Dono
Romano di nascita e figlio di un Maurizio, D. venne eletto al soglio pontificio nel 676, dopo la morte di Adeodato, avvenuta il 16 giugno di quell'anno, e fu consacrato il 2 novembre successivo.
Quando D. (Donus, Donnus) iniziò il suo pontificato i rapporti tra la Chiesa romana e l'Impero risentivano tuttavia della ancora irrisolta questione monotelitica. Era infatti pur sempre in vigore il Typos, l'editto con cui nel 648 l'imperatore Costante II, se pure aveva ordinato il ritiro dell'Ecthèsis, il documento che aveva provocato il conflitto religioso, aveva però anche proibito di discutere sia il problema dell'energia, sia il problema della volontà nel Cristo. Comunque, dopo il tragico scontro avutosi durante il pontificato di Martino, le relazioni fra la Chiesa di Roma e Bisanzio avevano preso un andamento più prudente, per il timore di rotture irrimediabili, anche se i papi avevano continuato a rigettare le sinodiche loro inviate sull'argomento dai patriarchi costantinopolitani. Due ordini di fattori spingevano con forza l'una parte e l'altra al riavvicinamento, che maturò effettivamente nel breve periodo in cui D. governò la Chiesa di Roma. Il primo di essi era rappresentato dalla circostanza che, delle antiche cinque sedi patriarcali cristiane, ormai solo due, appunto quelle di Roma e di Costantinopoli, si trovavano in quel tempo ancora comprese entro i confini dell'Impero, mentre le altre erano state sommerse dall'ondata espansionistica islamica. Di conseguenza, si erano affievolite proprio le voci delle regioni e delle Chiese che avevano dato origine al conflitto monofisita, di cui quello monotelitico era stato una semplice continuazione. Il secondo complesso di fattori era invece di natura diversa, e riguardava direttamente l'Italia, dove i Longobardi prima con il re Rotari avevano ripreso vigorosamente l'offensiva, strappando importanti lembi di territorio dalle mani di Bisanzio, ed avevano unificato poi, con il re Grimoaldo, il Ducato di Benevento al Regno centrosettentrionale. La minaccia che dopo questi avvenimenti sembrava profilarsi per Roma era grave.
A Roma D. dovette affrontare innanzi tutto una delicata questione che toccava l'ortodossia delle comunità religiose presenti nella città. Nel monastero detto "Boetiana" (ora di difficile localizzazione, anche se il nome suggerirebbe un collegamento con la grande famiglia romana dei Boezi) fu scoperta infatti l'esistenza di eretici nestoriani, di nazionalità siriana. D. sciolse la comunità e ne inserì i componenti in vari monasteri, allo scopo di mantenerli sotto controllo, e nella "Boetiana" pose una comunità di monaci romani. L'onda lunga delle eresie di provenienza orientale continuava così a toccare Roma, ove affluivano in gran numero profughi dalle regioni occupate dai musulmani.
D. svolse anche una certa attività nel campo dell'edilizia sacra. Fece infatti ricoprire con grandi lastre marmoree, prese quasi certamente da qualche monumento antico, l'atrio all'aperto della basilica di S. Pietro, che era compreso nel quadriportico ed era detto "paradisum": un'opera, la sua, che durò, probabilmente, sino al sec. XII, quando ad essa fu sovrapposto un nuovo lastricato. Restaurò poi la chiesa un tempo detta "degli Apostoli" sulla via Ostiense, fondata sul luogo dove, secondo la tradizione, s. Pietro e s. Paolo si sarebbero separati al momento in cui venivano condotti al martirio. Fuori città, presso Albano, dedicò invece una chiesa in onore di s. Eufemia: il nome di questo edificio sacro si perpetuava ancora in epoca moderna in quello di un casale detto appunto S. Funia. Come ultima informazione a carattere locale, il Liber pontificalis ci informa che papa D. governò la Chiesa di Roma in buon accordo con il clero dei diversi ordini, che da lui ricevette molti benefici.
Secondo l'anonimo autore della biografia di D. inserita nel Liber pontificalis, fu precisamente ai tempi di questo papa che la Chiesa di Ravenna, la quale si era separata dalla giurisdizione di Roma in forza del privilegio di autocefalia concessole nel 666 dall'imperatore Costante II, si sottomise di nuovo e definitivamente alla Chiesa di Roma. La crisi apertasi all'epoca di Costante II, quando quest'imperatore aveva puntato a indebolire i legami tra Roma e Ravenna, rivelatisi pericolosi per Bisanzio al momento della ribellione dell'esarca Olimpio sotto il pontificato di Martino I, sarebbe stata dunque risolta, secondo questa fonte, con l'abbandono delle pretese di autonomia da parte dell'arcivescovo Reparato (671-677).
Tuttavia Agnello, biografo degli arcivescovi ravennati, afferma che proprio Reparato fu consacrato, "secondo lo stesso costume dei pontefici romani", da tre dei suoi suffraganei, per cui sembrerebbe doversi concludere che la notizia fornita dal Liber pontificalis romano non sia fededegna. Il contrasto tra le due fonti, portatrici apparentemente di punti di vista opposti sulla questione, può tuttavia essere superato in parte sulla base di quanto lo stesso Agnello scrive poco prima, e cioè che proprio Reparato aveva stabilito che un electus alla sede ravennate non potesse soggiornare a Roma, allo scopo di ricevervi la consacrazione episcopale ("in tempore consecrationis"), per più di otto giorni. È chiaro che questo decreto si spiega solo con l'abbandono di fatto dell'autocefalia da parte dell'arcivescovo. Agnello sostiene per la verità che il decreto non fu rispettato, perché Teodoro, successore nel 677 di Reparato, fu ancora ordinato a Ravenna dai suoi suffraganei. Che l'applicazione pratica dell'intesa fosse difficile è senza dubbio possibile: in tutti i casi, con lo stesso Teodoro la crisi fu sicuramente risolta, anche se i suoi strascichi inquinarono ancora a lungo i rapporti tra Roma e Ravenna.
Il fatto che sotto il pontificato di D. la questione dell'autocefalia trovasse una soluzione conferma che in questa fase i rapporti tra il papa e l'imperatore di Bisanzio tendevano necessariamente a riannodarsi in modo più netto: l'indebolimento della posizione dell'arcivescovo di Ravenna ne era infatti, in modo chiarissimo, una diretta conseguenza. Rimasto senza l'appoggio imperiale, l'arcivescovo si era dovuto di nuovo sottomettere a Roma. Il ritrovato lealismo politico del papato, già manifestatosi al momento dell'assassinio di Costante II - quando il papa Vitaliano aveva collaborato alla sconfitta dell'usurpatore Megezio (668) - e visibile anche nei rapporti con i Longobardi, avviati grazie alla mediazione del papato verso una pace abbastanza duratura con l'Impero, spinse l'imperatore Costantino IV a fare pressioni sul patriarca di Costantinopoli, Teodoro, perché si mettesse in contatto con D. non con una sinodica, ma con una semplice epistola adhortatoria. Era il primo passo verso la pacificazione. Ad esso l'imperatore fece seguire nell'agosto del 678 una divalis iussio, una lettera ufficiale, cioè, nella quale in termini assai deferenti invitava D. ad intavolare trattative con i patriarchi di Costantinopoli e di Antiochia in vista del raggiungimento di un'intesa che restituisse all'Impero quell'unità e quella pace religiosa di cui esso aveva bisogno, tanto più in quel momento in cui, sul piano della politica estera, era stata conclusa una pace trentennale con i musulmani.
Il papa, secondo l'imperatore, avrebbe dovuto inviare a Costantinopoli una delegazione composta da tre legati della Chiesa di Roma, da dodici vescovi di diocesi a quella soggette e da quattro responsabili dei monasteri greci di Roma. Costantino IV, dal canto suo, offriva una scorta navale e garantiva la sua assoluta neutralità. Il messaggio implicito nel documento era che eventi come quelli verificatisi durante il pontificato di Martino non sarebbero stati più possibili nel futuro.
La divalis iussio giunse a Roma quando D. era già morto. Secondo quanto riferisce l'anonimo biografo del Liber pontificalis, infatti, il corpo di questo papa venne sepolto nella basilica di S. Pietro l'11 aprile 678.
D. viene talora indicato nella letteratura storica con l'ordinale I, per distinguerlo da un altro papa, secondo di quel nome, che avrebbe pontificato per un anno e sei mesi nella seconda metà del sec. X e che appare registrato in quasi tutti i cataloghi (esclusi tre) come "Domnus" o "Domnus de Suri" tra Benedetto VI (19 gennaio 973-giugno del 974) e Benedetto VII (ottobre del 974-10 luglio 983), prima dell'intruso Bonifacio VII (il diacono Franco figlio di Ferruccio, innalzato al governo della Chiesa romana - vivente ancora Benedetto VI - da Crescenzio "di Teodora" nel maggio del 974 durante una sommossa, ed espulso nel giugno successivo grazie all'intervento del messo imperiale Siccone). Tuttavia, secondo la critica moderna un papa Dono II non è mai esistito. Come ha provato il Giesebrecht, infatti, ragioni di ordine cronologico escludono l'eventualità di un pontificato di Dono II da porsi fra quelli immediatamente contigui di Benedetto VI e di Benedetto VII. Per spiegare l'inserimento di questo papa mai esistito nella lista dei pontefici romani, il Duchesne avanzò l'ipotesi che esso fosse la conseguenza di un equivoco. Secondo lo studioso francese, dunque, il successore legittimo di Benedetto VI e suo omonimo, Benedetto VII, il quale era vescovo di Sutri quando venne eletto al soglio di s. Pietro, poté venir registrato - senza l'ordinale, ma con la sola specificazione di "domnus de Suri" - subito dopo il suo predecessore nell'esemplare della lista episcopale romana, che fu all'origine della tradizione manoscritta a noi nota dei cataloghi pontifici. Gli amanuensi posteriori poterono fraintendere l'efemeride e fare di un appellativo - "domnus" - un nome proprio - "Domnus" -, e di un complemento di specificazione - "de Suri" - un complemento di provenienza, postulando in tal modo l'esistenza di un pontefice legittimo, diverso da Benedetto VI e da Benedetto VII, da porsi tra questi due ultimi, prima o contemporaneamente all'intruso Bonifacio VII. L'ipotesi appare plausibile, specialmente se si tiene conto delle incertezze che poté generare il problema dell'inserimento nella lista episcopale romana della notizia relativa al governo dell'antipapa Bonifacio VII.
fonti e bibliografia
I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XI, Florentiae 1765, coll. 195-202.
Agnelli Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis, a cura di O. Holder-Egger, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, a cura di G. Waitz, 1878, pp. 351 s.
Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 348 s.; II, ivi 1892, pp. 255, 256 n. 4; cfr. ibid., I, pp. XVII-XIX.
Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, p. 479.
W. Giesebrecht, Jahrbücher des deutschen Reiches unter dem Sächsischen Hause, II, Berlin 1840, p. 141.
O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, pp. 365-67.
Codice topografico della città di Roma, a cura di R. Valentini-G. Zucchetti, II, Roma 1942 (Fonti per la Storia d'Italia, 88), p. 256.
H. Marot, Donus (ou Domnus), in D.H.G.E., XIV, coll. 671 s.
cfr. R. Aubert, Domnus [rinvio esplicativo], ibid., col. 644.
Lexikon für Theologie und Kirche, III, Freiburg 1995³, s.v., col. 336.