Dodecafonia
di Luigi Rognon
Dodecafonia
Sommario: 1. Introduzione. 2. Modalità e tonalità. 3. Tonalità e cromatismo. 4. Connotazione del linguaggio musicale tonale e progressiva saturazione. 5. Le origini della dodecafonia. 6. L'individuazione dodecafonica di Arnold Schönberg. 7. L'‛occultamento' della serie. 8. Serialismo e tonalità in Alban Berg. 9. Astrattismo e ‛puntilismo' in Anton Webern. 10. Eredità e diffusione della dodecafonia. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nella crisi dei valori e nella progressiva saturazione dei linguaggi artistici nei primi decenni del nostro secolo, la dodecafonia ha assunto per la musica una funzione decisiva e determinante, pari e analoga a quel processo riduttivo della ‛linea' e del ‛punto' nello spazio che ha portato un Kandinskij e un Mondrian all'‛arte astratta' in base a una razionale riconsiderazione dei mezzi strutturali della pittura. Il ‛metodo dodecafonico', cioè quella tecnica compositiva che considera i 12 suoni della scala cromatica temperata nella loro totalità e reciprocità funzionale, è una conseguenza diretta dell'esperienza espressionista in musica (v. espressionismo musicale) che si riconduce essenzialmente ad A. Schönberg e alla sua scuola.
Tra i vari orientamenti assunti dai musicisti agli inizi del secolo, quello di Schönberg fu il più radicale nel cercare una via d'uscita dalla saturazione del linguaggio tonale maturata durante il romanticismo col crescente uso della modulazione che culmina nella progressione cromatica wagneriana di Tristan und Isolde (1857). Questo processo può essere delineato in sintesi in alcuni punti fermi del coerente cammino creativo percorso dal grande maestro viennese: da Verklärte Nacht (Notte trasfigurata) op. 4, per sestetto d'archi, che risale al 1899 e nella quale il cromatismo tristaniano è spinto allo sfaldamento, alla Kammersymphonie op. 9 (1906) che, attraverso l'‛allargamento della tonalità', la dissolve e preannuncia nel contempo la politonalità, quindi alla ‛sospensione tonale' (coi Drei Klavierstücke, op. 11, 1908-1909) e infine alla ‛atonalità' (termine che per altro Schönberg rifiuta, preferendo parlare semmai di ‛pantonalità') con gli aforistici Sechs kleine Klavierstücke op. 19 (1911); qui l'esperienza espressionista del compositore raggiunge la sua fase più acuta nella ‛riduzione' dell'idea sonora all'essenza, dopo la quale non vi può essere che la sospensione del suono nel silenzio, oppure la riorganizzazione dei mezzi sonori in una nuova sintassi musicale.
‟Nelle mie prime opere dello stile nuovo - scriverà più tardi Schönberg - sono stato guidato, nei particolari e nell'insieme, specialmente da fortissimi poteri espressivi insiti nella costruzione formale e - elemento non ultimo - da un senso per la forma e per la logica ricavato dalla tradizione e ben sviluppato grazie alla diligenza e alla coscienziosità. Queste forme furono rese possibili da una limitazione che mi ero imposto inconsciamente fin dal primo momento: la limitazione a ‛brevi' pezzi, fatto che allora io mi spiegavo come reazione allo stile ‛lungo'. Oggi posso spiegarlo meglio nel seguente modo: la rinuncia ad utilizzare i mezzi tradizionali della struttura [cioè del sistema armonico tonale] rese da principio impossibile affrontare le forme di una certa ampiezza, poiché queste non possono sussistere senza una precisa articolazione. E per questa ragione che le uniche opere alquanto ampie di quest'epoca sono solo composizioni con testo, dove appunto la parola costituisce l'elemento connettivo" (v. Schönberg, 1926; tr. it., p. 404). Per questo l'opera più importante realizzata da Schönberg nel linguaggio della libera ‛atonalità' è Pierrot lunaire op. 21 (1912) su testi del simbolista belga A. Giraud, tradotti in tedesco da O. E. Hartleben, che, al pari di Le sacre du printemps (1913) di Stravinskij, segna una pietra miliare nella storia della musica contemporanea: entrambe rappresentano l'avvio a due differenziate e divergenti soluzioni della crisi del linguaggio musicale. Mentre Stravinskij dallo scatenato politonalismo di Sacre volgerà poi progressivamente alla restaurazione ‛deformante' della tonalità sino al neoclassicismo degli anni venti, Schönberg, spinta alle estreme conseguenze la dissoluzione del sistema tonale, proporrà, nello stesso periodo, una nuova strutturazione del linguaggio musicale sulla base di quello che egli definirà ‟Methode der Komposition mit zwölf nur aufeinander bezogenen Töen" (‟Metodo di composizione con dodici note che stanno in relazione soltanto fra loro").
Alla dodecafonia Schönberg giunge attraverso una serrata riflessione teorica che va di pari passo e scaturisce anzi dalla prassi creativa. La Harmonielehre, scritta fra il 1909 e il 1911, frutto della sua attività didattica che ha inizio a Berlino nel 1902 e procede a Vienna negli anni seguenti, sottopone a una nuova metodologia lo studio dell'armonia e del contrappunto. Schönberg respinge gli schemi precostituiti e le regole date per dimostrate dalla tradizione didattica imperante nei conservatori, per proporre una fenomenologia della tecnica musicale studiata nella sua evoluzione storica: dalla ‛modalità', attraverso secoli di lenta elaborazione, al ‛sistema tonale' che determina e domina l'evoluzione della musica dal Rinascimento al romanticismo. Tuttavia, avverte Schönberg, ‟non esistono per noi leggi eterne, ma solo indicazioni che hanno valore fintantoché non vengono superate ed eliminate, del tutto o in parte, da condizioni nuove" (v. Schönberg, 19222; tr. it., p. 63). I principi dell'armonia tonale che da Rameau e Tartini erano andati consolidandosi e cristallizzandosi nelle successive elaborazioni teoriche sulla base dell'armonia duale (maggiore-minore) e della legittimità ‛naturale' dell'accordo consonante, principî che ancora vigevano nell'insegnamento dei conservatorî e che avevano avuto da M. Hauptmann e H. Riemann un'ulteriore accademica codificazione, vengono attaccati alla base da Schönberg, il quale ritiene che ‟la tonalità non è una legge naturale ed eterna della musica" (ibid., p. 9), ma semplicemente il risultato di una direzione maturata dalla musica occidentale e dimostratasi attiva e feconda sino al suo attuale sfaldamento che già si preannuncia nei romantici e si acutizza infine nell'armonia cromatica di Wagner.
Per comprendere la posizione teorica e didattica di Schönberg si deve connetterla strettamente alla sua esperienza di compositore che a quest'epoca (1911) ha già oltrepassato quei ‛confini della tonalità' di cui si parla negli ultimi capitoli della Harmonielehre. Dopo Pierrot lunaire e i Vier Stücke op. 22 per canto e orchestra, l'attività creativa di Schönberg si arresta per diversi anni. Nel 1917 riprende però, con crescente fervore, l'insegnamento nel Seminar für Komposition, dove sempre più numerosi si raggruppano gli allievi: la Harmonielehre continua a essere la base dell'insegnamento preliminare, mentre in questo periodo Schönberg sta già elaborando i principî del ‛metodo dodecafonico', sperimentati parzialmente nei Fünf Stücke op. 23 per pianoforte e nella Serenade op. 24 (1920-1923) e, per la prima volta, integralmente realizzati nella Suite op. 25 per pianoforte (1921-1923). Tuttavia nella Harmonielehre (ampliata e ristampata nel 1922) non si parla mai di ‛metodo dodecafonico', anche se gli ultimi capitoli, sostanzialmente già formulati nel 1911, trattano di ‛accordi vaganti' (agierende Akkorde), di ‛suoni estranei all'armonia e di ‛valutazione estetica degli accordi di sei e più suoni', preludendo in tal modo alla formulazione di un'‛armonia' fondata sul totale cromatico.
Sin dalle prime pagine della Harmonielehre, Schönberg afferma che, per quanto essa voglia essere ‟un manuale e servire come tale a fini pratici, cioè dare all'allievo un sicuro metodo di esercitazione", non trascura di aprire ‟nuove prospettive sui rapporti più complicati, su affinità e relazioni che la creazione artistica ha con le altre attività dell'uomo, sulle reciproche relazioni tra gli elementi dati in natura fuori di noi e il soggetto operante e contemplante" (ibid., p. 19). Schönberg entra subito nel vivo dell'argomento, chiarendo che ‟sul gradino più basso l'arte è semplice imitazione della natura. Ma ben presto diventa [...] non solo imitazione della natura esteriore ma anche di quella interiore [...]. Al suo più alto livello l'arte si occupa solo di riprodurre la natura interiore" (ibid., p. 20). Viene qui affermata la posizione del soggettivismo espressionista, al pari di Kandinskij che, in quegli stessi anni, pubblica un analogo ‛manuale' pittorico (Über das Geistige in der Kunst, München 1912; tr. it.: Della spiritualità nell'arte, Roma 1940), ma si chiarisce anche l'impegno morale dell'artista in una civiltà avviata alla ratio formalizzata e al dominio tecnocratico che porterà all'alienazione del concetto stesso di ‛arte'. Ora, proprio lo studio dell'armonia come struttura ‛storica' del linguaggio musicale occidentale deve essere liberato dagli schemi feticistici che precostituiscono il nostro orecchio, intenzionando la nostra percezione sensibile auditiva verso i più profondi significati originari della musica, quando la distinzione tra ‛consonanza' e ‛dissonanza' non esisteva. Fondamentali appaiono le premesse metodologiche di Schönberg: se egli afferma che la tonalità non è una legge eterna, una legge di natura della musica, come hanno creduto ‟tutti i teorici che mi hanno preceduto, anche se questa legge corrisponde alle condizioni più semplici del modello naturale, cioè del suono e dell'accordo fondamentale", tuttavia è indispensabile conoscere a fondo tutto ciò su cui si basa questa constatazione e studiare come essa si produce, giacché ‟le condizioni della dissoluzione del sistema sono contenute in quelle stesse condizioni che lo determinano e [...] in tutto ciò che vive esiste ciò che modifica, sviluppa e distrugge la vita" (v. Schönberg, 19222; tr. it., pp. 35 e 37).
È sorprendente come Schönberg si accosti, già in questa epoca (1909-1911), a quei postulati storici e critici della fenomenologia che E. Husserl chiarirà più tardi in rapporto alla ‛crisi' della cultura e delle scienze: per poter ‟giungere, prima di qualsiasi decisione, a un'autocomprensione radicale" come intenzionalità del passato verso il futuro, è necessario operare ‟attraverso una considerazione critica di ciò che nella propria finalità e nel proprio metodo rivela quell'aderenza ultima e autentica alla propria origine (Ursprungsechtheit) che, una volta penetrata, lega a sé apoditticamente la volontà" (E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschafien und die transzendentale Phänomenologie, 1935-1936, den Haag 1954; tr. it.: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano 1961, pp. 46-47). Il concetto di ‛veridicità' (Wahrhaftigkeit), cui deve costantemente tendere l'artista e sul quale tanto insiste Schönberg nel corso della Harmonielehre, è proprio inteso come autocomprensione radicale nell'inveramento del passato verso il futuro; e in questo senso egli precisa: ‟Uno dei compiti più nobili della teoria è risvegliare l'amore per il passato e aprire, nello stesso tempo, lo sguardo verso il futuro: in tal modo essa può essere storica, stabilendo legami tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che presumibilmente sarà. Lo storico può svolgere un compito fecondo quando presenta non delle date ma una concezione della storia, e quando non si limita a enumerare, ma si adopera a leggere nel passato il futuro" (v. Schönberg, 19222; tr. it., p. 37).
2. Modalità e tonalità
Per comprendere le ragioni storiche che portarono Schönberg alla coerente formulazione del ‛metodo dodecafonico' e con esso alla riassunzione dei principi della tecnica polifonico-contrappuntistica, è opportuno chiarire i concetti di modalità e tonalità che hanno retto la musica occidentale dai Greci ai giorni nostri, nel graduale passaggio dalla monodia alla polifonia e quindi all'affermarsi di una sensibilità armonica col risorgere della monodia nel Rinascimento.
Alle origini, per i Greci il concetto di ‛armonia' è una nozione puramente matematica e filosofica; tuttavia questo termine s'identifica con dia-pason che indica l'unità delle sette note nell'ottava, la quale comprende il tetracordo o la quarta (dia-pason) e il pentacordo o la quinta (dia-pente). L'unità dei sette suoni è però concepita dai Greci essenzialmente in senso orizzontale (dall'acuto al grave). Impossibile per i Greci pensare i suoni nella dimensione verticale, cioè accordale, anche se essi possiedono le nozioni di consonanza (syn-phonia) e di dissonanza (dia-phonia) relative all'intervallo tra due suoni, considerato sia come intervallo melodico, sia come intervallo armonico, quest'ultimo però assai limitato nella prassi musicale. Mentre per i pitagorici il mondo dei suoni era determinabile unicamente in base al rapporto matematico degli intervalli ed essi legittimavano in tal modo sia gli intervalli consonanti, sia quelli dissonanti, Aristosseno di Taranto per primo si oppose a questa concezione, affermando che si doveva operare una ‛scelta' percettiva nel rapporto fra suoni, distinguendo cioè gli intervalli consonanti da quelli dissonanti in base al ‛giudizio' dell'orecchio (Aristosseno, Harmonica elementa, Il). Tuttavia sappiamo che il ‛giudizio' dell'orecchio è condizionato dall'esperienza percettiva e culturale di una determinata epoca e che esso muta con l'insorgere di nuove esperienze e di nuove condizioni culturali. Infatti per i Greci (e sino ai primi teorici medievali) erano consonanti soltanto gli intervalli di quarta e di quinta e le loro trasposizioni di ottava, cioè l'undicesima e la dodicesima, mentre erano dissonanti la seconda, la terza, la sesta e la settima; e la terza, che diventerà l'intervallo consonante per eccellenza, continua a essere considerata dissonante sino al Quattrocento inoltrato: per questo le conclusioni di una frase musicale avvengono sempre all'unisono o all'ottava o alla quinta. Bisognava rompere il circolo chiuso del semplice rapporto tra due soli suoni per indirizzare la percezione auditiva alla dimensione verticale. La terza infatti comincia a essere utilizzata solo quando il principio della triade (che sarà il cardine del sistema tonale), cioè l'accordo formato da due terze sovrapposte (do-mi-sol) si fa strada e va consolidandosi; tuttavia si ha ancora la tendenza a considerare consonante solo la terza maggiore, mentre la terza minore è ritenuta dissonante o consonanza imperfetta. Questo spiega perché tutte le cadenze, almeno sino all'epoca barocca, concludono in ‛maggiore' e mai in ‛minore'.
Il punto cruciale del passaggio dalla sensibilità monodica a quella polifonica, dall'analisi alla sintesi, è dato dall'organum (etimologicamente il principio ‛organizzativo' dei suoni) dal quale nasce sia il concetto di contrappunto, sia quello di armonia, anche se la nozione di armonia in senso tonale prenderà coscienza e autonomia dopo il primo, giacché la sensibilità polifonica si biforcherà in due distinte direzioni che si potrebbero definire della polifonia ‛orizzontale' (contrappunto) e della polifonia ‛verticale' (armonia).
Con l'instaurazione, nel sec. XI, del mensuralismo guidoniano, il contrappunto si consolida e si sviluppa: da semplice, a due voci (duplum), diventa triplo e quadruplo sino a raggiungere una vera e propria dialettica delle voci (sino a dodici parti reali) coi Fiamminghi. Ma l'accordo di due o più suoni come individuazione della sensibilità armonica sfugge ancora totalmente ai teorici che si sforzano di classificare gli intervalli della scala sulla scorta di quanto era stato tramandato dai Greci, studiandone e analizzandone i rapporti unicamente in base al contrappunto. Invece nella prassi creativa dei compositori la sensibilità armonica comincia a formarsi sin dal XIII secolo: allorché tre suoni si incontrano, l'orecchio si orienta verso un nuovo rapporto percettivo, si ha l'‛accordo', e il campo sonoro si apre allora a una dimensione non più soltanto orizzontale semplice (monodica) o multipla (polifonica), ma verticale; e il linguaggio musicale comincia a rivelare prospettiva, profondità. È in questo momento che i concetti di consonanza e di dissonanza, come opposti ‛espressivi', tendono ad acquistare per il compositore un embrionale significato soggettivo, e con G. de Machault, per esempio, siamo già all'accordo armonico come precisa connotazione espressiva; ma l'accordo non si muove ancora, non si concatena con altri accordi, rimane un fatto isolato. La musica è ancora, nella sua essenza, vincolata al sistema modale.
Tuttavia, anche se il principio tonale va affermandosi nella prassi compositiva, i concetti di ‛modalità' e ‛tonalità' continuano a essere soggetti a confusione teorica e critico-storica. Modo e tono (e tropo, che indicava spesso il ‛tono' di trasposizione) nella riflessione teorica del Medioevo e anche, in gran parte, del Rinascimento, sono confusi, imbrogliati: entrambe le nozioni sfuggono a un'univoca definizione teorica, perché nella prassi musicale le regole sono ancora soggette a sistemazioni imperfette e fra loro contraddittorie.
Mentre nella musica tonale i modi verranno ridotti a due (‛maggiore' e ‛minore') perché essa non considererà come finale che due soli gradi (il la e il do) della scala-tipo, cioè quella diatonica, nella musica modale la finale di una scala di sette suoni, e quindi la conclusione di una melodia, può cadere su ciascuno dei sette gradi della scala diatonica; ed era questo punto d'arrivo finale che distingueva un modo dall'altro, costituendo così sette scale modali che, per i Greci, si dividevano in tre generi, il diatonico, il cromatico e l'enarmonico:
I modi greci trapassano nella liturgia della Chiesa cattolica e, in base alla risoluzione sul suono finale d'ottava, vengono elevati a otto (quattro autentici e quattro plagali; questi ultimi si trovano a una quarta inferiore rispetto ai primi).
Il radicale trapasso dalla modalità alla tonalità avviene infine col ritorno alla monodia del madrigale in forma rappresentativa, col ‛recitar cantando' della Camerata Fiorentina agli inizi del Seicento e con lo stile realistico del melodramma monteverdiano, mentre i primi fondamenti teorici dell'armonia in senso tonale si hanno sin dalla metà del Cinquecento con le Istitutioni harmoniche (1558) seguite dalle Dimostrationi harmoniche (1571) di Gioseffo Zarlino, il quale formula il principio della ‛divisione armonica' e della ‛divisione aritmetica' degli intervalli, gettando le basi di quella teoria armonica duale della tonalità che troverà in Rameau la sua sistemazione pratico-teorica e sulla quale dovrà reggersi tutta l'impalcatura didattica della musica sino ai giorni nostri.
Con l'affermarsi del ‛recitar cantando' e dello stile melodico era logico che si dovesse cercare un fondamento ‛accordale', a sostegno del canto, cioè un ‛accompagnamento' che desse rilievo alla melodia senza sovrapporsi a essa: venne così imponendosi la prassi del ‛basso cifrato' (i cui numeri stavano a indicare gli intervalli costituenti un accordo), derivato dalla pratica organistica del ‛basso continuo'. Nello stesso tempo l'individuazione istintiva del rapporto fra due e più suoni si era fatta strada con la tendenza della nota si (sensibile) a risolvere sulla nota di partenza do (tonica), e nel sec. XVI, in piena polifonia contrappuntistica, l'intuizione di un centro tonale, che si manifestava sempre più nell'alterazione dei toni ecclesiastici alla cadenza, aveva affermato progressivamente quel principio di ‛riduzione' modale che doveva infine portare alla radicale affermazione della bi-modalità tonale. Bisognava però attendere che la polifonia contrappuntistica raggiungesse la sua saturazione per poter trarre da questa esperienza una nuova sintesi, la quale permettesse di considerare l'accordo non più come il risultato fortuito del movimento delle parti, ma come un fondamento articolato del linguaggio musicale.
A disgregare il sistema modale contribuisce poi, in modo decisivo, il cromatismo che nella seconda metà del Cinquecento dilaga nella prassi compositiva e ha i suoi più ferventi cultori in Cipriano de Rore, in Luca Marenzio e in Gesualdo da Venosa: anche se la tonalità non è ancora consapevolmente individuata, la sensibilità armonica raggiunge ormai un alto grado di raffinatezza nell'orientamento accordale che il contrappunto dei polifonisti rivela. Si può dire che, in questo periodo, l'armonia tonale s'imponga allo stato di pura percezione, prima ancora di venire imbrigliata in un sistema. Come il cromatismo prenderà il sopravvento, nella seconda metà dell'Ottocento, giungendo a minare i cardini del sistema tonale, per porsi come gamma di suoni uguali e reciproci, così avviene al limite dell'esperienza modale: il cromatismo è e sarà l'elemento disgregatore che libera il campo sonoro dalle limitazioni di un sistema ormai cristallizzato e inadeguato alle esigenze espressive del compositore.
3. Tonalità e cromatismo
La codificazione teorica del sistema tonale bi-modale è merito essenziale di Jean-Philippe Rameau che seppe, per primo, semplificare e ordinare con estrema chiarezza le elaborazioni teoriche dei suoi predecessori, riducendole a due fondamentali principi: la teoria dei rivolti e quella degli armonici generatori dell'accordo perfetto. Entrambe non erano una novità assoluta: anche il principio del rivolto era stato intuito da Zarlino col riconoscere che l'accordo di sesta sul mi ha la stessa struttura armonica della triade sul do. Ma Rameau univa alla viva esperienza del compositore, imbevuta del classicismo di Corneille e di Racine, una solida preparazione scientifica e metodologica che gli derivava dal razionalismo cartesiano. I fondamenti matematici della musica, che erano stati più volte posti in sede filosofica e teorico-musicale, non avevano però trovato una reale corrispondenza nella prassi musicale, comprese, come s'è visto, le ricerche di Zarlino; e anche i recenti accenni di Mersenne, di Leibniz e di Eulero attendevano una conferma.
Essa venne data da Rameau, che per primo riuscì a conferire un fondamento armonico razionale all'uso del basso numerato. Nel Traité de l'harmonie (1722), la sua prima opera teorica, dopo aver affermato che ‟la musique est une science qui doit avoir des règles certaines" e che ‟ces règles doivent être tirées d'un principe évident et ce principe ne peut guere nous être connu sans le secours des mathématiques", Rameau passa a esaminare gli accordi e a confrontarli fra loro, pervenendo così alla constatazione che gli accordi formati da terze sovrapposte stanno alla base di tutti gli altri accordi composti dalle stesse note e hanno in comune un unico suono fondamentale. Così do-mi-sol e i relativi rivolti mi-sol-do e sol-do-mi risultano identici per natura e differenti solo per la disposizione delle note: essi sono tutti generati dal do che egli chiama ‟la basse fondamentale". Con l'individuazione del principio del rivolto, il numero degli accordi è notevolmente ridotto e in base a esso si possono ora classificare, ordinare e relazionare tra loro tutte le armonie derivanti dalle triadi-tipo ‛maggiore' e ‛minore', su tutti i gradi sia della scala diatonica, sia della scala cromatica. Il sistema tonale viene così codificato e la riduzione ai due cardini che determinano e reggono una tonalità (tonica e dominante: do-sol) permette di dare un fondamento scientifico all'armonia. Ma Rameau vuole anche trovarne il fondamento ‛naturale', poiché egli è convinto che la melodia derivi dall'armonia e non viceversa; ed è il fisico Joseph Sauveur a suggerirglielo sulla base di un fenomeno acustico che era già stato notato da Cartesio e da Mersenne: il fenomeno della risonanza di una nota che rivela, in tal modo, di essere composta da una serie di ‛armonici'. Zarlino aveva ottenuto i primi sei armonici dividendo matematicamente una corda; ma Sauveur, in base a dati sperimentali relativi ai rispettivi rapporti di frequenza, aveva saputo descrivere in modo esatto il fenomeno della risonanza, constatando che esso è formato da una serie di armonici la cui udibilità va diminuendo col crescere dell'altezza dei suoni irradiati dalla nota fondamentale. Rameau non esita ad applicare questo fenomeno all'accordo perfetto ‛maggiore'; in tal modo i fondamenti matematici della consonanza sembrano aver trovato un fondamento naturale. Rimane tuttavia da dimostrare che lo stesso fenomeno degli armonici è pure applicabile alla consonanza perfetta ‛minore', se si vuole legittimare il sistema armonico tonale come un ‛dono della natura'. Rameau crede di poter dare questa dimostrazione facendo risonare la corda più alta di una serie di corde disposte secondo la ‛divisione aritmetica' di Zarlino,
convinto che il mi3, facendole vibrare tutte, contenesse virtualmente gli ‛armonici inferiori'. Ma l'enciclopedista Jean Le Rond d'Alembert, che ha molta ammirazione per Rameau e ne difende, pur con talune riserve, le teorie, gli fa osservare che in realtà le corde vibrano ‛per simpatia', riproducendo tutte la nota mi3 e non gli ‛armonici inferiori'. Anche Giuseppe Tartini tenterà di far derivare l'accordo perfetto ‛minore' dai cosiddetti armonici inferiori, seguendo un altro procedimento, quello dei ‛suoni di combinazione' ottenuti facendo risuonare simultaneamente due note: il sol e il mi2, per esempio, fatti vibrare contemporaneamente lasciano udire un ‛terzo suono', il do, che appare come il primo suono comune alle due serie armoniche inferiori di sol1 e mi2, suono che in realtà deriva da un numero di vibrazioni uguale alla differenza del numero delle vibrazioni dei due primi suoni (G. Tartini, Trattato di musica secondo la vera scienza dell'armonia, Padova 1754; cfr. cap. I, È 2 e È 6).
Oggi si sa che la teoria degli ‛armonici' ha un fondamento acustico, ma non ‛estetico', e che essa non legittima affatto la ‛naturalità' di un sistema musicale, giacché il fenomeno della risonanza - in seguito meglio analizzato da H. Helmholtz, che per primo riuscì a mettere in risalto le singole frequenze separandole dalle altre (fenomeno oggi perfettamente controllabile oltre la soglia dell'udibilità mediante l'oscillografo a raggi catodici) - realizza tutta la gamma dei suoni nella totalità delle frequenze. Se si procede infatti oltre la convenzionale serie dei primi sedici armonici, si ottiene una gamma enarmonico-cromatica infinita,
nella quale rientra dunque anche il campo sonoro del nostro sistema cromatico temperato che, come osserva Schönberg, non è che ‟un sistema di approssimazioni, il sistema perfetto di una scala imperfetta", e quindi ‟tra consonanza e dissonanza v'è solo una differenza graduale" e in conseguenza ‟non esistono suoni estranei all'armonia, poiché l'armonia è fondata da qualsiasi sonorità simultanea di più suoni" (v. Schönberg, 19222; tr. it., pp. 404, 483 e 401).
Ma la divisione della scala diatonica in dodici semitoni uguali e reciproci non poteva costituire ancora la base per l'allargamento dell'armonia. Individuato e codificato il sistema tonale bi-modale, su esso doveva reggersi tutta l'impalcatura teorica della musica in un progressivo approfondimento di tutte le possibilità offerte dalla tonalità sui dodici gradi della scala cromatica. Bach ne darà una sintesi scrivendo i magistrali ‛preludi e fughe' del Clavicembalo ben temperato (Das Wohltemperierte Klavier, 1722 e 1744) su tutte le tonalità ‛maggiori' e minori' del sistema tonale cromatico temperato.
Nella seconda metà del Settecento e per tutto l'Ottocento teorici e didatti non faranno che integrare, sviluppare, approfondire le possibilità dell'armonia tonale sulla base dei principi fondamentali di Rameau, che avevano fissato in modo stabile il meccanismo di ogni movimento accordale, col conferire una funzione primaria alla ‛tonica', alla ‛sottodominante' (con sesta) e alla ‛dominante', e riconoscendo che la dissonanza deriva dal prolungamento della triade consonante (do-mi-sol), mediante l'aggiunta di una terza (do-mi-sol-si).
4. Connotazione del linguaggio musicale tonale e progressiva saturazione
Dai principî teorici dell'armonia tonale Rameau aveva voluto derivare anche un'estetica musicale che arrivava a fissare il significato particolare delle armonie consonanti e dissonanti secondo la ‛natura' dei sentimenti umani: ‟Il est certain que l'harmonie peut émouvoir en nous différentes passions, à proportion des accords qu'on y emploie. Il y a des accords tristes, languissants, tendres, agréables, gais et surprenants"; così le consonanze (e anche le dissonanze preparate) esprimono gioia e magnificenza, le dissonanze ‛minori' preparate la dolcezza e la tenerezza, le dissonanze non preparate il furore e la disperazione, ecc. (Rameau, Traité de l'harmonie, op. cit., p. 143); e Rameau arrivava persino ad affermare che il genere diatonico ‟a l'agréable en partage; le chromatique le varie, et dans le mode mineur il tient du tendre et plus encore du triste; l'énharmonique déroute l'oreille, porte l'excès dans toutes les passions, effraye, épouvante et met partout désordre" (Rameau, Démonstration du principe de l'harmonie servant de base à tout art musical théorique et pratique, Paris 1750, p. 99).
Era nell'aria la teoria illuministica della Affektenlehre (che influirà anche su Kant e su Beethoven), la quale derivava dal vecchio concetto della imitatio naturae, ricomparso nel Cinquecento, ma per quanto riguarda la musica, solo nel Settecento essa comincia ad avere un significato estetico-tecnico particolare, in base al quale si pongono i canoni per l'‛espressione dei sentimenti', imparentando affectus a determinati effetti armonici, melodici, ritmici; come appunto propone Rameau, fissando così quei ‛principi artigianali' della tecnica musicale che domineranno tutto il Settecento.
Con Beethoven e col romanticismo, il musicista entra però in una nuova dimensione culturale e spirituale: l'‛espressione dei sentimenti' non appare più riferibile ai dati oggettivi della costruzione musicale la quale, appena raggiunto il suo ordine ‛chiuso' (con la forma-sonata e con la tonalità d'impianto che caratterizza e distingue una composizione), già reca in sé i germi della rottura.
Alla Affektenlehre di Rameau si contrappone ora l'Ichgefühl, l'interiorità individuale, soggettiva: il mondo psicologico dell'artista diviene il punto centrale del conflitto col mondo esterno. Hegel pone la musica tra le ‛arti romantiche' (insieme con la pittura e la poesia), ma afferma che la musica è l'espressione della ‟pura soggettività" che si dà in sé e per sé; e a differenza della scultura e della pittura, la musica non si esteriorizza nello spazio: rinuncia totalmente a esso per ritirarsi ‟nella soggettività sia dal punto di vista dell'interno che dell'esternò" (Estetica, tr. it., Milano 1963, p. 1172). Per Novalis l'infinità dello spirito si manifesta nell'arte come Unbedingte (l'incondizionato) che solo la musica è in grado di esprimere pienamente. Tutto il pensiero romantico sull'arte pone la musica nella sfera più elevata dei linguaggi artistici. Con Beethoven nasce il concetto di ‛musica assoluta' (puramente strumentale) intesa poi dai romantici come la sola vera forma di ‛espressione musicale' autonoma e autosufficiente, in opposizione all'opera teatrale sostanzialmente ibrida e impura, soggetta alla moda e alle convenzioni. Ora, se la codificazione dei principi dell'armonia aveva reso possibile anche la codificazione della forma-sonata come modello-tipo della costruzione musicale pura, con il processo d'interiorizzazione soggettiva, che porta Beethoven alla dialettica bitematica degli opposti (Wiederstrebendes Prinzip e Bittendes Prinzip), l'armonia tende a esplorare zone sempre più profonde, dove le leggi della costruzione musicale non sono più dominate da schemi fissi. La forma-sonata si infrange e a essa si va sostituendo il ‛pezzo caratteristico', il Phantasiestück. La comparsa del pianoforte è poi decisiva per l'evoluzione dell'armonia: esso appare come il veicolo più diretto nel sondare la dimensione verticale del mondo sonoro, come mezzo di scrittura ‛diretta' dell'interiorità soggettiva. Anche l'allargamento e l'arricchimento dei mezzi orchestrali (con Berlioz, con Liszt e infine con Wagner) danno un forte impulso alla saturazione dell'armonia tonale. Il crescente uso della modulazione (non più semplice veicolo per il passaggio da una tonalità a un'altra) ingenera poi la presenza di accordi che appaiono sempre più ‛estranei' alla tonalità: l'elemento cromatico s'insinua nella costruzione armonica e ne scuote il fondamento tonale unificatore. Il modo ‛maggiore' era sempre stato considerato più radicalmente tonale del ‛minore'; tuttavia la scala ‛minore' discendente (melodica) è costituita dalle stesse note del ‛maggiore' relativo e dunque certi accordi ‛minori' possono essere considerati anche dal punto di vista del ‛maggiore'. Se si estende questo procedimento si ottiene tutta una serie di accordi nuovi su tutti i gradi: è proprio in questo preciso momento che la tonalità si ‛allarga', incorporando tutti i suoni della scala cromatica. Cade allora qualsiasi pretesa base ‛naturale' e ogni accordo si presenta indistintamente come un prodotto ‛artificiale' che può essere considerato nella sua autonomia, appunto perché gli accordi possono essere ora collegati su una scala nella quale ‛tonica' e ‛dominante' sono eliminate. Siamo così alla ‛sospensione della tonalità' e alla conseguente prassi compositiva che porterà alla ‛atonalità'. Il primo di questi accordi (che Schönberg chiama vagierende Akkorde, come s'è già detto) è l'accordo di settima diminuita, il quale in effetti può appartenere a qualsiasi tonalità ‛maggiore' o ‛minore'. Appare ora ‟chiaro che gli accordi estranei alla tonalità, se sono in gran numero, favoriscono la nascita di una nuova unità generale che li contenga, cioè la scala cromatica", giacché ‟la sostituzione delle scale maggiore e minore con la scala cromatica è di certo un passo verso la semplicità, come lo fu la sostituzione dei sette modi gregoriani con due sole scale, la maggiore e la minore: la relazione si fa più unitaria, rimanendo identico il numero delle possibilità relazionate" (v. Schönberg, 19222 tr. it., pp. 312-313).
Come già l'elemento ‛cromatico aveva costituito il germe disgregatore del sistema modale, che aveva raggiunto il suo limite di saturazione nel contrappunto dei Fiamminghi, così si verifica per la seconda volta col sistema tonale. Il concetto di tonalità va progressivamente cadendo con ‟il passaggio da dodici tonalità maggiori e dodici tonalità minori a dodici tonalità cromatiche: questo passaggio si compie con la musica di Wagner, la cui importanza teorica non è stata ancora studiata a fondo" (ibid., p. 486).
La saturazione cromatica del linguaggio musicale, conseguenza dell'armonia wagneriana che culmina nella progressione cromatica all'infinito di Tristan und Isolde, porta nei post-romantici (Bruckner, M. Reger, Skriabin, R. Strauss e, parzialmente, anche Mahler) alla progressiva cromatizzazione delle strutture tonali; mentre, negli stessi anni in cui Schönberg scrive musica ‛atonale', per reagire alla saturazione cromatica Debussy e Ravel cercano una via d'uscita con l'esatonalismo (la scala orientale, priva di semitoni) e con una conseguente armonia per terze concatenate sino ad accordi di 13° che totalizzano i sette suoni della scala diatonica. Ma questa ‛reazione' al cromatismo (che trova nell'impressionismo e nel simbolismo musicale francese una congeniale e raffinata soluzione) non porta a un radicale superamento del sistema tonale: la saturazione diatonica si arresta a un'armonia statica, nella quale il suono si dissolve nello spazio, senza soluzione di continuità.
Schönberg spinge invece alle estreme conseguenze la saturazione cromatica e, attraverso la ‛riduzione' dei confini modali della tonalità, giunge a individuare la parentela degli accordi fra loro (anche sui gradi più lontani del circolo delle quinte), quindi alla ‛sospensione ed eliminazione della tonalità': quanto avviene a partire da questo momento, con gli accordi di cinque, sei suoni e oltre, appartiene a una nuova sfera musicale polivalente, che non appare più analizzabile nella sola dimensione dell'‛altezza' (rapporti intervallari), bensì anche in quelle del ‛timbro' e dell'‛intensità', oltreché del ‛ritmo' (che in Webern verranno poi radicalizzate nel concetto di ‟variazione totale"). Le ultime pagine della Harmonielehre concludono con la celebre ‛ipotesi' della Klangfarbenmelodie, la ‛melodia di timbri' che era già una realtà espressiva ben precisa per Schönberg compositore (col terzo pezzo dei Fünf Orchesterstücke op. 16, scritti nel 1909, e con il sesto degli ‛aforistici' Sechs kleine Klavierstücke op. 19, scritti nel 1911).
5. Le origini della dodecafonia
Con la stabilizzazione del sistema tonale e la successiva equalizzazione della scala diatonica suddivisa in dodici semitoni, anche la dimensione melodica si era allargata e l'esigenza di configurare temi e motivi sempre più ampi e complessi aveva portato il compositore a sfiorare talvolta il totale cromatico, cioè a creare melodie nelle quali la successione intervallare è formata da note che non si ripetono prima che l'idea melodica sia stata esposta per intero. Se il cromatismo, già nel Seicento, diviene spesso la base per uno sviluppo contrappuntistico, come, per esempio, in questo Capriccio in do magg. di J. J. Froberger, dove il ‛tema' è costituito dalla successione per semitoni contigui di otto note differenti,
la tendenza a ricavare temi in base a un ordine intervallare non-cromatico delle dodici note si fa sempre più accentuata nel Settecento, anche se raramente il compositore giunge ad avventurarsi in un'idea tematica che abbracci tutti i dodici semitoni. Gli esempi più significativi di questa tendenza pre-dodecafonica si trovano soprattutto in J. S. Bach che, riassumendo il contrappunto polifonico in sede strumentale e portandolo al massimo sviluppo, sperimenta il ‛serialismo' soprattutto nella fuga in base alle quattro forme canoniche: tema, regressione, inversione e regressione dell'inversione (forme speculari che verranno poi adottate da Schönberg per il suo ‛metodo'). Così nel Libro I (1722) del Wohltemperierte Klavier (ed è significativo che tali esempi si trovino proprio in questo capolavoro ‛didattico'), la Fuga XII in fa min. inizia con questo tema di nove note differenti,
ma la Fuga XXIV in si min. presenta una vera e propria serie di dodici suoni, anche se ‛allargata' nella simmetrica costruzione di un tema di venti note,
dal quale si può ricavare la seguente rigorosa serie dodecafonica,
L'idea del totale cromatico acquista ben presto anche una connotazione psicologica e ideologica: essa rappresenta la sfera dell'Assoluto che trascende ogni limite del linguaggio umano perché totalizza in sé e per sé l'universo del linguaggio musicale. Così la scelta di una sequenza di dodici suoni differenti, in un ordine intervallare non-cromatico, acquista talvolta significati esoterici e trascendentali, come nel celebre passo del Don Giovanni (1787) dove, per la scena della statua del Commendatore che si presenta a cena in casa del libertino, Mozart non esita a strutturare le parole dell'‛al di là' su una serie dodecafonica; la quale, fatto estremamente emblematico, nasce dalla voce profonda dei bassi in orchestra e prosegue generando la terribile risposta della statua a Don Giovanni,
Col romanticismo e la crescente cromatizzazione dell'armonia, le melodie e i temi dodecafonici si pongono spesso come simboli caratterizzati. Proprio per la Faust-Symphonie (1854-57) Franz Liszt inizia con un tema (Lento) in due sezioni di sei note differenti ciascuna,
che si riferisce all'inquietudine di Faust e alle sue meditazioni. Non si tratta qui di un caso fortuito, ma di una cosciente scelta di un tema dodecafonico quale simbolo conturbante dell'aspirazione a una totalità esistenziale che solo il ‛patto' con le forze infernali può sollecitare (e Thomas Mann riprenderà questa idea nel Doctor Faustus), talché Liszt non si limita a esporre questo tema e a svilupparlo melodicamente in varie trasposizioni, ma lo tratta anche armonicamente, come in questo successivo passo,
dove nelle ‛terze' ascendenti è facile riconoscere delle tipiche armonie wagneriane e nel disegno melodico il motivo del ‛sonno di Siglinde', agitato e pieno di funesti presagi, nell'Atto II della Walchiria (Scena V, alle parole ‟Kehrte der Vater nun heim!"),
In Wagner, come s'è detto, il processo di cromatizzazione armonico-melodica tocca gli estremi limiti, ma i casi di tematizzazione dodecafonica sono rari, mentre, alla stregua di Liszt, nei poemi sinfonici di Richard Strauss s'incontrano talvolta elementi seriali, assunti in un preciso contesto emblematico. L'esempio più significativo è il motivo che si riferisce al sapere scientifico (Von der Wissenschaft) che dà l'avvio alla grande fuga nella terza parte di Also sprach Zarathustra (1896), generato dalla quinta ‛vuota' e dal suo rivolto (tonica-dominante-tonica):
La tendenza a considerare il totale cromatico come fondamento della costruzione musicale si manifesta nel primo Novecento, non solo in Schönberg e nella sua scuola, ma anche in altri musicisti avanzati; soprattutto in M. Reger, il cui cromatismo sfocia spesso in un vero e proprio serialismo strutturale, dove s'incontrano temi e motivi di nove, dieci, undici e dodici note, come nel Quartetto op. 121 o nella Sonata op. 122 per violino (1911) che presenta una melodia di undici note, totalizzate con la dodicesima nel basso:
La struttura melodica e tematica è quasi sempre fondata, in Reger, sul totale cromatico, in base al procedimento dell'allargamento della base seriale, cioè della ripetizione all'interno della melodia di alcune note caratterizzanti, prima che la serie sia esaurita, come nel primo movimento del Trio op. 141b per archi (1915):
Anche A. Skriabin nei suoi problematici e tormentati Poema dell'estasi (1908) e Prometeo (1909-1910), come pure in molti pezzi per pianoforte, tende alla totalizzazione cromatica soprattutto in senso armonico-timbrico, usando spesso accordi di dodici suoni, meiltre B. Bartòk s'avvicina, a quest'epoca, all'espressionismo schönberghiano, sfiorando l'atonalità, talvolta con motivi dodecafonici, come in questo passo del Primo quartetto per archi (1909):
Già durante il tirocinio di studi con Schönberg, A. von Webern e A. Berg sondano le possibilità espressive nascenti dalla sfera dodecafonica. La Passacaglia op. 1 per grande orchestra (1908) di Webern si apre con questo tema,
che, via via, ingenera nell'armonia allargamenti a specchio sino a produrre accordi di undici note; e nel terzo degli Altenberglieder op. 4 (1911-1912), Berg sperimenta la Klangfarbenmelodie in base al totale cromatico,
che si ripresenta poi ‛a tappeto', con gli archi ‛flautati', nella chiusa del Lied sulle stesse parole del testo, secondo un procedimento che verrà sviluppato, in precisi rapporti drammatici, in Wozzeck e in Lulu:
Il quinto degli Altenberglieder, in forma di passacaglia, come quella di Webern, si apre con un tema all'unisono nei bassi, dal quale germina una melodia di dodici note che anticipa sorprendentemente un procedimento della più avanzata tecnica seriale:
Il ‛metodo dodecafonico', al quale Schönberg doveva pervenire negli anni venti, non fu dunque un'arbitraria scelta, ma la logica soluzione teorico-tecnica di una crisi del linguaggio tonale, in atto da oltre mezzo secolo.
D'altronde, parallelamente a Schönberg, altri musicisti tendono verso analoghe proposte. Così J. M. Hauer formulò, sin dall'epoca nella quale Schönberg scriveva la sua Harmonielehre, una teoria atonale e dodecafonica, elaborandola più tardi in alcuni trattati (v. Hauer, 1922, 1923, 1925 e 1926), dove le diverse combinazioni dei 12 suoni sono suddivise in gruppi che egli chiama ‟tropi", arrivando a calcolare che, nell'ottava cromatica, sono possibili 479.001.600 combinazioni armonico-melodiche, ordinate in 44 gruppi, considerando ogni serie di 12 suoni suddivisa in due serie di 6 suoni ciascuna. Più tardi il compositore cecoslovacco A. Haba elaborò anch'egli un suo metodo, intriso di teorie antroposofiche e basato sul totale cromatico ulteriormente suddiviso in quarti e in sesti di tono, dove viene bandita qualsiasi forma di tematismo. Sembra anche che il pittore e compositore russo J. Golyscheff compisse tentativi dodecafonici sin dal 1914, con un quartetto atonale contenente elementi di carattere seriale, mentre F. Busoni prevedeva che si sarebbe pervenuti necessariamente all'‟unità di tutte le tonalità" nei dodici semitoni (v. Busoni, 1907); ma è soprattutto al teorico marchigiano D. Alaleona che si deve riconoscere una lucida anticipazione della concezione schönberghiana dello spazio sonoro a più dimensioni e quindi delle basi del metodo dodecafonico. In un fondamentale saggio pubblicato nel 1911, l'Alaleona (v., 1911), partendo dalla ‛bifonia' (divisione dell'ottava in due parti uguali do-fa diesis/sol bem.-do), passava a considerare le successive suddivisioni (trifonia, tetrafonia, esafonia) e le possibilità armoniche (o meglio accordali) derivanti, sino a giungere infine allo schema della dodecafonia e a considerare i dodici rivolti dell'accordo dodecafonico, che egli definiva come ‟il più armonioso accordo del sistema cromatico temperato", avvertendo che si doveva intendere ‟la parola ‛armonioso' nel senso vero di ‛ricco di suoni'", e che era infine necessaria, rispetto agli altri sistemi armonici, ‟una più lunga iniziazione per entrare nell'ambito estetico dell'accordo dodecafonico". Spingendo oltre la sua teoria, l'Alaleona prospettava anche le possibilità di nuovi mezzi d'espressione nella pentafonia (precorrendo Bartòk) e quindi nella eptafonia, octofonia e... ennofonia.
Meritano attenzione anche le proposte fatte da Fr. H. Klein che nel 1921 scriveva una composizione per pianoforte a quattro mani intitolata Eine ex-tonale Selbstsatire, corredandola di uno schema analitico che elencava i temi usati: 1) un ‛tema ritmico a 12 colpi'; 2) un ‛tema di 12 suoni'; 3) un ‛tema di 12 intervalli'; 4) un ‛tema piramidale', costituito da 12 intervalli crescenti progressivamente; e 5) un Mutterakkord che proponeva una serie dodecafonica contenente tutti i dodici differenti rapporti intervallari della scala cromatica, dal semitono all'intervallo di undicesima. Divenuto allievo di Schönberg e poi di Berg, a Klein doveva rendere omaggio Berg, scrivendo la sua prima serie in base a questo procedimento di totalizzazione intervallare (All-Intervall Reihe), per la versione dodecafonica di un Lied giovanile (1909) su poesia di Th. Storm e utilizzandola quindi per la Lirische Suite (1925-1926):
Nello stesso anno il musicologo e compositore H. Eimert dava alle stampe una Atonale Musiklehre (Leipzig 1924), nella quale esaminava con rigore i rapporti reciproci dei dodici semitoni liberati dalla funzione tonale, prospettando quindi la possibilità di organizzarli in strutture seriali dodecafoniche.
Schönberg tuttavia, nonostante fosse giunto a quest'epoca alla piena formulazione del ‛metodo dodecafonico', che egli riteneva una sua personale soluzione compositiva, non scrisse nè volle mai in seguito scrivere un trattato o un manuale di tecnica dodecafonica, lasciando ad altri questo compito. Solo vent'anni più tardi, sollecitato da più parti, si limitò a illustrare il suo ‛metodo' in una conferenza tenuta il 26 marzo 1941 all'Università di California a Los Angeles (v. Schönberg, 1950), in cui rintracciava le ragioni storiche che lo avevano portato alla atonalità e quindi alla dodecafonia con ampi esempi e analisi dalle sue opere.
6. L'individuazione dodecafonica di Arnold Schönberg
Dopo Pierrot lunaire op. 21 (1912) che segna una pietra miliare nella storia della musica contemporanea e il punto focale dell'esperienza atonale-espressionista, al quale seguono i Vier Orchesterlieder op. 22 (1913-1915), l'attività creativa di Schönberg si arresta per diversi anni. Questa interruzione non è dovuta soltanto alle vicende della prima guerra mondiale, durante la quale il compositore viene mobilitato per due volte nell'esercito austriaco, ma alla necessità della riflessione critica e dell'approfondimento di un'esperienza musicale che aveva bruciato pericolosamente ogni residuo dell'armonia tonale e che imponeva ora una scelta precisa nella riorganizzazione della sintassi musicale in base a un nuovo ordine costruttivo. Le tappe preliminari che portarono alla cosciente individuazione del metodo dodecafonico sono ricordate da Schönberg in una lettera del 2 giugno 1937: ‟Il primo passo fu compiuto intorno al dicembre 1914 o all'inizio del 1915, quando schizzai una sinfonia, l'ultima parte della quale divenne più tardi Die Jakobsleiter, ma che non fu più continuata. Lo Scherzo di questa sinfonia era basato su un tema di dodici note. Ma questo era soltanto uno dei temi. Ero ancora ben lontano dall'idea di usare un simile tema fondamentale come criterio unificatore per una intera composizione. Dopo questo fui costantemente preoccupato di basare la struttura della mia musica ‛coscientemente' su un'idea unificatrice, la quale non solo riproducesse tutte le altre idee, ma ne regolasse anche l'accompagnamento e le ‛armonie'. Molti furono i tentativi per giungere a questa realizzazione; ma assai poco fu completato o pubblicato. Come esempio di tali tentativi posso citare i Fünf Klavierstücke op. 23 (1920-1923). Qui arrivai a una tecnica che chiamavo (per me stesso) ‛comporre con note', termine molto vago; ma per me significava qualcosa, e precisamente: in contrasto col modo ordinario di usare un tema, io lo usavo già alla maniera di un ‛seguito fondamentale di dodici suoni'. Un altro esempio di questo genere di tentativo di unità è la mia Serenade op. 24 (1921-1923). In quest'opera si trovano molti esempi di questo genere; ma il migliore è costituito dalle Variationen, terzo movimento. Il tema consiste in una successione di quattordici note, di cui però soltanto undici sono differenti le une dalle altre; e queste quattordici note sono usate costantemente in tutto il movimento. Con minor rigore uso le note delle prime due battute della Tanzszene. Il quarto movimento, Sonetto, è una vera composizione con dodici note. La tecnica è qui relativamente primitiva, perché fu una delle prime opere scritte strettamente in armonia col nuovo metodo, sebbene non sia stata proprio la primissima: c'erano infatti alcuni movimenti della Suite op. 25 per pianoforte che avevo composto nell'autunno del 1921. Qui io divenni improvvisamente cosciente del vero senso del mio intento: unità e regolarità, che inconsapevolmente mi avevano guidato per questa strada" (v. Slonimsky, 1938, pp. 574-575).
La Suite op. 25 venne compiuta nel 1923: essa è dunque da considerare la prima opera schönberghiana nella quale il metodo dodecafonico trova la sua integrale applicazione. Ha così inizio il periodo di riorganizzazione e di consolidamento del nuovo linguaggio sonoro maturato dall'esperienza della libera atonalità.
L'idea della serie dodecafonica come fondamento generatore di un'intera composizione non nasce però da un'esigenza puramente tecnico-formale, ma ha, sin dalle origini, implicazioni ideologiche che investono e impegnano la coscienza etica dell'artista nel crescente disorientamento e nella crisi dei valori di una società che sembra incamminarsi verso l'autodistruzione. La composizione del grande oratorio Die Jakobsleiter rimase incompiuta, ma essa segna l'inizio di quella ricerca etico-religiosa che porterà Schönberg al Moses und Aaron, opera in tre atti (di cui il terzo mai musicato) fondata su un'unica e sola serie dodecafonica. È significativo che la prima intuizione di una serie dodecafonica sorga nella Jakobsleiter e sia connessa, come verrà confermato più tardi da Schönberg stesso, con l'idea dello ‛spazio a più dimensioni' suggeritagli dalle teorie del mistico svedese E. Swedenborg, da lui conosciute attraverso il Seraphita di Balzac. ‟L'unità dello spazio musicale richiede una percezione assoluta e unitaria. In questo spazio, come nel cielo di Swedenborg [...] non v'è, in assoluto, sopra o sotto, destra o sinistra, avanti o dietro. Ogni configurazione musicale, ogni movimento di note deve innanzi tutto essere inteso come una relazione reciproca di suoni, di vibrazioni oscillatorie che si presentano in diversi punti e in diverso tempo. Ora, per la facoltà immaginativa e creativa, queste relazioni che si costituiscono nella sfera materiale sono indipendenti da direzioni o piani, proprio come lo sono, nella loro sfera, gli oggetti materiali per le nostre facoltà percettive. Come possiamo riconoscere un coltello, una bottiglia o un orologio in qualsiasi posizione essi si trovino, e possiamo immaginarli in tutte le posizioni possibili, così un creatore musicale può operare spontaneamente con una serie di note, non tenendo conto della loro direzione e dei riflessi delle loro relazioni, che restano una quantità invariabile" (v. Schönberg, 1950; tr. it., pp. 118-119).
Una volta liberato il linguaggio musicale dal vincolo tonale, eliminato il principio di opposizione tra consonanza e dissonanza, l'idea dello ‛spazio a più dimensioni' nel quale i dodici suoni si pongono in ordine fisso e reciproco comporta di necessità il concetto di polifonia in senso assoluto. Dopo oltre tre secoli di dorninio della monodia sulla polifonia, quest'ultima sembra ora riprendere il sopravvento all'inizio di un nuovo ciclo e con implicazioni costruttive e ideologiche analoghe a quelle che già avevano condizionato il suo sorgere e il suo radicalizzarsi nella tecnica dei Fiamminghi. La riassunzione delle quattro forme canoniche del contrappunto non può essere per Schönberg che il coerente punto d'arrivo dell'individuazione dodecafonica, in base a un unico principio, quello della ‛percezione assoluta e unitaria' di una costellazione speculare, come egli stesso chiarirà più tardi con questo esempio che analizza la serie del Quintetto op. 26 per strumenti a fiato (v. Schönberg, 1950; tr. it., p. 120):
La scelta di una ‛serie' (Reihe) non è dunque più la scelta di un tema o Leit-motiv, sul quale la composizione è destinata a svilupparsi, bensì l'idea fondamentale (Grundgestalt), il fulcro generatore che intenziona già in sé e per sé la costruzione sonora che verrà elaborata dal compositore sia in senso verticale, sia in senso orizzontale. Le stesse nozioni di melodia e armonia cadono per essere assorbite dall'idea di polifonia assoluta che era già implicita nel carattere ‛atematico' della libera atonalità. Il controllo del campo sonoro mediante l'equiparazione dei dodici suoni della scala cromatica temperata, anziché allontanare il musicista dal concetto tradizionale di costruzione ‛chiusa', lo mette ora in condizione di riassumere anche le ‛forme' o meglio i ‛modelli' delle tecniche strumentali classiche, dalla suite alla forma-sonata e alla variazione, senza il pericolo di cadere nella contaminatio neoclassica, come avviene invece, proprio negli anni dell'individuazione dodecafonica schönberghiana, con Stravinskij e i musicisti che si muovono nell'orbita dell'‛europeismo' parigino.
Nella prassi operativa il compositore predispone inizialmente una tabella con le quattro forme della serie: 1) esposizione della serie nella sua forma originale (Grundgestalt, ossia serie originale diritta = O.d.); 2) regressione della serie dall'ultima alla prima nota (Krebs, Cancer, contrario motu, cammino a ritroso = Re); 3) inversione della serie, ossia rivolto degli intervalli in modo che gli intervalli discendenti divengano ascendenti e viceversa (Inversio, Umkehrung, rovescio = Ro); 4) regressione della serie rovesciata (Krebs des Umkehrung, regressione del rovescio Re-Ro).
Queste quattro forme speculari offrono al compositore la più ampia libertà nelle combinazioni orizzontali e verticali della serie, sui dodici gradi della scala cromatica: conseguentemente si ha una tabella di 48 trasposizioni. Inoltre, la serie è divisibile in sezioni simmetriche (2 di 6 note; 3 di 4 note; 4 di 3 note ecc.) che costituiscono altrettante possibilità accordali e melodiche, e con l'idea della proporzione simmetrica si riaffaccia anche il concetto pitagorico della relazione tra numero e suono.
Nella Suite op. 25 (1921-1923) di Schönberg, per la prima volta una serie dodecafonica sta alla base di tutti i pezzi che compongono l'opera (1. Praeludium, 2. Gavotte, 3. Musette, 4. Intermezzo, 5. Menuett, 6. Gigue). Essa è utilizzata nelle quattro forme della serie originale e nella trasposizione alla ‛quarta' inferiore aumentata (o ‛quinta' diminuita):
Nelle prime opere dodecafoniche Schönberg si limita generalmente a usare le trasposizioni alla ‛quinta' e alla ‛quarta', come nella tecnica canonica tradizionale, onde evitare gli incontri d'ottava che, rafforzando una singola nota, potrebbero suonare come un richiamo tonale; e ricorre, prima ancora che allo schema classico della forma-sonata, a quello della suite, proprio perché essa è nel suo fondamento unitonica, escludendo ovviamente l'Allemande.
La tecnica seriale nella Suite op. 25 è, se si vuole, ancora rudimentale, come riconosce lo stesso Schönberg, ma rigorosa e trasparente. All'inizio del Praeludium la serie dà origine a una figurazione melodica che scatta rapida e tagliente:
Nella Gavotte appare spezzata in due sezioni che si sovrappongono e procede poi per frammentazioni di quattro note:
Il Trio del Minuetto sviluppa un rigoroso canone a due voci per moto contrario,
e nella Gigue la serie copre l'intera battuta in una figurazione marcatamente pianistica:
Nella successiva opera, il Quintetto op. 26 per flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno (1923-1924), Schönberg ricorre decisamente agli schemi dei quattro movimenti di sonata: Allegro-Scherzo-Adagio-Rondò (con lo scambio di posto fra il terzo e il quarto movimento). L'Allegro segue lo schema della forma-sonata bitematica tripartita. La divisione ternaria governa anche gli altri tre movimenti: lo Scherzo (con Trio) è tripartito, come l'Adagio (che segue la forma-Lied) e il Rondò che ha un Trio come sezione centrale. L'aulica divisione ternaria sembra impegnare il compositore nelle sue implicazioni ideologiche. La forma-rondò appare come cristallizzata in un processo di circolarita che assorbe in sé anche la forma-sonata tripartita, neutralizzandone però la dialettica bitematica: il primo tema viene presentato in forma-Lied tripartita con ripetizioni sezionate e variate; una trasposizione porta quindi a gruppi di cadenza e si ha la prima ripresa del tema. Il Rondò sembrerebbe iniziare il suo cammino circolare, ma ecco inserirsi un Trio con un secondo tema e sviluppo autonomo. Si ha quindi una seconda ripresa del primo tema con relative varianti e cadenze; infine una terza ripresa estremamente condensata e una coda.
La serie dell'op. 26 ha il suo cardine nell'accordo di ‛quinta'; infatti la seconda metà di essa, il conseguente (dal 7° al 12° suono), non è altro che la trasposizione quasi testuale dell'antecedente alla quinta inferiore (v. es. mus. n. 21 b). La ‛quinta' mi bem.-si bem., cardine polare, sembrerebbe riproporre una possibile relazione tonica-dominante anche nell'ambito dello spazio dodecafonico. Ma non si tratta di una ‛proposta' di ricupero dello spazio tonale, come hanno affermato alcuni critici: la quinta è qui assunta come ‛quinta vuota', accordo originario, generatore di uno spazio sonoro a più dimensioni reciproche. Schönberg tuttavia osserverà più tardi che ‟in seguito, specialmente nei lavori più complessi, mutai la mia primitiva idea, se ne vedevo la necessità, per rispondere alle seguenti condizioni: l'inversione alla quinta inferiore, ossia l'antecedente, non doveva dar luogo alla ripetizione di nessuna delle sei note della scala cromatica non ancora impiegate. In tal modo il conseguente della serie originale, le note 7-12, veniva a comprendere le note di questa inversione, ma naturalmente in senso opposto". Nella serie del Quintetto op. 26 ‟l'inversione alla quinta inferiore non adempie ancora a questa condizione. Qui l'antecedente della serie originale più quella dell'inversione alla ‛quinta' è formato soltanto da 10 note differenti, poiché do e si appaiono due volte, mentre fa e fa diesis mancano" (v. Schönberg, 1950; tr. it., p. 121).
La summa della tecnica dodecafonico-seriale è raggiunta in campo strumentale da Schönberg con le Variationen op. 31 per orchestra (1926-1928) che rappresentano, secondo R. Leibowitz che ha dedicato loro più di cento pagine di minuziosa analisi (Les Variations pour orchestre op. 31 d'A. Schönberg, in Introduction à la musique de douze sons, Paris 1949, pp. 111-219), una svolta decisiva nella storia della musica dodecafonica. Il principio della ‛variazione' ritmomelodica impegna tutte le dodici trasposizioni della serie nelle quattro forme, cioè in una costellazione di 48 ‛dimensioni' in infinite combinazioni verticali e orizzontali. La composizione comprende una Introduzione (Moderato tranquillo) e Tema (Molto moderato), cui seguono nove ‛variazioni' e un Finale (Allegro moderato) sul nome B.A.C.H. (si bem.-la-si-do) ricavato dalla serie originale (1°, 6°, 11° e 12° suono) evidenziati nella parte acuta dei violini, mentre i bassi espongono il retrogrado della serie nella prima metà (12-7) con permutazione delle ultime due note:
La costruzione delle nove variazioni è rigidamente polifonica, ma il carattere apertamente melodico del tema crea un'atmosfera lirica, vaga e misteriosa, ricca di lucentezze timbriche, ottenute mediante l'impiego di alcuni strumenti 'timbrici' (arpa, celesta, mandolino, xilofono, flexatono, carillon e percussione) a sondare una nuova Klangfarbenmelodie attraverso l'allargato orizzonte del contrappunto dodecafonico.
Nella piena consapevolezza della brusca svolta operata nel linguaggio musicale con la dodecafonia, Schönberg afferma ora la necessità di ‟un controllo consapevole dei nuovi mezzi e delle nuove forme" da parte del musicista, il quale vuole ‟conoscere coscientemente le leggi e le regole che reggono queste forme prima concepite come in sogno" (v. Schönberg, 1950; tr. it., p. 112).
7. L'‛occultamento' della serie
L'idea dello ‛spazio a più dimensioni' porta Schönberg, nelle opere della maturità, a concepire la serie non più come base e punto di partenza della costruzione musicale, ma come un ‛fulcro intuitivo', un Kern intenzionale della coscienza interiore verso l'essenza dell'idea sonora. La fenomenologia husserliana sembra aver inconsapevolmente guidato Schönberg nel processo di ‛messa tra parentesi' e di successiva ricostruzione del linguaggio musicale: l'epochè o ‛sospensione del giudizio' nei confronti dello spazio tonale cristallizzato, precostituito e perciò feticizzato, ha portato il compositore alla ‛riduzione fenomenologica' del campo sonoro. Dalla ‛coscienza interiore', come autocoscienza empirica tendente alla saturazione e quindi al silenzio, si passa ora alla ‛coscienza intenzionale'. La serie che il compositore preordina nasce come ‛atto intenzionale' (das intenzionale Erlebnis, in termini husserliani) che s'indirizza verso un oggetto immaginario, ancora da creare, ma che già tutto lo contiene. La primitiva idea swedenborghiana dello ‛spazio a più dimensioni' porta Schönberg a ‛occultare' la serie in un procedimento circolare, carico di simboli.
Schönberg non ha mai sconfessato la propria fede religiosa, anzi ne ha sempre fatto il punto fondamentale del proprio operare artistico che vuol essere una presa di posizione etica nei confronti della civiltà. Il Moses und Aaron, l'opera ideologicamente più impegnata e alla quale Schönberg ha lavorato sino agli ultimi giorni di vita, senza mai concluderla, per le contraddizioni implicite nel suo ripensamento biblico in chiave moderna (l'inconciliabilità fra pensiero e azione, tra Mosè e Aronne), è tutto costruito su un'unica serie, la cui struttura ha un carattere specifico: quello di realizzare una relazione circolare fra le quattro forme (diritto, regressione, rovescio, regressione del rovescio) mediante una permutazione nell'ordine cromatico delle dodici trasposizioni. In questo modo la serie viene occultata' e non si può individuare una forma ‛originale, una Grundgestalt: non esiste un principio e una fine, ma solo una relazione simmetrica e autosufficiente dell'idea che totalizza in se stessa spazio e tempo. La serie cosi strutturata è il risultato di un voluto significato semantico-simbolico, quello insito nella Kabbalah: è l'idea emblematica del Dio irraffigurabile, unico, eterno, onnipresente; essa è infinita e come tale è ‛principio' e ‛fine' di ogni cosa terrena. Per comprendere la struttura tecnico-musicale di questo ‛simbolo', bisogna considerare la ‛combinazione circolare' della serie nelle sue dodici trasposizioni partendo da una qualsiasi di tali trasposizioni. Se prendiamo come serie ‛originale' l'inizio della melodia cantata da Aronne alla sua prima comparsa in scena (Atto I, scena II, batt. 124-129 sulle parole ‟Du Sohn meiner Vater, schickt dich mir der grosse Gott?") e ordiniamo le trasposizioni non secondo i gradi cromatici contigui (I-II-III-IV, ecc.) ma permutandone l'ordine, otteniamo la seguente tabella seriale dove le quattro forme si realizzano sia in senso orizzontale (diritto e regressione) sia in senso verticale (rovescio e regressione del rovescio):
L'‛occultamento' della serie in forme circolari è caratteristico delle ultime opere di Schönberg, come l'Ode to Napoleon op. 41 (1942) dove la serie originale non compare mai nella sua forma fondamentale; mentre in A survivor from Warsaw op. 46 (1947), pur partendo dallo schema preferito dell'O e del Ro alla quinta inferiore, il tessuto sonoro è imbastito attraverso un uso magistrale delle forme seriali sino a percorrere verso la fine (in un ‛ostinato' accelerando e crescendo) tutte le trasposizioni: in questo spazio sonoro, nel finito-infinito del totale cromatico, lo Scemà Israel, intonato all'unisono dal coro maschile, germina spontaneo e possente dalla stessa materia sonora, come dal caos, dall'abisso nel quale l'umanità sta precipitando, per ritrovare la luce e la speranza in Dio. Ma il Trio op. 45 per violino, viola e violoncello (1946) e la Fantasia op. 47 per violino e pianoforte (1949) rappresentano certamente la più elevata sintesi espressiva raggiunta dallo ‛stile' strumentale dell'ultimo Schönberg, tendente a un nuovo durchkomponieren che riafferma la priorità dei contenuti del linguaggio musicale come libera e autonoma espressione dell'interiorità soggettiva e che si ribella a ogni feticismo della tecnica e a ogni formalismo dei quali si compiaceranno invece molti degli epigoni postdodecafonici. Schönberg stesso aveva avvertito questo pericolo insito nella radicalizzazione della tecnica dodecafonica, ma la sua forza era sempre consistita nel considerare la musica un linguaggio dell'interiorità alla stessa stregua dei romantici e nel continuare perciò a comporre sulla base di ‛idee musicali'. Il durchkomponieren non riguarda solo l'annullamento degli schemi formali, che possono continuare a sussistere come apparenza (e reminiscenza, se si vuole, della costruzione tonale), ma il materiale seriale stesso: esso, mentre viene occultato in quanto tale, diviene sempre più aperto alla libera fantasia creativa mediante il principio della ‛variante' che subentra a quello della ‛variazione' e che consente al discorso musicale una più ampia, sottile e ricca articolazione. Nel Trio op. 45 Schönberg adotta un procedimento di ‛allargamento' della serie, mediante una permutazione del primo segmento di sei suoni; si ha cosi l'impressione di due serie convergenti, aventi cioè in comune i sei suoni centrali:
Ma in realtà ci troviamo ancora in presenza di una serie ‛circolare' nella quale il punto di partenza viene occultato: la sua circolarità risulta non solo dal rapporto tra ogni segmento di O e il suo relativo Ro alla quinta, che totalizzano lo spazio cromatico, ma anche dalla relazione fra i suoni estremi di ogni segmento (relazione costituita dagli intervalli di seconda minore) che formano anch'essi un nuovo totale cromatico tra l'O e il Ro alla quinta (1-6; 7-12; + 1- 6; e quindi, ricominciando da capo: + 6-1; 1-6, ecc.). Queste totalizzazioni reciproche non sono puramente analitiche, ma si rivelano fondamentali per l'invenzione melodica che, nel Trio op. 45, risulta di una grande ricchezza e varietà.
La Fantasia op. 47 è stata considerata, al suo primo apparire, una delle opere più complesse e astruse dell'ultimo Schönberg; eppure l'evidenziazione melodica non appare meno marcata di quanto risulti nel Trio op. 45. Il pianoforte ha funzione di semplice accompagnamento, talché la voce principale (Hauptstimme) è esclusivamente affidata al violino che sviluppa tutte le sue specifiche qualità solistiche. Per ottenere questa concentrazione, Schönberg scrisse prima l'intera parte del violino e poi quella del pianoforte in base al consueto procedimento della totalizzazione seriale. La serie, analogamente a quella del Quartetto op. 37 (1936), è considerata nella forma originale e nel Ro alla quinta che stanno in rapporto paritetico di permutazione:
Il principio della ‛variante' genera nell'elaborazione melodica nuovi aggregati seriali, affermando ancora una volta la priorità della libertà creativa sul materiale stesso; la ‛variante' sta in relazione col fondamento originario dell'idea musicale, ma non lo impone mai; esso vive solo grazie a essa, come divenire nel quale soltanto si realizza il discorso musicale: il fondamento è statico, la variante dinamica e dialettica.
Non è necessario insistere sui procedimenti seriali di Schönberg che, in alcune delle ultime opere, sembrano volgere anche verso ‛ricuperi' tonali, senza infrangere la coerenza e il rigore del metodo dodecafonico.
Parallelamente a Schönberg, i suoi due grandi allievi A. Berg e A. von Webern percorrono l'esperienza dodecafonica in due direzioni divergenti: una ‛regressiva', mirante ad attivi ‛ricuperi' dell'esperienza romantica e postromantica; l'altra ‛progressiva', tendente cioè a spingere alle estreme conseguenze l'individuazione dodecafonica schönberghiana verso un serialismo integrale, distaccato (apparentemente) da qualsiasi legame con la tradizione.
8. Serialismo e tonalità in Alban Berg
La posizione di Berg è assai bene delineata dal punto di vista della tecnica dodecafonica da R. Leibowitz, quando afferma che egli sembra essersi sforzato di ‟costituire un legame tra le acquisizioni del maestro e il passato", cercando di considerare la dodecafonia soprattutto nel suo ‟aspetto tonale" (v. Leibowitz, 1947, p. 192); e H. F. Redlich dal canto suo precisa: Berg ‟ha anticipato in sé gli elementi di sviluppo di entrambe le personalità [Schönberg e Webern], ma non ha mai abbandonato le radici spirituali immerse nelle stratificazioni rivoluzionarie del XIX secolo. In questo senso la mediazione storica, già riconosciuta dal Leibowitz, determina la forza dell'opera di Berg, che diverrà veramente vitale e funzionale solo in un futuro molto lontano" (v. Redlich, 1957, p. 16).
Dopo Mahler e attraverso Mahler, Berg sembra infatti riprendere il processo di ricupero ‛regressivo', realizzando la più impressionante sintesi dell'esperienza romantica viennese. Tale sintesi è resa possibile grazie all'individuazione dodecafonica, che per Berg, potremmo dire, non rappresenta un punto di partenza da una tabula rasa, dopo il disfacimento irrecuperabile del sistema tonale, ma un punto d'arrivo, una svolta risolutiva dell'esperienza della musica occidentale.
Già nella Lyrische suite per quartetto d'archi (1925-1926), uno dei capolavori di Berg, l'organizzazione dodecafonica porta a un improvviso allargamento dell'orizzonte melodico. Dei sei movimenti sono interamente dodecafonici solo il primo e il sesto e, parzialmente, il terzo e il quinto. Berg, in questo momento, sembra servirsi della dodecafonia come controllo sperimentale delle possibilità di sviluppo dell'idea sonora. Parte da una serie di dodici suoni e la sviluppa, in senso stretto, in base alle quattro forme speculari, ma la fa anche oggetto di libera elaborazione tematica. Si potrebbe anche scorgere l'uso di più serie nella Lyrische suite, ma in realtà si tratta di un solo fulcro generatore, di una sola serie (v. es. 20b) che riappare modificata e ‛variata' nei movimenti dodecafonici, e utilizzata come libero materiale tematico nei movimenti non dodecafonici.
La tendenza verso la ricerca di una continuità ‛tonale' nello spazio dodecafonico appare evidente già nella prima opera interamente dodecafonica, Der Wein (1929), per voce e orchestra. Mentre nella Lyrische suite la serie è rigorosamente atonale, nei voluti rapporti geometrici degli intervalli, la serie di Der Wein contiene la scala di re min. armonico (1-7) e quella di sol bem. (fa diesis) con alcune note permutate (8-9-6-11-7-12 + 3-8):
Questo ‛tonalismo' determina l'ambiguità e la fluida mobilità del tessuto armonico-timbrico che ben esprime l'atmosfera del testo (Le vin di Baudelaire nella traduzione tedesca di St. George) e, nello stesso tempo, apre l'intuizione lirica a un intenso e vibrante ‛ripensamento' del canto tradizionalmente inteso (a differenza di Schönberg, Berg usa moderatamente lo Sprechgesang e in diverse gradazioni).
Ancor più significativa è la serie del Violinkonzert (1935), un capolavoro scritto da Berg nel presentimento della morte. La tecnica seriale appare ancor più impegnata in una costruzione sonora tendente a una sintesi delle relazioni storiche fra spazio tonale e spazio dodecafonico: la serie fondamentale è formata da due triadi ‛minori' e da due ‛maggiori', tra loro agganciate, e da un accordo per toni interi nelle ultime quattro note:
Le note si-do diesis-re diesis-fa sono tratte dal corale ‟Es ist genug!" appartenente alla Cantata n. 60 (O Ewigkeit, du Donnerwort!) di Bach che Berg introduce come ‛tema' di variazioni nell'Adagio del secondo movimento del Violinkonzert. Il Redlich (v., 1957, pp. 272-273) ha osservato che questa serie rivela, nelle sue relazioni modali, la tipica maniera del canto popolare carinzio e ha dimostrato come le quattro forme della serie siano circolarmente relazionate da rapporti di affinità. Si tenga inoltre presente che gli accordi ‛maggiore' e ‛minore' sono concatenati in modo da costituire gli uni la ‛dominante' degli altri: ne risulta, in tal modo, nella struttura armonica del Violinkonzert, una costante oscillazione verso i centri tonali di sol min. e si bem. magg., cioè fra due tonalità relative.
Come Schönberg, anche Berg fonda la partitura di un'intera opera lirica (Lulu, tre atti da Fr. Wedekind, 1928-1935, rimasta incompiuta) su un'unica serie fondamentale,
di struttura melodica aperta a una ricca prospettiva di sviluppi tematici. Ogni personaggio di Lulu viene caratterizzato da combinazioni seriali ‛tipiche': derivando dalla serie fondamentale altre serie, Berg raggiunge un'unità stilistica che, pur differenziando tema da tema, forma da forma (i personaggi del dramma sono caratterizzati anche da forme strumentali che li accompagnano, come forma-sonata, rondò, musica da camera, monoritmica, rag-time, ecc.) conferisce all'opera un'unità drammatica nella quale musica, parola, azione si fondono e procedono come attraverso un unico, inesorabile destino. Il tema di Lulu (soprano leggero) è ricavato dalla serie ordinata in quattro accordi di tre suoni ciascuno:
Dalla lettura orizzontale delle note superiori, medie e inferiori di questi quattro accordi, si hanno tre sezioni di una nuova serie dalla quale deriva il tema che caratterizza, con la sua leggerezza vitrea, l'irresistibile aggressività di Lulu, e che permette a Berg di sviluppare una tessitura lirica prevalentemente virtuosistica:
Nel suo rovescio questo tema assume un effetto ‛psicologico' opposto,
che sembra riflettere l'inconscio istinto di Lulu nella sua disarmata intimità: la melodia, divenuta ‛discendente' nel rovescio, acquista un sapore emotivamente romantico. Questo è un altro aspetto profondo del ricupero ‛regressi- vo' di Berg: come Bach anch'egli usa frequentemente il rovescio, ma solo raramente il retrogrado, giacché difficilmente una melodia è riconoscibile nel suo cammino a ritroso. L'uso preminente delle forme speculari (Spiegelbild: diritto-rovescio in senso tematico) acquista dunque in Lulu un preciso significato relazionale nella definizione psicologica di un personaggio nei suoi moti esteriori e interiori.
I quattro accordi dell'es. 34 costituiscono poi una fondamentale successione armonica ricorrente nell'opera quale Leit-motiv della costante presenza di Lulu, la ‟belva", come è chiamata dal Domatore nel Prologo. Nuovi temi vengono da Berg ricavati mediante combinazioni proporzionali della serie fondamentale; per esempio il tema di Alwa (che risuona in ‛minore'), raggruppando una nota ogni sette della serie fondamentale, secondo il seguente procedimento:
o il tema che definisce il personaggio ambiguo della contessa Geschwitz, espresso da figurazioni pentatoniche ottenute raggruppando ogni quinta nota della serie originale: sulla ‛quinta' sol-re della nuova serie che ne risulta, Berg ricava due gruppi pentatonici (a) che danno origine a melismi tematici per ‛quinte' come il successivo (b):
La particolare impronta data da Berg allo spazio dodecafonico, mediante ricuperi ‛tonali', rivela, ancor più che in Schönberg, la coerenza e la continuità dell'ideologia espressionista, che trova anzi nella nuova tecnica seriale una definizione accentuata e afferma altresì le affinità estetiche di Berg, attraverso Mahler, con lo Jugendstil e la Secessione viennese.
9. Astrattismo e ‛puntilismo' in Anton Webern.
Anche Anton Webern, come Schönberg e Berg, parte dalla piena accettazione delle estreme conseguenze dell'esperienza romantica e della saturazione tonale, ma ben presto giunge al più rigoroso atonalismo e alla individuazione dello spazio pancromatico. Sin dalle prime opere Webern manifesta la tendenza a collegare melodia e accordo in rapporto omofono evitando la ripetizione di uno o più suoni della scala cromatica. Spinge inoltre l'idea musicale alla massima carica e concentrazione espressiva, per cui le sue opere strumentali del periodo atonale sono ‛aforistiche', già prima dei Sechs kleine Klavierstücke op. 19 (1911) di Schönberg. Webern compone nel 1909 i Fünf Sätze op. 5 per quartetto d'archi, i quali durano complessivamente otto minuti circa. Inoltre mentre l'op. 19 di Schönberg è in sostanza atematica (anche se frammenti tematici sembrano circolare sospesi), l'op. 5 di Webern è strettamente tematica, certo non più in senso estensivo (tradizionale), ma intensivo.
Attraverso il principio d'identità dell'idea sonora nel suo ‛sviluppo' (trasposizione e inversione) le dimensioni orizzontale e verticale vengono a essere reciprocamente condizionate; ed è proprio tale stretta interrelazione che afferma l'elemento melodico-tematico (come spiegamento dei suoni del nucleo accordale) e costituirà, nel Webern dodecafonico, il principio riduttivo fondante, emergente, della costruzione sonora.
I Sechs Stücke op. 6 per orchestra (1909) radicalizzano anche il principio della Klangfarbenmelodie, rivelando la loro diretta derivazione dai Fünf Orchesterstücke op. 16 (1909) di Schönberg; ma l'istantaneità dell'immagine vi è realizzata allo stato quasi letterale di ‛pittura sonora' in modo più diretto e intenso di quanto risulti dalla stessa op. 16 di Schönberg. Il primo ‛pezzo' (Langsam 2/4) inizia con una straordinaria melodia timbrica che rivela già la funzione della nota isolata come elemento caratterizzante la struttura tematica:
La tendenza al ‛puntilismo' melodico-timbrico appare ancor più accentuata nei Fünf Stücke op. 10 per orchestra (1913). Il primo ‛pezzo' (Sehr ruhig und zart) si apre con questa immagine,
che preannuncia la costellazione tematica della futura Sinfonia op. 21 (1928). I principî canonici del rovescio e del ritroso sono applicati a temi ‛minimi' già nel senso della tecnica seriale weberniana che sarà caratterizzata dall'uso preferenziale di intervalli atti a garantire il più radicale atonalismo. La seconda minore viene qui assunta geneticamente: si (arpa e tromba) - do (viola, arpa, celesta) - si (arpa e flauto, che riafferma verticalmente il si come sospensione tonale, mediante l'effetto timbrico del frullato); la terza battuta è affidata al Glockenspiel: sesta min. e quarta (mi bem.-sol-re), il che equivale a una nuova proiezione speculare, questa volta orizzontale, della seconda minore (mi bem.-re).
I punti limite della riduzione all'‛immagine' astratta sono toccati da Webern con le opp. 7, 9 (Bagatellen) e 11. L'idea sonora di Webern si avvicina però più all'idea pittorica di Klee che a quella di Kandinskij il cui cammino è semmai analogo a quello di Schönberg. Tutta la pittura di Klee è pittura di movimento, quindi è ‛temporale': in quanto interiore, lo spazio si presenta come durée réelle. Ma, osserva Klee: ‟soltanto nel movimento è possibile la molteplicità delle sfumature. Per divenire più precisi bisogna impoverire". La definizione sembrerebbe di Webern, con dieci anni di anticipo su questa formulata da Klee al Bauhaus: qui la continuité d'être bergsoniana viene, per così dire, strumentalizzata in funzione della necessità di fissare l'istantaneità come coscienza interiore del tempo. Il principio espressionista dell'Urlaut non viene smentito, anzi appare radicalizzato dalla necessità di ‛impoverire per divenire più precisi, nell'immediatezza espressiva. La dodecafonia darà a Webern la possibilità di conferire una funzione strutturale al linguaggio espressionista e proprio nel senso che ancora Klee chiarisce: ‟Buona è la forma come movimento [...] cattiva è la forma che subisce, la forma compiuta [...]. La forma non è quindi mai e poi mai da considerarsi conclusione, risultato, fine, bensì genesi, divenire, essenza. La forma come apparenza è un maligno pericoloso fantasma" (P. Klee, Das bildnerische Denken, Basel 1956; tr. it. Teoria della forma e della figurazione, Milano 1959, p. 8 e p. 169).
Anche il rigetto della forma come apparenza è radicale in Webern e, nell'ansia della chiarezza col minimo dei mezzi, si estrinseca come ‛impoverimento' della scrittura spinto addirittura all'ascetismo nei Vier Stücke op. 7 per violino e pianoforte (1910) e nei Drei kleine Stücke op. 11 per violoncello e pianoforte (1914). Con le Sechs Bagatellen per quartetto d'archi (1913) Webern avverte che il linguaggio dell'interiorità si è spinto, attraverso la radicalizzazione del totale cromatico, ‟a una stratificazione enigmatica dell'approfondimento che interroga gli abissi" (v. Adorno, 1959, p. 161). I sei pezzi durano complessivamente tre minuti e mezzo; e Webern stesso disse più tardi che quando componeva questi pezzi aveva ‟la sensazione che, una volta esaurita l'esposizione dei dodici suoni, anche il pezzo dovesse considerarsi finito. Molto più tardi sono arrivato alla conclusione che tutto questo rientrava nel quadro di un importante sviluppo [...]. In una parola era nata una regola: prima che non siano stati esposti tutti i dodici suoni, nessuno di essi può venir ripetuto. La cosa più importante è che il pezzo (l'idea, il tema) abbia ricevuto un certo profilo già attraverso un'unica enunciazione dei dodici suoni" (v. Webern, 1960; tr. it., pp. 94-95).
Webern giunge così all'adozione del metodo dodecafonico, quasi senza avvertirne la necessità. Già nel primo tentativo dodecafonico, i Drei Volkslieder op. 17 (1924), Webern sembra affrontare il ‛metodo', ormai chiarito dal maestro nelle sue fondamentali basi, con velato scettiscimo e con estrema prudenza. Questa sua prima serie è estremamente significativa è caratteristica del rigore atonale al quale egli è pervenuto. Essa è formata da gruppi strettamente cromatici:
Come già nelle opere aforistiche, sembra a Webern che una volta esposta la serie dodecafonica, tutto sia stato detto nell'essenza. All'inizio del primo Lied dell'op. 17 (batt. 3), dopo il dodicesimo suono nella voce, egli riprende da capo la serie negli strumenti e la passa al canto; ma a partire da questo momento i suoni si accavallano, si permutano, si raddoppiano persino e la serie non è quasi più riconoscibile; e gli strumenti si polverizzano ritmicamente in un timbro di fissità allucinante: il totale cromatico s'immobilizza nell'equivalenza ostinata degli urti di seconda minore.
Per il secondo Lied Webern usa una nuova serie, anch'essa a gruppi cromatici,
e procede con regolarità. Egli si ostina a impiegare la sola serie diritta, che si ripete con diligente puntualità, battuta per battuta, per ben ventitre volte, totalizzata verticalmente fra strumenti e voce, quasi a volerne sperimentare tutte le possibilità di costruzione tvariata', senza ricorrere alle altre tre forme speculari e alle trasposizioni. Per non compromettere l'attimo carico di espressione e, nello stesso tempo, per evitare la ‛monotonia' (di cui Schönberg forse già parlava a proposito dell'uso della serie), Webern s'impone addirittura il compito d'infrangerla, partendo dall'assoluta ‛identità' della serie che egli non cessa di considerare materiale ‛tematico', suscettibile di conferire una unità a tutta la composizione, sia nella dimensione orizzontale, sia in quella verticale. Nel terzo Lied infine la serie viene addirittura tematizzata nella sola voce, sempre nella forma diritta.
Bisogna arrivare al Trio op. 20 per violino, viola e violoncello (1927) e alla Sinfonia op. 21 per orchestra da camera (1928) per trovare la piena applicazione del metodo dodecafonico, ma già in un senso differente da quello di Schönberg. Da questo momento Webern prepara diligentemente le tabelle seriali, prima d'iniziare il lavoro di composizione. Le tabelle del Trio op. 20 comprendono tutte le 48 forme della serie derivanti dalle sue 12 trasposizioni. Esse sono disposte su tre pagine, ma l'ordine di successione delle trasposizioni non è quello cromatico: il raggruppamento avviene secondo rapporti intervallari che predispongono, già come ‛progetto', il piano strutturale della composizione.
Il primo raggruppamento di trasposizione annotato da Webern è alla quinta diminuita (cioè al tritono):
Webern contraddistingue i rapporti degli intervalli inferiori (abwärts) in numeri romani (da I a XXIV) e quelli superiori (aufwärts) in numeri arabici (da 25 a 48), sempre rispetto alla nota di partenza della serie originale. Questo raggruppamento metodologico di trasposizione delle forme seriali è caratteristico del modus operandi di Webern ed è analiticamente utile per una definizione dello stile polifonico di Webern, nel quale si rivela anche la presenza di un nuovo campo armonico. I successivi raggruppamenti di trasposizione della serie del Trio op. 20 sono i seguenti: 2) Terzen abwärts (terze inferiori, sempre rispetto alla nota di partenza della serie I, cioè la bem.): alla terza minore (nelle quattro forme, dal IX al XII), alla terza maggiore (dal XIII al XVI); 3) Sekunden abwärts (seconde inferiori): alla seconda minore (dal XVII al XX) e alla seconda maggiore (dal XXI al XXIV); 4) Quint aufwärts: lla quinta superiore (dal 25 al 28); e Quart aufwärts: alla quarta superiore (dal 29 al 32); 5) Sekunden aufwärts (seconde superiori): alla seconda minore (dal 33 al 36) e alla seconda maggiore (dal 37 al 40); 6) Terzen aufwärts (terze superiori): alla terza minore (dal 41 al 44) e alla terza maggiore (dal 45 al 48).
Il Trio op. 20 si compone di due movimenti: il primo ha un vago riferimento alla forma-rondò; il secondo è in forma-sonata, ma strettamente delineata come sintesi di variazione ritmica e contrappuntistica. Il primo movimento non si apre con la serie originale (I), ma con la regressione alla terza maggiore superiore (VI tabella, n. 46) seguita dalla forma diritta (n. 45) e dal relativo rovescio (n. 47) in un sottile ‛puntilismo' timbrico:
Il ricorso allo schema della forma-rondò è talmente trasfigurato e irriconoscibile da apparire più un riferimento analitico alla circolarità speculare della serie (in analogia con la circolarità del rondò), che un ricorso costruttivo, come avviene invece nelle prime opere dodecafoniche di Schönberg.
Il riferimento alle tecniche polifoniche e contrappuntistiche si fa sempre più stretto e rigoroso in Webern. La Sinfonia op. 21 è formata da due movimenti: il primo è un ‛doppio canone per moto contrario' a quattro voci, distribuite su dieci pentagrammi (clarinetto, clarinetto basso, due corni, arpa, due violini, viola e violoncello); il secondo movimento è costituito da un tema con sette variazioni; la durata complessiva dell'opera è di sei minuti circa. La serie originale annotata nella tabella di Webern, è la seguente:
Si noterà subito che la seconda metà della serie (7-12) non è altro che la regressione (trasposta) della prima (1-6), come ha osservato lo stesso compositore: ‟questo ne costituisce una particolare coerenza interna. Si danno quindi solo 24 forme, perché due risultano sempre identiche" (v. Webern, 1960; tr. it., p. 103). Nel primo movimento le quattro voci, che articolano il doppio canone per moto contrario, si muovono in piano orizzontale, ma verticalmente proiettate da strumento a strumento. La linea melodico-contrappuntistica vive così in funzione strettamente timbrica, in sezioni di cinque, quattro, due e persino una nota, distribuite a tre, quattro e cinque strumenti (tenendo presente che non vi sono mai raddoppi). La tecnica dell'ochetus viene qui applicata con estremo rigore a un'altrettanto rigorosa tecnica canonica:
La serie originale viene occultata, ma essa compare poi tematizzata nel secondo movimento e in senso tradizionale di ‛tema' seguito da sette variazioni. Il tema è esposto dal clarinetto e svolge melodicamente tutta la serie originale con un accompagnamento sostenuto da due corni e dall'arpa e basato sulla regressione della serie:
Se per Schönberg e per Berg la serie costituisce pur sempre la Grundgestalt di un'idea musicale che deve essere ancora sviluppata in una forma ‛compiuta', in Webern la serie presuppone già la forma ‛compiuta' di un pensiero musicale: essa è l'essenza, il fondamento originario che conferisce unità e identità al discorso musicale, prima ancora di esser espresso. Il principio della variazione viene elevato a principio fondante l'idea musicale e investe la stessa serie. Webern usa lo stesso esempio cui anche Husserl ricorreva nelle sue lezioni quando parlava dell'essenza delle cose (eidos): ‟Variazioni sopra un tema, questa è la forma primordiale che sta alla base di tutto [...]. Un portacenere visto da diverse parti è sempre lo stesso e però ogni volta un po' diverso. Un pensiero deve essere quindi rappresentato nelle più diverse maniere" (ibid., pp. 97-98).
La serie del Konzert op. 24 per nove strumenti (1934) ha la proprietà di essere rotante su un nucleo centrale (Kern) di tre note, la cui proiezione speculare genera rapporti d'identità nelle forme seriali delle 48 trasposizioni. Nella tabella annotata da Webern risulta che la serie originale (che contiene ben cinque seconde minori) viene considerata come sintesi speculare delle quattro forme, in base a una microserie ‛genetica' (fa-mi-sol diesis) che si proietta nelle trasposizioni,
le quali danno luogo a permutazioni delle microserie, come le seguenti:
L'es. 49-II (XXII trasposizione nella tabella di Webern) è la regressione della serie originale alla quinta diminuita (tritono): essa presenta gli stessi gruppi di tre note della serie originale in ordine differente (b-a-d-c); altrettanto si ha nell'es. III (che è il rovescio alla seconda minore superiore) e nell'es. IV (che è la regressione del rovescio alla quarta inferiore); nell'es. V infine (regressione del rovescio alla seconda minore superiore) si ha una permutazione interna, cioè la regressione di ogni singola microserie.
Le ultime sei opere, composte da Webern tra il 1935 e il 1943, riflettono al massimo grado gli ulteriori sviluppi di questa tecnica seriale. Webern è spinto a ricercare sempre più il senso recondito che ogni nota può rivelare nell'infinita gamma semantica di un discorso musicale fondato, in modo assoluto e autosufficiente, sul principio d'identità. La serie delle mirabili Variationen op. 27 (1936), l'unica opera per pianoforte scritta da Webern, appare talmente occultata nelle rifrazioni speculari e negli intrecci contrappuntistici da rendere possibili differenti analisi che però finiscono tutte col portare alla struttura centrale di una costellazione poliedrica:
Il sesto suono (do) è il punto d'incontro speculare tra la serie originale e la regressione del rovescio, cui fa riscontro una convergenza asimmetrica sull'undicesimo suono (la) nelle relative quattro forme. All'inizio del primo movimento la serie viene esposta (alla terza maggiore) come un vero e proprio tema che nello stesso tempo si presenta come prima variazione speculare, Spiegelbild, dove le quattro forme della serie s'incrociano in un centro focale, in simmetrica identità di rifrazioni:
Il secondo movimento rivela chiaramente lo schema della giga, mentre il terzo afferma puntilisticamente la serie originale in una pura e scarna linearità contrappuntistica. Il tema (batt. 1-12) è suddiviso in tre sezioni: sull'originale, sul rovescio e sulla regressione:
Seguono cinque variazioni (batt. 12-23; 23-33; 33-43; 45-55; 56-66) di cui la quinta ha funzione di ‛coda' in un progressivo decrescendo di intensità dal p al pp e al ppp. Il Leibowitz, che per primo ne ha fatto una acuta analisi, conclude affermando che ‟l'op. 27 di Webern è la prima opera musicale nella quale un compositore abbia affermato l'idea della variazione in sé [...]. In quest'opera tutto è variazione, o ancora (ciò che fa lo stesso) tutto è tema. Questo è soprattutto sorprendente nell'ultimo movimento, dove il fatto che non possiamo scoprire, in nessun momento, la ripresa di alcun frammento esposto, ci permette d'affermare che non è più dato stabilire un sia pur minimo sembiante di gerarchia fra le differenti parti del movimento" (v. Leibowitz, 1947, p. 243).
La tecnica dodecafonica weberniana tocca forse il limite estremo nella ‛riduzione' al principio d'identità con la serie delle Variationen op. 30 per orchestra (1940) che rappresentano il capolavoro della maturità del grande compositore viennese. Sin dal primo ascolto, ciò che colpisce subito è l'evidenziazione espressiva del tessuto tematico che rende il discorso musicale estremamente teso nelle sonorità dei violenti passaggi dal pp al ff e nelle accentuazioni ritmiche che ci riportano all'atmosfera espressionista dell'op. 6 e dell'op. 10 soprattutto; l'ampio respiro degli archi, in figure melodiche quasi deliranti, non può non richiamare, ancora e sempre, il ricordo mahleriano. Frutto di un rigore che coincide, anzi s'identifica con una immediatezza vissuta nella più profonda interiorità soggettiva, le Variationen op. 30 sembrano anche porsi in antitesi con l'atmosfera platonizzante delle due cantate (op. 26 e op. 29) composte nel medesimo periodo. La stessa serie è, in sé e per sé, centro propulsivo e irradiante le sei variazioni che seguono: tutto è vincolato a essa; e il ‛contrasto', che assume talvolta aspetti ossessivi, fra la serie come Urphänomen e la variazione come movimento dialettico del divenire, scaturisce dal rapporto ‛polare' tra immobilità del ‛fenomeno' e movimento dell'intenzionalità soggettiva del discorso musicale. La serie è infatti congegnata in modo tale da riprodursi periodicamente, costituendo un palindromo, per cui le 48 trasposizioni si riducono, in definitiva, al solo rovescio non trasposto:
Webern stesso ha abbozzato un'analisi significativa di quest'opera: ‟Tutto quanto accade nel corso del pezzo dipende da due idee esposte nella prima e nella seconda battuta (contrabbasso e oboe)! Ma si riduce ancor più, perché la seconda idea (oboe) è già in sé retrograda: infatti il terzo e il quarto suono sono la regressione dei primi due, però in aumentazione ritmica. A questa segue già di nuovo, nel trombone, la prima idea (contrabbasso), però in diminuzione e per moto retrogrado dei motivi e degli intervalli. Così la mia serie è costruita in modo da dare tre volte questi quattro suoni. Lo svolgimento tematico partecipa di questo moto retrogrado tuttavia servendosi dell'aumentazione e della diminuzione. Ambedue questi tipi di cambiamenti conducono quasi esclusivamente alle rispettive idee di variazione, cioè: un mutamento melodico ha luogo, semmai, soltanto in questo ambito. Ma attraverso tutti gli spostamenti possibili del centro di gravità in seno a entrambe queste idee nasce sempre qualcosa di nuovo sia per il carattere, sia per la disposizione delle battute e così via [...]. E così per tutto il pezzo, e i germi del suo contenuto sono già tutti nei primi dodici suoni, cioè nella serie! È tutto preordinato!" (Lettera a Willi Reich, 3 maggio 1941, in Webern, 1960; tr. it., pp. 114-115).
10. Eredità e diffusione della dodecafonia
Nel periodo fra le due guerre mondiali la dodecafonia fu quasi totalmente ignorata, se non avversata, dalla maggior parte dei compositori europei, tedeschi compresi, che perseguivano altre strade o nella scia postromantica o alla ricerca di nuove dimensioni sonore in base ai principî della tonalità estesa, ai ricuperi modali e diatonici, all'esatonalismo, al bitonalismo, al politonalismo ecc. Tra essi I. Stravinskij, che verrà a costituire l'antitesi di Schönberg, e P. Hindemith, che rimarrà violentemente avverso alla dodecafonia, anche quando Stravinskij ne riconoscerà l'importanza e ne tenterà, attraverso la ‛scoperta' di Webern, una mediazione adottando, a suo modo, la tecnica seriale e dodecafonica in alcune delle ultime opere scritte dopo il 1955 (Settimino, In memoriam Dylan Thomas, Threni, Agon).
Sostanzialmente la dodecafonia fu praticata, nell'isolamentp e nell'incomprensione, da Schönberg e dai suoi allievi, in una cerchia ristretta di amici. Con l'avvento del nazismo, che s'affrettò non solo a condannare l'ebreo Schönberg, ma a bollare la dodecafonia come la più pericolosa tecnica delle ‛arti degenerate' (entartete Künste), i musicisti della Scuola di Vienna si dispersero. Schönberg emigrò sin dal 1933 prima in Francia, poi negli Stati Uniti, come E. Křenek che nel 1927 s'era accostato al maestro viennese e ne aveva adottato la tecnica dodecafonica. Altri allievi, quali E. Wellesz, R. Gerhard e E. Stein, che era stato il primo a descrivere il metodo dodecafonico in un famoso saggio (Neue Formprinzipien, 1924) emigrarono in Inghilterra, mentre Berg e Webern rimasero a Vienna, affrontando difficoltà e vivendo in segregazione, via via abbandonati dagli allievi che temevano rappresaglie da parte nazista. Alla scuola di Schönberg si erano formati, sin dal 1917, anche H. Eisler, K. Rankl e J. Rufer, che ne divenne poi l'assistente e che il maestro doveva autorizzare a scrivere un ‛manuale' di tecnica dodecafonica (v. Rufer, 1952); e, in seguito, H. E. Apostel, H. Jelinek, W. Zillig, H. Jalowetz, R. Hoffman e infine Vl. Vogel, allievo di Busoni, che fu tra i primi ad adottare la tecnica dodecafonica in modo originale e indipendente.
Tuttavia solo nel secondo dopoguerra la presenza della Scuola di Vienna fu improvvisamente avvertita dal mondo culturale e artistico occidentale, determinando nelle nuove generazioni di musicisti un deciso orientamento verso la tecnica dodecafonica, come punto di partenza verso ulteriori, radicali proposte (il serialismo integrale) nel rinnovamento del linguaggio musicale.
Nel mondo della cultura letteraria e filosofica grande incidenza ebbero il Doktor Faustus di Th. Mann (Stockholm 1948; tr. it., Milano 1949) e la Philosophie der neuen Musik di Th. W. Adorno (v., 1949), dalla quale appunto Mann trasse lo spunto per il suo celebre romanzo. Entrambi emigrati negli Stati Uniti, Adorno fece leggere a Mann i suoi due saggi (su Stravinskij e su Schönberg) ancora in manoscritto, che dovevano poi costituire la Philosophie der neuen Musik, e glieli illustrò. Allievo di A. Berg per la composizione, filosofo e sociologo, Adorno aveva creato, con M. Horkheimer, l'Institut für Sozialforschung nell'Università di Francoforte sul Meno, avviando le più moderne e acute ricerche in questa disciplina. L'acuta e stringente indagine dialettica e critica dei moventi e delle componenti che avevano determinato la ‛crisi' della musica contemporanea, considerata nei poli opposti dei suoi due maggiori rappresentanti, Schönberg und die Fortschritt (Schönberg e il progresso) e Stravinskij und die Restauration (Stravinskij e la restaurazione), aveva colpito profondamente Thomas Mann, soprattutto per le implicazioni ideologiche scaturenti dalla dodecafonia. Per Adorno tanto il concetto di ‛progresso' quanto quello di ‛restaurazione' nel linguaggio musicale moderno finiscono con l'essere prigionieri di una permanente contraddizione in cui si muove l'attuale società capitalistica che ha alienato la soggettività del prodotto artistico nell'anonima oggettività della cultura di massa.
Le motivazioni sociologiche di Adorno avevano affascinato Mann, che aveva già in mente di descrivere in un'opera letteraria la situazione dell'artista moderno riprendendo la tematica giovanile del Tonio Kröger. In un'epoca di saturazione dei linguaggi artistici e di crisi di ogni valore, un musicista, consapevole dello sfaldamento del sistema tonale che aveva retto la musica per secoli, ne tenta il rinnovamento mediante un patto col diavolo, ma precipita nella follia. Nella figura di Adrian Leverkühn, novello Faust, e nelle sue vicende, Mann intrecciò anche episodi e situazioni psicologiche che si riferivano a Schumann, a H. Wolff e a Nietzsche, in una sintesi emblematica della ‛situazione' in cui si veniva a trovare il musicista dopo il ‛rinnovamento' dei mezzi linguistici della musica mediante la dodecafonia. Nell'antitesi Schönberg-Stravinskij, Adorno vedeva infatti nel maestro viennese il solo autentico moto progressivo per il futuro della musica contemporanea, ma non mancava (come d'altronde aveva avvertito lo stesso Schönberg) di mettere in luce le insidie e le contraddizioni interne di una totale radicalizzazione della tecnica dodecafonica e seriale che portava il musicista a un distacco sempre più profondo e solipsistico dalla società. La suggestiva interpretazione letteraria data da Mann, nel Doktor Faustus, della crisi della musica contemporanea come crisi di una civiltà e il significato ‛demoniaco' attributo all'ambiziosa proposta scaturente dal ‛metodo dodecafonico' provocarono la reazione di Schönberg (cfr. Ist A. Schönberg Doktor Faustus? Scharfer öffentlicher Briefwechsel zwischen dem Komponisten und Thomas Mann, in ‟Die Zeit", 1949, IV, 5; e anche Thomas Mann und Arnold Schönberg, in ‟Neue Auslese", maggio 1948) il quale rivendicò la paternità della dodecafonia e pretese soltanto che essa fosse riconosciuta in una nota in appendice nelle successive edizioni del romanzo manniano. Più tardi il grande scrittore tedesco doveva lucidamente motivare le ragioni che lo avevano spinto a scrivere il Doktor Faustus, rendendo omaggio ad Adorno: ‟Senza lasciare alcun dubbio sulla convinzione dell'autore circa la grande importanza di Schönberg, lo scritto esercita però una critica acuta e profonda del suo sistema [la dodecafonia], esponendo in uno stile estremamente conciso e fin troppo sottile, formatosi alla scuola di Nietzsche e di Karl Kraus, la fatalità che fa ricadere nella tenebra e nella mitologia l'illuminazione costruttiva e oggettivamente necessaria della musica, per ragioni altrettanto oggettive, e, per così dire, scavalcando l'artista [...]. Il suo modo incisivo di venerare, la tragicamente savia intransigenza della sua critica erano proprio quello che ci voleva; ciò che infatti ne potevo desumere, e che mi appropriai per descrivere la crisi generale della civiltà e della musica in particolare, costituiva il motivo fondamentale del mio libro: la vicinanza della sterilità, la disperazione innata e predisponente al patto col diavolo" (Th. Mann, Die Entstehung des Doktor Faustus. Roman eines Romans, Amsterdam 1949; tr. it., Romanzo di un romanzo. La genesi del Doktor Faustus", in Scritti minori, Milano 1958, pp. 133-145).
L'influenza della dodecafonia, nel secondo dopoguerra, fu sentita anche da taluni compositori coetanei di Schönberg, che già avevano elaborato un proprio compiuto linguaggio, come D. Milhaud in diverse composizioni strumentali, dove si limita però a introdurre delle semplici sequenze di dodici suoni (nell'opera David poi, scritta nel 1952-1953, compare la già citata ‛serie' del Don Giovanni mozartiano); o come in Italia l'ultimo Casella e persino G. F. Malipiero e G. F. Ghedini che usano liberamente procedimenti seriali. Anche B. Bartòk, già prima della guerra, sperimenta la tecnica dodecafonica e seriale, in modo conseguente e, nello stesso tempo, coerente coi propri nessi etnici, nel Concerto per violino e orchestra (1937-1938). Diversi musicisti della generazione di mezzo, in Germania, adottano la dodecafonia, con differenti procedimenti e in modo non sistematico; tra essi, oltre a R. Wagner-Regeny, W. Fortner, B. Blacher e H. Heiss, allievo di Hauer e i più giovani che escono dal loro insegnamento, come H. Werner Henze e G. Klebe.
Anche i due più importanti compositori della Repubblica Democratica Tedesca, H. Eisler e P. Dessau, che erano stati attivi collaboratori di B. Brecht, fanno uso talvolta della dodecafonia nel contesto del loro linguaggio impegnato in una Gebrauchsmusik di contenuto etico e politico, a differenza dei compositori dell'URSS dove la dodecafonia, in base ai retaggi staliniani e zdanoviani, fu ed è tuttora bandita; in Polonia invece, dopo la morte di Stalin, la cultura musicale si è aperta, attraverso scambi e contatti, alle correnti più vive della musica occidentale e la dodecafonia ha trovato subito i suoi adepti tra i quali, in primo piano, K. Penderecki.
In Francia la diffusione della dodecafonia è dovuta soprattutto all'opera critica e teorica di R. Leibowitz. Allievo di Webern e discepolo di Scönberg, Leibowitz, di origine polacca ma di cittadinanza francese, pubblicava nel 1947 Schönberg et son école, cui seguivano altri scritti, tra cui la fondamentale Introduction à la musique de douze sons (1949), che ebbero un'importanza decisiva per le giovani generazioni di compositori non solo in Francia, ma in tutto il mondo. Fedele alle premesse schönberghiane, Leibowitz anche come compositore rivela una forte personalità, proprio attraverso il rigore dodecafonico dove la tecnica seriale viene rivissuta come autentica necessità interiore, spinta verso nuove strutture espressive che si scostano da quelle di Schönberg, di Webern e di Berg. A sua volta allievo di Leibowitz, P. Boulez si è imposto tra quei musicisti più radicali che, partiti dalla dodecafonia, si sono poi volti verso un serialismo integrale non dodecafonico, impegnato a sondare tutte le dimensioni possibili del suono e del rumore, e che hanno maturato la loro esperienza ai Ferienkurse für neue Musik di Darmstadt. Sorti nel 1950 attirarono giovani musicisti da tutto il mondo; si vennero così formando gruppi e tendenze ultraradicali che, partendo da Webern, estesero i principi del ‛puntilismo' e della variazione integrale ai quattro parametri del suono e a tutte le dimensioni strutturali del linguaggio musicale. Ritenendo Webern il punto limite dell'esperienza dodecafonica, i compositori di Darmstadt proposero in seguito, sia pure in differenti forme e modi, un ‛ricominciare da capo', partendo dal rumore, dal suono massa, attraverso l'utilizzazione di qualsiasi mezzo sonoro. Da tali premesse scaturirono anche le ricerche sperimentali della musique concrète e quelle della ‛musica elettronica'; la prima sorta in Francia, per iniziativa di P. Schaeffer, la seconda a Colonia per impulso di H. Eimert e di K. Stockhausen, cui s'aggiunsero, in seguito, altri laboratori di musica elettronica in diversi centri europei e, tra i primi, lo Studio di fonologia musicale della RAI-TV, a Milano. I maggiori esponenti del ‛serialismo integrale' sorto a Darmstadt erano P. Boulez e K. Stockhausen da un lato e gli italiani L. Nono e B. Maderna, seguiti più tardi da L. Berio e dal belga H. Pousseur; mentre contribuirono all'indagine teorica e critico-storica delle nuove tendenze i seminari e le lezioni tenute a Darmstadt da Th. W. Adorno, da H.H Stuckenschmidt, da R. Leibowitz, da L. Rognoni e da altri musicisti e storici della musica.
Parallelamente alla formazione delle tendenze più radicali delle neoavanguardie, la dodecafonia andava sempre piu estendendosi nella prassi compositiva dei musicisti di ogni nazione.
In Italia, i due maggiori compositori della seconda generazione del Novecento, L. Dallapiccola e O. Petrassi, trovarono nel metodo dodecafonico l'impulso ad affermare in modo nuovo la propria personalità. Più radicale Dallapiccola, che già prima della guerra era stato sensibile alla lezione di Schönberg e della sua scuola e in particolare alla musica di Webern. Anche A. Veretti passò alla dodecafonia, come M. Peragallo, R. Vlad, R. Malipiero, R. Nielsen, e i più giovani A. Clementi, F. Donatoni e altri. Un contributo alla diffusione della musica di Schönberg e della sua scuola fu dato anche in Italia da L. Rognoni con una serie di trasmissioni radiofoniche (1948-1950) e con Espressionismo e dodecafonia, pubblicato nel 1954, e da R. Vlad con la Storia della dodecafonia (1958).
In Inghilterra i più conseguenti compositori dodecafonici, H. Searle e M. Seiber, attirarono al loro insegnamento numerosi giovani, mentre anche W. Walton e B. Britten (soprattutto nell'opera The turn of the screw) adottarono sporadicamente serie dodecafoniche come elementi di contrasto espressivo nei nessi tonali del loro linguaggio.
Particolare rilievo va dato al compositore ginevrino Fr. Martin che sin dal 1930 scoprì la dodecafonia e ne fece uso costante, creando alcune delle opere più valide della musica del nostro tempo, come Le vin herbé (1942) e l'opera Der Sturm (1956). In Svizzera s'impongono inoltre come compositori dodecafonici, oltre al già citato Vl. Vogel (di origine russa), la cui opera maggiore è il Thyll Claess (1945), K. Kuber, J. Wildberger e R. Liebermann che unisce alla dodecafonia elementi eclettici provenienti dal jazz.
Negli Stati Uniti, dove Schönberg era giunto nel 1933 con la fama di ‛inventore della dodecafonia', molti allievi si erano subito raggruppati intorno a lui, ansiosi di apprendere i ‛segreti' della nuova tecnica; Schönberg li aveva invece sottoposti a un serrato tirocinio di studio dell'armonia tradizionale, elaborando, tra l'altro, nuovi criteri sulle ‛funzioni strutturali' dell'armonia e sulle ‛regioni' della tonalità (v. Schönberg, 1954) ma quasi tutti, disillusi, lo avevano abbandonato dopo breve tempo, tranne pochi, tra cui D. Newlin, G. Strang e L. Stein, che divennero poi suoi fedeli collaboratori e assistenti quando Schönberg fu chiamato alla cattedra di composizione Alkin alla University of Southern California di Los Angeles nel 1935. Tuttavia l'influsso della dodecafonia non tardò a farsi sentire anche su compositori come A. Copland, R. Sessions e V. Thomson e sui più giovani W. Rieger e Ch. Rugles. Un caso particolare e a sé stante è rappresentato da Ch. Ives che aveva composto tra il 1906 e il 1921 (cessando quindi di scrivere dopo quell'anno) numerose musiche che utilizzavano il totale cromatico e forme seriali in modo del tutto istintivo ed empirico, ma senza alcuna riflessione ed elaborazione teorica, e che venne in seguito ‛scoperto' ed esaltato in America e in Europa come un pioniere.
Anche nei paesi dell'Estremo Oriente la dodecafonia ha trovato una notevole diffusione nei festival e nelle sale da concerto e ha nel compositore giapponese Y. Matsudaira uno dei suoi maggiori rappresentanti; cosi pure in Israele, il compositore polacco R. Hauberstock Ramati, colà emigrato, è divenuto l'animatore di una scuola dodecafonica tra le più accreditate.
Oggi la tecnica dodecafonica e seriale viene insegnata in quasi tutti i conservatori del mondo, così come la Harmonielehre di Schönberg è ormai considerata un testo fondamentale per lo studio dell'evoluzione del linguaggio musicale. Anche se le più recenti radicali tendenze sembrano volgere, attraverso l'uso di materiali ‛alinguistici' (rifiutando cioè i principî della scala cromatica e del temperamento equabile) verso un superamento del serialismo dodecafonico, l'eredità di Schönberg e della sua scuola, ancora ben lungi dall'essere stata pienamente assimilata e quindi storicizzata, continua a essere operante nella coscienza musicale e culturale del nostro tempo. Nel 1948 Schönberg confessava: ‟Una scienza segreta non è qualcosa che un alchimista rifiuterebbe di insegnarvi; è una scienza che non si può insegnare affatto. È innata e non c'è. Questa è anche la ragione per cui l'Adrian Leverkühn di Thomas Mann non conosce l'essenziale del metodo di composizione con dodici note. Tutto quello che egli sa gli è stato detto dall'Adorno, il quale a sua volta sa soltanto quel poco che io ho potuto insegnare ai miei allievi. I fatti reali resteranno forse una scienza segreta fin quando qualcuno non li avrà ereditati, senza averli sollecitati per dono di natura" (A. Schönberg, The blessing of the dressing, in Style and idea, New York 1950, p. 218; tr. it.: I miracoli della salsa, in Stile e idea, Milano 1960, p. 233. Si veda anche espressionismo musicale).
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