Economia e politica industriale
A partire dai primi anni sessanta è comparso e si è gradualmente diffuso negli statuti di alcune facoltà universitarie italiane (economia e commercio, scienze politiche, ingegneria) un nuovo insegnamento individuato con nomi diversi (economia e politica industriale, economia industriale, economia dei settori industriali, ecc.). Del pari, è gradualmente emersa un'ampia letteratura sull'argomento, dai manuali ai volumi riguardanti aspetti particolari, ai saggi specialistici; non sono mancate inoltre rilevanti ricerche empiriche mentre sono nate riviste scientifiche specificamente dedicate a questo settore.Malgrado tale rapida affermazione, non s'è avuto un comune modo di intendere i contenuti oggetto della materia: le interpretazioni sono infatti oscillate da letture del sistema economico, senza soluzione di continuità con le proposte della teoria neoclassica, ad altre di taglio più aziendale o centrate su momenti particolari dell'attività produttiva (innovazione, tipologia della concorrenza, ecc.).
In realtà questo insieme di studi traspone quanto nella ricerca economica anglosassone è stato raccolto sotto il titolo industrial organization; esso ha preso crescente consistenza con l'aumentare di complessità dell'apparato produttivo e con la crescita delle imperfezioni dei mercati, in rapporto alle quali l'esistente impianto teorico e conoscitivo è apparso affetto da discrepanze e lacune.In particolare, l'economia industriale ha trovato spazi importanti lasciati aperti dalle insufficienze interpretative dell'approccio neoclassico la cui indubbia concezione sistemica e globale del funzionamento dell'apparato economico si era andata sempre più dimostrando condizionata da ipotesi di base fortemente limitative.
S'è di conseguenza avvertita la necessità di una linea di approfondimento che non perdesse di vista la realtà, le scelte, i risultati delle imprese come unità costitutive dell'apparato produttivo e considerasse al tempo stesso le interrelazioni tra le stesse e il sistema che ne risulta. S'è precisato in questo senso un campo di studio che partecipa a un tempo degli aspetti microeconomici e macroeconomici della realtà, largamente centrato sull'attività di produzione di beni e servizi, sulle relazioni intercorrenti tra operatori e massa degli utenti-consumatori, sugli aspetti organizzativo-istituzionali da ciò sollecitati.L'acquisizione di adeguati livelli di conoscenza della struttura e del funzionamento dell'apparato genera le condizioni per passare a momenti propositivi nella fattispecie di interventi intesi a sopperire a carenze o a promuovere miglioramenti là dove si rivelino necessari.
L'impianto teorico dell'economia industriale crea, in tal senso, le condizioni per precisare le linee di fondo di una politica industriale, concepibile in parte come alternativa, in parte come complemento alle politiche macroeconomiche, non di rado praticate in condizioni d'urgenza e nel perdurare delle insufficienze nascenti dall'inesistenza o dall'inadeguatezza di interventi capaci di incidere sugli aspetti strutturali dell'apparato produttivo e distributivo.
Il processo attraverso il quale il campo di studio s'è venuto precisando ha avuto carattere graduale, e si è manifestato mano a mano che andava emergendo l'insufficienza interpretativa dell'approccio neoclassico. Esso ha interessato un apprezzabile periodo di tempo (40-45 anni) nel corso del quale sono emersi numerosi contributi, diversi tra di loro per obiettivi, metodo di lavoro, lessico e terminologia adottati. L'economia industriale, quale oggi è conosciuta, è la risultante di questo lavoro di analisi e di questi approfondimenti.Il punto di partenza va identificato nella fragilità della teoria tradizionale nel momento in cui si è posta di fronte al tema della produzione e dell'analisi dell'offerta. Essa fondava in effetti il proprio impianto analitico su ipotetiche unità operative dagli attributi tecnologici estremamente semplici (si tratta normalmente di imprese monoprodotto, operanti con processi produttivi descritti tramite funzioni di produzione continue e implicanti di norma non più di due fattori produttivi). Inoltre, quelle stesse unità produttive risultano oggi, a un esame critico, quali soggetti preprogrammati sull'obiettivo della massimizzazione del profitto e come tali concepiti funzionalmente rispetto all'intento finale di identificare le condizioni descrittive dell'equilibrio generale.
È comprensibile come, da concezioni siffatte, derivasse una sostanziale insoddisfazione in merito alla capacità di interpretare il comportamento economico dell'impresa nel concreto, rispetto al quale l'analisi appariva eccessivamente astratta e, al limite, addirittura fuorviante. Altrettanto poco condivisibile era, di conseguenza, la possibilità d'interpretare le linee evolutive di fondo del sistema delle imprese colto nei suoi aspetti strutturali e nella sua dinamica.Si è delineata una precisa esigenza di aprirsi alla considerazione attenta dei risultati che si venivano acquisendo in altri campi di studio: dall'analisi della tecnologia e dei comportamenti individuali o collettivi, alla teoria dell'organizzazione, all'approfondimento statistico ed econometrico. Dalle insufficienze neoclassiche ha preso le mosse dunque un iter di ricerca fondato essenzialmente su due diversi filoni: il primo, caratterizzato dall'ulteriore elaborazione e adattamento delle proposizioni teoriche di partenza nella presa di coscienza progressiva dell'imperfezione crescente e mutevole dei mercati (v. Tirole, 1988); il secondo, qualificato dai contributi della ricerca empirica, fondata sia sul pur frammentario metodo dei casi, sia sugli studi sistematici di insiemi sufficientemente ampi di informazioni (v. Schmalensee e Willig, 1989).Il duplice approccio di studio poteva in realtà generare le premesse per una nuova e poco costruttiva contrapposizione tra teoria e pratica, stante la difficoltà indubbia di saldare una linea interpretativa - tutto sommato ancorata alle esigenze di integrazione e di quadratura tra equilibri parziali ed equilibri generali - con la varietà dei risultati di analisi introspettive di specifiche problematiche o di particolari situazioni, per loro natura non gravate dalla preoccupazione di trovare posto in una sintesi coerente.
Una lettura definitiva e unitaria ha stentato e tuttora stenta a emergere. Il lavoro di ricerca ha nondimeno posto in evidenza acquisizioni precise sul piano della conoscenza: dal cambiamento della struttura e del grado di concentrazione nell'apparato produttivo, al delinearsi della separazione tra proprietà e direzione, all'emergere di scelte e linee strategiche quale risultato della contrapposizione e interazione di comportamenti diversi. Su questi frammenti di realtà, faticosamente derivati con caratteri di sufficiente stabilità, sono maturate le prime proposte di sintesi interpretative tuttora in fase evolutiva.
Il fatto cruciale sul quale matura la consapevolezza dell'imperfezione dei mercati è la non omogeneità dell'offerta, originata dalle politiche del prodotto intese a differenziarlo. Negli spazi di mercato, prima considerati perfettamente uniformi, si generano aree di influenza, più o meno accentuata, di ciascuna impresa, ciò che consente di abbandonare l'ipotesi della totale impossibilità d'influire sul livello del prezzo esistente sul mercato. L'abbandono dell'immagine di una funzione di domanda parallela all'asse delle ascisse, con ovvia costanza dell'incasso marginale, e la sua sostituzione con l'immagine nuova di una funzione caratterizzata da una certa pendenza negativa, coincidono con l'ammissibilità di un certo campo di scelte aperto alla singola unità produttiva. La concezione dell'impresa quale particella preprogrammata sul massimo profitto in funzione della determinabilità dell'equilibrio generale, esce gradualmente smorzata per lasciare spazio all'esercizio di un minimo di individualità, almeno a livello di coppie volumi/prezzo. I contributi di P. Sraffa (v., 1925 e 1926), J. Robinson (v., 1933) ed E. H. Chamberlin (v., 1933) implicano questo grado di realismo, sintetizzabile nel lasciare emergere la possibilità di una certa manovra del prezzo aperta anche all'impresa di dimensione minore.
Questo avvicinamento alla realtà torna tuttavia a stemperarsi allorché la proposta interpretativa della concorrenza monopolistica riprende come obiettivo la determinazione di un volume complessivo di offerta e di un livello di prezzo valido per tutti gli operatori. Chamberlin formula a tal proposito la famosa ipotesi 'eroica' tesa a conciliare l'inconciliabile, ossia a riportare all'omogeneità quanto s'è dimostrato essere differenziato. L'ipotesi passa attraverso la definizione di una domanda di settore, identificata da livelli di prezzo e determinazione di quote di mercato, quale sintesi tra le aspettative di domanda delle singole imprese e la ridefinizione delle stesse per effetto dell'estendersi uniforme delle singole scelte. Allo stesso modo viene considerato un andamento dei costi unitari medi e marginali caratterizzato dall'ipotesi di uniformità della tecnica utilizzata: attributo questo difficilmente sostenibile in una situazione fondata su prodotti differenziati. La conclusione alla quale approda la teoria della concorrenza imperfetta si specifica in un volume complessivo di offerta e in un prezzo unico e comune, rispettivamente inferiore e superiore a quelli riscontrabili nell'omologa situazione di concorrenza perfetta: il volume di offerta è infatti ancora identificato in corrispondenza del punto in cui si verifica la coincidenza tra costo marginale e incasso marginale e tra costo unitario medio e prezzo. Questa coincidenza si verifica tuttavia lungo il tratto discendente della curva del costo unitario medio, dato che la funzione di domanda presenta un'inclinazione negativa.Il contributo dell'impostazione teorica della concorrenza monopolistica ha avuto il pregio di aprire l'analisi alla realtà della differenziazione e dell'individuazione di aree d'influenza particolare di singole imprese. La preoccupazione di non rompere con l'armonia dell'equilibrio generale ha tuttavia avuto l'effetto di attenuarne fortemente le potenzialità ai fini di un'efficace lettura dell'apparato produttivo. Le forzature del reale sono in effetti tali da suggerire la conclusione secondo la quale la finalità di colmare la separazione tra teoria e pratica ha compiuto pochi passi avanti o forse nessuno (v. Triffin, 1941).Nella consapevolezza di questi limiti si può nondimeno affermare che il tormentato emergere di tale lettura teorica non è stato inutile, in rapporto al maturare dell'economia industriale. Secondo D. A. Hay e D. S. Morris (v., 1979) esso ha aperto la possibilità di meglio conoscere e classificare le strutture di mercato portando l'analisi a un notevole livello di raffinatezza, che più tardi sarà ripreso da E. S. Mason (v., 1939) e da J. S. Bain (v., 1956) per definire ipotesi di collegamento tra assetto del mercato e risultati conseguibili, verificabili empiricamente.Per precisare i contenuti dell'economia industriale si può quindi affermare che la presa di coscienza dell'inadeguatezza del modello di concorrenza perfetta, dei fattori di tipo monopolistico che in qualche grado caratterizzano tutte le imprese, della connessione tra forme di concorrenza e tipologia dei prodotti, da un lato, e il manifestarsi delle curve di domanda e dei costi, dall'altro, ha fatto emergere l'esigenza di analisi fondate sui dati concreti, in grado di rispecchiare efficacemente la struttura dei mercati e dei processi produttivi.
S'è aperta per tale via un'occasione di approfondimento, i cui risultati sono andati oltre le teorizzazioni della concorrenza monopolistica per cogliere il continuum del manifestarsi delle imperfezioni dei mercati, sì da superare le classificazioni esistenti per precisare le interrelazioni tra le singole imprese e i rivali. È maturato su queste basi il filone interpretativo delle moderne teorie dell'oligopolio che hanno tuttora il loro riferimento nello studio di Paolo Sylos Labini (v., 1956) e nelle ricerche che con questo hanno interagito: dagli scritti di J. S. Bain (v., 1956) a quelli di F. Modigliani (v., 1958). Uno dei pregi di queste letture dell'apparato produttivo sta nella migliore precisazione del concetto di 'struttura' del mercato che va al di là della semplice enumerazione delle presenze operative per considerare simultaneamente le caratteristiche della domanda, in termini di estensione complessiva e di elasticità, e il grado di introduzione e di diffusione del progresso tecnico. In un contesto siffatto, i comportamenti adottati dai singoli operatori possono condurre a stati di quiete interpretabili come equilibri temporanei e limitati, sintesi a un tempo della tecnologia esistente e della distribuzione del potere. Essi non sono più leggibili secondo gli schemi semplificati del tipo stimolo-risposta, ma rispondono a scelte autonome; ogni imprenditore diviene pertanto 'attore' nella costruzione degli stati risolutivi finali, tramite le proprie decisioni e l'interazione con gli operatori rimanenti.
La complessa problematica trova una sintetica espressione nei modelli derivati dalle diverse impostazioni teoriche. Nel segno di una continuità di ricerca esse si identificano inizialmente con quelle proposte da A. Cournot (v., 1838) e da J. Bertrand (v., 1883), nelle quali le variabili oggetto di scelta da parte delle imprese sono prezzi e volumi di produzione (ovvero quelle non soggette a controllo nella concorrenza perfetta), mentre è assunto come dato il comportamento degli operatori concorrenti. Per i maggiori gradi di libertà rispetto all'ipotesi concorrenziale gli schemi alla Cournot-Bertrand offrono una prima base per il successivo sviluppo di impostazioni di tipo strategico; per l'assunzione restrittiva circa l'atteggiamento degli altri imprenditori, il loro contenuto strategico appare limitato. Tale limite si attenua fino a scomparire man mano che ognuno degli operatori assume il ruolo d'attore sullo scenario economico e come tale dà vita a proprie autonome strategie. Come riassume A. Jacquemin (v., 1987), "nei modelli strategici si suppone essenzialmente che gli agenti economici siano in grado di assumere una posizione, finanziaria o psicologica, tale da dissuadere e limitare le azioni e le reazioni delle imprese rivali, sia effettive che potenziali".
Emergono in queste concezioni, nella loro portata risolutiva, le barriere all'entrata, risultato di decisioni adottate in concreto dai diversi operatori, mentre, sul piano metodologico, dai vari modelli descrittivi l'analisi si apre alla teoria dei giochi nelle due fattispecie di quelli cooperativi e di quelli non cooperativi (v. Kreps, 1990). Nell'intento di meglio aderire alla problematica reale, tali schemi interpretativi tengono conto dell'insufficiente o mancata disponibilità di informazioni, abbandonando le analisi sotto certezza e aprendosi a schemi probabilistici o a modelli bayesiani.
Nella fluidità e complessità di questo contesto, partendo dalla differenziazione del prodotto, è venuto precisandosi il concetto di concorrenza spaziale: gruppi di operatori, collegati tra di loro e caratterizzati dalla presenza omogeneizzante in determinate aree, sviluppano rapporti di tipo competitivo. Lo stesso criterio di identificazione delle attività produttive, fondato sul concetto di settore, evolve nell'accettazione di quello di 'filiera', in cui si identifica la rete di rapporti che collegano, in un intreccio di offerta e trasformazione produttivo-distributiva, gli operatori presenti in un contesto determinato. Quando si tenga conto di questi aspetti si può capire come la presa di coscienza dell'imperfezione dei mercati identifichi un'evoluzione degli studi di economia industriale verso una problematica assai ampia, l'analisi della quale ha generato un'integrazione e un affinamento dei risultati utilizzabili.
Su queste basi s'è sviluppato un approccio di studio strettamente fondato sulle informazioni concretamente acquisibili sulle imprese e sui settori nei quali esse operano. Si è largamente attinto ai dati economico-finanziari, trattandoli mediante metodi econometrici: le sintesi ottenute per questa via hanno consentito la proposta di generalizzazioni, il cui valore sta nella loro forte connessione con la realtà che, in un certo grado, le ha suggerite. In questo senso la linea seguita dall'analisi rivela caratteri induttivi che capovolgono la precedente impostazione, tendente a definire a priori uno schema interpretativo nel quale la realtà osservabile doveva forzatamente rientrare. Il beneficio più rilevante di quest'impostazione consiste nella notevole apertura problematica, alla base della quale sta la rilevanza implicitamente assunta dal fattore discrezionale che muove le scelte delle singole imprese nell'ambito del settore industriale. Si delinea in merito il possibile conflitto sulla rilevanza da attribuire all'andamento economico di un'intera industria o di un mercato, con particolare riferimento alle reazioni ai cambiamenti, colte a livello aggregato o a quello delle specifiche unità produttive. L'interrogativo tende, in ultima analisi, a mettere in luce se sia l'ambiente a determinare le condotte delle imprese o viceversa: domanda non inutile, destinata com'è a sfociare, anche sul piano della politica industriale, nel coordinamento tra la pianificazione individuale e le dinamiche e gli obiettivi di natura generale.
È dato cogliere a questo proposito l'interconnessione tra il precisarsi dell'economia industriale e i contributi più significativi dell'analisi economica dell'impresa. Forte importanza assume l'esplicitazione della gamma degli obiettivi di breve, medio e lungo termine che animano l'azione imprenditoriale, a sua volta risultante quale momento di sintesi tra le ottiche di quanti forniscono i capitali e quanti operano nell'ambito del mandato e delle competenze manageriali. La concezione dell'impresa neocapitalistica di A. A. Berle e G. C. Means (v., 1932) offre, in questo contesto, la possibilità di analizzare e di approfondire la teoria comportamentistica (v. Cyert e March, 1963) sulla quale si innesta la teoria del capitalismo manageriale, che ha in W. J. Baumol (v., 1959) e O. Williamson (v., 1964) gli antesignani e in R. Marris (v., 1964) il più completo modellizzatore. Merito rilevante di questi studi è stato quello di cogliere nella realtà il frantumarsi della figura monolitica dell'imprenditore in una molteplicità di soggetti, impegnati in funzioni diverse e portatori di obiettivi differenti e, potenzialmente o concretamente, in conflitto tra di loro. In questo contesto l'obiettivo dello sviluppo, misurato da una varietà di parametri individuabili nella concretezza dell'impresa, assume il carattere di una sintesi tra le molteplici finalità manageriali e il raggiungimento di un profitto in grado di soddisfare le attese dei portatori di capitale. I due orientamenti trovano integrazione nella modellistica del capitalismo manageriale tramite la messa a fuoco della strategia della scalata (take-over), resa possibile dall'abbassamento del valore delle azioni dell'impresa, causato dal calo del livello dei profitti (e dei dividendi) provocato dal graduale prevalere dell'orientamento verso la crescita.
Lo sviluppo, inteso anche in senso qualitativo, diviene in questa linea di studio il potenziale elemento di passaggio dall'analisi delle problematiche a livello microeconomico a quella a livello macroeconomico: potrebbe essere l'insieme delle scelte delle imprese, così orientate, a determinare l'andamento delle grandezze rilevabili a livello di ramo produttivo. L'osservazione non è di breve momento in quanto va a incidere sulla proponibilità dello schema logico-classificatorio proposto da F. M. Scherer (v., 1970) e assunto a paradigma per l'analisi empirica dei settori industriali: l'assunto strutturalista secondo il quale la struttura dei mercati determinerebbe le condotte delle imprese e queste infine condizionerebbero i risultati appare infatti perfettamente reversibile. A determinare tale esito è, in ultima analisi, l'accettazione della discrezionalità che di fatto informa le condotte. In realtà il raccordo tra momento microeconomico e momento macroeconomico rimane in larga parte ancora da definire. Numerosi studi traggono da queste finalità interessanti spunti per proporre nuove linee di approfondimento: possono essere segnalati quelli impegnati sul versante degli effetti di trascinamento che l'evoluzione delle variabili aggregate avrebbe sull'andamento delle realtà individuali, o quelli centrati sull'effetto propulsivo e operante trasversalmente del progresso tecnologico. Nel fervore delle proposte, della molteplicità degli obiettivi enunciati e delle variabili sotto osservazione è reale il pericolo di smarrirsi sì da non riuscire a ricondurli a unità. Importa in ogni caso sottolineare come gli studi centrati su dati empirici abbiano segnato un avanzamento rispetto all'approfondimento dell'ipotesi della concorrenza monopolistica e abbiano avuto il merito non trascurabile di mettere in rilievo il ruolo dell'impresa nelle dinamiche dei mercati.
In realtà lo studio dell'impresa interferisce con quello del sistema al punto che l'economia dell'impresa e l'economia industriale rappresentano due momenti d'uno stesso campo di ricerca. L'evoluzione è tanto più evidente ai tempi attuali, dal momento che l'istituzione impresa tende non tanto a essere un soggetto che concorre a formare il mercato quanto a sovrapporsi a esso e, al limite, a incorporarlo. Con l'affermarsi delle strutture immanenti e capillari dei gruppi, emergono nuclei costituiti da un fitto intreccio di transazioni, sostitutivo del mercato; la stessa interazione tra domanda e offerta (sia dei fattori produttivi che della produzione) tende a essere trasferita all'interno delle istituzioni.Sull'argomento, come bene sintetizza S. Zamagni (v., 1987²), si sono espressi diversi autori volti a individuare le motivazioni della tendenza. L'idea originale proviene da R. H. Coase (v., 1937), il quale mette l'accento sui costi d'uso del mercato, ossia sugli oneri che si devono sopportare per operare direttamente su di esso, riconducibili essenzialmente a imperfezioni e ad asimmetrie informative. Tali costi possono rendere preferibile per l'impresa evitare le transazioni dirette sui mercati, tramite l'internalizzazione delle stesse. È quanto avviene in concreto quando ad esempio, mediante joint ventures, investimenti diretti o forme diverse di accordi contrattuali, si formano gruppi, integrati verticalmente, all'interno dei quali fornitori e utilizzatori sono coordinati da un programma centralizzato. K. J. Arrow (v., 1974) sviluppa l'intuizione di Coase, centrata sul ruolo dell'informazione: questa può cioè essere meglio dominata e utilizzata all'interno di un'istituzione, per quanto grande, piuttosto che in un ampio contesto qual è un mercato. L'enorme molteplicità dei rapporti che su quest'ultimo prendono vita, con i relativi costi, può essere di molto ridotta nell'ambito di un'organizzazione al cui interno siano ben precisi le linee di potere e gli schemi di collegamento.
A. Alchian e H. Demsetz (v., 1972), guardando all'impresa-organizzazione secondo uno schema neoclassico, introducono il concetto di sinergia che caratterizza la produzione di squadra, fondata sull'apporto coordinato di una pluralità di fattori: l'istituzione impresa, con i suoi managers e il necessario apparato organizzativo, sarebbe dunque in grado, meglio del mercato, di controllare il contributo dei singoli fattori e di attribuire loro la quota di spettanza in termini di produzione.
In un'ottica più concreta, le linee portanti della tendenza alla sovrapposizione dell'organizzazione imprenditoriale al mercato sono individuabili nei cambiamenti (in senso riduttivo oppure espansivo) dei gradi di integrazione verticale e orizzontale, con la conseguente formazione di unità produttive complesse.
Nella stessa direzione si muovono le proposte del progresso tecnologico: esse hanno offerto negli anni recenti e tuttora offrono l'occasione per introdurre nei processi produttivi gradi più avanzati di meccanizzazione dai quali deriva un irrigidimento delle strutture di costo. Ne possono discendere rinnovate occasioni di economie di scala, acquisibili con il raggiungimento di elevati livelli di fatturato tramite il collocamento di una produzione diversificata. A sua volta, questa è resa possibile dalle innovazioni di prodotto, come risultato combinato dell'attività di ricerca e sviluppo e della flessibilità dell'offerta, consentita da una meccanizzazione sempre più intrecciata con l'elettronica. Nasce l'esigenza di acquisire, in tempi brevi, competenze tecniche, sbocchi di mercato, risorse umane e finanziarie; un risultato possibile tramite processi di tipo aggregativo, dai quali possano derivare sistemi d'impresa integrati, organizzativamente complessi, o forme di collegamento più blande nelle quali le imprese, pur connesse tra di loro, non perdono la loro individualità (joint ventures o interlocking directorates). Sottese a quest'evoluzione sono le potenzialità nascenti dalla mobilità e dalla conseguente possibilità di allocazione ottimale delle risorse finanziarie disponibili, distolte da destinazioni prossime alla maturità o meno promettenti e indirizzate verso quelle suscettibili di maggiore sviluppo. Resta in ogni caso il problema, certo non insignificante, di ricavare i propri spazi vitali rispetto ad altre unità produttive, già presenti sui mercati, e di definire e sostenere i 'valori' dei beni e dei servizi offerti; la risoluzione di questo problema concorre a determinare i già ricordati 'costi di transazione', per contenere i quali le nuove realtà imprenditoriali tendono a inglobare al loro interno le relazioni e i rapporti conflittuali altrimenti presenti sui mercati.Si intuisce da queste considerazioni come la sfida a interpretare correttamente una realtà produttiva complessa, nella cui formazione è dato cogliere lo sfumare dell'unità di riferimento tecnica (lo stabilimento) nell'unità economica (l'impresa) e, finalmente, nella realtà finanziaria del gruppo, finisca con il dare rilievo a una chiave di lettura di tipo organizzativo-sistematico. Non per nulla nella 'nuova' economia industriale acquista sempre maggiore importanza la 'teoria dell'organizzazione', quasi a riproporre l'originaria espressione industrial organization.
Emerge il ruolo dei comportamenti delle singole imprese nel determinare il proprio cambiamento e, con questo, il mutamento del sistema che le comprende. Anche sotto questo aspetto si assiste a un ridimensionamento dello schema interpretativo legato alla successione logica: strutture, condotte, risultati. Nell'impostazione strutturalista infatti era implicita la conclusione che, essendo le strutture a determinare le condotte e queste i risultati, bastavano le prime a determinare gli ultimi.Ciò equivaleva a minimizzare il peso dei comportamenti nell'evoluzione dell'apparato produttivo. L'approfondimento delle linee lungo le quali il cambiamento avviene sta invece rovesciando tale convinzione e mette decisamente in rilievo l'importanza della connessione tra lo sviluppo delle unità produttive e lo sviluppo del sistema complessivo quale naturale evoluzione del campo di studio dell'economia industriale.
La lettura economica dell'impresa con le sue problematiche e dell'industria della quale essa fa parte, tende a dividersi in due momenti di uno stesso corpo di studi. Quanto più l'impresa diviene complessa, tanto più si allontana dalla concezione che ne faceva un soggetto minimale, strutturalmente orientato alla massimizzazione del profitto nel breve termine e funzionale al raggiungimento dell'equilibrio generale. Al suo interno emergono ruoli diversi, potenzialmente decisori, con le loro specifiche aree di responsabilità e relative sfere di autonomia. L'essere e l'evolvere dell'impresa sono la risultante, non senza scontro e tensioni, di decisioni diverse. Il profitto cessa di essere finalità esclusiva per lasciare spazio a una gamma di obiettivi. Parallelamente, scelte e comportamenti non risultano più finalizzati all'ottimizzazione degli obiettivi, bensì alla ricerca di soluzioni ritenute soddisfacenti in rapporto al raggiungimento e mantenimento degli stessi.
Agli equilibri si sostituiscono momenti di quiete alternati a fasi di turbolenza. Le situazioni 'soddisfacenti' non sono peraltro destinate a durare, intaccate come sono dai mutamenti nello scenario, dalle proposte di cambiamento che ne derivano, dall'emergere di nuove finalità. La ricerca di aderenza tra obiettivi e risultati rappresenta il criterio animatore delle scelte e della gestione dell'impresa: il continuo verificarsi di mutamenti tecnologici e istituzionali è di stimolo al maturare di nuove strutture produttive e organizzative ed è all'origine del succedersi continuo di routines e fasi di ricerca che, mettendo in crisi gli stadi di sviluppo raggiunti, tendono a orientare l'impresa verso nuovi traguardi.
Questa interpretazione del cambiamento economico-strutturale in chiave 'evoluzionistica', nella quale è trasparente il contributo di H. A. Simon (v., 1955) e dei più recenti lavori di R. Nelson e S. Winter (v., 1982), è fondata sull'ipotesi secondo cui lo spostamento dall'una all'altra routine è sollecitato dal conseguimento di risultati insoddisfacenti e, contemporaneamente, dall'aspettativa di poter reagire ad essi tramite l'adozione di nuove tecniche, la promozione di nuovi prodotti, l'uscita da mercati in fase di maturità. Alla base di un simile funzionamento sta l'assoluta flessibilità del modo di concepire l'attività di impresa e delle strutture manageriali e materiali attraverso le quali essa si esprime. La routine innovativa si salda con la programmazione, intesa a fissare gli obiettivi, con il controllo dei risultati conseguiti e con la rilevazione degli scostamenti destinati a provocare nuove occasioni di cambiamento.
L'integrazione tra singole unità produttive e sistema economico si concreta nelle ricadute delle scelte innovative sulla dinamica delle macrograndezze nelle quali le variabili tipiche dell'impresa trovano aggregazione. Teoria dell'organizzazione dell'impresa e sociologia della conoscenza divengono campi conoscitivi rilevanti, nei confronti dei quali la nuova economia industriale si riconosce debitrice, in un approccio in cui è parimenti evidente la matrice schumpeteriana. In questa impostazione emerge un modello d'impresa fondato sul concetto di impresa-organizzazione, rappresentabile appunto attraverso routines e orientata a seguire un comportamento soddisfacente e non massimizzante. Nello stabilire gli obiettivi ai quali tendere e le scelte da adottare ha largo spazio l'esperienza passata, sicché ogni impresa spicca nella propria individualità gestionale e si differenzia dalle rimanenti. Nella concezione di Nelson e Winter il tendere verso nuove routines gioca pertanto un ruolo cruciale: il mancato raggiungimento degli obiettivi stabiliti determina l'inizio del processo di ricerca che terminerà nel momento in cui le imprese avranno adottato nuove linee d'azione.
I cambiamenti che si producono nel sistema produttivo sono dunque la risultante del processo d'integrazione delle eterogenee scelte decisionali compiute dalle imprese. D'altra parte il loro adattamento all'alterarsi delle condizioni esterne si pone come condizione necessaria alla loro sopravvivenza vitale nell'industria. Ne offrono un esempio gli effetti delle variazioni nei prezzi relativi: la reazione immediata dell'impresa sarà quella di mutare il proprio assetto utilizzando lo stock di capitale e il know-how esistenti nel sistema, non discostandosi in ciò dalla lettura che ne farebbe una modellizzazione di stampo neoclassico. A questo stadio succede tuttavia la ricerca attiva di nuove routines, in specie se non vengono raggiunti gli obiettivi prefissati, nell'intento di superare le limitazioni poste dalle strutture esistenti agli stimoli impressi dalle variazioni dei prezzi. Ne deriva l'avvio di un processo di selezione, interno all'industria, sollecitato dall'interazione tra cambiamento dei prezzi, stock di capitale (e quindi dimensione), risultati economici.
È tuttavia necessario sottolineare come questa concezione venga approfondita e modificata in una lettura moderna della fenomenologia evolutiva. L'attenzione cade in particolar modo sui fattori in grado di influire sull'intensità e sulla velocità dell'innovazione, nonché sulla direzione che essa assume. Ne deriva la messa a fuoco di due diversi tipi di modelli interpretativi, fondati rispettivamente sul ruolo trainante della domanda (demand pull) o sull'autonomia del progresso tecnologico (technology push). Sull'argomento è gradualmente emerso un organico corpo di studi maturati in ambito internazionale e soprattutto presso la SPRU (Science Policy Research Unit dell'Università del Sussex) a opera di C. Freeman (v., 1982²) e K. Pavitt (v., 1984), al quale ha significativamente contribuito G. Dosi (v., 1984). A questi si devono la precisazione e la diffusione di nuovi strumenti interpretativi mediati dalla filosofia della scienza, quali il 'paradigma tecnologico' come insieme sistematico delle opportunità offerte all'innovazione, e la 'traiettoria tecnologica' quale linea evolutiva di medio termine lungo la quale esse tendono a collocarsi. In armonia con la letteratura sull'innovazione sono inoltre definiti e utilizzati i concetti di 'cumulabilità del progresso tecnico', come forma di accumulazione immateriale delle conoscenze, di 'opportunità tecnologica' quale offerta concreta dell'occasione per innovare, di 'appropriabilità dell'innovazione', che teorizza ed esprime, per il contesto oligopolistico, la mancata diffusione del cambiamento. Tali strumenti hanno gradualmente costituito un patrimonio conoscitivo per un'analisi che è stata particolarmente attenta e profonda in F. Momigliano (v., 1975; v. Momigliano e Dosi, 1983); in particolare, egli ha posto nella massima evidenza la necessità di individuare le specificità industriali tramite il ricorso a modelli fondati sull'azione differenziata sia delle opportunità tecnologiche, sia del diverso grado di appropriabilità.
Nella complessa intelaiatura di azioni e reazioni tra progresso tecnico e variabili esplicative si enuclea il filone forse più rilevante degli studi di Nelson e Winter, che analizza il collegamento tra progresso tecnico e forme di mercato, e si rifà al pensiero di J. A. Schumpeter (v., 1942) allorché analizza la grande impresa e le economie di scala del processo innovativo.
Secondo questo approccio, sulla struttura di un'industria influiscono numerosi fattori esogeni. In settori nei quali non siano sensibili le prospettive di economie di scala, ma al tempo stesso sia elevato il tasso di progresso tecnologico, il grado di concentrazione è codeterminato dalla politica aggressiva di investimento, dal tasso di crescita della produttività latente, dalla difficoltà del processo imitativo e dalla variabilità dei risultati dell'attività innovativa da parte dell'impresa. In ultima analisi, quindi, in assenza di rilevanti economie di scala, la struttura di un'industria a elevato grado di tecnologia è influenzata da tre fattori esogeni: la curva della domanda, le condizioni di appropriabilità e di convenienza dell'innovazione.
A un livello di maggiore approfondimento e ancora nel solco schumpeteriano, il filone di analisi di Nelson e Winter offre materia di riflessione sul trade-off tra efficienza distributiva e progressività tecnologica. In una concezione statica, una situazione di tipo oligopolistico-monopolistico non presenta caratteri ottimali, dal momento che determina la sottrazione di parte della rendita del consumatore e, di conseguenza, una perdita di efficienza nella distribuzione della ricchezza. Sotto il profilo dinamico, viceversa, un certo grado di potere di mercato appare funzionale a una desiderabile progressività tecnologica, sia per l'entità, in valore assoluto, delle risorse necessarie all'espletazione dell'attività di ricerca e di sviluppo, sia per la possibilità di sfruttare commercialmente un'innovazione. Ne deriva la possibilità di trarre due conclusioni in tema di relazione tra innovazione e forme di mercato. La prima, di netta derivazione schumpeteriana, riguarda la biunivocità della relazione: una data forma di mercato non è solo condizione necessaria per il successo di una politica orientata all'innovazione, ma altresì conseguenza di innovazioni riuscite. La seconda sottolinea la distinzione tra potere di mercato e dimensione: il potere determina una barriera protettrice intorno all'impresa innovativa contro le politiche aggressive delle imprese imitatrici; la dimensione consente viceversa agli imitatori di fruire dei vantaggi delle innovazioni altrui, rese possibili da un rilevante ammontare della produzione.
Si comprende da questo insieme di considerazioni come la nuova economia industriale si fondi su un'ottica di tipo dinamico (evolutivo) e assuma al centro della propria analisi la singola unità produttiva. Mentre, da un lato, vengono enfatizzati la diversità delle imprese e il ruolo essenziale dell'interazione tra di esse nel determinare l'essenza e la struttura di un'industria, dall'altro l'impresa stessa è posta quale punto di partenza per l'analisi del progresso tecnologico e delle ricadute del medesimo sulla dinamica del settore. Importa infine considerare come nell'ottica di Nelson e Winter possano delinearsi dei 'fallimenti evolutivi' nel garantire un tasso predeterminato di sviluppo del progresso tecnologico in un comparto industriale, sia in caso di concorrenza perfetta sia in caso di monopolio. In una situazione di concorrenza perfetta e in condizioni di bassa appropriabilità, il fallimento deriva dall'impossibilità di impedire il processo di imitazione; in caso di elevata appropriabilità, invece, in cui tutte le unità produttive tendono a cercare le stesse cose, il fallimento trova origine nell'inevitabile duplicazione degli sforzi.In una situazione di monopolio e in condizioni di incertezza il fallimento trova origine nella composizione del portafoglio progetti che, essendo determinato dalle scelte di un singolo operatore, può non essere soddisfacente per l'economia nel suo complesso.
La linea di pensiero secondo la quale sono le scelte a livello individuale, con i comportamenti che ne derivano, a determinare le strutture di mercato, si collega all'approccio teorico dei mercati accessibili, nel quale trova concretezza un altro filone della nuova economia industriale. Esso rifiuta di considerare la 'struttura industriale' come esogenamente data, ma individua in essa la risultante di un processo di determinazione di natura endogena tale da consentire l'ottenimento simultaneo della distribuzione dimensionale delle imprese, il livello dei prezzi e delle quantità. Appartenente all'ambito delle analisi di tipo statico, la teoria dei mercati accessibili mira a stabilire le condizioni in base alle quali si possa pervenire a configurazioni di equilibrio di lungo periodo. Essa si concretizza, nell'ottica dei suoi proponenti, W. J. Baumol, J. C. Panzar e R. D. Willig (v., 1982), in una rivisitazione delle condizioni di forte concorrenzialità, sia pure in termini moderni e quindi lontani dalla concezione cournotiana fondata sul numero delle imprese esistenti sul mercato. Tramite la definizione di opportune condizioni d'entrata e di uscita possono verificarsi esiti di tipo concorrenziale pur in presenza di un numero limitato di operatori. Secondo Baumol (v., 1982) "un mercato è accessibile quando l'entrata è completamente senza costi". Con 'libertà di entrata' si intende l'assenza di vincoli normativi (monopolio istituzionale) e la possibilità di accesso, per tutti gli entranti potenziali, alla medesima tecnologia della quale dispongono le imprese già presenti. Con 'uscita senza costi' si intende una situazione caratterizzata da una perfetta mobilità del capitale fisso utilizzato nel processo produttivo sì da rendere possibile il disfarsene senza incorrere in oneri di alcun genere. Un esito di questo tipo può verificarsi allorché esista un mercato secondario sul quale il valore dei beni capitali possa essere pienamente realizzato. Se sono valide queste premesse, ovvero, se pur in presenza di costi fissi con relative economie di dimensione, non vi sono costi non recuperabili a fronte dell'eventuale decisione di uscire dal settore ('costi sommersi' - sunk costs), si delinea la possibilità di una concorrenza del tipo 'mordi e fuggi' (hit and run competition). Sulla scena si presentano entranti intesi a realizzare profitti puri temporanei sul mercato (quando il prezzo superi il costo medio) e a uscire dallo stesso prima di subire le reazioni degli operatori già presenti senza sopportare perdite a causa dei costi sommersi collegabili al realizzo dei beni strumentali utilizzati. A complemento si può ancora aggiungere, come ulteriore requisito per definire una perfetta accessibilità, la supposizione che i tempi di reazione delle imprese presenti sui mercati siano maggiori di quelli degli entranti potenziali.
In presenza quindi di perfetta libertà di entrata, di costi fissi ma non di costi sommersi, di tempi di reazione differenziati, nessun produttore operante può praticare un prezzo superiore al costo medio (e quindi conseguire profitti puri). Del pari non può, compatibilmente con la domanda, produrre una quantità alla quale corrisponda un costo medio superiore al valore minimo che la sua funzione può assumere senza provocare l'ingresso di altri operatori (con conseguente hit and run competition). Nel caso in cui il settore industriale risulti al riparo da tale tipo di concorrenza ci si trova in presenza di una 'configurazione industriale sostenibile', per qualche aspetto riecheggiante le situazioni neoclassiche di equilibrio. Essa risulta dal concorso di due condizioni: una produzione complessiva eguale alla domanda globale, senza perdite per alcun operatore (nel qual caso si orienterebbe a uscire); entranti potenziali che non reputano conveniente l'ingresso nel mercato sulla base dei prezzi praticati dalle imprese esistenti (ognuna delle quali produce il volume corrispondente al costo medio minimo e non può praticare un prezzo superiore a quest'ultimo).
La mancanza di una delle due condizioni determina la 'non sostenibilità' di una struttura, ciò che provocherebbe ingressi del tipo 'mordi e fuggi' destinati a mutare l'eventuale configurazione finale del settore.
La lettura offerta dalla teoria dei mercati accessibili è svincolata dal numero più o meno elevato degli operatori presenti nel settore; essa è applicabile anzi all'intera gamma delle strutture industriali, dal monopolio puro alla concorrenza perfetta, incluso l'oligopolio. Ciascuna di queste configurazioni può assumere carattere di accessibilità, tantoché si può affermare che un mercato concorrenziale è sicuramente accessibile mentre non si può sostenere che mercati imperfetti non lo siano affatto.
Nell'iter di formazione delle strutture industriali si possono individuare due fasi: nella prima si determina quali processi produttivi risultano essere i più efficienti nella produzione di un determinato vettore di prodotti nell'ambito di un comparto; nella seconda viene determinata la struttura industriale conseguente e 'sostenibile' nel lungo periodo, tenuto conto delle pressioni esercitate dai meccanismi di mercato. La configurazione finale di uno specifico settore risulta pertanto da un processo di natura endogena fondato: sull'assenza di inefficienze nell'organizzazione delle imprese presenti in un'industria, la produzione delle quali tende a collocarsi in corrispondenza al minimo costo medio lungo l'ipotetica curva a U dei costi medi di lungo periodo; sul gioco combinato degli sforzi a entrare nel settore e a rapidamente uscirne da parte di nuove unità; sul far venire meno le condizioni affinché esso trovi concretezza. La struttura ottima di un'industria dipende dal vettore delle sue produzioni, ma quest'ultimo è a sua volta collegato ai prezzi stabiliti dalle imprese. Questi discendono tuttavia dalla struttura dell'industria, per cui si può concludere affermando che il comportamento in materia di prezzi e la struttura dell'industria in ultima analisi si codeterminano per effetto di scelte di tipo endogeno. Nell'ipotesi di perfetta accessibilità, la struttura più efficiente, definita a livello di tecnologia dei processi produttivi, finisce per coincidere con quella selezionata dai meccanismi di mercato, stante l'impossibilità di allontanarsi dall'eguaglianza tra prezzo e costo unitario medio minimo, determinata dal timore del manifestarsi della concorrenza 'mordi e fuggi'. Al contrario di quanto stabilito nello schema tradizionale di Cournot, la dimensione e il numero delle imprese presenti sul mercato dipendono dalle condizioni di concorrenza esistenti.
Ne discende l'entrata in crisi del collegamento tra tecnologie (economie di scala) ed efficienza degli equilibri settoriali, che per lungo tempo ha ispirato gli interventi di regolamentazione. L'azione pubblica dovrebbe dunque indirizzarsi a rendere possibile l'operare delle condizioni di accessibilità, ossia, in primo luogo, la libertà di entrata e di uscita, potenziandola al massimo. Questa può impedire infatti inefficienze e distorsioni nell'allocazione, destinate a tradursi in profitti puri positivi. Quanto più si riesce a rendere accessibile un mercato (tramite, ad esempio, la rimozione di barriere normative all'entrata, come nel caso delle telecomunicazioni o del trasporto aereo in taluni paesi), tanto più si può aspirare a creare equilibri potenzialmente concorrenti (con assenza di extraprofitti) seppure in presenza di un esiguo numero di imprese operanti. L'intervento potrebbe essere limitato ai casi di non sostenibilità della configurazione. Nell'intento di evitare l'accessibilità dei mercati le imprese in essi presenti non possono fare altro che comportarsi 'virtuosamente', ossia offrire ai consumatori gli stessi benefici altrimenti ottenibili in una soluzione di perfetta concorrenza.
Malgrado queste conclusioni, il cui contenuto può presentare aspetti operativi, l'approccio dei mercati accessibili mantiene accentuati caratteri di astrazione. Baumol precisa infatti che esso presenta lo stesso grado di astrazione della teoria neoclassica della concorrenza perfetta. In effetti tutto lo schema si regge sull'assenza di costi non recuperabili e sui differenziali nei tempi di reazione dei nuovi entranti rispetto alle imprese già presenti e operanti. L'evidenza empirica, per contro, mostra che in molti settori la produzione richiede un tipo di capitale a bassa o nulla reversibilità (come tale non facilmente smobilizzabile), e che gli stessi consumatori reagiscono a mutamenti di prezzo dopo un certo tempo (per cui nascerebbero problemi nel dar vita a interventi del tipo 'mordi e fuggi'). Possono inoltre esservi costi sommersi non collegati alla tecnologia bensì alle politiche delle imprese; tali ad esempio quelli derivanti da scelte di breve periodo tese a formare situazioni di concorrenza non relativa ai prezzi (non-price competition): costi di distribuzione, promozione, ricerca e sviluppo. Deve infine essere osservato che l'ipotesi di uscite e ingressi rapidi e privi di conseguenze economiche implicherebbe rendimenti di scala costanti e non rendimenti crescenti, come di fatto richiede la teoria dei mercati accessibili, fondata com'è sull'esistenza di livelli minimi nei costi medi. Se ne può inferire che fare riferimento a questa teoria per una descrizione puntuale ed efficace della realtà equivarrebbe a commettere un errore: essa può costituire al più un punto di riferimento per lo sviluppo di schemi interpretativi più flessibili e applicabili di quelli di derivazione neoclassica, per capire e descrivere l'organizzazione della struttura di un settore industriale.
A rompere la sostenibilità di posizioni di equilibrio nel quadro dei mercati accessibili è il processo innovativo, là dove questo determina un cambiamento delle curve dei costi unitari medi, e in particolare un loro abbassamento, o la possibilità di vendere i prodotti a prezzi più remunerativi. In realtà la considerazione della sostenibilità nei mercati accessibili non annulla le considerazioni riportate in precedenza sulla teoria evolutiva dell'industria fondata sul manifestarsi delle routines innovative.
La sostenibilità tende a perpetuarsi nelle condizioni di coincidenza tra obiettivi e risultati; allorché tuttavia il cambiamento di scenario induce sia a esprimere nuove finalità, sia a modificare le vecchie, e/o quando diviene evidente che le azioni compiute non consentono di raggiungere i traguardi prefissati, le routines innovative tendono a riportare la mancata convergenza. Il manifestarsi dell'innovazione nella riproposta della schumpeteriana 'distruzione creatrice' diviene pertanto elemento essenziale del gioco concorrenziale e contribuisce anche sotto questo profilo a definire i contenuti della nuova economia industriale. Si definisce in questi termini la concorrenza dinamica, per effetto della quale si possono raggiungere risultati di grande rilievo in termini di abbassamento dei costi e, in ultima analisi, del livello dei prezzi.Legata com'è all'entità assoluta delle spese di ricerca, alla disponibilità di esperienza, alle potenzialità di programmazione e controllo della spesa, all'esistenza dei necessari sbocchi di mercato, la possibilità di innovare (e quindi la concorrenza dinamica) rimane largamente ancorata alla grande dimensione, decisiva per assicurarne i frutti. Essa quindi trova occasioni di fertili applicazioni e terreno ideale per esprimersi nelle strutture di tipo oligopolistico. Ne nasce una profonda revisione dell'atteggiamento verso questa struttura di mercato, dalla quale possono derivare esiti più favorevoli per gli operatori e per i consumatori di quanto possa verificarsi nei regimi di concorrenza perfetta. In questa forma di mercato l'azione di limatura sui livelli di prezzo troverebbe infatti un limite fisiologico nei più elevati costi unitari medi minimi sui quali mancherebbero di esercitarsi i benefici dell'innovazione tecnologica, impedita dai bassi livelli dimensionali.
Nella concezione presentata, impresa e sistema economico si qualificano sempre più come parti interagenti di una fenomenologia in evoluzione, per capire la quale risulta indispensabile il riferimento al momento storico e ai cambiamenti che lo caratterizzano. Si riconferma in questa chiave il ruolo degli studi di 'economia industriale' volti a individuare e descrivere il meccanismo attraverso il quale il sistema produttivo si autodetermina per effetto delle scelte degli operatori in esso presenti. Da un approccio di tipo statico si passa a una lettura della problematica in termini di sviluppo; l'oggetto di studio si precisa nel divenire dell'apparato produttivo considerato nel suo insieme, delle unità che lo compongono, delle relazioni che reciprocamente le collegano.
La materia che compone l'economia industriale trova pertanto un preciso elemento costitutivo nella misurazione e nella qualificazione del processo di sviluppo delle imprese tramite l'analisi della dinamica di precise variabili elementari, da integrare tuttavia con altri profili temporali afferenti, ad esempio, la produttività del lavoro o il processo di accumulazione in capitale fisso. Fondamentali divengono del pari le analisi delle operazioni di crescita esterna come quelle relative a incorporazioni, scorpori, variazioni nel collocamento entro specifici gruppi di controllo, cambiamenti del grado di integrazione verticale all'interno della 'filiera' di appartenenza. In una progressiva generalizzazione, il processo di studio tende a spostarsi dalla vicenda delle singole imprese all'analisi dei processi di trasformazione in senso lato, quali avvengono nel corso del tempo.In ultima istanza l'obiettivo di un simile indirizzo di analisi del sistema industriale trova la propria consistenza e finalità nella scelta di contribuire a esprimere una teoria dello sviluppo dell'apparato produttivo.
Un adeguato approfondimento e una solida conoscenza dell'economia industriale dischiudono la possibilità di validi suggerimenti in termini di politica industriale intesa come controllo e indirizzo dell'economia in termini reali. Non si tratta infatti di contrastare o assecondare semplicemente la congiuntura, ma di aprirsi a una logica di interventi modificativi a carattere strutturale.In realtà gli spazi assegnabili alla politica industriale dipendono dal modo con il quale ci si pone di fronte all'operare dei meccanismi di mercato: in altri termini, se si accetta o si rigetta la loro azione. Ove si sia convinti che il loro operare si manifesta in un ambiente economico non distorto, si tende a concepire la politica industriale come un insieme di provvedimenti volti a facilitare o a rendere possibili processi di adattamento, in sé spontanei. La politica industriale ha allora l'obiettivo di assicurare le condizioni affinché il sistema dei prezzi possa emettere segnali corretti, sì da rendere possibili reazioni degli operatori altrettanto corrette. I contenuti riconoscibili per questa branca della politica economica sono individuabili soprattutto in interventi di tipo profondo, orientati a eliminare impedimenti e ostacoli affinché le forze sane, operanti sui mercati, possano manifestarsi con pienezza. Essi tenderanno, ad esempio, ad assicurare le infrastrutture necessarie qualitativamente adatte, le forze di lavoro dotate di adeguata preparazione, l'eguale possibilità di accesso al credito e la sua valida distribuzione sul piano territoriale, l'operare di meccanismi fiscali coerente con la razionalità economica.
In quest'accezione riduttiva la politica industriale è vista come un insieme di scelte indirizzate a realizzare le condizioni del laissez faire: il loro operare selettivo tramite l'esprimersi delle forze concorrenziali è giudicato sufficiente ad assicurare lo scenario ottimale entro il quale la vita economica può svolgersi. Come conseguenza ne deriva il rifiuto di qualsiasi logica di tipo assistenziale, per lasciare il pieno rinnovamento delle strutture all'innovazione e al superamento del 'vecchio' tramite la sua pura e semplice estinzione; del pari è rifiutato ogni intervento di tipo corporativo.
A conclusioni radicalmente diverse si perviene ove si prenda coscienza delle imperfezioni del mercato che, come già si è visto, stanno ampiamente alla base del sorgere stesso dell'economia industriale. Ci si orienta in tal caso verso linee di intervento che, secondo una schematizzazione di A. Jacquemin (v., 1988), possono essere leggibili su di un piano prevalentemente nazionale e/o internazionale. Con riferimento al primo, assumono importanza le azioni indirizzate a far fronte alle carenze più vistose dei mercati in merito all'utilizzazione di rilevanti esternalità o al mancato riconoscimento di bene pubblico per determinati prodotti o servizi. Sotto altro profilo possono essere disegnati interventi intesi a sopperire alle incompletezze del sistema complessivo della domanda e dell'offerta per particolari presenze in comparti di natura strategica. Ne può conseguire l'individuazione del ruolo dei pubblici poteri nel favorire forme organizzative adatte a trasporre all'interno dei sistemi gli effetti delle grandi scelte tecnologiche e a promuovere la presenza di poli competitivi, o nel fornire sostegno all'attività di ricerca e sviluppo in settori ad alta tecnologia gravati da elevati costi fissi, tramite aiuti finanziari, programmi pubblici specifici, socializzazione dei rischi.
In questo senso la politica industriale tende a occupare gli spazi lasciati aperti dall'insufficienza dell'equilibrio spontaneo e mira a riportare condizioni di sviluppo equilibrato in presenza di mercati imperfetti. A integrazione è da prevedere la necessità di procedere in via disaggregata con l'adeguata considerazione delle specificità dei mercati e della loro interdipendenza.
Nel quadro realistico e rinnovato degli scambi nazionali e internazionali la politica industriale deve generare condizioni tali da favorire il dinamismo industriale. Meritano di essere menzionati in tale direzione gli interventi volti a riequilibrare i rapporti tra le imprese nazionali di uno specifico territorio (regione, paese, ecc.) o tra le imprese nazionali e le grandi multinazionali o, ancora, tra le multinazionali e i poteri pubblici dei paesi con i quali esse entrano in rapporto. Gli esempi al riguardo possono essere numerosi: fornire informazioni sulle partnerships possibili o alternative; utilizzare in via strategica la committenza; negare accordi tra Stati con paesi terzi; finanziare studi esplorativi relativi a processi e a nuove tecnologie; promuovere la diffusione delle innovazioni dalle sedi della ricerca universitaria alla produzione e alla commercializzazione; favorire il trasferimento tecnologico; facilitare la nascita di nuove imprese o la loro riorganizzazione e il loro ampliamento; incoraggiare operazioni congiunte tra industria, università e settore pubblico.
In un quadro interventistico di questo tipo il funzionamento delle economie nazionali e internazionali dipende da relazioni di tipo strategico, protagoniste delle quali sono le aziende e le autorità pubbliche che tendono a crearsi posizioni preferenziali e a condizionare azioni e reazioni di rivali reali e potenziali. Tra imprese e istituzioni si manifesta una serie reciproca di collegamenti che, con riferimento alla realtà italiana, possono identificarsi nelle forme di joint ventures tra gruppi pubblici e privati, nelle direttive emanate dal Ministero delle Partecipazioni Statali alle grandi finanziarie pubbliche o da queste alle imprese da esse coordinate. Rappresentano casi concreti di tali interrelazioni: le operazioni a monte dei processi produttivi pur nel mantenimento del clima concorrenziale a livello di produzione finale; le barriere create contro operatori in grado di penetrare sui mercati; il controllo della gamma dei prodotti e dei servizi succedanei; la modifica del potere di contrattazione a fronte di fornitori e clienti; il cambiamento dell'equilibrio tra le forze in campo con provvedimenti strategici e anticipo dei cambiamenti.
Nei casi in cui le sinergie tra imprese e istituzioni trovano modo di esprimersi con efficacia, chi riesce a goderne e a presentarsi sul mercato con anticipo rispetto a eventuali concorrenti potenziali, difficilmente vedrà intaccata la propria posizione egemonica. Quest'affermazione è tanto più vera quanto più i settori in cui l'interrelazione si verifica sono caratterizzati da una forte differenziazione della produzione, da importanti economie di scala, da processi fondati sull'apprendimento. A questo proposito si può richiamare l'esempio del progetto comune europeo Airbus, grazie al quale l'industria aeronautica europea s'è trovata in posizione di effettivo e sensibile vantaggio.
Il ruolo della politica industriale non è tuttavia quello di generare sostituti alla libera iniziativa, né quello di limitarsi alla sola regolazione macroeconomica o di istituire una programmazione fortemente strutturata e direttiva, bensì di porre in essere una cornice strategica diversificata, tale da favorire il dinamismo dell'apparato industriale. Questo orientamento ha tanto più valore quanto più lo si riferisce all'evolvere delle economie occidentali nello scenario internazionale. I cambiamenti in atto pongono all'attenzione di chi osservi l'apparato produttivo industriale gli importanti trasferimenti di tecnologie, gli accordi in materia di concessione creditizia, l'importanza o quasi la necessità di un inserimento nel contesto internazionale: si delineano opportunità per l'emergere di rapporti di forza e di alleanza dai quali dipende in ultima analisi l'allargamento o il restringimento degli spazi strategici. Anche in questa prospettiva, il ruolo del potere pubblico può essere individuato nel concorrere a portare equilibrio tra produttori nazionali e internazionali e centri decisionali di altri paesi.
Gli strumenti a disposizione per raggiungere obiettivi di questo tipo possono essere diversi: dall'emanazione di opportune direttive alla destinazione di risorse finanziarie pubbliche, dall'uso appropriato delle commesse pubbliche all'esercizio di una programmazione coerente con il contesto economico e sociale in cui si deve calare. Rimane in ogni caso vero che, in quanto investita di problemi reali, la politica industriale tocca in profondità il funzionamento dei sistemi nelle loro componenti di tipo strutturale. Come tale incontra non di rado opposizioni e ostacoli alla sua attuazione, tanto da vedersi costretta a lasciare spazio a interventi di carattere prettamente monetario. Questo equivale a permettere che scelte di natura monetaria finiscano con l'incidere su problemi di ordine strutturale, il che equivale non tanto a essere assenti nel delineare e nell'attuare una politica industriale, quanto a perseguire, di fatto, quella peggiore.
(V. anche Concorrenza; Economia e politica del lavoro; Impresa e società; Industria; Lavoro; Mercato).
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