; Cesarismo; Comunismo; Fascismo; Nazionalsocialismo; Regimi politici; Stalinismo; Totalitarismo).
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