Mercato
Dicesi mercato un insieme di scambi di natura economica, o comunque a essa riconducibile, aventi per oggetto un diritto reale (proprietà, uso, ecc.) su beni, materiali o immateriali, già esistenti o di futura realizzazione, oppure una prestazione (lavoro, ecc.). Tradizionalmente si dice mercato anche il luogo in cui avvengono gli scambi; con i moderni mezzi di comunicazione tale luogo può essere anche soltanto virtuale, essendo le transazioni possibili senza contiguità fisica tra le parti.
Per l'esistenza di un mercato sono necessarie le seguenti condizioni.
1. La libertà d'azione dei partecipanti, i quali possono essere soggetti individuali o collettivi. Tale libertà si concreta in un potere autonomo di scelta tra comportamenti diversi; essa è, peraltro, variamente limitata da restrizioni di tipo giuridico e dalle risorse di cui i partecipanti hanno la disponibilità.
2. Un complesso di regole per lo svolgimento degli scambi, alle quali i partecipanti devono uniformarsi, e un'organizzazione che ne cura il rispetto.
3. Un prezzo, o un insieme di prezzi, relativo all'oggetto dello scambio, che si formi, almeno parzialmente, a seguito delle preferenze dei partecipanti e non già per semplice imposizione dal centro.
4. Un mezzo di pagamento accettato da tutti i partecipanti.
L'esistenza stessa del mercato amplia la gamma delle scelte economiche non solo di chi effettivamente vi partecipa ma anche di chi, pur decidendo di non farlo, può parteciparvi. Il mercato è quindi un bene collettivo e aumenta il benessere sociale, pur in presenza di numerosi limiti ed effetti negativi (v. cap. 5). Le economie in cui sono presenti tutte le condizioni sopra elencate, e in cui sono altresì libere e decentrate le scelte di produzione per la maggior parte dei beni e servizi, possono essere definite economie di mercato.
Lo studio delle caratteristiche dei mercati e delle loro conseguenze è argomento precipuo dell'economia politica, ma interessa anche le discipline giuridiche, la storia economica e la sociologia. Pur nella diversità delle interpretazioni (v. cap. 3), l'analisi economica ha sviluppato una tassonomia del mercato ormai sufficientemente consolidata, sia pure con qualche variazione terminologica e concettuale.Essa si basa sul carattere paradigmatico del mercato di concorrenza perfetta (v. § 1a), adottato come modello di riferimento e talora indicato come il mercato tout court, mentre le altre forme di mercato sono considerate come varianti o scostamenti da tale modello.
Il mercato di concorrenza perfetta richiede condizioni molto restrittive, quali l'omogeneità dell'oggetto dello scambio, la pluralità dei venditori (normalmente identificati con i produttori del bene venduto) e dei compratori - gli uni e gli altri animati dalla volontà di rendere massimo il proprio vantaggio -, l'esiguità delle quote di mercato dei singoli, tali che le decisioni di ciascun operatore non possano influenzare il prezzo. Il prezzo si forma pertanto in maniera impersonale, per tentativi, oppure mediante l'opera di un agente esterno (il 'banditore'). Il mercato di concorrenza perfetta richiede inoltre l'istantaneità e la disponibilità generale delle informazioni relative ai prezzi e alle quantità scambiate e la possibilità dei partecipanti di entrare e uscire dal mercato stesso senza costi né barriere di altro tipo (v. Walras, 1896³).
Tali condizioni possono sussistere anche solo allo stato potenziale: perché si realizzi un comportamento concorrenziale è sufficiente la presenza virtuale, non quella reale, di un gran numero di partecipanti, ossia l'istantanea possibilità di accesso al mercato di qualsiasi soggetto. Non è necessario che i mercati siano 'contesi', è sufficiente che essi siano 'contendibili' (contestable markets) (v. Baumol, Panzar e Willig, 1982).
In queste condizioni si determina un prezzo di equilibrio al quale tutte le quantità offerte vengono acquistate e si realizza un ottimo paretiano, ossia la condizione in cui è impossibile migliorare la posizione di un qualsiasi partecipante al mercato senza peggiorare la posizione di almeno un altro partecipante (v. Pareto, 1906). È questo il fondamento dell'utilità sociale del mercato.
La concorrenza perfetta è assai rara, per non dire inesistente, nella realtà. La telematica, tuttavia, rendendo possibile la sostanziale istantaneità e l'universale disponibilità a basso costo delle informazioni di mercato, ha contribuito, unitamente alla riduzione delle barriere legali all'entrata, a determinare condizioni non troppo distanti dalla concorrenza perfetta in alcuni mercati finanziari (v. § 1c).
La formazione impersonale del prezzo non conduce a un'effettiva competizione tra i partecipanti, e quindi all'interdipendenza delle loro decisioni, quanto piuttosto a una sequenza di eventi che tende a escludere dal mercato i produttori meno efficienti, per una sorta di selezione naturale (v. § 3c). I partecipanti non hanno alcun potere sul mercato; i profitti, al di là della remunerazione del capitale che equilibra i mercati finanziari, hanno carattere transitorio.
Potere e profitti compaiono invece quando si abbandonano alcune delle condizioni definitorie di cui sopra e si passa alle varie forme della concorrenza imperfetta (v. Robinson, 1933; v. Chamberlin, 1933). Se si segue questo percorso intellettuale, un primo caso di scostamento dalla concorrenza perfetta si ha con l'attenuazione della condizione di numerosità dei venditori, permanendo quelle della numerosità dei compratori e dell'omogeneità del bene scambiato. Si è allora in regime di oligopolio, un mercato in cui, dal lato dei venditori, il basso numero fa cadere la condizione di irrilevanza della quota di mercato del singolo, mentre, dal lato degli acquirenti, la persistente numerosità esclude qualsiasi influenza sul prezzo. I venditori sono quindi in effettiva competizione tra loro e le decisioni di uno di essi sulle quantità da vendere e sul prezzo da richiedere possono essere influenzate da, e a loro volta influenzare, quelle degli altri venditori. È frequente nell'oligopolio la presenza di un'impresa dominante, generalmente di dimensioni maggiori, la quale fissa il prezzo (oppure la quantità che intende produrre) senza tener conto delle altre; queste ultime regolano le proprie decisioni sul comportamento della prima.
Ciascun produttore cerca allora di introdurre elementi migliorativi o distintivi nel suo prodotto, differenziando ciò che vende anche solo per piccoli particolari, come la marca, e trasferendo la competizione sul piano qualitativo. Si perde così il requisito della omogeneità del prodotto e il mercato che ne consegue è detto di concorrenza monopolistica. Nella concorrenza monopolistica ciascun venditore è monopolista (v. § 1b) del proprio prodotto, ma i prodotti sono tra loro sostituibili, sia pure imperfettamente, nella scelta degli acquirenti.
Tra oligopolio e concorrenza monopolistica esiste un continuum logico che ne rende difficile l'esatta differenziazione. Qualora sussistano differenze secondarie tra i prodotti, entrambi gli schemi possono di fatto essere utilizzati per l'analisi di un particolare mercato. Nelle moderne economie di mercato la grande maggioranza dei beni di consumo e di investimento è scambiata in condizioni di oligopolio-concorrenza monopolistica, al punto che con il termine 'mercato' si intende spesso non già la concorrenza perfetta bensì l'insieme degli scambi in tali condizioni.
La vera differenziazione dei mercati non deriva tanto dalla numerosità dei venditori quanto dall'effettivo livello delle barriere all'ingresso (v. § 2a; v. Bain, 1956; v. Sylos Labini, 1956), che possono essere dovute a vincoli tecnologici, distanze geografiche, abitudini, norme legislative. La natura concorrenziale di un mercato non ha quindi carattere assoluto, nel senso che è presente oppure manca del tutto; esistono piuttosto diversi livelli di concorrenzialità, che, come si vedrà (v. cap. 4), caratterizzano i vari periodi storici.
Se si annulla, invece che attenuare, la condizione di numerosità dei produttori-venditori, si ha il monopolio. Nel monopolio esiste un solo venditore che fronteggia una pluralità di compratori. Il monopolista fissa il prezzo del proprio prodotto in base alle sue conoscenze delle caratteristiche della domanda aggregata degli acquirenti, la quale non deve essere direttamente influenzata dal prezzo di altri prodotti, in quanto, in tal caso, si avrebbe concorrenza monopolistica (v. § 1a). Si immagina quindi quale quantità sarà complessivamente acquistata a ciascuno dei possibili prezzi e tra questi fisserà quello che meglio si confà ai suoi obiettivi.
A parità di struttura produttiva e di condizioni di domanda, il monopolista, se intende conseguire il massimo profitto, produce una quantità inferiore a quella che si realizzerebbe in un mercato di concorrenza perfetta e la vende a un prezzo superiore. Spesso può aumentare i propri profitti tenendo un comportamento discriminante, ossia praticando prezzi differenziati a diverse categorie di acquirenti oppure per diverse quantità vendute. Il profitto del monopolista è superiore a quello (corrispondente alla remunerazione di equilibrio del capitale) che i produttori complessivamente realizzano sul mercato di concorrenza perfetta e riduce quindi, in maniera corrispondente, il vantaggio (surplus) che gli acquirenti derivano dal mercato. L'aumento del profitto del venditore e la riduzione del surplus degli acquirenti danno una somma negativa che viene detta perdita netta di monopolio.Da quali fattori può trarre origine una situazione di monopolio, dal momento che essa comporta una perdita netta di tipo sociale? Si possono individuare quattro casi.
1. Un'innovazione tecnologica tale da conferire all'innovatore un'esclusiva, talvolta protetta da un'apposita legislazione (brevetto) che ne impedisca la diffusione. È il caso oggi più frequente e può produrre effetti positivi sulla crescita, in quanto alla perdita netta per la collettività, derivante dall'esistenza del monopolio stesso, fa da contropartita una migliore soddisfazione dei bisogni. Questo monopolio ha carattere temporaneo per l'invecchiamento fisiologico dell'innovazione o la scadenza del brevetto, e lascia in eredità un incremento del patrimonio tecnologico. Il venire meno delle barriere monopolistiche fa allora evolvere il mercato verso forme di concorrenza monopolistica-oligopolistica (v. § 1a).
2. Il 'monopolio naturale', che si verifica quando un determinato volume produttivo può essere raggiunto in maniera efficiente, con le tecnologie correnti, soltanto se esiste un unico produttore-venditore (come accade, per esempio, nel settore della produzione-distribuzione di elettricità o in quello dei trasporti ferroviari). In questo caso la contropartita del monopolio è la più favorevole struttura dei costi; il monopolista naturale è spesso un'azienda pubblica che non si propone l'obiettivo del massimo profitto, ma è anzi tenuta a praticare prezzi 'politici' con il solo vincolo di coprire i costi o addirittura di contenere le perdite entro un livello prefissato, finanziato mediante la tassazione.
3. Il monopolio di Stato, normalmente con finalità fiscali (vendita di sigarette e tabacchi). In questo caso il prezzo è, anche sensibilmente, superiore al costo.
4. Il monopolio sancito per legge a favore di privati con scopi di politica industriale (sviluppo in esclusiva di determinate attività) o anche solo di potere (per esempio il monopolio del commercio con l'Oriente da parte delle Compagnie delle Indie inglese e olandese).
Una forma particolare di monopolio è il cartello, un accordo tra più produttori che stabiliscono di agire congiuntamente predeterminando il prezzo di vendita della merce e spartendosene, mediante l'attribuzione di quote di produzione, la quantità da produrre, in genere allo scopo di rendere massimi i profitti. Nel cartello il medesimo volume produttivo di un monopolista viene realizzato da un consorzio di produttori tra loro indipendenti, con la conseguente assenza dei benefici derivanti dalle economie di scala di un'analoga produzione monopolistica. Per la sua scarsissima utilità sociale, il cartello è, di regola, considerato negativamente dalle legislazioni della maggioranza dei paesi. Un esempio di cartello è rappresentato dall'OPEC, l'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, fondata nel 1960.
Speculare al monopolio è il monopsonio, un mercato caratterizzato dalla presenza di un solo acquirente, fronteggiato da una pluralità di venditori. Condizioni di monopsonio si verificano, non di rado, nei mercati dei fattori produttivi e, in particolare, nel mercato del lavoro, quando, per esempio, una sola grande impresa si confronta con lavoratori disorganizzati; quando però i lavoratori si organizzano e si danno una rappresentanza unitaria, si ha un caso di monopolio bilaterale, in cui un monopsonista (spesso un'organizzazione che raggruppa tutte le imprese di un settore o di un'area geografica) è fronteggiato da un monopolista (in questo caso un'organizzazione sindacale che ha il mandato di negoziare per tutti i lavoratori un contratto collettivo di lavoro).
1. Il mercato del lavoro è normalmente caratterizzato da una situazione di quasi monopolio bilaterale, che vede contrapposti i rappresentanti dei lavoratori e quelli delle imprese, e da un considerevole intervento regolatore pubblico, che si concreta anche in una funzione istituzionale di mediazione e di indirizzo. Entrambe le parti dispongono di strumenti di pressione: i lavoratori possono far ricorso a varie forme di sciopero, le imprese alla serrata. Il risultato delle trattative, affrontate con questi strumenti, dipende dall'interazione tra le strategie adottate dalle parti e l'azione pubblica, ed è efficacemente descrivibile mediante la teoria dei giochi.
Negli anni novanta questa rappresentazione schematica subisce numerose modifiche. La maggiore libertà di iniziativa consente alle imprese di usare come strumento di pressione anche la prospettiva di chiudere o trasferire gli impianti. D'altro canto il maggior contenuto di 'capitale umano' della prestazione lavorativa sta di fatto 'personalizzando' il lavoro; sulla contrattazione collettiva sopra delineata si innesta così, in misura molto maggiore che in passato, una contrattazione individuale o di piccoli gruppi, riguardante, oltre che la retribuzione, le modalità di esecuzione del lavoro (flessibile, a tempo parziale, ecc.), le prospettive future (opportunità di partecipare a corsi che comportino un arricchimento professionale, sviluppo della carriera), i fringe benefits, o retribuzione in natura (uso gratuito di un'autovettura, di un telefono portatile, ecc.).
2. Il mercato dei capitali finanziari, tradizionalmente incentrato nelle borse valori e nelle banche (in passato sovente di proprietà pubblica), ha subito modificazioni fondamentali nel corso dell'ultimo decennio. La funzione bancaria di intermediazione dei capitali è stata ridotta dalla possibilità dei grandi operatori di emettere direttamente titoli di debito (securitization) scambiati nei principali centri finanziari, in stretto collegamento telematico.
Nel corso degli anni ottanta i movimenti di capitale a livello mondiale sono stati liberalizzati, si è ampliato il numero delle società quotate nelle borse, sono comparsi nuovi operatori quali i fondi comuni di investimento, i fondi pensione e i fondi chiusi. All'innovazione tecnologica si sono aggiunte importanti innovazioni normative, spesso coordinate a livello mondiale, tendenti a impedire l'uso di informazioni riservate (insider trading), a ridurre le occasioni di frode, a garantire in vario modo una maggiore trasparenza (offerte pubbliche di acquisto e di vendita).Sono stati introdotti numerosi nuovi strumenti finanziari (certificati di deposito, contratti 'pronti contro termine', contratti futures, ecc.) che consentono impieghi fortemente differenziati per quantità, rischio e durata. La maggior mobilità dei capitali ha grandemente ridotto il potere delle banche centrali di indirizzare e controllare i mercati.
3. Il mercato delle abitazioni è caratterizzato da un fattore produttivo non riproducibile (il terreno) con prezzo derivante non già dal costo di produzione bensì dalla scarsità, e fortemente influenzato dalle decisioni pubbliche riguardanti l'edificabilità, gli oneri di urbanizzazione, ecc. La specificità di ciascuna abitazione fa sì che sia carente il requisito dell'omogeneità del bene scambiato, e che le informazioni sui prezzi abbiano un minor grado di generalità. L'offerta è potenzialmente costituita da tutte le abitazioni esistenti e non solo da quelle nuove. Le variazioni del prezzo influenzano, pertanto, la ricchezza oltre che il reddito, interessando quindi tutti i proprietari e non solo i partecipanti al mercato.
A un'estrema libertà di prezzi sul mercato della proprietà ha fatto tradizionalmente riscontro, in Europa, l'intervento pubblico nel mercato degli affitti, sia sul piano normativo (equo canone, blocco dei fitti, ecc.) sia mediante l'affitto a prezzi moderati di immobili di proprietà di enti pubblici. Ciò ha consentito di raggiungere fini sociali immediati, ma ha anche disincentivato la costruzione di case da parte dei privati a scopo di affitto, e reso molto realistico il rischio di ingerenze politiche nell'assegnazione delle case di proprietà pubblica.
In tempi recenti si osservano la graduale liberalizzazione degli affitti, la vendita di parte degli alloggi pubblici agli inquilini, nuove regole sui mutui (aumento della quota anticipata dalle banche), che consentono una maggior diffusione della proprietà immobiliare. I nuovi fondi immobiliari consentono l'impiego in abitazioni anche di capitali finanziari molto piccoli, riducendo la barriera all'ingresso; funzione in qualche modo analoga ha, nel caso degli alloggi per le vacanze, la multiproprietà, una frammentazione temporale del diritto di proprietà.
Una moderna economia di mercato è caratterizzata da situazioni ben più complesse di quelle sopra schematicamente descritte. A tale maggiore complessità concorrono i seguenti fattori.
1. L'identificazione del produttore-venditore è oggi resa difficile dalla presenza, accanto all'impresa tradizionale, di 'gruppi', di joint ventures, di accordi produttivi o di vendita dei tipi più vari nonché di imprese di proprietà pubblica (come quelle a partecipazione statale in Italia).
2. Le motivazioni dell'impresa sono ben diverse dal semplice perseguimento del massimo profitto. Gli obiettivi risultano normalmente molto articolati e difficilmente riconducibili a comportamenti massimizzanti (v. Simon, 1992): possono, per esempio, comprendere il raggiungimento di un determinato livello di profitti e di una determinata quota di mercato, la loro stabilità o crescita nel tempo, la continuità del gruppo dirigente, la sconfitta di un concorrente monopolistico. Per imprese di proprietà pubblica la ricerca del profitto può essere temperata da considerazioni politico-sociali (come l'obbligo di investire prioritariamente in certi settori o aree geografiche). Sempre maggior peso (negli Stati Uniti il 7% dell'occupazione complessiva), infine, assumono i produttori privati senza fini di lucro (università, organizzazioni sanitarie, cooperative di lavoro, ecc.) che perseguono obiettivi di natura non economica (v. Salamon e Anheier, 1993).
3. Sulla natura dei mercati incide fortemente la regolazione pubblica. Essa può, tra l'altro, imporre un determinato prezzo oppure fissarne i livelli massimi (tipici in Italia, fino a tempi recenti, quelli dei prodotti petroliferi, nonché l'equo canone per gli affitti) e minimi (salari contrattuali), oppure dettare regole che stabiliscano caratteristiche merceologiche dei beni o modalità per lo svolgimento dei servizi. Costituendo vere e proprie barriere all'ingresso, tali regole contribuiscono a determinare il grado di concorrenzialità del mercato. I pubblici poteri possono poi decidere imposte, sussidi diretti o indiretti, incentivi e disincentivi di natura fiscale o di altro tipo, nell'intento di influenzare le scelte degli operatori, orientandone gli investimenti verso regioni non sufficientemente sviluppate o verso attività particolari, come la ricerca scientifica. Possono infine agire in prima persona con varie finalità, costituendo aziende pubbliche.
La realtà odierna delle economie di mercato si configura quindi come un complicato intreccio delle forme teoriche originarie: una sorta di grande, sperimentale, non assestato 'brodo di coltura', che le discipline economico-aziendali, oltre a quelle economiche 'pure', cercano di esplorare e descrivere per poi poterne catalogare con sicurezza tutte le componenti.
Nel corso degli anni ottanta e novanta si è verificata una forte estensione del mercato come strumento regolatore di attività in precedenza prevalentemente gratuite o soggette a regolamentazione amministrativa; questo passaggio è particolarmente rilevante nello sport, nella cultura, nella sanità. Il meccanismo del mercato comincia inoltre a essere applicato anche alla soluzione dei problemi ecologici.Nello sport si è fortemente esteso l'ambito delle prestazioni di eccellenza a pagamento rispetto a quelle a carattere gratuito e dilettantesco. Si sono formate vere e proprie 'imprese sportive', il cui scopo è il conseguimento di profitti mediante il coordinamento delle prestazioni dei singoli atleti e la 'vendita' di un gioco di squadra direttamente agli spettatori oppure a organizzazioni (sponsors) che ne fanno un uso promozionale o pubblicitario. La caratteristica principale di queste imprese è che sono prevalentemente dotate di capitale umano. Negli sport individuali (sci, tennis, golf) l'impresa sportiva è spesso costituita dallo sportivo stesso che amministra il proprio capitale con l'ausilio di professionisti stipendiati (agenti, allenatori, ecc.).
L'organizzazione dei mercati sportivi implica momenti formalizzati, ormai a livello internazionale, di scambio (per esempio, il 'mercato' dei giocatori di calcio) e di produzione (tornei e manifestazioni sportive) nonché un sistema di autoregolazione, affidato a organismi autonomi di categoria aventi il potere di comminare sanzioni.
Per quanto riguarda la cultura, il mercato dei diritti d'autore e delle opere dell'ingegno, già sviluppato a livello nazionale, si è esteso a livello internazionale con occasioni formalizzate, come le 'fiere del libro' e le grandi aste periodiche di opere d'arte gestite da organizzazioni apposite, che garantiscono l'autenticità del prodotto ed emettono veri e propri listini dei prezzi. Un altro sviluppo riguarda l'attività universitaria, per la quale alla regolamentazione amministrativa comincia a sostituirsi, a partire dal Nordamerica, un vero e proprio 'mercato degli accademici', con salari differenziati in base a giudizi di valore. Infine, l'organizzazione dei musei sta evolvendo in senso imprenditoriale, sia pure senza fini di lucro, con l'inserimento, su un'offerta di base tendenzialmente gratuita o a basso prezzo, di attività, come mostre e altre occasioni culturali, il cui costo è totalmente sopportato da visitatori e sponsors.
Nel settore sanitario, accanto agli ospedali pubblici, stanno comparendo, a partire dagli Stati Uniti, grandi organizzazioni ospedaliere aventi forma societaria e fini di lucro. In Europa l'evoluzione dei sistemi sanitari pubblici tende, a cominciare dalla Gran Bretagna, a fare degli ambulatori medici vere e proprie imprese, soggette alle pressioni competitive del mercato, sia pure all'interno del settore pubblico. In molti paesi esiste un mercato del sangue umano; in forme più o meno ufficiali e legali esistono anche mercati degli organi.
Negli Stati Uniti è in atto un tentativo per estendere il mercato ai problemi ecologici - un tempo ritenuti estranei al suo ambito oggettivo - per quanto riguarda l'inquinamento industriale dovuto a specifiche e misurabili emissioni di fumi e gas nocivi. Si obbligano i produttori a munirsi, acquistandoli sul mercato, di speciali 'diritti a inquinare', emessi dall'amministrazione pubblica. I danni all'ambiente entrano così a far parte dei costi di produzione. Tali diritti possono ugualmente essere acquistati da organizzazioni ecologiste che rendono così più caro l'inquinamento. Il prezzo di questi diritti fornisce una misura congiunta della necessità tecnologica e della sensibilità sociale all'inquinamento, non necessariamente dell'effettiva gravità del fenomeno.
I mercati irregolari possono sorgere quando la regolamentazione del mercato non corrisponde ai desideri generali ma il costo politico della sua modifica è troppo elevato. Fu così per i 'mercatini' dei paesi dell'Est europeo nell'ultima fase del socialismo reale, tollerati dalle autorità ma non resi ufficiali nel timore di sollevare gravi conflitti interni e internazionali. I mercati irregolari possono altresì sorgere quando l'interesse a modificare le regole è proprio di una minoranza che non ha alcuna speranza di vederlo ufficialmente sanzionato, ma la natura dell'infrazione non suscita gravi reazioni repressive. In entrambi i casi alle regole 'ufficiali' del mercato si sostituiscono regole di fatto (per esempio comportamenti diffusi di evasione fiscale).
Il più tradizionale mercato irregolare è quello del cosiddetto 'lavoro nero', che vede un produttore monopsonista infrangere le regole ufficiali della contrattazione e confrontarsi con una pluralità di lavoratori non organizzati. L'esito è solitamente un salario inferiore a quello minimo dei mercati ufficiali, e spesso non vengono rispettate altre modalità della prestazione (norme di sicurezza). Esistono però altre forme di mercato irregolare del lavoro in cui un lavoratore autonomo specializzato (per esempio un falegname, un idraulico, ecc.) è in condizioni di monopolio sul mercato locale e vende la sua prestazione alle famiglie imponendo prezzo e modalità (per esempio l'evasione d'imposta).
Un mercato irregolare che infrange le leggi penali può essere definito mercato malavitoso. Perché si dia luogo a un tale mercato è indispensabile la libera decisione di acquirenti e venditori di parteciparvi, come avviene per i mercati della droga, i più importanti mercati malavitosi per volume d'affari.La loro articolazione è complessa e non interamente nota. Al livello della droga grezza ci si trova prevalentemente in presenza di un monopsonio, con una pluralità di produttori agricoli che vendono a un unico acquirente. Per il passaggio successivo, ossia la lavorazione di base e la vendita internazionale ai paesi consumatori, prevale l'organizzazione 'a cartello' dei venditori (v. § 1b). Nei paesi consumatori la forma più normale di vendita all'acquirente finale è costituita da una serie di monopoli locali in cui un unico venditore rifornisce un'area delimitata; i monopolisti mostrano spesso comportamenti collusivi, con prezzi non troppo differenti. In alcuni casi, però, soprattutto in presenza di tipi alternativi di droga, si può parlare di concorrenza monopolistica anomala, condotta sovente con metodi violenti.
Il cosiddetto 'filone centrale' del pensiero economico (mainstream economics) tradizionalmente attribuisce la massima importanza al mercato quale meccanismo di regolazione sociale e non solamente economica. Al suo interno si sono succedute, nel corso di circa duecento anni, interpretazioni diverse, ma non contrastanti, del mercato, generalmente collegate ai paradigmi di volta in volta dominanti del pensiero scientifico e filosofico.
La prima trattazione sistematica del mercato, dovuta agli economisti classici, è direttamente tributaria dell'empirismo inglese e del giusnaturalismo francese, dai quali acquisisce i concetti di 'ordine naturale' e di 'stato di natura'. Questi presuppongono la naturale capacità del sistema economico di riprodursi e di restare in equilibrio (v. Quesnay, 1758), la libera estrinsecazione delle attività umane nell'ambito delle leggi (v. Locke, 1689), una naturale 'simpatia' tra i singoli (v. Smith, 1776).
Nella potente teorizzazione smithiana esiste, per ciascun prodotto, un 'prezzo naturale' che consente di remunerare in maniera 'normale' i fattori della produzione. Il prezzo effettivo di mercato tende a quello naturale, pur discostandosene per perturbazioni di ogni tipo. Essenziale non è quindi l'equilibrio, bensì la tendenza a raggiungerlo: condizioni generali di libertà, con l'assenza di barriere all'ingresso e all'uscita, la mobilità del capitale e (in misura minore per Smith) del lavoro, la disponibilità delle informazioni determinano spostamenti dei fattori produttivi da un mercato all'altro, operando nel senso di rendere uguali il saggio di profitto e il saggio salariale e di aumentare l'efficienza della produzione.Il mercato è perciò inteso soprattutto come un meccanismo attraverso il quale la società si autoregola, una 'mano invisibile' che realizza un vantaggio generale mediante il perseguimento dell'interesse individuale, peraltro espresso nell'ambito di norme morali condivise e di un apposito contesto giuridico-istituzionale.
La concezione smithiana, che fa da sfondo anche al sistema economico di Ricardo, fu variamente sviluppata nel corso della prima metà dell'Ottocento, tra l'altro da Say (v., 1803), il quale, partendo dall'osservazione che il valore della produzione complessiva è uguale a quello dei redditi distribuiti, concluse che la produzione crea potere d'acquisto ed enunciò la sua celebre e controversa 'legge dei mercati', secondo cui l'offerta crea la propria domanda.
Nella seconda metà dell'Ottocento l'influsso del positivismo induce gli economisti neoclassici ad accentuare, accanto all'importanza della libertà, quella della razionalità individuale. L'influenza della fisica li porta ad affinare il concetto di equilibrio con l'uso di strumenti logici e matematici.
Il pensiero neoclassico tende così a sviluppare leggi 'scientifiche' dell'economia per le quali le contingenze storiche hanno scarsa rilevanza. Il modello del mercato viene formalizzato mediante l'introduzione delle curve collettive di domanda e di offerta, mentre viene abbandonato il concetto di prezzo naturale. Il prezzo di mercato e la quantità scambiata sul mercato diventano così le risultanti matematiche dell'incontro di queste curve.
Il prezzo che così si realizza pone i mercati in condizioni di equilibrio, nel senso che nulla resta invenduto, mentre ad altri prezzi si manifestano sovrabbondanze e scarsità. Si dimostra in tal modo che l'equilibrio, nella formulazione neoclassica, è unico e stabile e che il mercato naturalmente evolve verso tale equilibrio, dal quale non si allontana senza modificazioni esterne.
Secondo i neoclassici, il mercato di concorrenza perfetta è in grado di assicurare l'allocazione efficiente delle risorse e l'assenza di disoccupazione involontaria, sostanzialmente senza interventi dall'esterno. Questa teoria lascia poco spazio, forse per reazione alla loro importanza nel pensiero di Marx (v. § 3b), agli effetti sociali del mercato, che trovano una trattazione estesa soltanto nell'opera di Marshall. Il liberismo economico dei neoclassici diverge gradualmente dal liberalismo, che vede nei mercati null'altro che un mezzo per giungere a più generali forme di libertà (v. Croce, 1928).
La concezione del mercato di Marx si caratterizza per il ruolo dell'analisi del potere all'interno del mercato. Marx, il cui pensiero ha radici classiche, attribuisce un contenuto sociologico ai fattori della produzione identificandoli con le classi sociali che li detengono (il capitale con la borghesia e il lavoro salariato con il proletariato).
Per Marx (v., 1867-1894) tutto il potere è concentrato nel capitale: con il mercato è il capitale, e non il lavoro, a essere posto in condizioni di libertà. Il mercato, sovrastruttura funzionale all'economia capitalista e sostanzialmente esistente solo dentro di essa, è il luogo dello scontro tra le due classi sociali - la borghesia e il proletariato -, e le ricorrenti crisi cicliche di tale economia sfoceranno nella crisi finale del capitalismo.
Marx attribuisce altresì un valore negativo al concetto di 'merce', in quanto bene scambiato sul mercato. La merce, infatti, configura un particolare rapporto tra l'uomo e le cose, derivante dal suo essere scambiata al suo valore-lavoro. Tale valore sintetizza determinati rapporti di produzione, l'esistenza del profitto, il dominio dell'uomo sull'uomo.Il problema del calcolo economico nel socialismo, ossia dei valori da attribuire a beni e fattori produttivi in assenza di mercato, si era già posto in particolare con Enrico Barone (v., 1908). Dopo la Rivoluzione russa del 1917, la realizzazione di una società senza mercato divenne un problema pratico da risolversi mediante prezzi amministrati, imposti da un ente centrale di governo dell'economia. Come fissarli, però, senza rinunciare a quell'efficienza allocativa che è una conseguenza naturale del mercato?
Una soluzione di questo problema è stata fornita da Lange e Lerner. L'ente centrale di programmazione svolge le funzioni istituzionali del mercato; fissa, cioè, prezzi, salari e tassi di interesse in modo da uguagliare domanda e offerta; simula i processi di mercato decentrando varie decisioni, ma riservandone alcune (come il tasso di accumulazione) al pianificatore centrale (v. Lange, 1936).
In direzione opposta si colloca la soluzione implicita nel cosiddetto 'esperimento iugoslavo', basato sul concetto di autogestione delle unità produttive da parte dei lavoratori; esso riserva al pianificatore centrale, almeno in via di principio, soltanto compiti di coordinamento, informazione e concertazione volontaria.
La grande crisi del capitalismo degli anni trenta costituisce il clima culturale entro cui si sviluppa la concezione del mercato di J.M. Keynes. Per Keynes, il mercato può non raggiungere naturalmente le condizioni di piena occupazione, previste dalla 'legge di Say' e formalizzate dagli economisti neoclassici, perché la domanda effettiva può rivelarsi inferiore all'offerta complessiva, determinando situazioni di crisi e di disoccupazione involontaria. La domanda deve, in tal caso, essere stimolata con interventi pubblici espansivi diretti (programmi di spesa pubblica) o indiretti (stimoli fiscali alla spesa di individui e imprese).
Su queste linee la scuola keynesiana sviluppò l'idea di un intervento attivo dei pubblici poteri, teorizzando la compatibilità del meccanismo del mercato con la fissazione di obiettivi nazionali e settoriali di sviluppo nell'ambito di una programmazione 'flessibile' diretta dal centro (v. Shonfield, 1965) e la necessità, in questo contesto, di una concertazione tra le parti sociali ('politica dei redditi') promossa dal governo per predeterminare il tasso dei salari e dei profitti.
Questa concezione del mercato, che oggi appare riduttiva, fu a suo tempo intesa come l'ancora di salvezza di un capitalismo minacciato, oltre che dalla crisi interna, dallo scontro con il socialismo reale. Negli anni cinquanta Keynes fu attaccato da sinistra come il rappresentante del neocapitalismo che cercava di salvare il sistema di mercato; due decenni più tardi venne attaccato come esponente di un pensiero sostanzialmente contrario al mercato.
L'azione di governo dei mercati teorizzata dal keynesismo comportava interventi restrittivi oltre che espansivi della domanda globale. Dopo una lunga fase espansiva in cui le ricette keynesiane si rivelarono efficaci, i livelli di spesa si consolidarono e si rivelò sempre più difficile ridimensionare la domanda anche per il peso relativamente scarso attribuito alla politica monetaria. Si aprì così la via all'inflazione degli anni settanta.
Queste difficoltà contribuirono all'affermarsi di una concezione del mercato che si richiama al pensiero neoclassico e pone soprattutto l'accento sui caratteri di razionalità del comportamento individuale. Secondo tale concezione, neppure le aspettative dei partecipanti al mercato sono plasmate dall'esperienza storica, ma sono aspettative razionali; essendo razionali, gli individui effettuano da sé e per sé quell'attività di programmazione che il governo non appare in grado di svolgere con successo. L'azione di politica economica viene giudicata inutile, d'importanza secondaria o addirittura dannosa eccetto che per il controllo della crescita della massa monetaria (da effettuarsi, in ogni caso, sulla base di parametri oggettivi). Da concetto tributario di discipline filosofiche e scientifiche, il mercato diventa, con i nuovi economisti classici, esso stesso un paradigma forte: una società di uomini liberi può essere definita come un insieme di mercati, purché si intenda come mercato, in senso più ampio di quello tradizionale nell'analisi economica, qualsiasi tipo di scambi volontari, anche di natura non pecuniaria. L'allargamento del concetto di mercato a (quasi) tutti i fenomeni economico-sociali fa sì che il mercato stesso non rivesta soltanto la funzione di distributore ottimale di risorse economiche, ma tenda altresì a diventare il principale, se non l'unico, meccanismo di regolazione dei rapporti e di coordinamento tra gli individui (v. Bosanquet, 1983). I meccanismi selettivi della concorrenza (v. § 1a) vengono interpretati talora in senso darwiniano (v. Nelson e Winter, 1982), giustificando in tal modo il comportamento 'spietato' e comunque non collaborativo verso i più deboli.
Un esempio importante di estensione del concetto di mercato è dato dalla sua applicazione alla famiglia, giustificata e spiegata in chiave razionale quale risultato della mutua convenienza dei suoi membri (v. Schultz, 1979; v. Becker, 1981). In quest'impostazione allo Stato e a tutte le istituzioni collettive non può non essere attribuita un'origine contrattualistica. Il processo politico di una democrazia viene interpretato come 'mercato politico' (v. Buchanan e Tollison, 1972). L'organo politico rappresentativo viene inteso come produttore di decisioni che gli elettori 'acquistano' mediante il voto, scegliendo tra le offerte dei candidati quella meno lontana dai loro desideri, su un mercato con caratteri concorrenziali.
Due interpretazioni originali del mercato, dense di sviluppi e di conseguenze, sono dovute a due economisti austriaci quasi contemporanei: Schumpeter (nato nel 1883) e Hayek (nato nel 1899).
Per Schumpeter l'imprenditore non 'partecipa' ai mercati, li 'crea', in quanto vi si presenta con prodotti nuovi, in grado di generare profitti monopolistici transitori. Il mercato è il luogo in cui la validità di tale 'creazione' viene verificata attraverso la 'distruzione creatrice' dei prodotti esistenti. Artefici di questa distruzione creatrice sono, per Schumpeter, soprattutto le grandi imprese, tendenti al monopolio, al quale, peraltro, giungono solo per periodi limitati di tempo, data la transitorietà del loro vantaggio creativo. Il profitto monopolistico associato a questa fase è un compenso per l'attività innovativa (v. Schumpeter, 1942).
Si realizza così una concorrenza giocata a colpi di innovazioni, portatrice non già di equilibrio, bensì di squilibri, e come tale generatrice di progresso. Le innovazioni si verificano generalmente a grappoli o 'sciami' e sono quindi concentrate nel tempo; esse danno in tal modo origine a 'onde lunghe', di durata pluridecennale, con alternanza di diverse velocità di espansione, che caratterizzano l'esperienza storica delle economie di mercato.
Hayek è un esponente di primo piano del liberismo, ma la sua idea del mercato si differenzia nettamente da quella del 'filone centrale' dell'economia. Per Hayek il sistema di mercato deve intendersi essenzialmente come un meccanismo di trasmissione diretta di conoscenze attraverso i segnali rappresentati dai prezzi. Mentre però la concorrenza perfetta ipotizza conoscenza perfetta, nel modello di mercato hayekiano (che egli chiama 'catallassi' appositamente per distinguerlo dalla concorrenza) le conoscenze sono necessariamente parziali e imperfette e solo attraverso il mercato si coordinano. Mentre la concorrenza perfetta conduce a un equilibrio stazionario, l'equilibrio della catallassi hayekiana ha carattere evolutivo e vi è in esso lo spazio per l'innovazione imprenditoriale (v. Hayek, 1973-1979).
Per Hayek la società progredisce facendo uso di conoscenze disperse, che non possono essere riunite e sintetizzate da un pianificatore centrale o anche solo da un organismo di coordinamento del mercato. L'ordine di mercato non deve essere quindi rozzamente inteso come un mezzo che consente di giungere a un fine predeterminato, bensì semplicemente come un processo di scambio che consente agli individui di agire in maniera sufficientemente prevedibile in un mondo mutevole e incerto.
In quanto elemento di importanza crescente nell'ordine sociale, il mercato ha attirato l'attenzione delle Chiese, che, in genere, lo giudicano favorevolmente, pur con limitazioni varie. Ciò è evidente nella Bibbia e nel Corano, il quale ammette esplicitamente il profitto e implicitamente assegna un ruolo allo Stato nel caso di monopoli naturali. Tuttavia il buon imprenditore musulmano deve pagare prezzi 'equi' e retribuzioni 'ragionevoli'; sussiste la proibizione dell'interesse, che viene però superata da un'associazione in partecipazione del creditore all'attività del debitore.Il pensiero protestante, in particolare, considera il mercato luogo di estrinsecazione della libertà individuale. Autorevoli interpretazioni (Weber, Sombart, Tawney) vedono un collegamento diretto tra l'etica protestante e la diffusione del capitalismo.
Per la Chiesa cattolica il limite del mercato è l'"originale destinazione comune dei beni creati". Nella Centesimus annus di Giovanni Paolo II si opera una distinzione tra bisogni 'solvibili' e risorse 'vendibili', da un lato, per i quali il libero mercato è riconosciuto come strumento efficace, e gli altri bisogni. Prima ancora dello scambio "qualcosa è dovuto all'uomo perché uomo" (Centesimus annus, 34). Un ulteriore limite del mercato è individuato nella necessità di difendere i beni collettivi (Centesimus annus, 40).
È questione ampiamente dibattuta tra gli storici e gli antropologi se il mercato sia una componente essenziale delle comunità umane oppure se sorga solo in tempi relativamente recenti. Su questa seconda posizione si colloca un filone di pensiero che ha le sue radici nella concezione marxiana del mercato (v. § 3b) e in Polanyi un autorevole esponente. Polanyi (v., 1944) sostiene che l'economia di mercato sarebbe stata pressoché inesistente prima del IV secolo a.C. e fa risalire alla rivoluzione industriale il momento della 'grande trasformazione', quando essa divenne il paradigma dominante della società occidentale. Prima di allora non il profitto bensì il dovere, l'onore e il prestigio avrebbero dominato i rapporti economici. I prezzi sarebbero, sì, esistiti, ma sarebbero stati determinati dalla tradizione, scarsamente e lentamente sensibili al mutare della domanda e dell'offerta. Da posizioni ideologicamente molto distanti anche Hayek (v. § 3d) afferma l'esistenza di uno stadio 'tribale' dello sviluppo umano, anteriore al mercato (v. Hayek, 1973-1979).
Recenti scoperte archeologiche hanno rivelato l'esistenza, tra la Mesopotamia e la Palestina, nel II millennio a.C., di una sofisticata rete commerciale, e rendono quindi difficile sostenere in pieno questa tesi; appare però evidente che rapporti 'tradizionali' nel senso di Polanyi e di Hayek dovessero essere ampiamente presenti in società in cui il costo delle comunicazioni era altissimo e quindi il commercio era comunque limitato a beni di elevato valore.
Fu solo con l'Impero romano che si svilupparono mercati e commerci che, per certi versi, possono essere definiti 'di massa', come dimostra il vettovagliamento di grandi concentrazioni urbane, a cominciare da Roma stessa, con grano proveniente dalla Sicilia e dall'Africa. La ricerca storica non ha chiarito appieno il contesto istituzionale e creditizio del mercato nell'Impero romano, ma è ben documentata la tendenza secolare all'aumento dell'ingerenza pubblica che giunge fino all'imposizione estesa di prezzi amministrati, limitando comunque il grado di concorrenzialità. Il frantumarsi dell'unità geoeconomica del Mediterraneo, con l'invasione araba e lo spostamento a nord del centro politico dell'Europa, provocò una sensibile riduzione degli scambi - e quindi dell'importanza dei mercati - in tutta l'Europa occidentale. Nell'economia curtense dell'alto Medioevo il feudo tende all'autarchia e il mercato ha carattere occasionale o sporadico con una limitatissima circolazione monetaria.
Dopo il Mille, il mercato, pur riguardando una piccola parte della produzione, prevalentemente incentrata sulle attività tessili e su alcuni beni di lusso, rinacque con forme giuridiche specifiche (nelle fiere veniva sospesa l'efficacia delle leggi normali) e specifici strumenti e istituzioni finanziarie (le 'lettere di cambio' e le banche). A causa dell'elevatissima incidenza del costo dei trasporti, l'organizzazione dei commerci necessitava di una concentrazione di capitali spesso più rilevante di quella necessaria per la produzione, realizzata con tecnologie preindustriali. Si formò così una classe 'capitalista' di natura mercantile e di respiro internazionale operante in condizioni di tipo concorrenziale; parallelamente, per i prodotti di uso locale, il sistema delle corporazioni diede origine a un mercato strettamente regolato con prezzi rigidi ed elevatissime barriere all'entrata.
Tra il Quattrocento e il Settecento, mentre permaneva la rigida regolazione dei mercati locali, specialmente urbani, il 'grande commercio' si organizzò a livello mondiale; si affermarono lentamente e in maniera spesso contrastata i mercati di alcuni prodotti agricoli (il tè, le spezie, il cotone e simili), con le grandi compagnie commerciali, l'attività bancaria e le borse (v. Wallerstein, 1974-1980; v. Braudel, 1979). Contemporaneamente, con le leggi inglesi sulle enclosures e il graduale passaggio, nell'Europa occidentale, dai beni feudali ai beni allodiali, si affermò il diritto di proprietà privata sulla terra e con esso la possibilità di alienarla (v. Deane, 1965). Nacque un mercato dei fondi agricoli, premessa a una riorganizzazione produttiva dell'agricoltura, resa possibile da nuove tecniche di coltivazione e allevamento, che la orientò maggiormente allo scambio. Il lavoro salariato con retribuzione monetaria sostituì gradualmente il lavoro servile e i compensi in natura.
Lo sviluppo del mercato appare quindi fortemente influenzato da due tipi di fattori, entrambi necessari: le tecnologie e le regole. Dalle prime dipendono la realizzabilità dei prodotti, le condizioni di efficienza produttiva, il livello di concentrazione necessaria e le barriere tecniche all'ingresso sui mercati. Le seconde, essenzialmente stabilite da leggi, determinano invece altri tipi di barriere, relative ai soggetti che possono partecipare ai mercati e alle loro possibilità operative; determinano altresì il ruolo del settore pubblico in quanto controllore, stimolatore e penalizzatore dell'attività economica - tramite politiche di incentivazione e di disincentivazione - e anche produttore.
Questa chiave interpretativa consente di dar ragione dell'estendersi e del rafforzarsi del mercato a partire dalla seconda metà del Settecento con la rapida diffusione delle tecnologie industriali e il parallelo sviluppo istituzionale dei mercati (v. North, 1990). Appare peraltro difficile stabilire un prius storico e logico tra tecnologie e regole, elementi tra i quali si stabilisce una dialettica complessa. Secondo le concezioni liberiste (v. §§ 3a e 3d) tale dialettica è conoscibile solo sperimentalmente attraverso i segnali dei prezzi, mentre secondo le concezioni socialiste essa è governabile da un'autorità pianificatrice centrale (v. § 3b).
È in ogni caso possibile stabilire che dalle tecnologie industriali vennero due spinte opposte, con fasi alterne di prevalenza. Le tecnologie, infatti, richiesero da un lato crescenti concentrazioni di capitale, con tendenza alla riduzione del numero dei produttori-venditori; parallelamente, però, il diffondersi delle ferrovie, delle navi a vapore, del telegrafo ridusse il costo dei trasporti, attenuò le barriere tecniche all'ingresso, allargò l'ambito geografico dei mercati, favorendo l'aumento del numero dei produttori-venditori. L'allargamento fu facilitato da potenti ondate di innovazione tecnologica, che crearono mercati nuovi, nei quali a condizioni temporanee di monopolio seguirono rapidamente condizioni di oligopolio e concorrenza monopolistica.
Si può ugualmente stabilire che lo sviluppo delle regole procedette nel senso dell'estensione e della specificazione dei diritti di proprietà, soprattutto sui prodotti dell'ingegno, della regolamentazione del mercato del lavoro, con contrattazione collettiva in regime di quasi monopolio bilaterale, e di quello del capitale (v. § 1c). Si restrinsero, con la società per azioni, i limiti della responsabilità personale del proprietario, fino a fare del capitale un'entità anonima, separata dalle persone dei possessori e pertanto aggregabile in concentrazioni superiori alle disponibilità dei singoli. Queste spinte regolatrici contribuirono anch'esse al sorgere di un proletariato industriale e di una borghesia detentrice del capitale produttivo.
Nelle ricorrenti crisi cicliche prevalse la tendenza a politiche industriali interventiste, di tipo protezionista, con elevate tariffe doganali, sussidi, salvataggi ed estensione dell'area produttiva pubblica. Nei periodi di espansione si osserva invece la tendenza all'abbattimento delle barriere, all'allargamento del mercato, al contenimento dell'intervento pubblico.L'ampliamento del mercato ha dato origine, nel corso degli anni cinquanta e sessanta di questo secolo, ad alcune centinaia di grandi gruppi industriali e finanziari - le cosiddette 'società multinazionali' - con attività in ambito mondiale, generalmente non limitate a un solo settore merceologico, ma con controllo fortemente accentrato nei singoli paesi d'origine. Queste società hanno operato sovente in condizioni di accentuato oligopolio e con un forte potere di orientamento del mercato.
Si può datare dalla crisi petrolifera (1973) l'inizio di un periodo di profonda trasformazione del sistema di mercato. L'emergenza energetica, infatti, stimolò la sostituzione con tecnologie elettroniche delle tecnologie meccaniche, più dispendiose in termini di energia. Le tecnologie elettroniche, a loro volta, determinarono la riduzione sia delle barriere tecniche di ingresso sia - in molti ma non in tutti i settori - del capitale necessario per una produzione efficiente. Esse favorirono così il ridimensionamento delle unità produttive, la loro localizzazione diffusa, il sorgere di imprese di dimensioni medie o medio-piccole con interessi estesi ben al di là del loro tradizionale ambito, locale o nazionale.
L'effetto congiunto di queste due tendenze ha scardinato, in molti settori, gli antichi oligopoli (ne è un esempio eloquente lo stesso settore dei computer), obbligando sovente le società multinazionali a ridurre le proprie dimensioni relative e assolute e a concentrarsi in uno specifico settore di attività, con l'attenuazione o la perdita della leadership dei mercati. Contemporaneamente nuove regole commerciali creano aree di libero scambio sempre più estese. Tale tendenza, iniziata con la costituzione della Comunità Europea (1957) e con gli accordi del GATT (1948 e 1961), è culminata, attraverso un iter tortuoso, nella costituzione, all'inizio del 1995, della World Trade Organisation (WTO), che ha gettato le basi per la libera circolazione non solo delle merci ma anche dei servizi, dei brevetti, del lavoro e del capitale.
Alle regole di origine pubblica si aggiungono quelle, spesso elaborate da organismi autonomi, che sovrintendono ai singoli mercati. In ambedue i casi vi è la tendenza a intervenire ampiamente in difesa degli acquirenti sui mercati a concorrenza monopolistica (controllo dei messaggi pubblicitari, norme a garanzia della qualità) contro i comportamenti collusivi tra produttori e le conseguenze negative indirette derivanti dalla produzione (diseconomie esterne: v. cap. 5). Privatizzazioni e riduzione dei poteri pubblici di intervento e controllo (deregulation) attenuano la presenza, diretta e indiretta, dello Stato nei mercati.
Quest'evoluzione ha fatto sì che, verso la metà degli anni novanta, i mercati siano divenuti maggiormente 'contendibili' (v. § 1a) e che il livello di concorrenzialità delle economie di mercato sia oggi molto elevato.
Non vi è mercato se i soggetti non hanno potere di scelta (v. cap. 1); l'assenza di tale potere si verifica sempre in un sistema totalmente pianificato dal centro, mentre nelle economie di mercato una simile situazione, che comporta prezzi amministrati e razionamento, si verifica in maniera generalizzata solo in caso di guerra, di calamità naturali e di altre gravi emergenze.
Ugualmente non è possibile il mercato in assenza di regole che lo governino, oppure quando non esistono mezzi di pagamento adeguati. Tutto ciò esclude dal mercato gli scambi di servizi personali che avvengono all'interno delle famiglie: nulla può 'pagare' l'assistenza gratuita di una madre a un figlio infermo.
La natura del bene o della prestazione può essere tale da escludere che sia oggetto di scambio, e quindi di mercato, anche al di fuori dell'ambito familiare. È il caso dei beni collettivi, per l'impossibilità di formulare una domanda autonoma (se non eventualmente, nella formulazione iperliberista, mediante il mercato politico; v. § 3c): nessun privato può 'comprare' la manutenzione stradale, l'illuminazione pubblica, la sentenza di un giudice (se ciò formalmente avviene, l'atto cambia natura) o il servizio della polizia (se ciò avviene, anche la prestazione della polizia cambia natura e il poliziotto si trasforma in guardia del corpo). Vi è quindi un fallimento del mercato, mentre è invece possibile che i servizi pubblici, forniti in risposta a una domanda non di mercato, vengano prodotti a seguito di aste competitive o che diverse unità produttive dell'amministrazione pubblica competano tra loro per soddisfare la domanda, ottenendo, in caso di successo, non già maggiori profitti ma dotazioni migliori, ecc. È questo il cosiddetto mercato interno all'amministrazione pubblica, che si ha, per esempio, quando gli utenti possono spendere presso diversi fornitori pubblici speciali 'buoni' (vouchers) loro assegnati che danno diritto alla prestazione gratuita.
Vi è inoltre una forte difficoltà a far rientrare in maniera efficiente nell'ambito degli scambi di mercato i beni non riproducibili oppure riproducibili in quantità limitata e in tempi lunghi, specie quando, attraverso il loro sfruttamento, subiscono trasformazioni, spesso irreversibili, con forti svantaggi generali (diseconomie esterne). La scarsità sociale sposta il confine del mercato annettendo una parte della sfera del legittimo interesse individuale a quella delle obbligazioni sociali. Il trascurare questa sfera corrode la base stessa delle economie di mercato (v. Hirsch, 1976). Per allocare questi beni è possibile procedere con un razionamento casuale (per esempio nel caso del parcheggio dell'auto in una zona congestionata) o con un razionamento consapevole (effettuato in base a criteri esterni al mercato, ad esempio riservando un certo numero di posti nei parcheggi alle auto dei medici, della polizia, ecc.). La realtà mostra spesso la coesistenza pragmatica di questi tre criteri (una parte dei posti-auto assegnata a categorie speciali; una parte affidata al razionamento casuale; una parte lasciata al mercato, spesso grazie all'opera di un posteggiatore abusivo).
Un altro limite è dato dalla spinta all'uniformità. Secondo una massima attribuita a Ludwig von Mises, il mercato è "produzione di massa per le masse". In quanto meccanismo di regolazione sociale, esso tende a ottenere risultati migliori là dove maggiori sono le uniformità dei beni oggetto del mercato e là dove la domanda è meno differenziata. Il mercato esercita, perciò, una forte spinta all'uniformità dell'oggetto, solo in parte contrastata dalle onde lunghe dell'innovazione.
Per l'azione delle economie di scala, i gusti delle minoranze troveranno la loro soddisfazione a un prezzo più elevato di quelli delle maggioranze; pur avendo la tecnologia elettronica spesso contribuito ad abbassare la soglia di produzione minima per poter restare sul mercato, una domanda al di sotto di tale soglia non trova soddisfazione sul mercato. Se un quotidiano, per poter sopravvivere, deve vendere ogni giorno almeno centomila copie, qualsiasi gruppo politico, religioso o simile che non riesca ad assicurare il volume di vendita minimo deve rinunciare a vedere le proprie convinzioni espresse da un quotidiano in grado di stare sul mercato.Il mercato tende inoltre a rappresentare una soluzione 'totalizzante', nel senso che la presenza di mercati a monte è spesso una condizione indispensabile per il funzionamento ottimale di un determinato mercato. Esso si propone quindi come soluzione globale dei problemi della società e tende a espandersi all'intera società. Ciò può causare l'eliminazione di tutto quanto non è in grado di stare sul mercato. Si rischia così l'eliminazione del 'diverso'. Questo significa che il mercato può ampliare enormemente la gamma delle scelte in alcuni settori, fino al punto di rendere impossibile una decisione razionale, ma ridurla contemporaneamente in altri, eliminando le opzioni più 'radicali' o minoritarie.
Per conservare il 'diverso' appare quindi necessario un deliberato intervento pubblico - di tipo non assistenziale ma promozionale - che, al limite, costituisce la vera salvaguardia della molteplicità e della varietà. Per il funzionamento accettabile di un'economia di mercato è indispensabile, anche al di là della fornitura dei servizi pubblici, la presenza di attività non di mercato, finanziate volontariamente dalla collettività oppure mediante la tassazione. (V. anche Capitalismo; Concorrenza; Economia internazionale; Finanziari, mercati; Liberismo; Monopolio e politiche antimonopolistiche; Oligopolio; Protezionismo).
Bain, J.S., Barriers to new competition: their character and consequences in manufacturing industries, Cambridge, Mass., 1956.
Barone, E., Il ministro della produzione nello Stato collettivista, in "Giornale degli economisti", settembre-ottobre 1908.
Baumol, W.J., Panzar, J.C., Willig, R.D., Contestable markets and the theory of industrial structure, New York 1982.
Becker, G.S., A treatise on the family, Cambridge, Mass., 1981.
Bosanquet, N., After the new right, London 1983.
Braudel, F., Civilisation matérielle, économie et capitalisme (XVe-XVIIIe siècle), vol. II, Les jeux de l'échange, Paris 1979 (tr. it.: Civiltà materiale, economia e capitalismo, secoli XV-XVIII, vol. II, I giochi dello scambio, Torino 1981).
Buchanan, J.M., Tollison, R.D. (a cura di), Theory of public choice, Ann Arbor, Mich., 1972.
Chamberlin, E.H., The theory of monopolistic competition, Cambridge, Mass., 1933 (tr. it.: La teoria della concorrenza monopolistica, Firenze 1961).
Croce, B., Liberismo e liberalismo, Napoli 1928.
Deane, P., The first industrial revolution, Cambridge 1965 (tr. it.: La prima rivoluzione industriale, Bologna 1971).
France, G. (a cura di), Concorrenza e servizi sanitari, in Quaderni per la ricerca, serie studi/33, CNR, Istituto di studi sulle regioni, 1994.
Hayek, F.A. von, Law, legislation and liberty: a new statement of the liberal principles of justice and political economy, 3 voll., Chicago 1973-1979 (tr. it.: Legge, legislazione e libertà, Milano 1986).
Hirsch, F., Social limits to growth, New York 1976 (tr. it.: I limiti sociali allo sviluppo, Milano 1981).
Lange, O.R., On the economic theory of socialism, in "Review of economic studies", 1936, IV, 1, pp. 53-71 (tr. it.: Sulla teoria economica del socialismo, in "La rivista trimestrale", settembre 1962).
Locke, J., An essay concerning the true, original extent and end of civil government, London 1689.
Marx, K., Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, 3 voll., Hamburg 1867-1894 (tr. it.: Il Capitale. Critica dell'economia politica, 3 voll., Roma 1954-1956).
Nelson, R.R., Winter, S.G., An evolutionary theory of economic change, Cambridge, Mass., 1982.
North, D.C., Institutions, institutional change, economic performance, Cambridge 1990 (tr. it.: Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell'economia, Bologna 1994).
O'Driscoll, G.P., Rizzo, M.J., The economics of time and ignorance, New York 1985.
Pareto, V., Manuale d'economia politica, Milano 1906.
Polanyi, K., The great transformation, New York 1944 (tr. it.: La grande trasformazione, Torino 1974).
Quesnay, F., Tableau économique, Paris 1758 (tr. it.: Il Tableau économique e altri scritti di economia, a cura di M. Ridolfi, Milano 1973).
Robinson, J., The economics of imperfect competition, London 1933 (tr. it.: L'economia della concorrenza imperfetta, Milano 1973).
Salamon, L.M., Anheier, H.K., The emerging sector: the nonprofit sector in comparative perspective - an overview, Baltimore 1993.
Say, J.-B., Traité d'économie politique, 2 voll., Paris 1803 (tr. it.: Trattato di economia politica, Torino 1854).
Schultz, T.W., Economics of the family: marriage, children and human capital, Chicago 1979.
Schumpeter, J., Capitalism, socialism and democracy, New York 1942 (tr. it.: Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano 1955).
Shonfield, A., Modern capitalism. The changing balance of public and private power, London 1965 (tr. it.: Il capitalismo moderno, Milano 1966).
Simon, H.A., Economics, bounded rationality and the cognitive revolution, Aldershot 1992.
Smith, A., An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), in The works and correspondence of Adam Smith (ed. critica a cura di R.H. Campbell, A.S. Skinner e W.B. Todd), vol. II, Oxford 1976 (tr. it.: Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano 1973).
Sylos Labini, P., Oligopolio e progresso tecnico, Milano 1956.
Wallerstein, I., The modern world-system, 2 voll., New York 1974-1980 (tr. it.: Il sistema mondiale dell'economia moderna, 2 voll., Bologna 1978-1982).
Walras, L., Eléments d'économie politique pure, Lausanne-Paris-Leipzig 1896³ (tr. it.: Elementi di economia politica pura, Torino 1974).