COMPARETTI, Domenico
Nato a Roma il 7 luglio del 1835 (secondo altre fonti il 27 giugno) da Agostino e da Barbara De Andrei, fu dapprima docile ai desideri della famiglia e compì gli studi di farmacia nell'università romana; esercitò anche, per un breve periodo, la professione nella farmacia che la sua famiglia possedeva. Ma poi la sua vocazione umanistica prevalse. Egli seguì con particolare interesse le lezioni dell'ellenista Spezi nell'ateneo romano; ma fu prima di tutto un autodidatta, e coltivò specialmente gli studi classici e medievali. I suoi primi lavori filologici apparvero nel Rheinisches Museum del 1858: Observationes in Hyperidis orationem funebrem ed Epistula ad Fridericum Ritschelium de Liciniani annalium: scriptoris aetate (ripubblicata in versione italiana ampliata nell'Archivio storico italiano del 1859); era stato presentatore l'archeologo Heinrich Brunn, autorevole condirettore dell'Istituto archeologico germanico, che con i suoi colleghi apprezzava l'ingegno e la dottrina del giovane frequentatore dell'Istituto. Già in quelle prime pubblicazioni si delinea la varietà degli interessi di studio del C., la prontezza della sua intuizione, la singolarità della sua formazione di ricercatore, che, pur vivendo in un ambiente poco aperto a correnti rinnovatrici della ricerca scientifica, sapeva giovarsi dei sussidi che offriva l'Istituto del Campidoglio.
Una designazione fatta da un autorevole suo estimatore, il dotto duca di Sermoneta Michelangelo Caetani, gli ottenne nel 1859 la cattedra di letteratura greca nell'università di Pisa. E qui il C. poté dedicarsi intensamente agli studi, svolgendo ricerche originali secondo una tematica vasta, quale gli dettavano non già episodiche curiosità, ma intime esigenze di approfondimento e chiarimento dei dati e delle interpretazioni che gli forniva la contemporanea scienza dell'antichità. Una ricca problematica storica (di storia etico-politica e religiosa in prima linea), oltre che filologica si manifesta nelle pubblicazioni pisane del C., nelle quali si riconosce, attraverso un'apparente inorganicità, una visione unitaria, boeckhiana, della storia civile dell'antichità classica. A nuovi studi sull'Epitafio di Iperide seguirono note su papiri greci recentemente editi e ricerche su canti popolari greci dell'Italia meridionale (Scritti di critica filologica, in Lo Spettatore italiano, I [1859], 40-41) e un saggio Sulle iscrizioni relative al Metroon Pirense (in Annali dell'Instituto di corrispondenza archeologica, XXXIV[1862]). Due saggi, Virgilio nella tradizione letteraria fino a Dante (Nuova Antologia, gennaio 1866, pp. 9 ss.), e Virgilio mago e innamorato (ibid., aprile 1867, pp. 605 ss.; agosto 1867, pp. 659 ss.), sono i primi passi sulla via che portò l'autore, consapevole della continuità della storia civile nel mutare delle forme e delle situazioni, alla composizione del più famoso dei suoi libri, Virgilio nel Medioevo.
Non venne mai meno nel C. l'interesse per la vitalità delle tradizioni, religiose o letterarie che fossero: un interesse di radice indubbiamente romantica (Pasquali), condiviso, per le tradizioni letterarie popolari, con l'amico e collaboratore Alessandro D'Ancona e retto da un raro senso della misura, quale l'assidua meditazione dei problemi assicurava al Comparetti. Del magistero pisano sono frutto le edizioni commentate di discorsi di Iperide (In favore di Euxenippo, Pisa 1861; Per i morti nella guerra Lamiaca, Pisa 1864) e alcune note pindariche, sempre connesse a problemi di storia della religione greca. L'interesse per la poesia popolare e la novellistica è all'origine di una cospicua serie di studi: dalle ricerche Intorno al libro dei sette savi di Roma (in Rivista italiana, 1865), del quale il D'Ancona aveva curato un'edizione, alle Ricerche intorno al libro di Sindibād (in Memorie dell'Istituto lombardo di scienze e lettere, s. 3, classe di lett. e scienze mor. e stor., XI [1869], 5), una raccolta di novelle d'origine orientale, della quale appunto il Libro dei sette savi rappresenta una redazione italiana, alla silloge di Novelle popolari italiane (Torino 1875), che ancora si iscrive nella collaborazione col D'Ancona, al pari dell'edizione, curata dai due amici, delle Antiche rime volgari (Bologna 1875-1888). Ancora da quell'interesse sono nati altri due gruppi di studi: uno sulle isole linguistiche greche della Calabria e della Terra d'Otranto, culminato nei Saggi del dialetti greci dell'Italia meridionale (Pisa 1866); l'altro, più fruttuoso, su problemi di "mitologia comparata", col memorabile saggio su Edipo (Pisa 1867), ove il C. ha messo in chiaro l'inconsistenza dell'interpretazione naturalistica (solare) dominante e ha indicato i limiti di un diffuso indirizzo comparativo negli studi mitologici, ricalcato sulla linguistica comparata che teneva il campo alla metà dell'Ottocento. Per primo il C., che era ben informato del progresso degli studi linguistici (come mostra la recensione delle Lectures on the science of language di Max Müller, nella Rivista ital. di scienze, lettere ed arti, n. 109, 20 ott. 1862, pp. 1772-75, con un polemico cenno di un intervento di R. Lambruschini, difensore della biblica monogenesi del linguaggio), ha mostrato come soltanto l'indagine storica possa eliminare le confusioni a cui dà luogo una acritica identificazione di dati della realtà e creazioni mitiche, e illuminare la genesi e il significato del singoli miti nell'ambito della civiltà a cui appartengono e di cui riflettono idee religiose e morali. Alla maturità critica del C. appartengono i due saggi su Saffo e Faone (1876), ove il filologo esperto di critica delle tradizioni favolistiche ha saputo ricostruire la formazione della leggenda e le vicende della creazione ovidiana; e il saggio su La poesia biblica (1878, ripubblicato dal Croce nella Critica del 1927, a ricordo dell'autore), con una limpida distinzione dell'autenticamente poetico dall'impoetico.
Nel 1863 il C. aveva conosciuto a Pisa, in casa di comuni amici, la famiglia di Leone Raffalovich, un agiato uomo di affari di Odessa, ebreo, stabilitosi a Parigi; e presto il ventottenne professore, che alla vasta dottrina univa la dote di brillante conversatore in più lingue, si fidanzò con la più giovine delle tre figlie del Raffalovich, Elena, nata a Odessa nel 1842, sensibilissima e appassionata, anch'ella conoscitrice di più lingue, autrice di un romanzo, pianista e pittrice.
Le numerose lettere da lei scritte al C. nei tre mesi di fidanzamento mostrano quanto profondo amore egli abbia ispirato ad Elena, che lo dichiara con fine e commovente immediatezza; ma la natura entusiastica, la possessiva pienezza dell'affetto che le lettere rivelano non potevano trovare una costanterispondenza nel temperamento dello studioso, la cui ricca umanità era troppo intensamente impegnata nei problemi della sua ricerca per poter abbandonarsi a lungo a una romantica passione; in più, il ritmo della vita pisana e del suo mondo universitario non si addiceva alla vivacità di Elena, né l'irrequietezza di lei poteva appagarsi dei viaggi che ogni anno i due sposi facevano all'estero. Fu certamente Elena - e ne sono eloquenti testimoni le superstiti lettere dei primi anni di matrimonio (celebrato a Genova il 13 ag. 1863), e ancor più quelle successive alla non formale separazione - a soffrire più profondamente e più a lungo di quel che dovette apparirle una delusione, ma era piuttosto il prevedibile esito della convivenza di due nature e vocazioni tanto diverse. Suscita simpatia il dignitoso ritrarsi della donna, dedicatasi con serio impegno allo studio di problemi pedagogici; e alla fondazione di scuole per l'infanzia, e animata da nuovo fervore per l'emancipazione della donna e per la libertà religiosa: problemi che rimanevano estranei al C., poco interessato, per una sua naturale inclinazione all'ataraxía, alle questioni politiche e sociali che intorno a lui si dibattevano; mentre lo spirito generoso e irrequieto di Elena la esponeva inevitabilmente a sempre nuove amarezze. Tra i coniugi non venne però mai meno l'amicizia, e un forte legame tra loro fu l'amatissima figlia Laura, nata nel dicembre 1865 e rimasta col padre dopo la definitiva crisi del matrimonio e la partenza della madre nel 1872.
Fu questo anche l'anno della pubblicazione di una delle maggiori e più note opere del C., Virgilio nel Medioevo (in due volumi editi a Livorno, poi "con pochi ritocchi e poche aggiunte", nel 1896, a Firenze), frutto di uno studio di almeno sei anni.
"Del tema non poteva venire a capo se non uno che possedesse la letteratura latina dell'Impero e del Medioevo, le lingue e letterature romanze, anche le lingue e letterature germaniche antiche... Sub specie Vergili il C. tratta degli elementi classici e della tradizione romana nelle letterature medievali, disegna, cioè, in breve una storia di tutta la coltura occidentale dall'età augustea fino a Dante... [Il libro] mostra... come Virgilio nel Medioevo divenisse il rappresentante più eccelso di quella più alta cultura pagana che era destinata dal cielo a preparare il cristianesimo; come questa tradizione millenaria consegnasse il suo Virgilio a Dante, che, pure uomo medievale, lo trasforma grazie al sentimento vivo ch'egli, forse primo, ha della poesia antica conosciuta direttamente". Il giudizio è di Pasquali, che dei filologi classici è stato forse il più vicino, per vocazione e cultura, al C. di Virgilio (e non per caso ha curato una nuova edizione dell'opera nel 1943).
Ancora nel 1872 il C. lasciò Pisa per occupare la cattedra di letteratura greca nell'Istituto di studi superiori (poi università) di Firenze. Qui la vita intellettuale della città e la frequentazione di eminenti colleghi e di numerosi dotti stranieri agirono subito su lui, fornendo nuovi stimoli e spunti e alimentando l'interesse per nuovi campi di ricerca. Due grandi imprese culturali, l'una e l'altra connesse con l'archeologia militante, caratterizzano fin dal suo inizio il soggiorno del C. in Firenze: lo studio dei papiri di Ercolano e le ricerche in Creta. Dopo gli studi degli accademici ercolanesi, culminati negli undici volumi della Collectio prior di Herculanensium voluminum quae supersunt (1793-1855), e la pubblicazione, nella Collectio Altera (1862-1876), dei disegni eseguiti nella "Officina dei papiri", ai "carboni d'Ercolano" avevano dedicato cure filologiche soltanto dotti stranieri, dall'Orelli e dallo Spengel al Gomperz al Sauppe al Bücheler: il C. fu il primo filologo italiano che, dopo l'unità, fece oggetto di studio i testi ercolanesi, dei quali gli archeologi del Museo nazionale di Napoli - Minervini, Fiorelli, De Petra - avevano fatto riprodurre, appunto nella Collectio Altera, irami dei disegni, custoditi al pari del volumina nel museo.
Nel 1875 il C. pubblicò un libro (quello concernente gli stoici) della Σύνταξις τῶν ϕιλοσόϕωνdi Filodemo (Papiro ercolanese inedito, in Riv. di filol. e d'istruz. class., III: "pubblicatoper la prima volta..., senza facsimile, dietro uno studio fatto direttamente sull'originale, e secondo il quale fu... fatto correggere l'antico disegno estremamente errato, esistente nell'Officina"). Seguirono la Relazione sui papiri ercolanesi, letta nella seduta del 17 febbr. 1878 all'Accadernia dei Lincei, della quale era divenuto socio nazionale nel 1875 (Memorie, classe di scienze mor., s. 3, V [1880]) e Frammenti inediti dell'Etica di Epicuro tratti da un papiro ercolanese (in Riv. di filol. e d'istruz. class., VII [1879]): questa edizione fu seguita da un saggio su La morale di Epicuro (in Rassegna settimanale, 27 ag. 1879), ove, con la chiarezza di idee che gli era propria, il C. illustrò la dottrina morale epicurea (è stato poi dimostrato che l'opera è di Filodemo), indicando, in polemica col Guyau e col Conti, entro quali limiti la suggestione dell'epicureismo ha operato nella filosofia moderna. La Relazione, letta ai Lincei, e uno scritto su La villa de' Pisoni in Ercolano e la sua biblioteca, inserito nel volume commemorativo del XIX centenario dell'eruzione vesuviana del 79 (Pompei e la regione sotterrata dal Vesuvio, Napoli 1879), costituiscono il nucleo di un cospicuo libro, La villa ercolanese dei Pisoni, i suoi monumenti e la sua biblioteca. Ricerche e notizie (Torino 1883), nel quale il C. sviluppò le ricerche sul proprietario della villa, ch'egli identificava, in polemica col Mommsen, in L. Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Cesare e avversario di Cicerone, e intimo amico di Filodemo, l'epicureo gadarese al quale appartennero i volumina filosofici della biblioteca ospitata nella villa.
Il volume include un Catalogo dei papiri svolti e inediti di cui si conservano i disegni a Napoli... o ad Oxford..., redatto dal C., un primo diligente Catalogo generale del papiri ercolanesi redatto da Emilio Martini, "ottimo discepolo ed amico" del C., e i documenti raccolti e ordinati da Giulio De Petra, che se ne valse per illustrare la storia degli scavi eseguiti nella villa tra il 1750 e il 1761 e riconoscere i monumenti in essa trovati e raccolti nel museo napoletano; di tutti questi il C. volle che il volume contenesse un'accurata riproduzione, in ventiquattro tavole fototipiche.
Dei papiri ercolanesi il C. non trascurò di occuparsi anche in seguito; e se non lavorò più sui loro testi, si adoperò, con i colleghi dell'Accademia napoletana di archeologia, le ere e belle arti (nella quale era stato eletto socio nel 1889), perché alla "Officina" venisse dato un nuovo e conveniente assetto nel Museo nazionale, e promosse la pubblicazione di una nuova edizione, criticamente preparata, dei testi ercolanesi in una Collectio tertia, della quale apparve soltanto, nel 1914, il primo volume, curato da Domenico Bassi, direttore dell'"Officina" non pari al compito. L'ultimo lavoro del C. in questo settore fu l'importante saggio su La bibliothèque de Philodème, pubblicato nei Mélanges Émile Chatelain (Paris 1910).
Uno spirito così vivo e agile, straordinariamente ricco di curiosità scientifica, non poteva rimaner estraneo a quella promettente ricerca di papiri greci e latini che ebbe rapido sviluppo grazie all'intensificata esplorazione archeologica dell'Egitto e suscitò vasto interesse anche fuori della cerchia dei filologi, storici e giuristi. In Firenze sorse, nel 1908, per iniziativa d'Angiolo Orvieto, una Società italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto; ma già alla fine del secolo scorso il C., Girolamo Vitelli e Felice Ramorino avevano procurato, attraverso la missione archeologica in Egitto diretta da Ernesto Schiaparelli, l'acquisto di numerosi papiri, formando la prima collezione fiorentina, successivamente incrementata con scavi (1893-1895) a Hermupolis Magna e con gli acquisti della ricordata Società italiana. I testi raccolti furono pubblicati tra il 1906 e il 1915 nei tre volumi di Papiri greco-egizi pubblicati dalla R. Accademia dei Lincei sotto la direzione del C. e G. Vitelli, dei quali il secondo (Papiri letterari ed epistolari, 1911, includente buona parte dell'archivio di un Heroninos, amministratore nel secolo III d. C. d'una grande tenuta demaniale di Theadelphia) fu curato dal Comparetti. Ma, diversamente dal Vitelli, che finì col dedicarsi quasi interamente allo studio del papiri, letterari o documentari, il C. non attese a ulteriori edizioni di testi papiracei.
Quel volume non è considerato tra le opere migliori del C.: i suoi difetti sono stati attribuiti a stanchezza del visus dell'ormai anziano studioso e ad inadeguata cognizione della "lingua comune" e delle istituzioni pubbliche e private dell'Egitto tolemaico e romano, divenute l'una e le altre meglio note proprio grazie alle indagini sui documenti forniti in misura crescente dai papiri d'Egitto. Ma, come è stato riconosciuto dai critici più acuti, e dal Pasquali in primis, il genio del C. era animato da altri problemi, propriamente storici (e di storia civile e religiosa principalmente), con predilezione per la genesi dei grandi momenti della civiltà antica e medievale: ne è indice anche l'insistenza con cui il C. ha indagato sull'antica novellistica italiana e sulle sue origini, sulla leggenda virgiliana e la cultura alto-medievale, sulla mitologia classica e ario-europea, infine sulle origini delle grandi epopee nazionali; e ne dà conferma l'opera svolta in un campo nel quale egli è stato a sua volta archeghétes, l'archeologia egea. Lo studio di papiri documentari (non già di quelli letterari e storici, che non ponevano problemi sostanzialmente diversi dai testi scritti su altra materia) non ha rappresentato per lui che una parentesi: appagamento della naturale curiosità di un grande studioso della civiltà antica per testimonianze della vita privata e del diritto quali si incontrano raramente negli scrittori antichi e poco frequentemente anche nella documentazione epigrafica: a uno storico come il C., non molto interessato a problemi di economia o di diritto privato, i papiri potevano offrire solo eccezionalmente un attraente tema di ricerca. Non così i testi epigrafici, nei quali le testimonianze di diritto pubblico e di vita politica prevalgono grandemente su quelle di carattere privato, e integrano alcune lacune della storiografia antica.
Prima del suo passaggio a Firenze il C. aveva avuto occasione di studiare epigrafi; ma, a differenza di chi considerava l'epigrafia un Fach (che, analogamente alla papirologia, si giustifica soltanto come un'empirica distinzione didattica), le aveva studiate in funzione di problemi della storia di culti greci. Dopo il passaggio a Firenze, una scoperta avvenuta in Magna Grecia indusse nuovamente il C. a lavorare su testi epigrafici; e anche questa volta furono documenti religiosi, laminette d'oro contenenti testi "orfici", rinvenute in tombe dell'agro di Sibari (Notizie degli scavi, 1879 e 1880). Seguirono studi su altre epigrafi di Grecia e di Sicilia, e di nuovo su una lamina orfica, quella celebre di Petelia (Journal of Hellenic Studies, III[1882]).Ma pochi anni dopo, una sua iniziativa, nata dai suoi vasti interessi storici e archeologici, diede un posto di rilievo agli studi epigrafici nella produzione del Comparetti. A Firenze, probabilmente anche per i contatti con i colleghi orientalisti, che dell'Istituto facevano il maggior centro italiano di studi orientali, la mente del C., attenta a cogliere sintomi e nessi e pronta a ripercorrere vie obliterate, si volse a Creta, fin allora trascurata dall'archeologia militante europea, anche per effetto della dominazione turca nell'isola. Nel 1884 il governo italiano, per suggerimento del C., affidò una missione scientifica ad un giovine studioso, che il C. considerava il migliore del suoi allievi, il roveretano Federico Halbherr: questi, nell'agosto di quell'anno, scoprì a Gortina la grande iscrizione delle leggi della città. La memorabile scoperta, che richiamò sull'isola l'attenzione dei dotti di ogni paese, segnò l'inizio di quella sempre più intensa esplorazione archeologica che doveva poi non soltanto illustrare importanti fasi della storia di Creta greca e romana, ma rivelava quell'insospettato magnus saeclorum ordo che è stato designato come età "minoica". L'attività del Halbherr a Creta, ove il C. dovette acquistare terreni per permettere al discepolo di continuare gli scavi, procurava intanto numerosi e importanti documenti epigrafici, dei più dei quali lo scopritore volle lasciare al maestro l'onore della prima edizione. Il C. fondò allora un periodico, il Museo italiano di antichità classica, che ospitò, accanto ai nuovi testi, studi archeologici del Halbherr e di un altro roveretano, Paolo Orsi, destinato ad aprire nuove vie all'archeologia in Sicilia e nella Magna Grecia, come il suo concittadino in Creta: il primo importante lavoro dell'Orsi, anteriore al suo definitivo insediamento nella soprintendenza di Siracusa, fu appunto l'edizione delle Antichità dell'Antro di Zeus Ideo in Creta, e fu compiuto in collaborazione col Halbherr, sotto gli auspici del comune maestro, che lo inserì nel secondo volume del Museo. E se dalla fervida attività del Halbherr nacque la Missione archeologica italiana in Creta, gloriosa per le scoperte di Gortina, Festo, Haghia Triada, Priniàs, e la rinomanza della Missione sollecitò e favorì la fondazione, nel 1910, della Scuola archeologica italiana in Atene (il cui Annuario si apre significativamente con una prefazione del C.), si deve riconoscere alla lungimirante generosità del C. il merito di aver ampliato anche nel settore archeologico gli orizzonti della scienza dell'antichità.
Fu, inoltre, la liberalità del C. a permettere ad Evaristo Breccia di recarsi in Egitto, assicurando così la continuità di una direzione italiana nell'importante Museo greco-romano di Alessandria. Geniale maestro di tanti archeologi - uno dei quali, intelligente e dotto quanto ricco d'immaginazione, Luigi Adriano Milani divenuto suo genero nel 1884, ha legato il suo nome al rinnovamento del Museo archeologico di Firenze - non trascurò mai d'informarsi dei progressi della ricerca; ma raramente trattò di proposito temi di archeologia. Un importante contributo egli dette tuttavia, in armonia con la sua dottrina filologica, in un saggio su Saffo nelle antiche rappresentazioni vascolari (in Museo ital. di ant. class., II [1888]); e i primi risultati della nuova esplorazione sistematica del Foro romano, preparata da R. Lanciani e attuata da G. Boni, non sfuggirono all'attenzione del C., che nel 1889 ne scrisse nella Nuova Antologia e pubblicò Osservazioni sul cosidetto "Niger Lapis" del Foro nei Rendiconti dei Lincei.
Cinquantenne, dotto universalmente famoso e maestro ammirato, compì - non del tutto improvvisamente - una diversione in una provincia di studi apparentemente lontana, alla quale di fatto non era straniero; e attraverso lo studio della composizione del Kalevala, finnico cercò di chiarire la genesi delle grandi epopee. Già conosceva il russo e altre lingue slave; ora apprese il finnico e nel 1884, mentre il Halbherr faceva le sue scoperte a Gortina, fece il primo di quattro viaggi in Finlandia (allora inclusa nell'Impero russo), donde portò un ricco materiale filologico e storico, che elaborò prima per un discorso tenuto il 12 maggio 1888 nella solenne adunanza annuale dell'Accademia dei Lincei e poi per un'amplissima memoria intitolata Il Kalevala e la poesia tradizionale dei Finni. Studio storico-critico sulle origini delle grandi epopee nazionali (in Memorie della R. Acc. dei Lincei, classe di scienze mor., s. 4, VIII [1895]).
Vi sono dapprima esposte, con la chiarezza propria della scrittura del C. e nell'ordinato disegno che la sua mente sapeva imporre alla materia dei suoi studi, le tradizioni poetiche del Finni, un sunto del Kalevala e un'analisi della sua composizione, con un saggio di versione della runa di Sampo ("di quella runa cioè che serve di fondamento alla tessitura del Kalevala"); nella seconda parte il C. discusse del mito divino e del mito eroico ("la più genuina poesia epica nazionale è quella che nasce nel politeismo libero e naturale, scevro da ogni influsso dogmatico o ieratico... I due tipi ideali, del Dio e dell'eroe, si connettono con istretta, visibile affinità..."), dei caratteri e delle vicende dello sciamanismo presso i Finni, delle loro conversioni religiose, dei loro contatti con altre culture, della storia della runa finnica; e nelle conclusioni estese il discorso dal Kalevala ("un poema desunto da Lönnrot da tutta la poesia popolare, tradizionale del Finni che per forma è una sola") alle grandi epopee nazionali. Per oltre trent'anni la cultura europea ha avuto nell'opera del C. l'unica fonte accessibile per una conoscenza della cultura finnica; molte pagine dell'opera, specialmente della sua seconda parte, interessano gli studiosi del mondo classico, quello a cui pensava il C. anche quando era immerso nel mondo finnico, perché allo studio della poesia di questo s'era volto (come dichiara nelle pagine introduttive) per ottener dallo studio di "una poesia schiettamente popolare, orale, tradizionale, nella quale troviamo piccoli canti epici ed un poema che combinando questi si poté ottenere senza che il compositore nulla di essenziale inventasse o aggiungesse di suo", qualche lume per la così detta "questione omerica". E le pagine conclusive sono tuttora, non ostanti le riserve di autorevoli critici circa la suggestione esercitata sul C. dall'etnologia o l'applicazione dei risultati dell'indagine sul Kalevala ai poemi omerici, penetranti e valide e degne di molta considerazione. Valga in proposito qualche passo delle pagine finali: "Benché Lönnrot abbia fatto assai più che un'agglutinazione meccanica di canti già rigidamente formati, quali sarebbero quelli in cui furono da Lachmann decomposti l'Iliade e i Niebelunghi…, pure il Kalevala un poema da paragonarsi per unità all'Iliade e agli altri antichi non è riuscito... Poema creato dal popolo non esiste, né può aspettarsi; canti epici popolari da potersene, agglutinandoli, formare un poema non si vider mai presso alcun popolo, né possono aspettarsi. Ogni poema, senza eccezione, anonimo o no, è opera individuale, è opera d'arte... Qualsivoglia tentativo di decomposizione di poemi organici che non presentino varietà di redazione scritta, parte da un principio gratuito, si effettua con criteri insufficienti, è e rimane opera sterile e vana".
Nel 1893, interrottasi con il secondo volume la pubblicazione del Museo italiano, il C. tornò alle epigrafi arcaiche di Creta e pubblicò nel volume III dei Monumenti antichi dei Lincei un'ampia memoria: Le leggi di Gortyna e le altreiscrizioni arcaiche cretesi edite e illustrate;poi, tra il 1897 e il 1927, le sue pubblicazioni constarono soprattutto di studi su epigrafi greche, alcune scoperte da Paolo Orsi nei suoi scavi in Sicilia e in Magna Grecia e premurosamente comunicate al maestro, altre inviategli da più parti.
Nel 1910 tornò a un prediletto tema col volume Laminette orfiche edite ed illustrate. Non poche di queste edizioni non sono impeccabili: il C. "non ha avuto interesse per questioni di metrica e di grammatica"; e "di aver talvolta violato, ciò che non si fa mai impunemente, i canoni dell'una o dell'altra disciplina, gli è stato spesso mosso rimprovero, naturalmente a ragione" (Pasquali). Ma i difetti, che per questo rispetto presentano vari suoi lavori filologici, non diminuiscono il valore del contributo che in ogni caso è dato dall'esegesi del C., anche quando non è convincente; e straordinario, in ogni caso, è stato il vigore mentale dello studioso, che fra gli ottanta e i novant'anni d'età ha pubblicato oltre venti saggi, su epigrafi greche e latine di Creta di Grecia, di Sicilia e d'Italia, su rilievi e pitture pompeiane (tra cui una poco persuasiva spiegazione del fregio della villa dei Misteri come una raffigurazione delle Nozze di Bacco e di Arianna [Firenze 1921], priva di nessi con riti misterici), su Le immagini di Virgilio, ilmusaico di Hadrumetum e i primi setteversi dell'Eneide (in Atene e Roma, XVII [1914]). Indice dell'autorità internazionale del C. paleografo è inoltre il fatto che intorno al 1900 il direttore della famosa collezione leidense dei Codices Graeci etLatini phototypice depicti, Scato de Vries abbia chiesto a lui (anziché al Vitelli, dotto illustratore dei codici greci nella Collezione fiorentina di facsimili paleografici greci e latini, 1884ss.) di redigere la prefazione illustrativa di Homeri Iliascum scholiis, Codex Venetus A Marcianus454 photot. editus (Lugduni Batav. 1901).
In armonia con i suoi interessi per il mondo medievale, dopo l'impegnativa ricerca sul Kalevala compose e pubblicò, tra il 1895 e il 1898, un'edizione con versione italiana della Guerra gotica di Procopio di Cesarea (in Fonti per la storia d'Italia pubblicate dall'Istituto storico italiano, in tre volumi); e la morte non gli permise di condurre a termine l'edizione e versione degli Anecdota di Procopio, completata e licenziata alle stampe da D. Bassi, curatore non altrettanto esperto quanto devoto. Già dal 1881 il C. aveva redatto, per ognuna delle commedie di Aristofane tradotte dal suo amico e collega Augusto Franchetti, professore di storia moderna, un saggio introduttivo: l'ultimo è del 1907 (in Atene e Roma, X, poi nel volume con la versione del Franchetti, pubblicato sei anni dopo la morte dell'autore): scritti agili e sagaci, nei quali è vivacemente ricostruito lo sfondo storico di ciascuna commedia; ancora un segno di quel profondo interesse etico-politico che il C. ebbe, pur dichiarando - come fece nell'unico discorso da lui pronunziato il 30 maggio 1913 nel Senato, al quale apparteneva dal 20 nov. 1891, all'istituzione di una cattedra universitaria di filosofia della storia, pienamente concordando con le obiezioni di Croce - "io non fui mai uomo politico, né di partito; fui e sonouomo di scienza e di niente altro". Ma proprio nei saggi aristofanei si può intravedere il suo orientamento politico: vi si avverte difatti l'eco del liberalismo del Grote, la cui Storia il giovine C. aveva scelto a sua guida per l'inquadramento storico dell'Epitafio di Iperide.
Socio di numerose accademie italiane e straniere, non amò frequentarle; e tanto meno la sua appartenenza alla Crusca (dal 1883) ebbe effetto sulla sua prosa, chiara, ma non ricercata. Uno degli ultimi suoi lavori fu un opuscolo In memoria di Elena Raffalovich Comparetti e di Leone Raffalovich suo padre (Firenze 1922). La figlia Laura si era spenta nel 1913, la moglie Elena nel 1918. Il C. morì a Firenze il 20 genn. 1927.
Fonti e Bibl.: Per le opere si veda la bibliogr. in D. Comparetti, Poesia e pensiero del mondo antico, raccolta di scritti curata da G. Pugliese Carratelli, Napoli 1944, pp. xi-xvi e P. Treves, Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento, Milano 1962, pp. 1061 ss., ove sono anche indicati gli scritti più importanti per una ricostruzione della biografia del C.; vedi ancora E. Frontali Milani, Gli anni giovanili di D. C. (1848-1859). Dai suoi taccuini e da altri inediti, in Belfagor, XXIV (1969), pp. 174-180. Per l'intelligenza dell'opera è indispensabile il saggio di G. Pasquali, apparso dapprima in Aegyptus nel 1927, poco dopo la morte del C., e ripubblicato in Pagine stravaganti, Firenze 1968, I, pp. 3-25; ancora del Pasquali è da leggersi la prefazione alla nuova edizione, da lui curata, del Virgilio nel Medioevo, Firenze 1943. Un profilo del C., "uno dei maestri della nuova filologia", è in B. Croce, Storia della storiografia italiana, III, Bari 1947, pp. 76 s. Del carteggio con Elena Raffalovich quel che resta è pubblicato da E. Frontali Milani, Storia di Elena attraverso le lettere. 1863-1884 (Torino 1980). La notizia relativa al viaggio del Breccia fu da questo data a chi scrive, suo successore nella cattedra di Pisa. Una diretta testimonianza del carattere e del prestigio del C. è in un vivace saggio di N. Terzaghi, La filologia classica a Firenze al principio del secolo XX, nel volume Prometeo, Scritti di archeologia e filologia, Torino 1966, pp. 4 ss. V. anche il saggio di S. Timpanaro, D. C., in Lett. ital., I critici, Milano 1970, I, pp. 491-504. Della ricca biblioteca del C., confluita poi nella biblioteca della facoltà di lettere dell'università di Firenze, dà un'idea la relazione di una visita di Giuseppe Agnello al C. nonagenario, nel Corriere di Sicilia, 19 nov. 1925.