Abstract: L’ordinamento internazionale riconosce quali fonti normative due categorie di principi generali: i principi generali di origine nazionale ed i principi generali propri del diritto internazionale. Pur svolgendo funzioni per certi versi analoghe, tali fonti sono profondamente differenti tra loro, per caratteristiche e finalità. La prima è espressione di un’esigenza di coordinamento tra il diritto internazionale ed il patrimonio giuridico condiviso degli Stati. La seconda è primariamente tesa, invece, a garantire la coerenza del diritto internazionale al suo interno.
Con l’espressione “principi generali” ci si riferisce, tradizionalmente, a prescrizioni normative dal contenuto astratto, che informano le norme dell’ordinamento giuridico al quale pertengono. Nell’ordinamento internazionale vi sono due categorie di principi generali, che corrispondono a due distinte fonti normative: i principi generali di diritto condivisi dalle normative degli Stati, anche noti come principi generali di origine nazionale, o principi generali domestici, ed i principi generali del diritto internazionale. Assieme alla consuetudine, i principi generali formano il diritto internazionale generale, vale a dire quell’insieme di precetti giuridici che vincola tutti i soggetti dell’ordinamento, a differenza dei trattati, che vincolano solo i soggetti che questi abbiano firmato o ratificato.
L’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della Corte internazionale di giustizia annovera i «general principles of law recognized by civilized nations» tra le fonti del diritto internazionale. Principi generali del diritto, dunque, diffusi negli ordinamenti degli Stati e rilevanti per l’ordinamento internazionale proprio in virtù del loro ampio riconoscimento. È bene specificare che, come sottolineato sia dalla Commissione del diritto internazionale, che da una larga maggioranza degli Stati che formano l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che anche dalla dottrina, nessun ruolo ha più l’aggettivo «civilized», usato dall’art. 38 per connotare gli ordinamenti nazionali rilevanti: semplicemente, esso deve oggi considerarsi come non apposto (cfr. Assemblea generale delle Nazioni Unite, Third report on general principles of law by Marcelo Vázquez-Bermúdez, Special Rapporteur, 18 aprile 2022, UN Doc. A/CN.4/753, par. 2 e 4, e Thirlway, H., The Sources of International Law, Oxford, 2014, 95).
L’inquadramento sistematico dei principi generali domestici risulta controverso. Da una prospettiva monista, essi fanno parte dell’ordinamento internazionale sin dalla loro formazione. In tale ottica, il diritto degli Stati sarebbe soltanto la fonte di loro cognizione. All’opposto, da una prospettiva dualista, i principi generali domestici vengono importati nell’ordinamento internazionale dall’esterno, da un contesto giuridico altro. Il diritto degli Stati sarebbe allora sia la loro fonte di produzione che di cognizione. Sfortunatamente l’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della Corte internazionale di giustizia non consente di risolvere la questione in un senso o nell’altro. In ottica monista, si potrebbe ritenere che tale norma si limiti ad attribuire a taluni principi comuni, già presenti nell’ordinamento internazionale, il rango ed il ruolo di fonte normativa. Viceversa, in ottica dualista, si potrebbe ritenere che l’art. 38, par. 1, lett. c), attribuisca valore giuridico a dei frammenti normativi esterni che sarebbero altrimenti irrilevanti per il diritto internazionale.
I principi generali domestici vengono individuati dall’operatore giuridico attraverso un’analisi comparativa.
Secondo gli studi della Commissione del diritto internazionale, l’analisi comparativa deve essere quanto più ampia e rappresentativa possibile, prendendo in considerazione numerosi ordinamenti nazionali, afferenti a diverse aree geografiche (Third report on general principles of law by Marcelo Vázquez-Bermúdez, Special Rapporteur, par. 3, nota 8). Ciò recepisce la prassi sviluppata da una parte della giurisprudenza internazionale. Vi sono invero molti casi nei quali l’analisi comparativa compiuta dal giudice viene illustrata in maniera diffusa, di modo che emerge come essa prenda in considerazione gli ordinamenti di numerosi Stati, diversi tra loro per tradizioni e caratteristiche. È solo al termine di questa analisi che viene descritto il contenuto dei principi. Molti esempi di tale modus operandi sono rinvenibili nella giurisprudenza internazionale penale, uno degli ambiti del diritto internazionale in cui i principi generali comuni alle normative degli Stati sono applicati più diffusamente: si vedano, nella giurisprudenza del Tribunale internazionale penale per la ex Jugoslavia, la sentenza Furundžija, emessa il 10 dicembre 1998 (par. 176 ss.) e l’Opinione separata dei giudici McDonald e Vohrah, allegata alla sentenza Erdemović, emessa il 7 ottobre 1997 (par. 59 ss.). Non mancano però giudici, come la Corte permanente di giustizia internazionale e la Corte internazionale giustizia, che sono invece soliti, quando applicano i principi generali domestici, non illustrare l’analisi comparativa compiuta. Ne espongono soltanto gli esiti: i principi, appunto (Raimondo, F., General Principles of Law in the Decisions of International Criminal Courts and Tribunals, Leiden, Boston, 2008, 45 ss.).
Nell’ambito dell’analisi comparativa, tutti gli ordinamenti nazionali hanno tradizionalmente egual rilievo. Per questa ragione l’analisi comparativa è stata talvolta descritta come un processo di distillazione dei minimi comuni denominatori normativi del diritto degli Stati (sentenza Furundžija, par. 178: «a process of identification of the common denominators in [the national] legal systems so as to pinpoint the basic notions they share»). Un’eccezione a ciò pare essere però prefigurata dallo Statuto della Corte penale internazionale. All’art. 21, par. 1, lett. c), questo invero indica alla Corte di estrapolare («derive») i principi generali domestici a partire dal diritto nazionale che rappresenti le diverse tradizioni giuridiche del mondo («from national laws of legal systems of the world»), ma anche includendo nell’analisi comparativa, ove opportuno, la normativa degli Stati che normalmente eserciterebbero la propria giurisdizione sul crimine oggetto di giudizio («including, as appropriate, the national laws of States that would normally exercise jurisdiction over the crime»). Siccome gli ordinamenti degli Stati che normalmente eserciterebbero la loro giurisdizione nel caso concreto sono senz’altro annoverabili tra le «national laws of legal systems of the world», la loro specifica menzione ben potrebbe tendere a conferire loro un rilievo preordinato rispetto a tutti gli altri ordinamenti comparati dal giudice.
Una volta identificato un principio generale comune alle normative degli Stati, occorre trasporlo nell’ordinamento internazionale. Nel tempo, sono emerse due diverse concezioni della trasposizione.
L’impostazione tradizionale è incentrata sull’adattamento. In base ad essa, l’operatore giuridico potrebbe modificare il contenuto del principio generale comune agli ordinamenti degli Stati nella misura necessaria ad adattarlo alle peculiarità del contesto giuridico di recepimento. Addirittura, l’adattamento del principio generale sarebbe un’operazione giuridica auspicabile.
Già nel 1950 Lord McNair metteva in guardia dall’importazione, nell’ordinamento internazionale, dei principi desunti dal diritto degli Stati in maniera «lock, stock and barrel», come fossero nozioni «ready-made and fully equipped with a set of rules» (Corte internazionale di giustizia, International Status of South West Africa, parere dell’11 luglio 1950, Separate Opinion by Sir Arnold McNair, 148). Al contrario, indicava McNair, i principi comuni alle normative nazionali dovevano essere considerati alla stregua di una mera «indication of policy and principles» (ibidem).
Nell’Opinione separata e dissenziente del giudice Cassese, allegata alla sentenza di appello sul caso Erdemović (Tribunale internazionale penale per la ex Jugoslavia, Procuratore c. Dražen Erdemović, sentenza del 7 ottobre 1997, Separate and Dissenting Opinion of Judge Cassese), veniva poi ricostruita una vera e propria tecnica di trasposizione incentrata sull’adattamento. Per prima cosa, l’operatore giuridico doveva verificare se, una volta inserito nell’ordinamento internazionale, il principio generale domestico potesse operare in maniera autonoma rispetto al diritto degli Stati (ibid., par. 6). Se così non fosse stato, allora la trasposizione («the transplant») nel diritto internazionale avrebbe richiesto all’operatore di procedere con l’adattamento («adaptation or adjustment») del principio generale alle peculiarità del diritto internazionale («the characteristic features of international [law]», ibidem). Si trattava, sottolineava Cassese, di un’operazione ordinaria per il giudice internazionale: «the normal attitude of international courts is to try to assimilate or transform the national law notion so as to adjust it to the exigencies [...] of international law» (ibid., par. 3).
La dottrina e la giurisprudenza più recenti hanno però posto in luce alcune contraddizioni insite nella trasposizione mediante adattamento.
Anzi tutto, sarebbero rilevabili contraddizioni di carattere metodologico. Non è stato mai stabilito il limite dell’adattamento: resta oscuro, cioè, in che misura l’operatore possa incidere sul contenuto dei principi generali, se possa modificare solo i loro corollari o se possa intervenire anche sul loro nucleo prescrittivo, evidentemente stravolgendoli. Né sono state individuate in maniera univoca le caratteristiche dell’ordinamento internazionale cui adattare i principi generali, con la conseguenza che ciascun operatore giuridico potrebbe ritenere tali caratteristiche diverse, senza che vi sia alcuna possibilità di coordinamento.
Inoltre, vi sarebbero contraddizioni di carattere normativo. Ad esempio, nel diritto internazionale penale, la modifica, anche solo parziale, del contenuto dei principi generali domestici potrebbe violare il principio di legalità. Quest’ultimo impone la prevedibilità del diritto, la quale comporta che ogni individuo debba poter prevedere il contenuto della norma penale applicabile alla sua condotta sin dal momento in cui si determini a realizzarla (Gallant, K., The Principle of Legality in International and Comparative Criminal Law, Cambridge, 2009, passim). Con riferimento ai principi generali domestici, nel diritto internazionale la prevedibilità si ritiene garantita, per lo meno in astratto, dalla loro ampia diffusione. Ne consegue che consentire all’operatore giuridico – si pensi al caso di un giudice internazionale – di incidere discrezionalmente sul contenuto di tali principi comporta il rischio che nei confronti di uno o più individui vengano applicati dei contenuti normativi che, prima dell’intervento modificativo, non esistevano. Così il diritto alla prevedibilità, e dunque il principio di legalità, sarebbe con tutta probabilità violato.
È andata allora sviluppandosi una differente tecnica di trasposizione, che esclude l’adattamento. Essa è incentrata su di una verifica di compatibilità tra il principio generale domestico e il diritto internazionale nel suo complesso, del cui esito l’operatore giuridico è chiamato a prendere atto. Ove un principio generale domestico si rivelasse incompatibile con il diritto internazionale, esso non potrebbe essere in alcun modo modificato per adattarvisi, bensì dovrebbe essere dichiarato inapplicabile. Per un esempio si pensi alla decisione emessa dalla Camera d’appello del Tribunale internazionale penale per la ex Jugoslavia il 14 febbraio 2011 nel caso Gotovina et al. Nella precedente giurisprudenza, l’immunità propria degli organi del Tribunale era stata estesa ai membri del collegio difensivo. Una soluzione raggiunta interpretando lo Statuto del Tribunale alla luce di taluni principi generali domestici. Nel febbraio 2011, però, la Camera d’appello rilevava l’incompatibilità di tali principi con il diritto internazionale penale e, rifiutando di inciderne il contenuto per adattarli ad esso, ne dichiarava l’inapplicabilità. Da ciò scaturiva la negazione dell’immunità dei membri del collegio difensivo (par. 30 ss.).
Anche i lavori della Commissione del diritto internazionale paiono andare nel senso di escludere, o per lo meno di limitare fortemente, il ricorso all’adattamento. Nella Draft Conclusion n. 6, proposta dal relatore speciale nel maggio 2023, si stabilisce che «a principle common to the various legal systems of the world may be transposed to the international legal system in so far as it is compatible with that system» (Draft Conclusion n. 6, Text of the draft conclusions provisionally adopted by the Drafting Committee on first reading, 12 maggio 2023, UN Doc. A/CN.4/L.982, corsivo aggiunto). Dibattito vi è ancora, però, con riferimento agli elementi da considerare per verificare la compatibilità del principio generale con il diritto internazionale (Third report on general principles of law by Marcelo Vázquez-Bermúdez, Special Rapporteur, par. 7 ss.).
Una certa uniformità caratterizza invece la ricostruzione delle funzioni svolte dai principi generali domestici. È comunemente riconosciuto che, nell’ordinamento internazionale, tali principi assolvano a tre funzioni: una funzione integrativa, una funzione interpretativa ed una funzione confermativa.
L’applicazione dei principi generali domestici al fine di colmare lacune normative ha sovente consentito al diritto internazionale di produrre effetti che altrimenti non avrebbero potuto verificarsi, nonché al giudice internazionale di prendere decisioni che altrimenti non avrebbe potuto adottare. Un esempio di tali fenomeni è riscontrabile nella sentenza resa dal Tribunale internazionale penale per la ex Jugoslavia nei confronti di Drazen Erdemović. Sebbene l’art. 5 dello Statuto del Tribunale prescrivesse l’irrogazione di una sanzione detentiva per la commissione di crimini contro l’umanità, non vi era una norma internazionale che ne determinasse la durata, con la conseguenza che la norma incriminatrice non avrebbe potuto trovare applicazione (Procuratore c. Drazen Erdemović, sentenza del 29 novembre 1996, par. 26). Allora la Camera di primo grado, dopo aver identificato «a general principle of law common to all nations whereby the severest penalties apply for crimes against humanity in national legal systems», ha stabilito che «there exists in international law a standard according to which a crime against humanity is one of extreme gravity demanding the most severe penalties when no mitigating circumstances are present» (par. 31).
L’applicazione di principi generali domestici con finalità interpretative ha invece consentito di ricostruire il contenuto di numerose norme internazionali. Un esempio è ravvisabile nella sentenza resa dalla Corte penale internazionale nel caso Al Mahdi. Giacché Ahmad Al Faqi Al Mahdi è stato il primo imputato a rendere una dichiarazione di colpevolezza dinanzi alla Corte, il processo che lo coinvolgeva era la prima occasione in cui trovasse applicazione l’art. 65 dello Statuto della Corte penale internazionale, relativo agli effetti di tale dichiarazione. Il giudice riteneva allora opportuno illustrare la natura ed i contenuti di tale disposizione. Per farlo, giacché l’art. 65 era la summa dei comuni denominatori («common denominators») degli ordinamenti nazionali afferenti alle tradizioni di civil law e di common law (caso n. ICC-01/12-01/15-171, sentenza del 27 settembre 2016, par. 22), il riferimento costante è stato rappresentato dai principi generali domestici (ibid., par. 21 ss.).
Quando applicati a fini confermativi, i principi generali comuni alle normative degli Stati non producono altro effetto che rafforzare l’autorità di una decisione presa sulla base di contenuti normativi diversi, che trovano origine nell’ordinamento internazionale. Ad esempio, ciò è avvenuto nel corso del procedimento che vedeva imputato, davanti alla Corte penale internazionale, Uhuru Muigai Kenyatta. In ragione degli impegni derivanti dalla carica di Presidente del Kenya che ricopriva, egli chiedeva alla Corte di non presenziare a tutte le udienze, ma il Procuratore si opponeva. La Corte decideva la questione favorevolmente all’imputato applicando le norme statutarie e poi, soltanto per confermare la correttezza della decisione presa, riferiva che i principi generali comuni alle normative nazionali andavano nella medesima sua direzione (caso n. ICC-01/09-02/11-830, decisione del 18 ottobre 2013, par. 68 ss.).
L’ordinamento internazionale contempla anche dei principi propri: principi generali, dunque, che hanno avuto origine e si sono sviluppati esclusivamente all’interno dell’ordinamento internazionale.
Solo per menzionare alcuni tra i più famosi di essi, si può fare riferimento al principio pacta sunt servanda, secondo il quale ogni trattato stipulato va adempiuto in buona fede (Corte internazionale di giustizia, Progetto Gabčíkovo-Nagymaros (Ungheria c. Slovacchia), sentenza del 25 settembre 1997, par. 142); oppure al principio del consenso, secondo cui, siccome gli Stati sono enti reciprocamente indipendenti e sovrani, le norme che li vincolano non possono che provenire dalla loro volontà, non potendo in alcun modo essere presunte (Corte permanente di giustizia internazionale, Lotus, sentenza del 7 settembre 1927, 18).
Tradizionalmente, i principi generali del diritto internazionale vengono identificati ed applicati a partire dalle norme internazionali. Degli esempi tratti dalla giurisprudenza più risalente possono chiarire questo fenomeno.
Un esempio è relativo alla prima sentenza resa dalla Corte internazionale di giustizia, il 9 aprile 1949, nel caso del Passaggio nello stretto di Corfù (Regno Unito c. Albania). All’origine della controversia vi era l’incidente occorso il 22 ottobre 1946, in acque albanesi, a due navi battenti la bandiera del Regno Unito, le quali si imbatterono in un capo minato e furono gravemente danneggiate in conseguenza delle esplosioni (p. 12 ss.). Dopo aver accertato che l’Albania non avrebbe potuto non conoscere la presenza di un campo minato nello stretto di Corfù, la Corte si interrogava circa gli obblighi incombenti su tale Stato (p. 22). La VIII Convenzione de L’Aja del 1907 in effetti prevedeva, per lo Stato territoriale, l’obbligo di notifica dell’esistenza del campo minato alle navi straniere. Però, essa era applicabile solo in tempo di guerra. A quel punto la Corte distillava, a partire dalle regole di tale Convenzione, i principi generali («certain general and well-recognized principles) che le informavano. Tra questi vi era il principio della libertà delle comunicazioni marittime, o l’obbligo di ciascuno Stato di non accettare che il proprio territorio sia utilizzato per violare i diritti degli altri (ibidem). Tali principi venivano allora usati dalla Corte per sviluppare il diritto internazionale. Essi esprimevano considerazioni elementari di umanità, («elementary considerations of humanity») che, in quanto tali, erano «even more exacting in peace than in war» (ibidem): così, l’obbligo di notifica veniva posto nella sfera giuridica degli Stati anche in tempo di pace.
Un altro esempio è relativo al secondo parere della Corte internazionale di giustizia sulla Riparazione per danni subiti al servizio delle Nazioni Unite, reso l’11 aprile 1949. In quel caso alla Corte veniva chiesto di chiarire se le organizzazioni internazionali potessero agire in protezione diplomatica a tutela dei propri agenti. La norma consuetudinaria sulla protezione diplomatica si rivolgeva agli Stati. La risposta più scontata sarebbe stata, dunque, in senso negativo. Tuttavia, la Corte non si limitava a tale constatazione. Essa bensì identificava i principi generali che informavano la norma: tra questi vi era il principio secondo cui lo Stato poteva agire in protezione diplomatica a tutela dei suoi cittadini perché, e nei limiti in cui, egli fosse il destinatario della norma violata (par. 11 s.). A quel punto, la Corte internazionale di giustizia applicava tale principio generale alla situazione giuridica delle organizzazioni internazionali, derivandone la capacità di queste di agire in protezione dei loro agenti quando i danni da essi subiti derivassero dalla violazione dei diritti dell’organizzazione stessa (par. 12).
In ambedue gli esempi, il procedimento argomentativo sviluppato dalla Corte internazionale di giustizia è imperniato sull’analogia iuris. Vi è una norma internazionale, applicabile ad una serie di casi, ma non ad altri. Da questa si distilla il principio generale su cui è costruita. Tale principio viene poi applicato dal giudice per disciplinare delle situazioni analoghe, ma evidentemente non identiche, alla serie di casi cui la norma era, in origine, applicabile. In tale modo, molte lacune dell’ordinamento internazionale vengono colmate e molte norme interpretate.
Sul piano sistematico, i principi generali contribuiscono a garantire la coerenza dell’ordinamento giuridico cui appartengono. Tale circostanza è di grande importanza per il diritto internazionale, il quale sconta un deficit, almeno potenziale, di coerenza, prodotto dalla mancanza sia di un “legislatore” che di un organo che assolva ad una funzione nomofilattica.
Quando viene ad esistenza, la norma internazionale costituisce, o per lo meno nulla impedisce che costituisca, una sorta di monade: in linea di principio, ogni accordo tra due o più Stati versa nell’ordinamento una norma particolare, così come ogni comportamento di più Stati, se sostenuto dalla loro opinio iuris ac necessitatis, versa, nel medesimo ordinamento, una norma generale. Di conseguenza, nella sfera giuridica internazionale tutte queste norme si trovano a co-esistere e a produrre effetti, non necessariamente coordinati tra loro. Ecco che allora, al di là degli specifici criteri deputati a risolvere le antinomie giuridiche, la presenza nell’ordinamento internazionale di un sostrato valoriale comune, costituito, appunto, dai principi generali, è fondamentale perché il sistema normativo nel suo complesso possa resistere alle spinte disgregative.
Vi è poi un’ulteriore peculiarità che connota il ruolo dei principi generali nell’ordinamento internazionale. Questa è strettamente connessa alla circostanza che il diritto internazionale annoveri, tra le sue fonti normative, non solo i principi suoi propri, ma anche i principi generali di origine nazionale.
L’atto di annoverare i principi generali di origine nazionale tra le fonti del diritto internazionale rende invero manifesto l’interesse, dell’ordinamento internazionale, a recepire il patrimonio giuridico condiviso degli Stati.
Se non avessero il rango di fonte normativa, i frammenti normativi comuni agli ordinamenti nazionali rimarrebbero, per il diritto internazionale, irrilevanti. Ecco che allora, mediante l’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, l’ordinamento internazionale soddisfa l’esigenza di coordinamento tra esso e il diritto nazionale.
Allorché un dato frammento normativo diventa un contenuto diffuso tra gli ordinamenti nazionali, si può ritenere che esso esprima un vero e proprio orientamento del diritto degli Stati. Allora, per effetto dell’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, immediatamente l’ordinamento internazionale non solo lo farebbe proprio, ma gli conferirebbe valore normativo. Quell’orientamento, che si fa diritto nella forma di un principio generale, al pari dei principi propri del diritto internazionale, delle norme generali e di quelle particolari, inizierebbe così a produrre effetti nell’ordinamento internazionale: ne colmerebbe le lacune, ne condizionerebbe l’interpretazione delle norme, ne rafforzerebbe l’autorevolezza, come visto supra.
Allo stesso modo, è ragionevole ipotizzare che, nel momento in cui un dato principio generale cessasse di essere condiviso dagli ordinamenti nazionali, esso non sarebbe più fonte del diritto internazionale. Come ogni fenomeno sociale, anche il diritto è mutevole. Potrebbe accadere che un dato orientamento giuridico venga, col passare del tempo, abbandonato, o magari sostituito da un altro, più rispondente al moderno comune sentire. Il principio generale domestico, nel quale l’orientamento precedente si era fatto diritto, non sarebbe allora più tale. Si farebbe principio generale, e sarebbe così rilevante per il diritto internazionale, l’orientamento che il primo avesse, in ipotesi, sostituito.
Tale “avvicendamento” sarebbe quanto di più rispondente all’esigenza del coordinamento del diritto nazionale con il patrimonio giuridico complessivo degli Stati espressa dall’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della Corte internazionale di giustizia il quale è, per il diritto internazionale, uno strumento che presenta importanti tracce di analogia con ciò che rappresenta, e con le funzioni che assolve, l’art. 10 della Costituzione con riferimento all’ordinamento italiano (per maggiori riflessioni sul tema dello sviluppo dei principi generali di origine nazionale, sulle esigenze che l’art. 38, par. 1, lett. c), incarna, nonché sulle analogie con l’art. 10 della Costituzione, sia consentito rinviare a Rasi, A., Lo sviluppo dei principi generali nel tempo, in Rivista di diritto internazionale, 2020, 4, 959 ss.).
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