Diversità
La diversità intravista
"Due cose nell'universo non possono essere assolutamente uguali tra loro": così nel 1440 si esprimeva N. Cusano nel suo De docta ignorantia (ii, 11). All'inizio del 18° sec. G.W. Leibniz, nel Proemio dei Nouveaux essais sur l'entendement humain (1704), sosteneva l'idea della "immensa sottigliezza delle cose", che solo Dio può penetrare, in quanto conosce perfettamente le infinite d. di cui è fatto il mondo. Gli uomini, dal canto loro, sono in grado di intravedere soltanto queste infinite d., ma quanto alla loro esistenza, quanto al fatto che vi sia una "diversità intrinseca delle cose" (ii, xxvii, 1), possono raggiungere un'idea chiara e convincersene con relativa sicurezza.
Per Leibniz tuttavia la "diversità intrinseca delle cose" non è soltanto qualcosa di statico - qualcosa che ha a che fare con lo spazio e possiamo percepire o intuire in una visione sincronica -, ma è anche una questione temporale: "la verità è che ogni corpo è alterabile, ed anzi alterato sempre attualmente, così da differire intrinsecamente da ogni altro" (ii, xxvii, 3). Qui la d. non riguarda solo la differenza tra due cose, collocate in punti diversi dello spazio, ma anche stati diversi di una stessa cosa in momenti distinti del tempo. Non si colloca cioè soltanto tra le cose, ma si insinua nelle cose stesse, le quali inevitabilmente si 'alterano', diventando 'altre', diverse da quelle che erano prima. Gli uomini dunque - immersi in un mondo che, oltre a essere infinitamente diversificato, si altera di continuo -, pur conoscendo solo confusamente tutte queste infinite diversificazioni nello spazio e nel tempo, sanno che esistono e si verificano senza posa. Inoltre, non sono spettatori inalterabili e impassibili, ma, facendo parte del mondo, sono direttamente coinvolti nei processi di diversificazione. Se il mondo in cui gli uomini devono vivere è fatto di infinite d. e alterazioni, a sua volta il loro essere "non può mai trovarsi in perfetto equilibrio", bensì in "una instabilità continua" (ii, xx, 6).
Questa profonda instabilità del sé e del mondo genera nell'uomo un sentimento di inquietudine, che Leibniz considera di capitale importanza, in quanto, per un verso, segna in modo permanente l'essere umano, e, per un altro, si configura come il principale, se non unico, stimolo all'attività degli uomini. L'inquietudine e il disagio, che provengono dalla percezione confusa della d. e dell'alterabilità delle cose, denotano una "mancanza" originaria di sicurezza nei rapporti dell'uomo con sé stesso e con il mondo: un profondo disorientamento, a cui egli pone rimedio con la sua "industria" e la sua "attività", ovvero con la sua cultura.
La diversità governata
Da Leibniz si ricavano altre due indicazioni preziose. La prima concerne "l'ignoranza" e le "percezioni confuse" che si hanno delle d., le quali riducono la gamma delle d. che possono essere percepite; non essendo così "incomodati da sensazioni troppo distinte di numerosi oggetti che non ci riguardano", consentono di "agire più prontamente per istinto" (ii, xx, 6). L'ignoranza e la confusione risultano funzionali alla prontezza dell'agire, cui sarebbe d'ostacolo un'attenzione troppo acuta per le diversità. La seconda indicazione concerne invece le "operazioni dello spirito", mediante cui si stabiliscono delle "relazioni" tra le cose (ii, xi, 4). In particolare, mentre con l'astrazione si provvede a individuare ciò che vi è di comune tra un certo numero di cose, con la comparazione si instaurano rapporti di somiglianza, eguaglianza, disuguaglianza, e con la riunione si mettono insieme certe cose, avvalendosi dei rapporti di causa-effetto e di tutto-parte. Ignoranza e confusione da un lato, operazioni di tipo relazionale dall'altro determinano un effetto comune, quello di una riduzione delle d. che rende più agevole l'agire degli uomini: in un mondo 'decomplessificato' le alternative si riducono, i dilemmi si semplificano, i tracciati divengono più chiari e lineari.
Anche la prospettiva antropologica individua la funzione primaria di ogni cultura nella funzione di 'messa in ordine' del mondo, di riduzione della complessità mediante i cosiddetti sistemi di classificazione. Tutte le società sono attratte per un verso dalla infinita d. delle cose e per l'altro avvertono l'esigenza di orientarsi in tale selvaggia complessità, provvedendo a classificare in qualche modo il reale. Quindi cercano un equilibrio tra questi due estremi: da un lato il riconoscimento della d. e della complessità, dall'altro l'esigenza dell'orientamento, che ovviamente tende a ridurre, a schematizzare, a irrigidire le alternative possibili. Tenendo conto di entrambi questi fattori e della tensione che si crea tra loro, è possibile apprezzare, nella loro funzionalità teoretica e nella loro profondità analitica, i sistemi di classificazione del mondo naturale che società senza scrittura hanno offerto all'occhio stupito di etnologi e di etnoscienziati.
Gli Hanunóo delle Filippine - per fare un esempio su cui ha lavorato un etnoscienziato come H. Conklin - hanno classificato il loro universo botanico in 1800 taxa, mentre la scienza ufficiale ha classificato la stessa flora in meno di 1300 taxa. C. Lévi-Strauss, che ha dedicato ai sistemi di classificazione indigeni uno dei suoi testi più impegnativi, ha voluto giustamente sottolineare come alla loro base vi sia un'"esigenza di ordine" (1962; trad. it. 1964, p. 23) e come un "criterio ordinativo, qualunque esso sia, ha sempre un valore rispetto all'assenza di ogni ordinamento" (p. 22). Ma la raffinatezza e l'analiticità, messe in mostra da molti sistemi di classificazione indigeni, possono essere interpretate come la prova che l'ordine e la riduzione della complessità - condizioni che favoriscono l'orientamento - non sono di per sé sufficienti; vi è pure l'altra esigenza, quella del riconoscimento delle d., che spesso spinge i sistemi a superare la soglia dell'utilità. Come afferma Lévi-Strauss, "la proliferazione concettuale corrisponde a un'attenzione più viva per le proprietà del reale, a un interesse sempre all'erta per le distinzioni che è possibile introdurvi" o riconoscervi. Più in generale, "l'universo è oggetto di pensiero almeno nella stessa misura in cui è mezzo per soddisfare dei bisogni" (p. 15). Questa "brama di conoscenza oggettiva" può essere motivata, soltanto dall'infinità delle distinzioni possibili, che per un verso occorre ridurre e incapsulare nelle categorie dei sistemi classificatori, e per l'altro riconoscere nelle loro potenzialità al di là della soglia di utilità. Un sistema troppo povero stenta a garantire un adeguato orientamento. Il senso della complessità, di una d. non del tutto governata, aiuta invece a non scambiare il proprio sistema con la realtà a cui vorrebbe imporre un ordine.
La diversità scartata
L'uomo non è solo nel mondo e non è spettatore a parte rispetto alla d. naturale. Egli vive in società e la d. concerne tanto il suo essere individuale, quanto la realtà sociale in cui opera. Tuttavia, rispetto alla d. naturale sulla quale egli proietta l'ordine prodotto dai suoi sistemi di classificazione, la d. sociale è già essa stessa ordinata, almeno in certa misura: se sulla natura vediamo proiettarsi un ordine culturale, la società coincide da subito con questo tipo di ordine. Clan, caste, classi sociali, ordinamenti politici, giudiziari, economici sono mezzi mediante cui si provvede a strutturare le società secondo schemi che la stessa società (o il potere al suo interno) elabora. I sistemi di parentela istituiscono, per es., categorie di parentela, in cui le d. individuali vengono superate da schemi più generali. La stessa nozione di parente provvede a distinguere un certo numero di individui dal resto della società e all'interno della cerchia dei parenti il sistema si articola in una serie di categorie più ristrette. Altri criteri - come il sesso e l'età - possono fungere da elementi di ordine. Tra maschio e femmina si tracciano spesso nelle società linee di separazione per quanto riguarda comportamento, abbigliamento, mentalità, valori: gli individui sono così portati a conformarsi a certi modelli, che senza dubbio attenuano le d. individuali. Allo stesso modo, le classi di età, raggruppando individui che collettivamente avanzano lungo una serie prefissata di 'gradi' (giovani, adulti, coniugati, anziani ecc.), imprimono sui loro membri segni di appartenenza, spesso anche di tipo fisico (come tatuaggi e scarificazioni). Anche i luoghi (di abitazione, di lavoro, di culto, di svago, di assembramento) in cui una società è fisicamente articolata sono fattori di ordine, essendo caratterizzati da modelli di comportamento che inducono una dose non indifferente di conformismo.
Si potrebbe ovviamente proseguire in questa disamina generale, partendo dalla tesi secondo cui in una società la struttura di ordine è un potente fattore di riduzione della complessità e della d. (Luhmann 1984). Ma proprio questo secondo aspetto della tesi - ossia la riduzione della d. - deve far comprendere che nessuna società coincide totalmente con il suo sistema di ordine. Come i paradigmi scientifici di Th. Kuhn - schemi di ordine proiettati sul mondo - hanno le loro anomalie, così ogni ordine sociale ha i suoi scarti, le sue d. scartate. Ci sono società che utilizzano esplicitamente la nozione di rifiuto per costruire la categoria degli scarti sociali. Tra i Mehinaku che vivono nel bacino dello Xingù (Brasile), gli adulti che non riescono a sostenere la stressante prova di dimostrare costantemente la propria virilità, vengono detti uomini dell'immondezzaio, e più o meno la stessa cosa sono gli uomini spazzatura (rubbish men) della Nuova Guinea (F. Remotti, Prima lezione di antropologia, 2000, pp. 84-85). A Giava vengono fatte valere due categorie di umanità: i sampun djawa, i 'già giavanesi', ovvero coloro che, essendo inseriti nell'ordine sociale, hanno ormai acquisito i criteri di umanità tipici della cultura giavanese, e i ndurung djawa, i 'non ancora giavanesi', quelli che sono rimasti fuori o non sono ancora entrati nell'ordine sociale (C. Geertz, The interpretation of cultures, 1973; trad. it. 1987, p. 95). Quest'ultima categoria comprende infatti gli zoticoni, i sempliciotti, i pazzi (tutte figure marginali) e i bambini. La presenza dei bambini in questa categoria di 'diversi' è spiegata dal loro essere 'non ancora' giavanesi, ossia ancora 'fuori' dellsociale, una d. che condividono - almeno fino a che perdura l'infanzia - con gli altri marginali. Per comprendere che la nozione di diversità scartata è essenziale a ogni società, conviene appunto risalire all'infanzia, alla condizione in cui l'essere umano contiene in sé l'insieme ancora confuso delle potenzialità psicologiche, sociali, linguistiche, che le società selezioneranno per costruire i loro ordini sociali e le loro forme di umanità. Come Lévi-Strauss aveva da tempo argomentato (Les structures élémentaires de la parenté, 1949; trad. it. 2003), e come è stato comprovato dalla linguistica e dalle neuroscienze, la crescita dell'individuo coincide sempre con tagli e scarti, con uno sfrondamento inesorabile di possibilità. L'ordine sociale è costruito sui cumuli di d. scartate, e quanto più è rigido e forte, tanto maggiori sono il taglio delle possibilità e lo scarto delle diversità.
La diversità creata. - Un sistema crea sempre d.: non si limita a mettere ordine e a scartare. Anche quando si applica alla natura proiettandovi un ordine classificatorio, nel momento stesso in cui sottolinea, esalta, o addirittura reifica certe somiglianze, determina automaticamente la produzione di più forti e significative diversità. In ambito sociale, la creazione di d. è soprattutto legata alla formazione di 'noi', ossia di insiemi per i quali gli individui avvertono un senso di appartenenza. Formare un 'noi' determina necessariamente la creazione di 'altri', quindi di una d.: gli altri non sono altri, non sono diversi, se non in funzione e dal punto di vista di un 'noi'; è il 'noi' che li crea e li fa essere come altri. Molto spesso si tratta di una d. artificiale, che si viene ad aggiungere alle d. preesistenti. Si tratta inoltre di una d. creata mediante criteri di contrapposizione, e quindi inventata o immaginata, proprio come inventati e immaginati sono i 'noi', le comunità (B. Anderson, Imagined communities, 1983; trad. it. 1996). Le d. ovviamente esistono e sono date anche sul piano sociale. Ma là dove si formano i 'noi', si provvede ad attenuare le d. interne (proprio come gli individui fatti entrare in una medesima categoria). L'obiettivo può essere quello di dar luogo a un 'noi' solido, compatto, e quanto più il 'noi' deve essere una realtà incontestabile, tanto più il processo di uniformazione si spinge verso il controllo e la soppressione delle sue d. interne (come è dimostrato dai regimi totalitari). In modo analogo, il processo di uniformazione riguarda anche gli ambienti esterni al 'noi': tutta una serie di d. vengono mentalmente cancellate, così da ottenere anche all'esterno categorie uniformi di 'altri', d. riunite, compattate, semplici da immaginare in base a una logica meramente contrappositiva, facili - si pensa - da governare sul piano pratico.
Quando i 'noi' si incamminano su questa strada - quella della forte riduzione di d. interna ed esterna -, l'idea di identità (un'identità collettiva) tende a imporsi nettamente, qualunque siano i suoi contenuti. Con l'affermazione e la rivendicazione dell'identità di un 'noi' la soppressione, quanto meno mentale, delle sue d. interne viene legittimata: esse perdono senso; e le d. esterne si raccolgono nella categoria ampia, inclusiva e contrappositiva di 'alterità'. Il ricorso all'identità è un'ipersemplificazione: è il grado più spinto a cui può giungere - sotto il profilo logico - il processo di riduzione delle diversità. In un certo senso, tutte le d. (interne ed esterne) vengono abolite, eccetto una, che guadagna il massimo rilievo: quella che coincide con il solco che si è venuto a scavare tra noi e gli altri, tra identità e alterità. Non solo, ma su questa strada il processo di riduzione delle d. passa da un livello quantitativo a un livello qualitativo. È importante cogliere questo passaggio dalla quantità alla qualità, perché un conto è ridurre le d. per sapersi orientare nel mondo (sia naturale, sia sociale) e un altro è ridurre le d. fino ad arrivare alla contrapposizione più semplice che si possa concepire, quella che si fa intercorrere tra noi e gli altri, attribuendo ai due termini valori qualitativamente opposti. Il più delle volte, i valori che si tirano in ballo in queste contrapposizioni attengono alla qualificazione di umanità: noi, veri uomini, fautori di un'umanità piena, gli altri, rappresentanti di forme inferiori o incompiute di umanità (Todorov 1989).
La diversità soppressa, la diversità ricercata. - I 'noi' che si pongono come realizzatori dell'autentica umanità possono assumere diversi tipi di atteggiamento nei confronti dell'alterità: se si ritengono sufficientemente forti, gli altri divengono oggetto di tolleranza, di rispetto, persino di simpatia e di benevolenza; ma se rappresentano una minaccia (reale o immaginaria) per la propria identità, integrità, purezza (coincidenti del resto con le proprie posizioni e i propri privilegi), la strada verso la discriminazione, il rifiuto e l'annientamento è aperta (Remotti 1996, pp. 28-29). Non v'è dubbio che il timore di vedere erodere le proprie conquiste, materiali e simboliche, è una molla potente verso la discriminazione dell'alterità. Ma è altrettanto indubbio che la costruzione di un 'noi' realizzatore della migliore umanità in opposizione agli altri, se da un lato offre una potente arma ideologica per la difesa delle proprie posizioni (e della propria identità), dall'altro si rivela un'armatura fragile, una 'finzione' terribile, ma dai piedi d'argilla: la d. - per quanto ridotta e occultata - è una minaccia rispetto alle costruzioni identitarie, perché ne rivela l'insopprimibile arbitrarietà. Si comprende allora il furore che spesso anima i 'noi' nelle loro azioni di annientamento degli 'altri' (come nella Shoah, nei massacri della Bosnia e del Ruanda, per citare soltanto alcuni esempi), capaci con la loro semplice d. di smascherare le 'finzioni' degli annientatori. Più ancora degli interessi materiali, la d. minaccia di smontare le costruzioni ideologiche con cui è stata disumanizzata, repressa, ridotta a un'alterità inferiore.
Ridurre la d. - a quanto pare - è un obbligo, un prezzo che occorre pagare per orientarsi in qualche modo nel mondo. In ambito sociale, come si è visto, i 'noi' riducono la d. al proprio interno e al proprio esterno, finendo per creare d. più ridotte e ordinate, meno confuse, più nettamente percepibili, meno sfuggenti, più massicce. Ma la rivendicazione dell'identità e, ancor più, l'affermazione della propria autentica umanità non rappresentano affatto stadi necessari e inevitabili di un cammino obbligato: i 'noi', riduttori di d., possono fermarsi molto prima e prendere altre direzioni. Una di queste è il ricorso all'alterità ed è attestata da molti casi etnografici. Non è affatto vero che tutti i 'noi' ritengano di racchiudere in sé tutto il senso dell'umanità. Molti ammettono e riconoscono la propria parzialità, la propria incompletezza, e sviluppano il senso dell'accidentalità e dell'arbitrarietà delle proprie decisioni; "siamo così, ma potremmo essere diversamente" (p. 37), sembrano dire, ed è su questa base che si aprono all'alterità, che invocano il soccorso degli altri per riprodursi, per formare i propri uomini o addirittura per morire. I Tupinamba, che vivevano lungo la costa orientale del Brasile, avevano un acuto senso dell'incompletezza e per loro era più importante il cannibalismo passivo che non quello attivo: non tanto mangiare l'alterità, quanto piuttosto essere mangiati dagli altri, 'finire' negli altri, per approdare in questo modo alla 'completezza' (aguyje) e alla Terra senza Male (pp. 86-87).
Si può vivere senza rimanere accecati dall'ossessione della propria identità. I 'noi', riduttori di d., possono riconoscere l'esigenza della diversificazione, sviluppando e favorendo al proprio interno la d. individuale. Nelle isole Trobriand della Melanesia, studiate da B. Malinowski, i dala (lignaggi) sono 'noi' matrilineari: essi trasmettono a tutti i loro membri una stessa sostanza umana, che li accomuna in un'identica forma di umanità. Non soltanto è vietato sposarsi al loro interno; è persino vietato - per così dire - somigliarsi tra parenti matrilineari. Sposarsi fuori ha il significato di ricorrere ad 'altri', allo straniero, che è il tama, il marito della donna, affinché costui plasmi i figli di sua moglie e li aiuti a divenire individui, con le loro caratteristiche peculiari. L'identità del dala viene superata e cancellata dallo sviluppo dell'individuo, unico e irripetibile; e la d. che egli apporta è un bene prezioso per tutta la società. Anche i Trobriandesi sono convinti che ogni individuo è portatore di una d. insopprimibile e che la d. - anche all'interno del 'noi' - è una ricchezza irrinunciabile.
Sono necessarie cura e attenzione - è necessaria una cultura della d. - per sapere riconoscere e valorizzare le più piccole varietà, sia sul piano sociale e culturale, sia su quello naturale. In un mondo in cui molte d. sociali e naturali sono state soppresse e tuttora vengono travolte senza esitazione alcuna, in un mondo nel quale si impongono truci contrapposizioni tra 'noi' e gli 'altri', tra identità e alterità, la lezione di Leibniz appare tutt'altro che trascurabile. Essa consiste nel sottolineare il valore delle piccole d., da ricercare, da riconoscere, da favorire, con la loro capacità di smontare e screditare i 'noi' troppo compatti e invadenti, di indicare inoltre vie alternative, ovvero possibilità che si credeva di dover scartare: piccole, infinite, preziose d. per le quali occorre acuire sensi e intelletto, così da apprezzarle nella loro irripetibilità, nel loro divenire, nelle loro potenzialità trasformative ed evolutive (la teoria dell'evoluzione di Ch. Darwin è in effetti fondata sul riconoscimento delle variazioni individuali). Come Lévi-Strauss ha affermato in conclusione del suo Race et histoire, "bisogna 'ascoltare la crescita del grano', incoraggiare le potenzialità segrete", disporsi a cogliere "senza ripugnanza" e senza troppo sgomento quanto esse sono in grado di "offrire di inusitato" e di inatteso (1962; trad. it. 1964, p. 143).
Bibliografia
C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Paris 1962 (trad. it. Milano 1964).
R.C. Lewontin, Human diversity, New York 1982 (trad. it. Bologna 1987).
N. Luhmann, Soziale Systeme, Frankfurt a.M. 1984 (trad. it. Bologna 1990).
Tz. Todorov, Nous et les autres, Paris 1989 (trad. it. Torino 1991).
F. Remotti, Contro l'identità, Roma-Bari 1996, 20035.