DOSSALE
Con il termine d. (dal lat. medievale dorsale, doscale, torsale) si suole indicare - per esteso rispetto alla sua accezione originaria di 'veste' che ricopre il dorso di un altare - un pannello decorativo per lo più mobile, in metallo, legno, stoffa o anche talvolta avorio, pietra o alabastro, concepito come custodia di reliquie o, più comunemente, nelle chiese sprovviste di resti venerati, come semplice elemento ornamentale aggiunto alla parte posteriore, quando non direttamente situato dietro la mensa. Verosimile conseguenza di tale stretta connessione ubicativa, il d. risulta spesso indicato, a livello documentario, sia appunto come postaltare, retroaltare o retrotabula (Du Cange, VII, p. 169) sia come controtabula o controfrontale; queste ultime espressioni, per essere volte in sostanza a rilevarne collocazione e finalità opposte rispetto a quelle del rivestimento della faccia anteriore dell'altare, potrebbero aver favorito - al di là di una pur implicita analogia morfologica con la struttura di simili arredi - l'ambiguità espressiva determinatasi, in sede lessicale, in merito alla corretta definizione del d., confuso, specie in area italiana, con l'antependium (v.) in base a una plausibile, pur se traslata, definizione del lato anteriore e posteriore (dorsale) dell'altare, con unico riferimento alla posizione del celebrante passato, nel corso del sec. 11°, a officiare volgendo le spalle all'assemblea (Boskovits, 1992). Conferme dell'ambivalenza di un simile passaggio emergono del resto, a più riprese, anche nelle fonti inventariali, prive, ancora fino al sec. 14°, di parametri descrittivi sufficienti a individuare inequivocabilmente le due categorie di arredo liturgico, nonché attestate in genere su un uso referenziale del termine d. come semplice paramento d'altare, costituito per es. de panno tartarico o de panno serico et aureo o piuttosto tessuto de opere Cyprensi o de opere Anglicano.Di fatto anche in sede critica, a eccezione di pochi, datati ancorché fondamentali contributi sull'argomento (Burckhardt, 1898; Braun, 1924; Hager, 1962), le analisi delle circostanze fattuali, della genesi formale e della cronologia relativa inerenti la nascita del d. e più in generale della tavola d'altare mancano a tutt'oggi di una puntuale sistematizzazione, in grado di stabilire tutta una serie di relazioni fra consuetudini liturgiche locali, condizioni di ricezione, fruibilità da parte dei fedeli e, non ultime, forme specifiche di committenza. Fra le cause determinanti l'insorgenza del d. è tuttavia possibile individuare - venuta meno già dal sec. 6° in Occidente la regola dell'unicità della mensa nelle chiese in seguito, fra l'altro, al progressivo diffondersi del culto delle reliquie dei santi - sia il moltiplicarsi di altari secondari, sia la consuetudine, sancita sin dall'Admonitio synodalis (PL, CXV, col. 677; Righetti, 1964), di porre resti venerati al centro posteriore dell'altare, all'interno di teche o casse a loro volta destinate a essere inquadrate, contenute o anche nascoste entro strutture atte a richiamare figurativamente episodi della vita del santo e, con il tempo, a sostituirsi ai reliquiari stessi (Lesage, 1956).Strettamente collegati a tale prassi - che implica la graduale subordinazione del ruolo della mensa a quello di sostegno dell'oggetto del culto legato alla sua dedicazione -, lo spostamento dell'altare verso il coro e l'abbandono dell'uso di celebrare versus populum, avvenuti intorno al sec. 11° (Jungmann, 1948; Hager, 1962), nel rendere progressivamente obsoleta la funzione dell'antependium potrebbero aver dato luogo a spostamenti e sostituzioni fra un arredo e l'altro, fornendo al contempo possibili presupposti all'elaborazione specifica del dossale.A regolare, del resto, in senso derivativo il rapporto fra il d. e l'antependium intervengono frequentemente fattori di ordine dimensionale, laddove cioè a uno sviluppo orizzontale vincolato, per entrambe le categorie, dalla larghezza dell'altare vengano a corrispondere di fatto - nel caso almeno dei d. a terminazione rettilinea - analogie d'altezza tali da consentire, sin dalle origini, forme caratteristiche di reimpiego, come per es. nel caso emblematico dell'antependium donato da Carlo il Calvo all'abbazia di Saint-Denis, oggi perduto, testimoniato dopo vari rimaneggiamenti all'inizio del sec. 16° come pala dell'altare maggiore della stessa abbazia in un'opera del Maestro della Messa di Saint-Gilles (Londra, Nat. Gall.).A livello iconografico, ulteriori mutuazioni dall'impianto degli antependia sono rilevabili, nella struttura di taluni d., sia nella scansione dello spazio figurativo, spesso ripartito in un campo centrale cui si affiancano due registri (S. Michele Arcangelo in trono e storie, di Coppo di Marcovaldo, della metà del sec. 13°; Firenze, Uffizi) o più registri sovrapposti, sia nella ripresa di motivi decorativi derivati dal repertorio dei frontali in metallo, lungo una linea di passaggio estesasi nel tempo, tanto agli esemplari lignei (d. proveniente dalla badia Berardenga presso Castelnuovo Berardenga, del 1215; Siena, Pinacoteca Naz.) quanto a quelli lapidei (d. Crosby, del sec. 12°; Parigi, Saint-Denis).Per quanto riguarda, viceversa, l'analisi delle discriminanti tipologiche utili alla definizione formale del d., criteri plausibili, almeno per gli esemplari più antichi, appaiono tanto l'altezza del pannello - nel caso in cui questa diverga per difetto o per eccesso dalla misura media (cm. 90-110) dei rivestimenti anteriori della mensa -, quanto la presenza, lungo il bordo superiore del medesimo, di elementi proiettanti finalizzati all'enfatizzazione del soggetto rappresentato. Notevoli varianti sussistono in merito al loro andamento: centrale e curvilineo (d. della Pentecoste di manifattura mosana, del sec. 12°; Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny), a triangolo acuto (Cristo benedicente e santi di Meliore di Jacopo, del 1271; Firenze, Uffizi), a semplice terminazione rettilinea aggettante (S. Antonio Abate e santi, di Simone da Cusighe, del sec. 14°; Belluno, Mus. Civ.) o, ancora, a profilo mistilineo, come nell'esemplare del sec. 13° proveniente da Soest, in Vestfalia (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), o in quello, sempre del sec. 13°, a terminazioni trilobe proveniente da Quedlinburg, in Sassonia (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.).Più specifiche ragioni di ordine simbolico possono essere state viceversa sottese all'adozione, in taluni casi, di un coronamento a cuspide (frammento di d. nella collegiata di Junquera de Ambia, presso Orense), relato forse alla tipologia di schienali di troni o cattedre terminanti a pignone, a loro volta interpretabili come strutturalmente allusivi all'insieme altare-d., in quanto trono dell'eucaristia. Referenti analoghi sono stati peraltro individuati anche nel caso - geograficamente circoscritto all'area scandinava - di d. a impianto lunettato provenienti da Lisbjerg e da Odder, datati rispettivamente al 1140 ca. e al 1200 ca. (Copenaghen, Nationalmus.), equiparabili dal punto di vista morfologico ad analoghe categorie di seggi liturgici.La configurazione strutturale dei primi d. sembrerebbe prevalentemente attestarsi per tutto il sec. 12° e fino agli inizi del successivo - al di là dei materiali costitutivi del supporto stesso - su formati rettangolari modestamente elevati in altezza, il cui modello potrebbe essere stato mutuato dall'assetto del gradino d'altare (Boskovits, 1992), rialzo a se stante destinato nel tempo a evolversi nella predella (Preiser, 1973), spesso ornato con una teoria di santi. Passata nel corso del sec. 13° al d., la loro impostazione in sequenza, forse anche mediata attraverso l'impianto figurativo dei sarcofagi (Buendía, 1973), è stata tuttavia di recente posta in relazione con il fregio dell'iconostasi bizantina (Belting, 1990), al cui interno la consueta riduzione delle immagini a mezzo busto avrebbe costituito un presupposto vincolante al successivo sviluppo in più registri sovrapposti dell'ancona. Con tale termine si suole infatti comunemente indicare un'immagine dipinta o a rilievo, posta sull'altare e oggetto di venerazione.Usato non di rado nelle fonti tecniche e documentarie medievali quale sinonimo di tavola - con specifico riferimento a quello che ne costituì il tipo di supporto più diffuso - il termine ha tuttavia assunto, rispetto all'originaria accezione etimologica di dipinto mobile di soggetto religioso, maggiore estensione di significato, potendo anche applicarsi, nell'uso comune, a un complesso scultoreo in legno o in marmo inquadrato entro una più o meno ampia cornice architettonica.L'ancona, posta sin dall'inizio, in maniera permanente, sull'altare, al fine di ornarlo e ribadirne l'importanza, poteva venire collocata anche nella parte posteriore o all'interno di una struttura retrostante, nel caso di altari parietali entro una nicchia scavata nel muro.Corrispettivo funzionale del d., di cui costituì un probabile sviluppo (Vasco Rocca, 1988) o forse meglio una variante, l'ancona andò diffondendosi a partire dalla fine del sec. 12°, per poi subire, soprattutto durante il secolo successivo, un graduale processo di evoluzione destinato a renderne più articolato l'insieme, aumentandone al contempo lo spazio figurativo utile.Al suo sviluppo contribuirono fattori diversi, fra cui le necessità celebrative di una committenza sempre più legata ai centri urbani e soprattutto una crescente esigenza di privatizzazione del culto. Tale esigenza, sfociata in un generale moltiplicarsi di altari e cappelle destinati alla venerazione dei santi, favorì l'insorgere e lo stabilizzarsi di consuetudini locali, la cui azione, insieme a quella esercitata dalle disposizioni canoniche e al generale aumento dimensionale della forma della mensa, contribuì a determinarne, fra i secc. 13° e 14°, il formato (Gardner, 1983).Dal punto di vista morfologico l'ancona appare inizialmente concepita come un pannello unico, di forma geometrica semplice, raffigurante la Vergine con il Bambino (per es. Madonna in trono con il Bambino, di Coppo di Marcovaldo, del 1261; Siena, S. Maria dei Servi) o un santo (S. Francesco, di Margaritone d'Arezzo, del 1270-1280; Montepulciano, Mus. Civ.). Il tipo più antico, a sviluppo verticale, ebbe ampia diffusione, specie nel corso del Duecento, grazie alla sua perfetta adattabilità strutturale sia alla rappresentazione della figura umana stante o seduta sia al tema della Maestà (S. Francesco fra due angeli, del Maestro di S. Francesco, del 1260 ca.; Assisi, Mus. della Basilica Patriarcale S. Maria degli Angeli). Destinato a trovare inizialmente largo impiego, specie in ambito mendicante, lo schema verticale subì tuttavia ben presto notevoli modifiche atte a ribadire, enfatizzandolo, l'asse longitudinale della rappresentazione: a partire dalla metà del sec. 13° tale categoria si trova infatti quasi sempre ampliata in area centroitaliana, mediante l'aggiunta, nella parte superiore del pannello, di un coronamento arcuato (Madonna di S. Bernardino, di Guido da Siena; Siena, Pinacoteca Naz.) o più frequentemente a timpano (S. Luca, di scuola fiorentina, del 1275-1285; Firenze, Uffizi), variante la cui adozione da parte di Duccio di Buoninsegna nella Madonna Rucellai (Firenze, Uffizi) e di Cimabue nella Madonna di Santa Trinita (Firenze, Uffizi), oltre a favorire senza dubbio la grandissima accoglienza di cui essa venne fatta oggetto, tale da ancorarne il tema iconografico quasi esclusivamente all'immagine della Vergine, assicurò peraltro la fortuna del tipo per tutto il Trecento. Sottoposta nel tempo a un processo che marca sempre più l'acutezza dell'angolo sommitale del coronamento - elemento guida utile inoltre ai fini della datazione relativa -, l'ancona cuspidata offrì a sua volta il campo a diverse, pur se circoscritte, modifiche strutturali; fra queste fu ampiamente praticata, forse per influsso di analoghe scelte nella decorazione dei manoscritti, l'inscrizione entro il bordo perimetrale del pannello di uno o più archi lievemente rilevati (per es. Madonna della Misericordia di Lippo Memmi; Orvieto, duomo).Coevo al diffondersi del tipo a spioventi e altrettanto funzionale al desiderio di dare preminenza al soggetto della raffigurazione fu lo sviluppo, fra il secondo e il terzo quarto del sec. 13°, di una categoria di ancone concludentisi, nel lato superiore, con un pannello ligneo di forma circolare, separato e inserito di regola in quello sottostante: venendo a coincidere con il profilo del capo o anche con la circonferenza dell'aureola della figura rappresentata, tale inserto, adottato prevalentemente in Toscana, sembrerebbe aver agito da modello per tutti gli altri esempi regionali che ne derivarono, ivi compresi forse i d. umbri. A differenza dei crocifissi lignei contemporanei, ove il pannello circolare risulta inclinato per ovviare all'aumento dell'angolo visuale determinato dalla collocazione sopraelevata, la sua presenza non appare al contrario aver dato luogo nelle ancone ad alcun aggetto o sporgenza (per es. Madonna in trono con il Bambino, dalla chiesa di S. Maria di Graiano a San Pio Fontecchio; Aquila, Mus. Naz. d'Abruzzo).Maggiori problemi di classificazione pone viceversa una specifica categoria di opere definite da Garrison (1949) d. verticali e ritenute dallo studioso, sia pur dubitativamente, una possibile derivazione dalle ancone. Tali d., che non appaiono in realtà differire dai precedenti modelli tipologici se non per un sensibile aumento dimensionale, sono attestati specie in ambito pisano e nell'Italia meridionale, ovvero in regioni dove non risulta essere stato particolarmente diffuso l'impiego di ancone, e possono semmai aver desunto da tali arredi ornamentali l'impianto compositivo generale, di norma tripartito, in modo da consentire l'inserimento, accanto alla figura della Vergine o del santo, di episodi narrativi tratti dalla loro vita o dalle leggende a essi relative. Il numero di tali piccole scene risulta variare da un minimo di otto-dieci negli esempi pisani, a un massimo di quattordici-sedici in quelli meridionali (Madonna in trono fra due angeli del Maestro di S. Martino, del 1260 ca., Pisa, Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo; S. Nicola fra Cristo e la Vergine di scuola pugliese, della seconda metà del sec. 13°, Bisceglie, S. Margherita).Commistione originale fra i primi esemplari di ancone cuspidate e il loro successivo sviluppo dimensionale e iconografico è da considerare la tavola di Bonaventura Berlinghieri con Storie di s. Francesco, della prima metà del sec. 13° (Pescia, S. Francesco), la cui composita tipologia, elaborata forse sotto l'influsso delle croci dipinte, ebbe larga imitazione ancora nel 14° secolo.Un gruppo a sé, all'interno delle varie forme assunte dall'ancona nel tempo, è inoltre costituito da quelle opere destinate a essere dipinte su entrambe le facce. Esemplate, dal punto di vista funzionale, sui pannelli per iconostasi e sulle croci processionali, paiono aver reso possibile, almeno per quanto riguarda l'ambito senese, la celebrazione liturgica su ambo i lati dell'altare (Gardner, 1983).Diffusa in Italia durante il sec. 14° (S. Ludovico di Tolosa di Simone Martini, del 1317; Napoli, Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte), tale categoria di ancone richiedeva, a livello di carpenteria, soluzioni abbastanza complesse e comunque tali da garantire, tramite soprattutto la ribattitura dei chiodi e il loro occultamento con la cera, la perfetta preparazione del supporto ligneo. Per quanto riguarda quest'ultimo è comunque accertato che - sebbene a determinare più in generale formato e tipologia dell'ancona siano spesso intervenute esigenze di carattere ubicativo, economico o rappresentativo - la sua morfologia era prevalentemente lasciata alla responsabilità dell'artista, affiancato, nel caso di opere elaborate, dal 'legnaiuolo' (Gardner von Teuffel, 1983).A partire dalla fine del sec. 13° e poi per tutto il successivo, accanto alle forme tradizionali iniziarono a essere prodotte tipologie di ancone via via più complesse, caratterizzate da un progressivo articolarsi dell'impianto compositivo in una sorta di microarchitettura. La suddivisione interna, finalizzata all'inserimento di un maggior numero di temi iconografici e al loro sviluppo sequenziale, appare segnata dalla presenza di elementi a rilievo (come arcatelle, pilastrini, pinnacoli) simili a quelli riscontrabili nella produzione orafa contemporanea (Annunciazione della Vergine di Simone Martini, del 1333; Firenze, Uffizi).Successivo sviluppo di tale gruppo di ancone - sottoposte con l'affermarsi del gusto gotico a una ulteriore ripartizione in tre o più pannelli distinti - può essere infine considerato il polittico. Formato di norma dall'assemblaggio di un pannello rettangolare cuspidato di tipo architettonico con sportelli mobili, spesso impiegati come ante da aprire e chiudere, esso mostra un progressivo aumento dello spazio figurativo disponibile, nonché terminazioni arcuate o lobate; presenta inoltre, almeno in Spagna e in Italia, una base sporgente lunga e stretta, denominata predella o gradino, a sua volta decorata con scene correlate al soggetto principale della raffigurazione (Polittico di S. Caterina di Simone Martini; Pisa, Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo). I diversi elementi del polittico erano mantenuti rigidi sull'altare mediante l'uso di contrafforti, i quali, inquadrando la parte di carpenteria, avevano lo scopo di rendere solidale tutto l'insieme (Gardner von Teuffel, 1979).Particolare diffusione ebbero inoltre, insieme alle immagini finalizzate stabilmente al culto, le ancone di tipo portatile, utilizzate sia come arredo mobile dell'altare, destinate quindi a essere riposte al termine della cerimonia sacra, sia come immagini devozionali di uso domestico o privato, facili da trasportare persino durante i viaggi. Designate anche con il diminutivo anconetta (Cennino Cennini, Libro dell'arte, CLXXI), il loro impiego, attestato non prima del sec. 10°, sembra poter essere messo in relazione (Vasco Rocca, 1988) con la progressiva accoglienza, fra le suppellettili liturgiche dell'altare, di reliquie del legno della croce o di santi, l'inserimento delle quali in piccole strutture architettoniche, a più valve incernierate fra loro, generalmente eseguite in metallo, diede luogo a uno specifico tipo di custodia, noto come dittico o trittico-reliquiario.Tali opere di formato ridotto furono costituite da pannelli singoli, abbinati o prevalentemente riuniti a trittico, le ridotte dimensioni dei quali dovettero favorirne l'esecuzione nei materiali più vari. Accanto ai numerosissimi esempi in legno in massima parte di epoca gotica - la cui tipologia pur risultando in genere meno articolata rispetto a quella degli esemplari più grandi (Madonna dei Francescani di Duccio di Buoninsegna, del 1290 ca.; Siena, Pinacoteca Naz.) appare cionondimeno esserne stata nell'insieme influenzata (Noli me tangere e Incoronazione della Vergine del Maestro del codice di S. Giorgio, del 1320 ca., Firenze, Mus. Naz. del Bargello; Dittico dell'Osservanza, di Paolo di Giovanni Fei, del 1390-1395, Siena, Pinacoteca Naz.) - non mancano casi di piccole ancone eseguite in metallo, in smalto e, sia pur eccezionalmente e per un uso devozionale stabile, in pietra (Madonna con il Bambino e due angeli, di Giovanni di Agostino, del 1336 ca.; Siena, Oratorio di S. Bernardino).Grande diffusione ebbe sempre durante il sec. 14°, specie in Francia, l'uso di piccoli oggetti in avorio, più spesso dittici o trittici, con figure a bassorilievo all'interno di complesse microarchitetture, articolantisi in veri e propri cicli di storie sacre (dittico con scene della Vita di Cristo e della Vergine, del 1325-1335, Lille, Mus. des Beaux-Arts; polittico con scene della Passione, della prima metà del sec. 14°, New York, Metropolitan Mus. of Art). Talvolta l'immagine dipinta o scolpita poteva essere sostituita da vetri dorati o graffiti.
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Spagna
Nella penisola iberica sino al primo terzo del sec. 12° il d. - chiamato nelle fonti locali dei secc. 12°-15° tabula retro altare, tabula super altaris, retro tabulum o retro tabla, da cui lo spagnolo retablo, termine che in italiano comunemente definisce i d. spagnoli di epoca gotica - sembra che non facesse parte dell'arredo liturgico dell'altare, ornato solo dall'antependium (frontal), dal ciborio o dal baldacchino (dosel).Il più antico d. di cui si ha notizia appare citato nella Historia Compostellana, scritta nella prima metà del sec. 12° per ordine di Diego Gelmírez, primo arcivescovo di Santiago de Compostela (1100-1140). Si tratta della "retro altaris Beati Jacobi tabulam pretiosam et optime antiquitatibus laboratam cuius opus materiam superabat" (PL, CLXX, col. 1216), commissionata dall'arcivescovo nel 1135 ca. per completare l'arredo dell'altare maggiore della cattedrale, costituito anche da un antependium (tabula argentea) cesellato e da un ciborio, ornato da smalti, sculture in oro e argento e da una croce gemmata, entrambi ordinati dallo stesso nel 1105 (Vielliard, 1969, pp. 110-112). L'antependium, il ciborio e il d. vennero distrutti alla fine del sec. 17°; di quest'ultimo tuttavia si conserva un disegno eseguito poco prima della fusione e conservato nell'archivio della cattedrale di Santiago de Compostela (Moralejo, 1980), in cui appare diviso in due parti sovrapposte, costituite da una base rettangolare su cui poggia un triangolo, che conferisce all'insieme l'aspetto di un frontone classico, evidente trasposizione di un motivo architettonico. Nel centro del d., in una mandorla polilobata, campeggia la figura del Cristo risorto, con le braccia alzate per mostrare le mani piagate, formula iconografica nuova per l'arte spagnola. Nella parte inferiore, entro archi trilobi poggiati su colonne, si inseriscono otto figure di apostoli, elemento decorativo già usato, nel 1067-1080, dal maestro Engelram in una delle placche d'avorio dell'arca di S. Emiliano nel monastero di Yuso, a San Millán de la Cogolla, presso Logroño (Cook, Gudiol Ricart, 1950, fig. 280). Questo motivo, chiaramente derivato dall'architettura islamica, era presente nella stessa cattedrale compostelana sia nella decorazione dell'abside sia nei seggi di granito del coro, di cui restano solo frammenti (Santiago de Campostela, Mus. Diocesano; El arte románico, 1961, pp. 530-531, 534). Nella parte superiore, sotto lo stesso tipo di archeggiatura, sono collocati gli altri quattro apostoli e due santi non identificabili. Il prezioso d. compostelano esercitò un notevole influsso sull'arte del tempo; tuttavia per gli alti costi spesso si realizzarono solo delle sue imitazioni con materiali poveri, come pietra e legno. All'esempio del d. commissionato da Diego Gelmírez si ispirò quello in granito nel monastero di San Estéban de Ribas de Sil, presso Orense, unico esemplare romanico dell'inizio del sec. 13° conservato in Galizia (El arte románico, 1961, p. 526). È composto, con l'evidente intento di trasporre su pietra un'opera di oreficeria, da uno stretto basamento decorato da arcate su colonne e rifinito nella fascia superiore da un fregio a semisfere in rilievo, a imitazione della lavorazione a cabochon. Su di esso poggia il frontone, con al centro, sotto archi ribassati, Cristo in piedi con la croce processionale, accompagnato dai dodici apostoli. Il d., che evidentemente era posto sull'altare maggiore, discosto dall'abside, è decorato anche nella parte posteriore con arcate, che tuttavia ospitano solo l'immagine del Salvatore al centro.Alla fine del sec. 12° appartiene un d. integro in rame smaltato, proveniente dalla cattedrale di Pamplona, collocato nel 1765 sull'altare maggiore della chiesa del santuario di San Miguel in Excelsis, a Huarte-Araquil (Navarra). Di forma rettangolare, simile a un antependium, presenta al centro, in una mandorla circondata dai simboli degli evangelisti, la Vergine con il Bambino e ai lati due serie sovrapposte di figure entro arcate. In alto il fregio riccamente ornato è rialzato nella parte centrale per dare spazio a quattro figurine di santi, poste ai lati di una croce composta da gemme.Uno dei rari esempi di d. romanico catalano, dipinto su tavola tra la fine del sec. 12° e l'inizio del 13°, è quello proveniente dall'eremo francese di Saint-Martin, presso Angoustrine, nella Cerdagne; si tratta di un rettangolo, sovrastato da tre lunette, che non supera le dimensioni di una predella, raffigurante il Redentore in piedi tra i dodici apostoli (Barcellona, Inst. Amatller de Arte Hispànic). Un altro piccolo d. dedicato alla Vergine, risalente alla stessa epoca, analogamente proveniente da Saint-Martin e ora conservato nella chiesa di Saint-André ad Angoustrine, presenta una interessante caratteristica dovuta all'impiego di una tecnica mista di scultura lignea e pittura; la statua della Vergine in trono con il Bambino entro un'edicola è affiancata da due scene dipinte con l'Annunciazione e la Visitazione (Cook, Gudiol Ricart, 1950, fig. 159). Probabilmente esso era destinato a un altare laterale o a una cappella privata, poiché, come si deduce dalle Cantigas de Santa María di Alfonso X il Saggio (1252-1284), non era consentito porre sull'altare maggiore l'immagine della Vergine (Cant. CLXII; Guerrero Lovillo, 1949, tav. 177). Con il diffondersi del culto mariano questo divieto, tuttavia, venne meno e sia le statue della Madonna ritenute miracolose sia le icone provenienti dalla Terra Santa cominciarono a essere venerate anche sull'altare maggiore. Sempre attraverso le Cantigas è possibile stabilire che queste immagini sacre cominciarono a essere racchiuse in edicole di forma gotica, con archi ogivali e pinnacoli, provviste di ante cuspidate scolpite o dipinte. Questo tipo di struttura, nella posizione con le ante completamente aperte, preannuncia la forma che in seguito assunse il vero e proprio retablo (Cant. XXXIV; Guerrero Lovillo, 1949, tav. 39).A Burgos (Mus. Diocesano-Catedralicio) è custodito l'unico esempio di altare completo, proveniente dal monastero di Santa María la Real de Mave, presso Palencia, del sec. 13°, in legno scolpito e policromato, composto dal d. e dall'antependium, opera di uno stesso artefice. Il d., a profilo pentagonale, è dedicato alla Vergine, raffigurata al centro, al di sotto della Crocifissione nel timpano; ai lati sono poste scene della vita di Maria e sei figure di santi, collocate in piccoli scomparti entro archi trilobi (Cook, Gudiol Ricart, 1950, fig. 410).Non è sempre facile distinguere un d. da un antependium tra la fine del sec. 13° e l'inizio del 14°; infatti, sia il persistere della forma rettangolare sia lo schema iconografico non si differenziano molto, specie da quando negli antependia cominciarono a essere raffigurati santi attorniati dalle loro storie, in luogo dei consueti temi apocalittici che un tempo li caratterizzavano.Ne fornisce un esempio il d. di S. Orsola, opera aragonese di poco posteriore al 1300, proveniente da Casbas de Huesca (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya), che si distingue dagli antependia per l'esplicito intento narrativo che prelude ai grandi retabli di epoca successiva.Di poco posteriore e stilisticamente vicino al d. di S. Orsola è quello proveniente da Lledó (Gerona), dedicato a s. Tommaso, che campeggia nello spazio centrale, con ai lati, su due registri, le storie della vita descritte con notevole vivacità. In questo caso la tradizionale struttura rettangolare del d. si arricchisce di un nuovo elemento protogotico, tre cuspidi, contenenti, rispettivamente, al centro la Crocifissione e ai lati figure di santi, poste sulla disadorna cornice (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya).Degno di menzione è il d. detto della Mare de Déu (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya), un tempo nel monastero di Vallbona de les Monges, presso Lérida, datato alla prima metà del 14° secolo. Le edicole a sesto acuto e gli archi polilobati denunciano la sua appartenenza al Gotico; l'immagine centrale della Vergine e le dodici storie che la affiancano, disposte su due registri, testimoniano tuttavia la dipendenza dall'antica forma dell'antependium, ancora latente in questo secolo.Uno dei più antichi d. gotici aragonesi, del 1300 ca., è quello dedicato a s. Pietro Martire, proveniente da Sixena (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya); in questo d. la tavola non è più disposta orizzontalmente ma in verticale, con la grande immagine del santo al centro e una serie di scene agiografiche nei piccoli scomparti ai lati.Con il diffondersi, all'inizio del sec. 14°, dello stile italogótico, giunto in Spagna sia grazie agli influssi dalla corte papale avignonese sia attraverso l'opera di alcuni artisti italiani stabilitisi a Palma di Maiorca, appaiono i primi retabli a forma di trittico e di polittico. Nel trittico di S. Vincenzo del Maestro di Estopanyà (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya) l'impronta toscana è così evidente da far supporre che l'artista fosse un fiorentino (Gudiol, 1958, col. 429); nello scomparto centrale, posta sotto la Crocifissione della cuspide, è collocata la figura di S. Vincenzo su fondo oro, mentre nei laterali viene narrata la storia del santo in dodici scene su tre registri. Allo stile italogótico appartiene anche il grandioso polittico (1351-1352) dell'altare maggiore della cattedrale di Tortosa, attribuito al genovese Francesco d'Oberto (Gudiol, 1958, col. 429). Sculture lignee dorate e policromate rivestono interamente la parte interna del retablo, coronato da tre baldacchini cuspidati e fitti di guglie dorate; quello centrale sovrasta l'immagine della Vergine, scolpita a tutto tondo e fiancheggiata da rilievi con le storie della vita, che proseguono anche nelle grandi ante mobili, dipinte all'esterno con scene della vita di Cristo, le quali a loro volta si estendono anche alla predella.Nella prima metà del sec. 14° nacque a Gerona una fiorente bottega di orafi che realizzarono, tra l'altro, per l'altare maggiore della cattedrale, il retablo d'argento sbalzato con numerose applicazioni in smalto traslucido. L'opera, che con il suo baldacchino costituisce uno splendido complesso perfettamente conservato, fu iniziata nel 1320 dal maestro Bartolomeu e proseguita nel 1355 dal valenzano Pere Bernès, che nel 1358 appose la sua firma sulla predella. Sull'arcaica forma rettangolare si innesta una decorazione gotica, con tre alti pinnacoli cuspidati che ospitano le statue della Vergine e dei ss. Felice e Narciso. Nella parte rettangolare è narrata la vita di Cristo, dall'Annunciazione alla Risurrezione, e nella predella, entro arcatelle ogivali, sono inserite figure di santi.Agli inizi del Trecento giunsero in Spagna, provenienti dall'Inghilterra, formelle di alabastro già scolpite e policromate, frutto di una produzione artistica particolarmente diffusa e divenuta oggetto di un lucroso commercio. Le formelle, inserite in una cornice, servivano a comporre retabli di svariate forme e misure. Un gruppo di sette rilievi inglesi, che un tempo probabilmente componevano un retablo nella chiesa di Santa Maria la Vieja a Cartagena, è conservato oggi a Madrid (Mus. Arquéologico Nac.). Seguendo l'esempio inglese ben presto in terra catalana, nei pressi delle cave di alabastro delle province di Gerona e Lérida, sorsero botteghe in cui si scolpivano rilievi simili a quelli inglesi per dimensioni (cm. 4530), ma di qualità nettamente superiore (Alcolea, 1971). Un esemplare di retablo in alabastro particolarmente significativo è quello scolpito da Bernat Saulet nel 1341 per la chiesa di Sant Pol a Sant Joan de les Abadesses (Vic, Mus. Arqueologic-Artistic Episcopal); in una semplice struttura sono raffigurate con forti accenti realistici scene della Passione in venti rilievi rettangolari disposti su tre registri, mentre in alto sono sette cuspidi tra le aste dei montanti.Più complesso dal punto di vista compositivo è il retablo in alabastro, del 1340, detto della Verge Blanca, nel monastero di Sant Joan de les Abadesses; al centro si trova la statua della Vergine con il Bambino, sovrastata da un alto baldacchino cuspidato, e ai lati sono raffigurate diciotto scene a bassorilievo su tre registri culminanti in sei cuspidi.In Aragona Jaume Cascalls, scultore di Pietro III il Cerimonioso (1336-1387), divulgò la moda dei retabli in alabastro, da lui eseguiti con tecnica raffinata. In quello del 1345 della chiesa parrocchiale francese di Corneilla-de-Conflent (dip. Pyrénées-Orientales), dedicato alla Vergine, persiste l'arcaica forma rettangolare degli antependia. Intorno alla statua della Madonna posta al centro si svolgono scene disposte su due registri; dragoni, lamie, chimere, uomini selvaggi, satiri e aquile, scolpiti con estrema ricercatezza, riempiono gli spazi triangolari accanto alle cuspidi delle edicole ogivali, che ospitano le scene narrative del retablo.Il maestro Aloi di Montbrai, nel retablo in alabastro del 1368 della Capella dels Sastres nella cattedrale di Tarragona, ha ripetuto lo schema applicato da Jaume Cascalls, adottando però la struttura verticale gotica. Sopra uno stretto basamento ornato, i ventidue rilievi si innalzano su quattro registri; nel centro si trova la statua della Vergine con il Bambino sotto un altissimo baldacchino cuspidato che accentua la verticalità dell'insieme.Lo stile gotico maturo trionfa nel retablo di pietra nella chiesa di Sant Llorenç a Lérida, dedicato al santo titolare. Tutti gli elementi di questa struttura sono ideati per dare un maggiore slancio verticale alla composizione. Ai lati della statua di S. Lorenzo, che occupa in altezza, con il suppedaneo e il baldacchino cuspidato sovrastante, l'intera parte centrale del retablo, si collocano quattro pannelli divisi in tre fasce di formelle sovrapposte, di cui le superiori cuspidate e terminanti con figure di angeli a tutto tondo; le storie del santo sono inserite entro elaborate architetture gotiche; lungo i sei montanti che dividono i grandi pannelli sono poste diciotto figure di santi scolpite a tutto tondo. L'intera struttura poggia su una predella con il tabernacolo al centro, in corrispondenza della statua di S. Lorenzo, e una fitta schiera di santi sotto archi trilobi.Nello stesso periodo a Tarragona, accanto alle botteghe degli scultori famosi che ricevevano le committenze più importanti, sorsero quelle dei pittori che, usando materiali poco costosi, soddisfacevano le esigenze dei meno abbienti, dipingendo opere in cui si rifletteva lo stile gotico dei complessi scultorei. Il retablo nella Capella de la Sang della chiesa di Alcover, eseguito tra il 1350-1375 e dedicato ai ss. Giovanni Battista e Margherita, è costituito da un ampio pannello centrale con i santi titolari su fondo oro sotto archi trilobi cuspidati; è coronato dalla Crocifissione e mostra nei due pannelli laterali scene di argomento agiografico. Tale opera offre uno schema di retablo gotico già in piena evoluzione; infatti, contrariamente alla norma, il retablo è composto da un'unica tavola con arcate, montanti e pinnacoli eseguiti in stucco dorato. Joan di Tarragona, la personalità artistica di maggiore spicco tra i pittori di questa città, è l'autore del retablo dedicato a s. Giovanni Battista e a s. Giovanni Evangelista (1365 ca.), proveniente da Santa Coloma de Queralt (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya), che ricalca dal punto di vista iconografico quello di Alcover. La tavola è completata da una predella con Cristo tra la Vergine e s. Giovanni Evangelista, i ss. Pietro e Paolo e due scene narrative.Sino alla fine del sec. 14° in Catalogna, regione da cui proviene il maggior numero di dipinti su tavola, lo schema strutturale e iconografico dei retabli non subì sostanziali modifiche. La predella, i pannelli articolati in registri sovrapposti e conclusi da cuspidi, i montanti, lisci o decorati con santi entro piccole arcate ogivali, che si trasformano in alto in svettanti guglie dorate, hanno come sfondo la raffigurazione dipinta di preziosi tessuti, che traspaiono in alto tra i pinnacoli. I retabli sono racchiusi, per essere protetti dalla polvere, da una cornice aggettante, di solito riccamente ornata, chiamata guardapolvo, rialzata nella parte superiore, assecondando l'andamento del pannello centrale, cui si sovrappone sempre una cuspide più alta di quelle laterali. A questo schema corrisponde il retablo, del 1365 ca., del monastero di Sixena (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya), attribuito all'anonimo Maestro di Sixena, artista appartenente alla corrente di pittura italogótica. In quest'opera, al di sotto della cuspide con la Crocifissione, compare l'immagine della Vergine in trono con il Bambino, affiancata da scene della vita, che si estendono anche alla predella; il guardapolvo è ornato da pastiglie di stucco colorato a imitazione di gemme preziose.Di maggiori proporzioni, ma più complesso, è il retablo dello Spirito Santo, nella cattedrale di Manresa, che Pere Serra, uno dei pittori catalani più italianizzanti, eseguì nel 1394. Nel pannello centrale, al di sopra della scena con la Discesa dello Spirito Santo, è raffigurata l'Incoronazione della Vergine e nella cuspide la Crocifissione; dodici episodi della Vita di Cristo sono narrati nei pannelli laterali divisi da montanti sui quali sono dipinte trentasei immagini di santi e profeti in edicole cuspidate. La parte centrale della predella, dipinta nel 1410 da Lluís Borrassà, è stata aggiunta nel corso di un restauro in sostituzione di quella originale, andata perduta. Un guardapolvo riccamente decorato con foglie di quercia e scudi araldici racchiude il retablo formando una cuspide in alto.L'esempio di Manresa, con la sua elaborata architettura in legno dorato, anticipa i retabli di dimensioni imponenti che dal sec. 15° in poi, occupando tutto lo spazio presbiteriale, si sarebbero trasformati in strutture architettoniche molto complesse e articolate.
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