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DUCCIO di Buoninsegna

di Pietro Toesca - Enciclopedia Italiana (1932)
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DUCCIO di Buoninsegna

Pietro Toesca

Pittore senese. Le prime notizie di lui, rintracciate sinora, sono del 1278 quando, come in anni successivi (1279, 1286, 1291, 1292, 1294, 1295), dipingeva a Siena forzieri e legature di libri: lavori consueti ai pittori, ma in relazione con la pratica del miniare. Nel 1319 era già morto. Forse ancora assai giovane, nel 1285, a Firenze si era impegnato ad eseguire una grande tavola della Madonna per i laudesi di S. Maria Novella. A Siena, dove di lui è memoria in altri documenti (1292, 1294, 1304, ecc.), nel 1308 ebbe commissione della tavola per l'altar maggiore del duomo, finita nel 1311.

Quella tavola, tolta poi dall'altare (1506), sdoppiata nelle sue due facce dipinte, è ora nel Museo del duomo di Siena, ma senza l'antica cornice, e mancante di alcune parti minori, scomparse o disperse in varie collezioni (Londra, Galleria Naz.: Annunziazione, Il cieco sanato; Berlino, K.-F. Museum: Natività e profeti; Nuova York, Raccolta Frick: Tentazione; Raccolta Rockefeller: Vocazione di Pietro e Andrea, La Samaritana; Raccolta Mackay: Resurrezione di Lazzaro). Nella parte frontale rappresenta la Madonna col Bambino, in "maestà" - indi il nome, allora usato, a tutta l'opera -, fra santi, cui sono da unire storie dell'infanzia del Redentore e del transito della Vergine; a tergo, storie di Cristo, specialmente della Passione, fra le quali campeggia la Crocifissione. E rivela al sommo l'arte di D., nelle sue qualità, nei rapporti col passato e come iniziatrice della pittura senese del Trecento.

Al termine della pittura bizantineggiante del Duecento, il cui stadio più prossimo a lui, fra i dipinti senesi, si vede in un paliotto con storie del Battista (Siena, Accademia), D. ne lascia le faticose tradizioni, riuscendo a intendere con nuova freschezza i modi più eletti dell'arte bizantina e a mutarli in una maniera propria, come il Cavallini a Roma e Cimabue a Firenze anch'egli con individualità tutta sua. Alla quale diede elementi l'arte gotica, ma tenui così da fondersi e quasi perdersi in quelli derivati dalla bizantina, che a lor volta furono rielaborati dal pittore con variazioni ora lievi ora più intrinseche, sebbene senza opposizioni di principî al passato, conseguendo una maniera originale, che aprì un'età nuova nella pittura a Siena. Nella "maestà" del duomo ciò si manifesta in ogni aspetto, anche nel più esteriore: nell'iconografia. La quale deriva largamente dalla bizantina linee generali e particolarità secondarie, modificate talora da influssi gotici (così nel Crocifisso), più sovente rianimate di tratti nuovi dall'invenzione dell'artista, o negli sfondi d'architettura, o nell'aggruppamento delle figure e nella narrazione stessa, in episodî, in gesti, con particolari insoliti. Per qualche esempio: nella Lavanda dei piedi è ripreso dall'iconografia bizantina perfino il gesto di Pietro, che si mette la mano sul capo, e quello degli apostoli che si scalzano; ma nella Negazione, se non è nuova l'intiera composizione, nuovo è lo scenario, e l'atto di qualcuno che si scalda al fuoco ha tanta evidenza e forza di suggestione che già vi appare intero quel gusto dell'aneddoto, anche superfluo, che poi persistette nell'arte senese: la fante sembra gettare un motto, passando, e Pietro scansarlo con gesto franco. Hanno un tono nuovo e personale la narrazione e gli affetti, poiché D., pur non insensibile agli accenti patetici della seriore arte bizantina, li modulò più variamente moderandoli con un ritegno che meglio rammenta gli anteriori modi aulici di quell'arte e frena anche gli atti più commossi: l'azione drammatica, pur viva, è retta da una norma di equilibrio che la rende meno spontanea ma la compone con "classica" compostezza.

A codeste qualità corrisponde intera la forma pittorica, così nei suoi elementi formativi come nella sua individualità. Colore, volume e spazio vi stanno in un rapporto tutto proprio, che è l'individuale temperamento del pittore. Il colore è la qualità dominante: nei toni di porpora, di azzurro, di rosato rammenta la gamma delle miniature bizantine più delicate, come sono quelle del "Menologio" di Basilio II (976-1026) nella Biblioteca vaticana; ma, liberato dalle frastagliate lumeggiature proprie ai pittori bizantineggianti, va trapassando per tenui gradazioni. Queste servono a definire il volume piuttosto con morbidezza che con forza, avvolgendo i corpi in dolce chiaroscuro. E i valori di profondità si accordano con quella modellazione: essi non mancano; anzi ad alcuno sono parsi eccezionali; in realtà appariscono assai limitati dalle incertezze della prospettiva anche senza portarli all'insostenibile e non giustificato confronto con le opere in cui Giotto già aveva imposto il senso dello spazio e della profondità in modo ben altrimenti illusivo. La parte anteriore della "maestà" dimostra con massima evidenza quel ristretto senso spaziale che poi persistette, confermato dalle influenze gotiche, nella pittura senese anche oltre il Trecento: la prospettiva del trono della Madonna contrasta a ogni illusione di profondità; alla quale dà ben poco appiglio lo schema della composizione, a zone rinserrate e quasi sovrapposte di figure, derivato da remote tradizioni medievali, poi ripetuto ancora dalla pittura senese. Ma quella, come ogni altra parte dell'opera di D., veduta nel coerente complesso delle sue qualità, è un capolavoro: dalla lontananza religiosa, a cui è riportata per lo stesso schema di composizione, la "maestà" sembra avvicinarsi animata da un sorriso di grazia e di dolcezza che non è soltanto nei volti (il viso della Madonna è turbato da restauri) ma si esprime sommamente nel delicato colore e nel carezzevole chiaroscuro, mentre l'effetto ornativo dell'insieme è esaltato nella squisita finezza degli ornamenti - in cui D. inizia la sottile pittura decorativa senese del Trecento - dei nimbi, dei panni e delle vesti trapunte d'oro, specie nelle due sante goticamente drappeggiate.

Alla "maestà" vanno strettamente uniti, per caratteri e per altezza d'arte, alcuni dipinti da assegnare all'attività di D. in un periodo, forse assai lungo, nel quale la sua maniera, d'altronde di natura conservatrice, ebbe solo lievi variazioni; tra i quali dipinti ricordiamo la minuscola Madonna già della collezione Stroganoff (Bruxelles, raccolta Stoclet); un polittico dell'Accademia di Siena (n. 47), di fattura più larga e più prossimo alla "maestà"; un piccolo trittico della collezione reale di Londra (Buckingham Palace); la Madonna già a Montepulciano (Firenze, Uffizî), che non sembra in tutto opera schietta del maestro. Altri dipinti, invece, sono da porre in varia relazione con D., eseguiti nella sua bottega, o dai suoi imitatori, o più lontanamente ispirati a lui: un polittico dell'Accademia senese (n. 28), molto vicino al maestro; un trittico della stessa raccolta (n. 35), ecc. Dal primo gruppo si distingue una tavoletta (Siena, Accademia; n. 20: Madonna con tre devoti francescani) la cui attribuzione a D., incontestabile a qualunque confronto esterno con la "maestà", è confermata dalle squisite qualità d'arte. Essa si deve riferire a un tempo anteriore a quello delle altre opere del maestro, perché la forma plastica non vi ha quella fermezza e quei rapporti con il colore che nella "maestà" mostrano più maturata l'individualità dell'artista. Il colore vi prevale tanto da far pensare al cromatismo del Cavallini; la sua luminosità, quasi a macchia, in qualche parte richiama ancora il sovrapporre lumeggiature proprio della maniera più bizantineggiante, qui adoperato da artista che sembra ridargli il suo originario valore di espressione sommaria: e, quantunque lo sfondo del panno quadrettato sostenuto da angioli e il drappeggio della Madonna mostrino già una larga accettazione di modi gotici, quelle qualità pittoriche riconducono più verso le origini bizantine. Queste si scoprono anche meglio in altra tavoletta (Berna, Museo), eseguita minutamente come miniatura e pur solenne al pari d'una grande icone, forse di tempo un po' anteriore perché meno pervasa di goticismi e più improntata al "classicismo" e al patetico, nello stesso tempo, dell'arte bizantina. Ma è da supporre che nemmeno questi due cimelî ci presentino la maniera di D. in uno stadio assolutamente primitivo, che possiamo credere ignaro di ogni modo gotico; a ogni modo essi appartengono al periodo più giovanile che finora di lui ci sia noto.

Alcuni assegnano a un tempo primitivo dell'attività di D. la Madonna Rucellai in S. Maria Novella di Firenze, riferendo a quell'ancona il ricordato documento (1285) in cui la Compagnia dei laudesi commetteva al pittore una grande Madonna per la stessa chiesa. Ma gli argomenti estrinseci di tale attribuzione sono insufficienti: non vi è prova che la Madonna Rucellai sia appunto la tavola commessa dai laudesi, mentre è ovvio che S. Maria Novella dovette avere un'altra grande icone della Madonna, la quale potrebbe essere appunto quella a noi pervenuta. In quanto agli argomenti stilistici, la loro incertezza appare dalla stessa divergenza di opinioni tra i critici. La Madonna Rucellai ha rapporti con la maniera di Cimabue (v.), quali non si trovano affatto nelle opere certe di D.; ma, d'altra parte, si distingue dalle opere sicure di Cimabue per un sensibile avvicinamento ai concetti e ai modi di D.; perciò ragionevolmente, tra le opposte attribuzioni, può ritenersi di un seguace di Cimabue che abbia riguardato anche al maestro senese, iniziando quei compromessi tra la pittura fiorentina e la senese poi ripetuti nel Trecento, come dimostra l'arte del Daddi (v.). Fiorentine, della fine del Duecento, e da collegare variamente alla Madonna Rucellai sono la Madonna della raccolta Gualino e quella della chiesa di Mosciano presso Firenze; un'altra Madonna già in S. Cecilia a Crevole (Siena, Museo del duomo), pur ricordando Cimabue è assai più prossima a D. ma non basta a colmare il divario di qualità plastiche e cromatiche tra la Madonna Rucellai e la "maestà" di Siena, alla cui unione mancano per ora troppi trapassi.

D., per sé creatore, fu un iniziatore, per la pittura senese, del Trecento. Sopravvenne a Siena, lui vivente, un nuovo influsso gotico e volse ad altri modi Simone Martini e i Lorenzetti; ma pur in questi si risente la discendenza da D., la quale anche dopo appare in riflessi di composizioni, di tipi, di forme di cui la "maestà" offriva l'esempio. Egli fu il primo rivelatore e assertore di caratteri e d'intenti poi perenni nella pittura senese, rivolta alla decorazione, alla devota contemplazione più che alla profonda commozione degli affetti, infine a ornare più che a costruire profondità di spazî o rilievo di forme. (V. tavv. XLV-XLVIII).

Bibl.: G. Milanesi, Documenti per la storia dell'arte senese, Siena 1854, I, pp. 166-169; A. Lisini, in Boll. senese di storia patria, 1898, p. 20; Cavalcaselle e Crowe, Storia della pittura italiana, III, Firenze 1885, pp. 1-23 (vedi anche l'ediz. inglese con note di R. Langton Douglas, Londra 1903); B. Berenson, The Central Italian Painters, 7ª ed., New York 1908; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, V, Milano 1907, pp. 63-80 e 554-90; C. H. Weigelt, D. di Buoninsegna, Lipsia 1911; G. De Nicola, Mostra di opere di D. e della sua scuola, Siena 1912; id., in The Burl. Mag., XXII (1912), p. 147 segg.; W. De Grüneisen, in Rass. d'arte senese, VIII (1912), pp. 15-51; Weigelt, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, X, Lipsia 1914 (con ampia bibl.); R. v. Marle, Recherches sur l'iconogr. de Giotto ed de D., Strasburgo 1920; id., The Develop. of the Italian Schools of painting, II, L'Aia 1924-, pp. 1-67; P. Toesca, St. dell'arte ital., I, Torino 1927, pp. 993-1012; id., in L'Arte, n. s., I (1930), pp. 1-2; E. Cecchi, Trecentisti senesi, Roma 1928, pp. 15-50. C. H. Weigelt, in Art in America, XVIII (1930), pp. 3-25 e 105-20; id., La pittura senese del Trecento, Bologna 1930, pp. 1-17; S. Kennedy North, in The Burl. Mag., LVII (1930), p. 205; V. Lasareff, ibid., LIX (1931); pp. 154-169.

Vedi anche
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