Diversità
Malgrado l’appartenenza di tutti gli uomini alla stessa specie, tra i vari gruppi umani si riscontrano evidenti differenze riguardo ai tratti somatici, al colore della pelle e alla struttura corporea: varietà dovuta a complessi processi di adattamento, alle diverse condizioni ambientali (l’uomo è l’unica specie capace di adattarsi ai climi equatoriali come a quelli artici) e a fenomeni culturali, come le modificazioni estetiche di parte del corpo finalizzate a creare una distinzione più netta di un’etnia rispetto ad altre. Nella rappresentazione artistica la problematica del ‘diverso’ riguarda, nella gran parte dei casi, la raffigurazione dell’appartenente a etnie e a religioni differenti ma, secondo un’accezione allargata del termine diversità, rientrano in essa anche aspetti inerenti alle deformità fisiche e alle devianze sessuali che, sebbene in misura assai meno copiosa, sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo di questa o quell’altra epoca.
La diversità etnica
di Stefano Allovio
1.
Le notevoli differenze esteriori che contraddistinguono i gruppi umani sono in gran parte dovute al fattore climatico (adattamento). Nelle lunghe migrazioni che hanno portato l’Homo sapiens dall’Africa, sua regione d’origine, in tutti gli angoli del pianeta, gli esseri umani sono stati capaci di adattarsi alle diverse condizioni ambientali via via incontrate, grazie alla selezione naturale: un processo di adattamento indispensabile alla sopravvivenza, vista la forte differenza sussistente tra le condizioni climatiche del continente africano rispetto a quelle presentate dagli altri continenti.
Uno dei segni più evidenti su cui si basa la classificazione degli esseri umani è il colore della pelle, determinato dalla quantità di melanina presente nell’epidermide, che produce una vasta gamma di sfumature, dall’estremamente chiaro delle popolazioni nordeuropee allo scuro intenso di certi gruppi africani. Tali variazioni sono dovute a fattori adattivi in risposta a particolari condizioni ambientali. La melanina ha come funzione principale la protezione dello strato superiore della pelle dai danni causati dai raggi ultravioletti del sole (ustioni o fenomeni di degenerazione delle cellule dell’epidermide, come i melanomi), essendo l’uomo sprovvisto del filtro naturale costituito, in molti altri animali, dal pelame. L’esposizione al sole, d’altra parte, favorisce la conversione di alcune sostanze grasse dell’epidermide in vitamina D, indispensabile per l’assorbimento del calcio, senza il quale le ossa diverrebbero fragili e si andrebbe incontro al rischio di rachitismo. Tale pericolo doveva minacciare fortemente quei popoli allevatori e coltivatori mediterranei, che circa 6000 anni fa si installarono nell’Europa settentrionale. Il freddo li costringeva a indossare abiti pesanti e quindi la loro esposizione alla debole luce solare era molto limitata. Inoltre la loro dieta, a differenza di quella dei popoli pescatori, non forniva prodotti ittici marini ricchi di vitamina D. Pertanto, in questi individui la pelle chiara consentiva di sfruttare al massimo la scarsa luce solare disponibile per sintetizzare la vitamina D e costituiva, di conseguenza, un fattore favorevole alla selezione naturale. Il colore della pelle rappresenta dunque un compromesso tra il rischio di ustione e degenerazione dell’epidermide e quello di rachitismo, ed è per questo che si riscontra la tendenza ad avere una pelle più scura nelle zone equatoriali e più chiara alle latitudini maggiori. Alle latitudini medie, come quelle del Bacino mediterraneo, la pelle adotta la strategia di cambiare colore con le stagioni: in estate, quando il rischio di rachitismo è basso, la pelle è protetta dall’abbronzatura, determinata dalla maggiore produzione di melanina; d’inverno, quando è ridotto il rischio di scottature e di fenomeni degenerativi, la pelle produce meno melanina e l’abbronzatura scompare. Non sempre, tuttavia, la relazione tra latitudine e colore della pelle è così univoca: sono molti, infatti, i fattori che incidono al riguardo, come la disponibilità di cibi contenenti calcio e vitamina D, la quantità di abiti indossati, le preferenze culturali ecc. Per es. gli eschimesi, pur vivendo in regioni artiche, non sono affatto chiari di pelle, e questo è dovuto a una dieta che è eccezionalmente ricca sia di vitamina D sia di calcio.
Il colore della pelle è solo una delle modificazioni avvenute nel corpo in risposta alle nuove condizioni ambientali via via incontrate dall’uomo nel lungo processo di colonizzazione del pianeta. Se si osservano le dimensioni corporee delle popolazioni che vivono in regioni molto umide, come la foresta tropicale (pigmei, indios amazzonici), si nota immediatamente quanto esse siano ridotte rispetto alla media umana. Infatti in un clima caldo e umido è conveniente essere piccoli per aumentare la superficie rispetto al volume, poiché è alla superficie che avviene l’evaporazione del sudore, che consente al corpo di raffreddarsi. Inoltre un corpo piccolo necessita di un minore impiego di energia nel muoversi e quindi di una minore produzione di calore interno. Allo stesso modo, i capelli crespi, tipici dei pigmei della foresta dell’Ituri (Congo) e dei neri in generale, trattengono maggiormente il sudore, prolungando l’effetto di raffreddamento dovuto alla traspirazione (Cavalli Sforza 1996). Nelle popolazioni che vivono in climi freddi sono caratteristici i tratti somatici di tipo mongolico: il naso piccolo riduce il pericolo di congelamento e le narici affilate fanno in modo che l’aria, arrivando più lentamente ai polmoni, si riscaldi e acquisti umidità; l’accumulo di grasso sotto le palpebre protegge gli occhi dal freddo e lascia un’apertura molto sottile, che riduce l’esposizione dell’occhio ai venti artici; il volume corporeo è maggiore di quello delle popolazioni di foresta, poiché, diminuendo la superficie rispetto al volume, si riduce la dispersione di calore verso l’esterno; il corpo e la testa, infine, hanno forme che tendono alla rotondità, in quanto la forma sferica trattiene maggiormente il calore. Per contro, nei popoli che abitano regioni torride e desertiche (come i gruppi nilotici dell’Africa orientale o i tuareg del Sahara) si nota una tendenza verso una figura allungata e sottile, che consente una dispersione del calore ottimale e un migliore raffreddamento.
2.
Nelle popolazioni i geni possono presentare due o piu alleli, cioè forme alternative che occupano la stessa posizione su cromosomi omologhi e controllano le variazioni di uno stesso carattere. La base genetica della diversità umana è determinata non dalla presenza di geni diversi nei differenti gruppi, ma piuttosto dalla variazione delle frequenze degli alleli; queste vengono chiamate polimorfismi genetici quando l’allele più raro nella popolazione ha una frequenza superiore all’1%. Un esempio tipico di polimorfismo genetico è rappresentato dalle variazioni del gruppo sanguigno.
Sebbene si sia spesso tentato di trovare una legittimazione scientifica alla tradizionale classificazione delle razze umane cercando una base biologica sulla quale fondare i presupposti delle diversità, tale operazione è risultata del tutto fallace. Da numerose ricerche compiute per misurare la quantità di variazioni nei tratti polimorfici presenti nelle razze più numerose rispetto a piccoli gruppi locali (come tribù ed esigue comunità etniche), è risultato che 1’85% di tali differenze genetiche è presente all’interno di gruppi locali compresi nelle razze principali (Lewontin 1982). Questo risultato indica quindi che in qualsiasi gruppo etnico, scelto casualmente, ci si può attendere di trovare rappresentato nel suo bagaglio genetico (Harris 1993) l’85% di tutte le variazioni proprie della specie umana. Questi e altri dati forniti dalla ricerca genetica hanno contribuito a invalidare le vecchie teorie che presupponevano l’esistenza di razze ‘pure’, originali, caratterizzate da tratti biologici peculiari, i quali, trasmessi ereditariamente, avrebbero perpetuato tale suddivisione fino ai nostri giorni.
Alla base della diversità umana si trovano i quattro meccanismi evolutivi principali: le mutazioni, la selezione naturale, la deriva genetica e le migrazioni. La mutazione è un processo evolutivo casuale, molto lento nel tempo, originato da alterazioni o ‘errori’ nel codice del DNA o da cambiamenti nella struttura o nel numero di cromosomi. Un eccessivo carico di mutazioni può alterare il patrimonio di una specie fino a causarne l’estinzione. Le mutazioni tuttavia costituiscono la base della variabilità genetica e, quindi, la materia prima per estesi cambiamenti evolutivi se questi sono vantaggiosi (Harris 1993).
La selezione naturale è il processo determinato dal numero di geni che riescono a essere trasmessi alla generazione successiva, cioè dal successo riproduttivo. Più figli vivi una coppia riuscirà a mettere al mondo, più il loro adattamento sarà elevato. Grazie alla selezione naturale, gli organismi si possono definire ‘adattati’ ai bisogni richiesti dal loro habitat. In pratica, la selezione naturale sceglie coloro che meglio si adattano alle caratteristiche ambientali (Cavalli Sforza 1996).
La deriva genetica è l’effetto delle fluttuazioni statistiche nel passaggio da una generazione a quella successiva. La deriva è maggiormente importante nelle piccole popolazioni, per es. nel caso in cui un’esigua parte di una popolazione emigra e porta con sé nella nuova sede, casualmente, un corredo di geni scarsamente rappresentato nel gruppo originale. Presso gli indiani d’America il 100% degli individui è di gruppo sanguigno 0; è dunque possibile che i primi immigrati dall’Asia (poco più di una decina), pur provenendo da una popolazione in cui il gruppo 0 caratterizzava il 50% degli individui, appartenessero tutti a tale gruppo e pertanto i loro discendenti ne abbiano ereditato i geni specifici. Nel caso di popolazioni di più ampie dimensioni, i frequenti incroci conducono invece a una circolazione maggiore di geni e a una conseguente omogeneizzazione delle loro frequenze. A differenza della selezione naturale, che ha la precisa finalità di migliorare l’adattamento della specie all’ambiente, la deriva genetica non tiene conto del risultato finale, in quanto assolutamente casuale.
Le migrazioni sono causa di incroci tra individui di popolazioni diverse, con conseguente inevitabile modificazione delle frequenze geniche. Per es., come risultato del flusso di geni, la popolazione del Brasile moderno ha una frequenza genica che non era caratteristica degli africani, europei e nativi americani che contribuirono alla formazione di tale popolazione (Harris 1993).
3.
L’evidente diversità tra i gruppi umani ha costituito fin dall’antichità uno strumento di classificazione, usato spesso per delimitare la propria etnia e mantenere la distanza dalle altre. In epoca moderna, la scienza occidentale ha intrapreso il tentativo di classificare il genere umano in razze distinte, quasi sempre partendo da un presupposto etnocentrico che vedeva negli abitanti del Vecchio mondo la massima espressione dell’umanità. Sebbene Ch. Darwin non avesse mai applicato le sue teorie al genere umano, gli antropologi evoluzionisti cercarono di stabilire un legame tra le diverse presunte razze e il loro grado di evoluzione culturale. Mettendo ancora più in evidenza il fattore etnocentrico, si tentava di sovrapporre a un’evoluzione biologica, basata sulla selezione naturale, un’evoluzione culturale parallela. La razza veniva quindi considerata come elemento determinante della cultura, in virtù delle sue intrinseche caratteristiche genetiche. Osserva C. Lévi-Strauss: «II peccato originale dell’antropologia consiste nella confusione tra il concetto puramente biologico di razza (dato e non concesso, d’altronde, che anche su questo terreno circoscritto tale concetto possa ambire all’oggettività, cosa che la genetica moderna contesta) e le produzioni sociologiche e psicologiche delle culture umane. [...] Le culture umane sono molto più numerose delle razze umane» (1952).
Benché tutti i movimenti razzisti abbiano cercato una legittimazione scientifica alle loro idee, la scienza moderna non concede nulla a interpretazioni discriminatorie di tipo né qualitativo né quantitativo. Il presupposto su cui necessariamente si fondano le teorie razziste è quello dell’esistenza di razze pure e quindi di geni originari specifici di ciascuna di esse. Se, come afferma L. Cavalli Sforza (1996), una razza è un gruppo di individui che si possono riconoscere come biologicamente diversi dagli altri, il ‘riconoscere’ assume un solo significato: la diversità tra una popolazione che si vuole identificare come una razza e le popolazioni vicine deve essere statisticamente provata. Si è visto come la diversità del colore della pelle e delle dimensioni corporee sia in realtà un fattore adattivo, dettato in particolare dall’influenza del clima e pertanto non legato alla razza. Procedendo a una mappatura sistematica si possono riscontrare diversità genetiche anche tra piccole popolazioni contigue e, scendendo ancora più nel dettaglio, si potrebbero mettere in evidenza le diversità genetiche esistenti tra gruppi di individui all’interno della popolazione stessa. Se ci sono differenze di tipo genetico, queste non sono dovute alla separazione delle razze in quanto tali, bensì a eventuali barriere di tipo linguistico o di tipo ambientale. In quest’ottica, appare chiaro che la volontà di classificazione, seguendo un rigoroso metodo scientifico, dovrebbe portare a un frazionamento totale del genere umano, dove, per assurdo, ogni individuo verrebbe a costituire una razza a sé.
4.
Se i processi adattivi hanno provveduto a modificare i corpi degli uomini in conseguenza dei loro habitat, gli uomini hanno contribuito a creare altre differenze per distinguere il proprio gruppo di appartenenza da quelli limitrofi, modificando i tratti originali del corpo tramite particolari acconciature dei capelli, tatuaggi, cicatrici, deformazioni corporali ecc. (decorazione). Così, per es., nell’Africa occidentale i diversi gruppi etnici si distinguono tra di loro in base alle cicatrici che vengono incise sul volto dei neonati, le quali rappresentano una vera e propria ‘carta d’identità’ dalla cui lettura è possibile stabilire il gruppo etnico del portatore, la regione di origine e, in alcuni casi, anche il clan cui esso appartiene.
Una delle modificazioni più appariscenti è la deformazione del cranio, pratica seguita da diverse popolazioni. Gli armeni e i curdi dell’Asia minore si deformavano il cranio per evitare di essere confusi con i turchi e quindi condotti come schiavi in Persia. Lo stesso costume era diffuso forse nel Messico precolombiano e sicuramente fra alcuni gruppi di indiani del Nord America (un gruppo di essi era significativamente conosciuto come ‘teste piatte’). Un’altra testimonianza dell’esigenza di segnare sul corpo la differenza di status e di potere è riscontrabile fra i dìì del Camerun, dove la popolazione maschile pratica la circoncisione, mentre il capo per esprimere la sua diversità si sottopone a un’ulteriore operazione, attraverso la quale il pene è privato quasi completamente della pelle. Anche la tendenza a ‘scrivere’ sui corpi per definirne la particolarità è uno dei segni tipici dell’attività culturale, che determina la distinzione in primo luogo tra gli uomini e gli animali e, successivamente, tra i diversi gruppi umani. La necessità di non essere uguali agli altri nasce dall’esigenza di creare un ‘noi’ definito e limitato. La comunità, il gruppo, l’etnia sono entità che esistono in funzione di una loro diversità rispetto agli altri, diversità che, non essendo sempre evidenziata da tratti naturali visibili, viene creata mediante la modificazione particolare del proprio corpo al fine di trasformarlo in ‘emblema’ che rappresenti l’appartenenza a un determinato gruppo. La creazione di un’identità implica due operazioni diametralmente opposte: la prima consiste nel ‘separare’ e quindi nel rendere diverso; la seconda invece nell’‘assimilare’, cioè nel rendere uguale (Remotti 1996). Lo scrivere sul proprio corpo risponde a queste due esigenze: tracciando segni particolari, utilizzando colori specifici, modificando forme originali di parti del corpo, si rende quest’ultimo diverso dagli altri; allo stesso tempo tali operazioni danno vita a un gruppo che si riconosce, per opposizione, in quanto portatore unico di tali segni distintivi.
Gli usi alimentari di un popolo, oltre a essere legati alle risorse disponibili, sono spesso condizionati da norme culturali che regolano il consumo di taluni alimenti, contribuendo così a rafforzare l’identità collettiva: chi mangia determinati cibi appartiene a ‘noi’, gli ‘altri’ si nutrono di cose diverse. Emblematica al riguardo è la pratica dei batutsi dell’Africa interlacustre di adottare una dieta prevalentemente liquida (a base di latte e latticini) per differenziarsi fisicamente dagli agricoltori bahutu.
Presso alcuni aborigeni australiani ogni clan ha, per simbolo, un animale totem di cui è vietato mangiare la carne. Per es. il ‘clan della tartaruga’ non può nutrirsi della carne di questo animale, il quale rappresenta una serie di valori spirituali e religiosi legati alla storia del gruppo. In chiave ecologica tali tabu funzionano anche come regolatori della caccia e, quindi, dell’equilibrio ambientale.
Uno dei più noti tabu alimentari è quello previsto dall’islamismo e dalla religione ebraica nei confronti della carne suina, il cui consumo è esplicitamente vietato ai fedeli. Le motivazioni di tale proibizione sono dovute a ragioni di tipo igienico ed economico, ma al di là di questi aspetti il divieto agisce sul piano culturale quale fattore d’identità e di differenziazione (v. carne).
Un altro tabu, che contribuisce a distinguere i seguaci dell’induismo e di altre religioni orientali, è rappresentato dalla proibizione di nutrirsi di carne di vacca. Nell’età vedica (1500-1000 a.C.), quando l’India del nord fu dominata dagli ari, che introdussero un’organizzazione sociale fondata su una rigida divisione in caste al cui vertice erano i brahmani, abbondanti quantità di carne venivano consumate dalle caste alte e talvolta elargite anche al popolo. Nei secoli successivi, per l’incidenza di due fenomeni — da un lato l’aumento demografico con conseguente diminuzione di pascoli e bestiame, dall’altro il diffondersi del buddismo, contrario alla macellazione dei bovini anche in antagonismo politico con le caste sacerdotali al potere — si impose, nonostante il prevalere dell’induismo e dei brahmani nella lotta religiosa, il principio di protezione di questi animali che divennero simboli religiosi in tutto il paese.
di Marco Bussagli
I.
Nell’ambito delle civiltà antiche, la rappresentazione del ‘diverso’ nelle opere d’arte figurative si identifica sostanzialmente con quella dello sconfitto e del nemico, che viene iconograficamente impiegato nell’economia dell’opera con la precisa funzione di esaltare il protagonista della scena, appartenente alla civiltà dominante. Senza possibilità di deroghe, è infatti sempre quest’ultimo il committente dell’opera.
Due esempi illuminanti in questo senso vengono dalla civiltà egizia. Sul retro della celebre Tavolozza di Narmer, proveniente da Ieracompoli (attuale Kom el-Ahmar) e oggi conservata al Museo Egizio del Cairo, è rappresentata la maestosa figura del faraone che sottomette il nemico sconfitto; la grande allegoria della faccia anteriore, invece, mostra al centro due felini immaginari affrontati e trattenuti per il lunghissimo collo da due personaggi: i capelli ricci a caschetto, che lasciano scoperte le orecchie, e i tratti negroidi qualificano questi ultimi come gli sconfitti, i sottomessi da Narmer che ha unificato sotto un unico scettro, per la prima volta, l’Alto e il Basso Egitto. La medesima caratterizzazione etnografica dei vinti si ritrova nella Tavolozza degli avvoltoi, divisa fra l’Ashmolean Museum di Oxford e il British Museum di Londra; in essa il faraone è raffigurato sotto le spoglie di un leone inferocito, nell’atto di sbranare i nemici dall’aspetto negroide; in altre scene della tavolozza sono le insegne imperiali animate e dotate di mani a far prigionieri gli sconfitti quasi nudi (Donadoni 1981).
Non sempre la rappresentazione del diverso, che poi altro non è che lo straniero, appare con caratteristiche etniche così evidenti. Nell’ambito della produzione dei rilievi assiri provenienti dalle grandi residenze reali, per la gran parte conservati al British Museum, sono gli atteggiamenti e i costumi a definire i ruoli e i rapporti che permettono di individuare il diverso. Così, il cosiddetto Obelisco nero di Salmanassar III (858-824 a.C.) mostra chiaramente la sottomissione e l’omaggio espressi dai rappresentanti del paese di Muri, una regione che si estendeva a settentrione dell’Assiria e che costituì un serio ostacolo alla sua espansione. Sempre nel medesimo monumento troviamo l’atto di sottomissione di Iehu, sovrano d’Israele, commentato da un’iscrizione il cui soggetto è Salmanassar stesso: «Tributo di Iehu, ‘figlio’ di Omri. Ho ricevuto da lui argento, oro, un vaso saplu d’oro, un vaso zaqutu d’oro, coppe d’oro, secchielli d’oro, stagno, un bastone per la mano del re...». I prigionieri ebrei, catturati dopo la presa di Lachish, sono rappresentati sul pannello litico proveniente dalla XXXVI stanza del palazzo S-O a Ninive e ora conservato al British Museum. Esso mostra, da fonte assira, una scena relativa agli episodi narrati dalla Bibbia (II Re, 17), quando il re assiro Sennacherib (704-681 a.C.) impose al re di Giuda, Ezechia, un tributo d’oro talmente grande da obbligarlo a sguarnire delle lamine del prezioso metallo perfino gli stipiti del tempio di Gerusalemme (Cagni 1981). Quel che interessa notare in questa sede è il modo in cui vengono rese le caratteristiche fisionomiche di un’etnia diversa, interpretate dall’anonimo scultore assiro realizzando teste dal profilo rotondeggiante e regolare, in contrasto con quelle piuttosto allungate dei vincitori assiri; completano la differenza le barbe e i capelli ricci e corti, che risaltano rispetto alle barbe e ai capelli lunghi dei conquistatori (De Maigret 1980).
Le acconciature rivestivano un ruolo non secondario nell’identificazione degli appartenenti a genti diverse. È proprio dalla capigliatura, infatti, che è possibile identificare un elamita ritratto al seguito di re Assurbanipal (668-629 a.C.) nel rilievo proveniente dalla stanza meridionale del palazzo di questo sovrano a Ninive, ora al British Museum. La scena mostra il re intento a saggiare la flessibilità di una serie di archi da tiro e il fatto che un elamita, contro il cui popolo Assurbanipal aveva rivolto i suoi strali, sia presente in questo contesto non solo indica la volontà di esaltare la potenza del monarca, ma è testimonianza dell’integrazione coatta dei popoli sottomessi.
Con significato analogo, nei bassorilievi che decorano il muro di fondo dell’apadana, la sala ipostila del palazzo di Persepoli nella quale le delegazioni dei popoli dominate dallo scettro achemenide confluivano da ogni parte dell’impero per portare il proprio tributo al Re dei re, compare la lunga teoria di figure provenienti dai ventitré paesi vassalli dell’impero. Caratterizzati dal proprio costume, sfilano lidi, sogdiani, cilici, babilonesi, battriani e tutti i rappresentanti di un territorio che, al tempo di Dario I (522-486 a.C.), si estendeva dalla Ionia alla Caria, fino alla regione del Gandhara situata nella valle dell’Indo.
L’impiego dello straniero come ‘ingrediente’ iconografico per l’esaltazione della cultura dominante non è tuttavia esclusivo appannaggio dei grandi imperi orientali, dall’Egitto alla Persia. Esso compare infatti anche nella democratica Grecia. È noto quanto fosse ellenocentrica la posizione di Erodoto (tra 490 e 480-424 a.C.) che, nelle Storie, più volte, tende a considerare l’Asia come ricettacolo di tutte le negatività possibili, in opposizione alla Grecia, modello di ogni positività. Una posizione simile, del resto, si rispecchia nella stessa lingua greca, dal momento che il termine βάρβαρος, «straniero», alla lettera significa «balbuziente». In altre parole, è straniero colui che parla male greco, che non è integrato nella cultura ellenica, unico paradigma di riferimento e di giudizio. In quest’ottica, la rappresentazione del diverso assume una connotazione esotica nella realizzazione di oggetti d’uso comune. Ne è un esempio la splendida oinochòe plastica di produzione attica, datata all’ultimo venticinquennio del 6° secolo a.C. e conservata al Museum of Fine Arts di Boston: il corpo del vaso è costituito dalla testa di un uomo di razza negra, che permette di sfruttare in modo quanto mai efficace la ceramica a vernice nera; completano l’effetto i tratti somatici caratterizzati dal naso largo e dalle labbra carnose risparmiate sullo stesso fondo rosa naturale, e la crespatura dei capelli, resi con la giustapposizione di globetti d’argilla. La scelta ornamentale del soggetto, tuttavia, non diminuisce il risvolto sostanzialmente negativo che il manufatto sottintende: quello del nero servitore e fenomeno naturale degno di attenzione.
Di colore più propriamente politico si tingono invece opere come il Galata suicida (Roma, Palazzo Altemps) e il Galata morente (Roma, Musei Capitolini), ambedue già appartenute alla Collezione Ludovisi, che, secondo la recente ricostruzione di F. Coarelli (1995), costituivano un unico gruppo, il cui originale bronzeo doveva far parte del donario di Attalo I (241-197 a.C.) sull’acropoli di Pergamo. Secondo l’ipotesi di Coarelli, doveva completare l’insieme la cosiddetta Amazzone morta del Museo Archeologico Nazionale di Napoli che, sulla base di un disegno cinquecentesco in cui è raffigurata con l’aggiunta di un infante che prova ad attaccarsi al seno, può essere interpretata come un’altra galata uccisa. Il gruppo avrebbe dovuto celebrare le vittorie di Attalo I sui galati di Galazia, popolazione celtica poi divenuta alleata di Roma nel corso delle guerre mitridatiche. La copia Ludovisi, infatti, sarebbe stata realizzata come omaggio a Giulio Cesare e inviata a Roma per essere collocata nei suoi horti. La presenza dei baffi, dei capelli incolti e del monile a tortiglione intorno al collo, qualificano come barbari i protagonisti del gruppo bronzeo. Questo venne successivamente trafugato da Nerone nel corso delle spoliazioni dei santuari del Mediterraneo da lui operate per abbellire Roma (Dione Crisostomo, Discorso, 34, 148 s.; Tacito, Annali, 16, 23, 1). È interessante sottolineare che l’aspetto dei galati era così diverso, così dichiaratamente straniero, da poter collocare il gruppo «nel Templum Pacis, edificio eretto per commemorare la vittoria sugli Ebrei: nemici ‘barbari’ assimilabili, dal punto di vista romano, ai Galati [...]» (Coarelli 1995). L’episodio è particolarmente significativo in quanto pone l’accento sulla tendenza delle culture dominanti a non distinguere le diversità dei popoli stranieri. È proprio sulla base di questa logica che, al di là delle diversità storiche e degli episodi, non esiste sostanziale differenza fra l’atto di sottomissione dei capi daci a Traiano seduto sul suggestum fra le insegne, raffigurato sulla Colonna Traiana (113 d.C.), e consimili scene di omaggio presenti non soltanto sulla Colonna di Marco Aurelio (180-190 d.C.), ma anche in opere del tutto distanti, come per es. il cosiddetto Avorio Barberini (500 circa d.C.), conservato al Louvre, nel registro inferiore del quale compaiono i sudditi della Scizia e dell’India che portano il tributo all’imperatore a cavallo, molto probabilmente Giustiniano (Grabar 1966). Che si tratti di una tipologia lo dimostra il fatto che il medesimo schema venne successivamente utilizzato per le Adorazioni dei Magi i quali, in questi casi, ricoprono il medesimo ruolo dei sudditi che portano il tributo all’imperatore. Un esempio significativo è costituito dal piatto di legatura dell’Evangeliario di Lorsch, conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Apostolica Vaticana, reinterpretazione di età carolingia dello schema dei dittici imperiali (Gaborit-Chopin 1991). Deve essere, però, notata una diversità sostanziale: il fatto che i Magi fossero stranieri è, secondo i padri della Chiesa, la riprova della realtà della nascita del Salvatore, perché la testimonianza favorevole di chi è fieramente avverso appare ancora più degna di fede (Basilio di Cesarea, Homilia in sanctam Christi generationem, 5, P.G. 31, col. 1469B). La variante non è di poco conto perché, in questo ambito, il diverso viene fatto rientrare nell’economia del disegno divino senza che ci sia integrazione coatta. In altre parole, non è necessario che i Magi rinuncino alla loro condizione per essere accettati ma, al contrario, la loro testimonianza risulta ancora più valida perché essi non sono integrati.
Altre volte questa accettazione non avviene, come dimostra, per es., la più volte documentata presenza di personaggi di tipo mongolico nelle crocifissioni o nei martiri dei santi. Analogamente, anche la testa di cavaliere mongolo dipinta da Pisanello (sulla base di un suo disegno sicuramente realizzato dal vero; Codice Vallardi, Parigi, Louvre, Cabinet des dessins et medailles, nr. 2325) sotto la forca degli impiccati mostra come nell’immaginario dell’Europa di allora (Chiappori 1981) i mongoli fossero associati a un’idea di incontenibile capacità distruttiva, talmente temibile da farli definire ‘tartari’, come se fossero genti uscite dall’inferno.
Il rapporto con le civiltà orientali, però, non fu sempre così traumatico. A prescindere dalle forme di vero e proprio collezionismo, sviluppate fin dal tempo degli antichi romani (Bussagli 1985), lo splendido busto in porfido di un dignitario romano pettinato alla maniera indiana, con tanto di ushnisha e di urna sulla fronte, custodito a Roma nella Galleria Borghese, testimonia insospettabili vicinanze culturali. Accanto alla diffidenza per il diverso, infatti, convive anche il fascino per gli aspetti ignoti rappresentati dalla diversità, che possono sconfinare nel meraviglioso e nell’inusuale (v. mostro).
Allontanandosi dalla cultura occidentale, fin qui trattata, si può notare come la lunga trama di contatti fra la Cina e il suo Occidente ha portato alla formulazione della rappresentazione di tipi fisici stereotipati, che ha avuto il suo apice nella produzione di statuine di porcellana smaltata della dinastia Tang (618-907 d.C.). In questi casi, però, non troviamo nessun intento denigratorio, ma, semmai, quello di porre in evidenza i caratteri fisici di altre popolazioni, anche se con una sfumatura ironica e caricaturale. Ne è un esempio la statuina di un venditore armeno di vino, al Museum of Fine Arts di Boston, rappresentato con in mano il caratteristico otre, la cui voluminosa presenza finisce per confondersi con quella dell’addome. Inginocchiato per terra, il venditore si caratterizza per la lucidissima barba nera che incornicia la larga faccia e per il naso decisamente aquilino, alla radice del quale stanno due folte sopracciglia. Frequenti sono pure le rappresentazioni di mercanti ebrei dalla barba liscia e dal naso camuso, avvolti in strette tuniche d’ispirazione sasanide e contraddistinti dall’immancabile cappello di feltro a punta, con le falde ripiegate. La rappresentazione degli occidentali, invece, è per lo più affidata ai capelli ricciuti, o quanto meno ondulati che, però, possono essere entrati a far parte del modello iconografico, più che direttamente, attraverso fonti artistiche e archeologiche. Accanto ai capelli fortemente mossi, altro tratto distintivo sono gli occhi rotondi (Gaston Mahler 1959).
2.
Una riflessione sulla rappresentazione del diverso non sarebbe completa senza una sia pur superficiale disamina dell’impiego della figura del nero. Per il mondo antico, oltre agli esempi egizi citati e al ricordato vaso di Boston (che peraltro non è un caso isolato nella produzione della ceramica greca), si può ricordare il celebre litostroto di Palestrina con scene nilotiche (1° secolo d.C.), dove la presenza di cacciatori neri che indossano una veste bianca contribuisce a creare quel clima africano da paese esotico che ben si accorda con la presenza di ippopotami e coccodrilli.
Assai più complessa è la problematica che si sviluppa nel corso del Medioevo. Se da una parte l’impiego della figura del nero, e in particolare della testa, viene assorbito dal linguaggio araldico che la utilizza non solo negli stemmi, come riferimento (trofeo) alle guerre contro i mori, ma anche nei cimieri e nelle insegne, dall’altra la connotazione esotica del nero va a rifinire il significato simbolico di un tema iconografico precedentemente ricordato: quello dell’Adorazione dei Magi. In questo contesto, la presenza del mago nero è sufficiente a far sì che gli altri due vengano considerati come appartenenti all’Europa e all’Asia (magari alla Microasia che non implica tratti somatici particolari): vengono evidenziate così, da una parte, l’integrazione del diverso nel mondo cristiano e, dall’altra, l’ecumenicità della Buona Novella, indirizzata alle tre parti del mondo allora conosciuto.
Un ulteriore aspetto simbolico della figura del nero riguarda la connotazione negativa assunta dal colore della sua pelle. È certamente questo il motivo per cui Giotto ha rappresentato un nero fra gli aguzzini che battono Cristo nel Cristo Deriso della Cappella dell’Arena a Padova e, in base a un’amplificazione dello stesso concetto, ha inserito un demonio nero nel Giudizio Universale del medesimo ciclo pittorico. Non esistono qui intenti razzistici: il colore della pelle evoca, in sé stesso, aspetti negativi, poi stigmatizzati in specifiche figure simboliche. Non è infatti un caso che la Malinconia, galenicamente definita atra bilis («bile nera»), miniata nel Liber cosmographiae di John of Foxton (Cambridge, Trinity College, ms. R. 15-21, f. 14v) abbia colore e aspetto negroidi, proprio come la Melancholia I di A. Dürer.
Con l’Ottocento questi valori si perdono. Rimane soltanto quello dell’esotismo a cui, però, se ne aggiunge un altro, quello dell’identificazione del nero con lo schiavo. Lo mostra bene un busto di terracotta di J.-B. Carpeaux che rappresenta una donna negra discinta stretta da una corda (Donai, Musée de la Chartreuse), significativamente intitolato Pourquoi naître esclave. Forse per questo è un nero a sventolare il panno ne La zattera della medusa di J.-L.-Th. Géricault, conservata al Louvre.
3.
Per quanto concerne la diversità in quanto deformità fisica, bisogna subito dire che la deroga alla forma perfetta del corpo umano e la conseguente riproduzione artistica dell’imperfezione fisica è, per così dire, un’invenzione ellenistica. Lo dimostra, per es., un raccapricciante bronzetto conservato a Berlino (Staatliche Museen, Antikensammlung) che mostra un mendicante gobbo e macilento, talmente realistico da far nascere seri dubbi sul suo intento caricaturale. In ambito medievale, la rappresentazione delle deformità umane è utilizzata positivamente nell’economia dell’opera d’arte. Riflesso del concetto di pietà proprio del pensiero cristiano è, per es., il paralitico della fontana cosiddetta minore di Perugia di Arnolfo di Cambio (Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria). Anche in questo senso, il cristianesimo, sulla falsariga del Vangelo tende a far rientrare il diverso nell’economia della salvezza in modo così potente da farne un privilegiato. Meno chiaro il significato de Gli storpi di P. Bruegel il Vecchio (Parigi, Louvre), che forse si colora di sottintesi politici, ma che comunque eleva il soggetto a rappresentazione artistica. Al contrario, appare carico di implicazioni morali la Parabola dei ciechi (Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte) dello stesso pittore, dal momento che la cecità, proprio sulla scorta del pensiero evangelico, diviene sinonimo di cecità interiore (Bussagli 1998). Naturalmente, gli esempi potrebbero moltiplicarsi fino ad arrivare alla provocatoria esposizione di un portatore di handicap alla Biennale di Venezia da parte di G. De Dominicis (Dorfles 1975, p. 249).
4.
Rara è, invece, la rappresentazione delle devianze sessuali e in particolare dell’omosessualità. Quella femminile risulta comunque poco dirompente, tanto che finisce per essere adombrata e tacitamente accettata in opere celebri, come il gruppo delle Tre Grazie, di tutte le epoche. Per non parlare poi delle varie ‘ninfe al bagno’ o di opere come Il bagno turco di J.-A.-D. Ingres (Parigi, Musée d’Orsay). Riguardo all’omosessualità maschile, invece, soggetti più o meno espliciti appartengono sostanzialmente al Novecento: basti citare, per es., i dipinti di L. Freud, come Naked man with his friend (Collezione privata, 1978-80). Vale però la pena ricordare un disegno cinquecentesco di F. Salviati, realizzato a penna e inchiostro bruno e poi acquerellato, intitolato Tre nudi maschili. Conservato a Parigi presso l’École nationale supérieure des Beaux-Arts, il dipinto mostra, sia pure in un modo che potremmo definire assolutamente castigato, le schermaglie sessuali di tre uomini di età diversa. Sebbene, attraverso lo schermo della mitologia, non fossero rare nel 16° secolo e in quelli successivi le allusioni all’omosessualità maschile (si pensi al Ratto di Ganimede del Correggio, conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna), non sembra esistano esempi altrettanto espliciti di questo tema (Nava 1998, p. 203).