Vedi Egitto dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Con l’elezione dell’ex feldmaresciallo Abdel Fattah al-Sisi a presidente della repubblica nel maggio 2014, l’Egitto sembra incamminarsi verso un percorso di stabilizzazione chiudendo così il suo ciclo rivoluzionario iniziato nel febbraio del 2011, quando l’allora capo di stato Hosni Mubarak fu costretto a rassegnare le dimissioni in seguito alle vibranti proteste di massa che avevano attraversato il paese a partire dal 25 gennaio. Nonostante il voto plebiscitario conseguito (secondo l’Alta corte elettorale al-Sisi ha ottenuto il 96,91% dei suffragi battendo il nasserista Hamdeen Sabbahi che ha ottenuto appena il 3,9% dei consensi), la transizione egiziana non può definirsi totalmente conclusa in quanto una serie di problemi di varia natura rende ancora irto il cammino di stabilità egiziana. Economia, sicurezza e processo democratico continuano a rappresentare le incognite di maggior rilievo per il nuovo establishment al potere. A queste bisogna infine aggiungere le violenze tra laici e islamisti che hanno lacerato il paese e che sono state reverberate dopo il ritorno sulla scena nazionale dei militari il 3 luglio 2014 quando venne deposto con un golpe il presidente Mohammed Mursi. Quest’ultimo non solo non è stato capace di rispondere adeguatamente alle numerose sfide dell’Egitto post-Mubarak, ma non è neanche riuscito a garantire l’unità del tessuto sociale del paese, né a porre un freno alla crescente polarizzazione del sistema egiziano chiudendo invece ad ogni richiesta di apertura politica da parte dei suoi stessi cittadini e degli apparati di potere (su tutti magistratura ed esercito). Ne è conseguito un intervento diretto dei militari per instaurare un nuovo regime e lanciare una quasi immediata repressione della Fratellanza musulmana, a cui hanno fatto seguito le decisioni del governo di dichiarare il movimento islamista come ‘organizzazione terroristica’ (dicembre 2013) a seguito di alcuni attentati avvenuti nel paese – sebbene questi siano stati poi rivendicati da Ansar Bayt al-Maqdis, sigla jihadista operativa nel Sinai –, nonché l’arresto di suoi numerosi membri, culminati nell’aprile 2014 in una condanna a morte nei confronti di 1200 membri aderenti al movimento fondato da Hassan al-Banna. A queste azioni eclatanti hanno fatto seguito quelle altrettanto rilevanti della magistratura cairota di mettere al bando Hamas (marzo 2014) e il Partito libertà e giustizia, quest’ultimo braccio politico dell’Ikhwan (agosto 2014). In questo clima di incertezza e contrapposizione, al-Sisi si è proposto come l’uomo forte d’Egitto e l’unica persona in grado di garantire l’ordine e la stabilità necessaria al paese. Tuttavia, il giro di vite lanciato dalle autorità centrali egiziane ha aumentato anche il rischio di radicalizzare il confronto non solo con la Fratellanza musulmana, ma anche con tutte le altre entità islamiste alcune delle quali attive nel Sinai e vicino il confine libico, con lo scopo di destabilizzare il potere centrale attraverso un’insurrezione armata.
L’onda lunga del golpe 2013 non si è limitata al solo ambito interno ma ha avuto importanti ripercussioni anche nelle relazioni esterne, le quali hanno conservato alcuni tratti di continuità con il passato mubarakiano. Le priorità dei governi di transizione e di quello di al-Sisi sono state centrate sul mantenimento di legami cordiali con gli Stati Uniti e l’Unione Europea (Eu) e sulla ricerca di nuovi partner economici, commerciali e militari come la Russia e la Cina rafforzando, allo stesso tempo, i rapporti con le monarchie arabe del Golfo, principali sponsor politici ed economici del nuovo corso egiziano. Finora questa strategia ha funzionato relativamente bene garantendo al Cairo una liquidità necessaria a coprire il fabbisogno primario grazie soprattutto ai finanziamenti giunti dal Kuwait, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti che hanno versato nelle casse dello stato circa una ventina di dollari in due pacchetti distinti. In particolare Riyadh, il maggiore alleato del nuovo corso egiziano, si è fatto promotore in più occasioni con gli altri partner arabi e internazionali per l’istituzione di una conferenza di donatori per l’Egitto in grado di favorirne una stabilizzazione economica e quindi anche politica. L’intervento non disinteressato di Riyadh ha permesso allo stesso tempo un allontanamento del Cairo dalle relazioni con i filo-islamisti Turchia e soprattutto Qatar, che prima della destituzione di Mursi era il principale partner economico e politico degli islamisti egiziani. Anche i rapporti con la Turchia sono andati peggiorando tanto che Il Cairo ha ritirato la sua rappresentanza diplomatica da Ankara declassando le reciproche relazioni bilaterali al livello più basso. Sempre sul piano regionale i rapporti con Hamas e la Striscia di Gaza hanno conosciuto un nuovo stop, con la chiusura dei valichi di confine nel Sinai e la fine dell’alleanza instaurata nei mesi precedenti, mentre le relazioni con Israele rimangono convergenti e mirate al mantenimento dello status quo, in particolare nell’area strategica del Sinai, divenuta negli ultimi anni il cuore dell’instabilità per entrambi i paesi.
Un’instabilità che non riguarda solamente il Sinai ma coinvolge anche i confini egiziani condivisi con Libia e Sudan, i quali pongono un importante problema di sicurezza e di stabilizzazione delle frontiere. Proprio l’Egitto – accusato al pari degli Emirati Arabi Uniti di essere il responsabile dei raid aerei a Tripoli contro le milizie islamiste libiche – temendo un possibile effetto spill over delle violenze sul proprio territorio, a causa delle continue infiltrazioni jihadiste, ha alzato il livello di allerta nel suo confine occidentale e ha proceduto assieme agli altri paesi confinanti con la Libia nel definire una strategia comune di contenimento della minaccia libica. Se una Libia stabile e un Sinai sotto il controllo statale risultano fondamentali per l’Egitto, anche il mantenimento di buone relazioni con il Sudan è ugualmente di vitale importanza negli interessi del Cairo, vista la posizione chiave che esso ricopre nell’afflusso e nella contesa delle acque del Nilo, crisi riesplosa il 29 maggio 2013 quando l’Etiopia ha dato ufficialmente il via ai lavori di costruzione dell’imponente Diga del millennio sul Nilo Azzurro. Sebbene Addis Abeba non abbia rinunciato a voler costruire l’infrastruttura strategica sono in corso tra i due paesi frequenti colloqui per dirimere la controversia attraverso un accordo vantaggioso per entrambe le parti. I maggiori cambiamenti nel nuovo corso diplomatico egiziano si sono registrati tuttavia sul piano internazionale ed in particolare nel raffreddamento della partnership con gli Stati Uniti, anche in considerazione delle critiche espresse da Washington all’esecutivo sulla mancata scarcerazione del deposto Mursi e sulla dura repressione della Fratellanza musulmana. Nonostante le frizioni e i tentativi di riavvicinamento degli ultimi tempi (per esempio lo scongelamento di circa 600 milioni di dollari in aiuti economici e la consegna nel dicembre 2014 degli elicotteri Apache da utilizzare nelle campagne di counter-terrorism nel Sinai), nessuna delle due parti sembra disposta ad affrontare una rottura completa del rapporto. Per gli Usa, le relazioni con l’Egitto riveste un ruolo centrale anche alla luce della comune lotta contro il terrorismo internazionale. Parimenti per l’Egitto è importante non compromettere una relazione strategica di così lunga data, visti gli importanti aiuti finanziari e militari versati annualmente da Washington al Cairo (circa 1,3 miliardi di dollari). Anche con l’Eu le relazioni sono rimaste pressoché stabili. La sponda nord del Mediterraneo rimane il principale partner commerciale del Cairo, nonostante le tensioni intercorse per il golpe militare e la repressione dei Fratelli musulmani.
Anche in risposta a questa nuova fase nei rapporti con i partner tradizionali, l’Egitto ha iniziato ad espandere la sua rete di relazioni con alleati non tradizionali come l’India, la Cina e la Russia. In particolare con quest’ultima, il governo del Cairo ha avviato un nuovo dialogo strategico che ha portato, nel novembre 2013, alla firma di un importante memorandum del valore di 3 miliardi di dollari per la fornitura di armi e all’esplorazione di nuove forme di collaborazione economica e infrastrutturale come nel caso dei lavori di ampliamento del Canale di Suez.
Dopo la caduta di re Farouk nel golpe militare del 1952, l’Egitto è stato trasformato in una repubblica, sebbene da allora nel paese sia stato in vigore un regime autoritario sostenuto dai militari. La Costituzione del 1971 – più volte emendata – conferiva al presidente ampi poteri: oltre al comando delle forze armate, al capo dello stato spettava la nomina del primo ministro e del consiglio dei ministri, nonché dei governatori provinciali, dei comandi delle forze armate e di sicurezza, delle più importanti figure religiose e dei giudici dell’alta corte. A ciò si aggiungeva anche un diritto di veto sulle leggi. A seguito della caduta di Mubarak, il processo di scrittura della nuova Costituzione ha subito vicende alterne, a cominciare dal referendum del marzo 2011, che ha confermato alcuni cambiamenti costituzionali voluti dalla giunta militare in quel momento al potere.
Dopo la deposizione di Mursi, una nuova Costituzione è stata approvata a larga maggioranza con un referendum tenutosi a gennaio 2014. Il testo, che sembra essere una riedizione della Costituzione del 1971, rafforza il ruolo preminente delle forze armate (artt. 203, 204 e 234): i tribunali militari possono giudicare i civili; pieni poteri di controllo del budget da parte dell’esercito; autonomia del Consiglio supremo delle forze armate nella nomina del ministro della difesa (per otto anni). In più sono proibiti i partiti religiosi ed è confermata la sharia (art. 2) alla base del diritto egiziano, ma vengono tuttavia aboliti gli artt. 4 e 219 che riguardavano il ruolo della religione nel diritto e nell’esercizio del potere statale. Sebbene la nuova Carta fondamentale conferisca ai militari uno status privilegiato, istituzionalizzando l’influenza dell’esercito sulla gestione politica del paese, contiene elementi di laicità e di garanzie del diritto maggiori rispetto al precedente testo adottato dalla presidenza Mursi.
Con più di 80 milioni di abitanti, di cui più di un terzo sotto i 14 anni, l’Egitto è lo stato più popoloso del mondo arabo. La sua popolazione è quasi raddoppiata negli ultimi trent’anni e la crescita demografica continua a essere superiore alla capacità economica nazionale di sostenerla. Poiché la maggior parte del territorio egiziano è desertico più del 95% della popolazione vive in una ristretta area lungo la fertile valle del Nilo e intorno al delta del fiume (che costituiscono meno del 5% del territorio), con un tasso di densità molto elevato, che in alcune zone della capitale raggiunge più di 100.000 abitanti per chilometro quadrato. Ciò spiega perché la riduzione della pressione demografica – il tasso di crescita della popolazione era stimato all’1,6% nel 2013 – costituisca uno degli obiettivi principali del governo.
Il graduale processo di liberalizzazione dell’economia avviato durante gli anni di presidenza Mubarak da un lato ha favorito la crescita economica, dall’altro ha prodotto un rialzo dei prezzi e una caduta dei salari che, di fatto, hanno peggiorato le condizioni di vita della popolazione.
A ciò si aggiunge il problema della disoccupazione (13%), rimasta elevata soprattutto tra i giovani (circa il 36%) anche sotto il governo di al-Sisi e del premier Mahlab. Il paese non è estraneo neanche a tensioni di carattere religioso tra la maggioranza musulmano-sunnita e la minoranza cristiano-copta, che conta circa il 10% della popolazione.
Gli egiziani rappresentano con il 94% il gruppo etnico dominante, mentre il restante 6% è costituito dai beduini, che abitano nei deserti a est del Nilo e nel Sinai, dai berberi, che si concentrano nell’oasi di Siwa a ovest del Nilo, e dai nubiani, che vivono nell’Alto Nilo. Nel corso degli ultimi decenni in Egitto è confluito anche un numero difficilmente quantificabile di rifugiati politici provenienti dall’Iraq, dal Sudan e dalla Siria che si sono aggiunti ai rifugiati palestinesi affluiti qui fin dal 1948.
La fase di avvicinamento alle elezioni presidenziali del 2014 e quella immediatamente successiva sono state segnate da un accentuato controllo autoritario della vita politica del paese e da numerose restrizioni alle libertà personali da parte del nuovo esecutivo. Ciò ha comportato anche restrizioni alla partecipazione politica, soprattutto, per tutte le formazioni islamiste dichiarate illegali. Questa stretta autoritaria ha portato a un aumento delle proteste di piazza – secondo il report Democracy Index nel paese si sono registrate più di 14.000 manifestazioni contro il governo solo nel 2014 – e a un declassamento del paese nei ranking mondiali per indici di democraticità. In questo contesto caratterizzato da repressione e controllo capillare, la protesta politica, la disaffezione nei confronti del regime e le istanze di apertura democratica degli egiziani hanno spesso trovato espressione su Internet che in Egitto non è soggetto a filtro, sebbene non siano mancati il blocco e l’oscuramento di alcuni siti considerati sensibili. Molti siti e blog di esponenti delle opposizioni laiche ma anche religiose, oltre che di intellettuali indipendenti, in quel periodo sono divenuti lo strumento più naturale per aggirare la censura di stato e per far conoscere le motivazioni dietro la rivoluzione dei giovani egiziani. La rilevanza di questa ‘vitalità virtuale’, d’altra parte, è emersa con tutta le sue potenzialità proprio durante le proteste anti-regime di inizio 2011 e in quelle del 2013, in cui social network come Facebook e Twitter si sono dimostrati mezzi fondamentali per diffondere la mobilitazione all’interno del paese, specie tra le fasce più giovani della popolazione, e per darne visibilità al di fuori, date le forti limitazioni alla libertà di stampa e di informazione.
Numerose manifestazioni e scioperi sono state represse duramente dalle autorità, provocando diverse decine di arresti di giornalisti e di attivisti per i diritti umani. Ancora oggi, anche a causa del perdurare dell’instabilità politica, il quadro generale dei diritti civili e politici nel paese non è migliorato. In tal senso, l’approvazione da parte del governo di una nuova legge molto restrittiva sul diritto di manifestazione che vieta qualsiasi corteo non autorizzato e punisce con il carcere i suoi partecipanti, rende ancora più aspra la contrapposizione non solo tra islamisti e militari, ma anche tra questi e società civile liberale e secolare. Il livello di corruzione (il paese si trova alla 114° posizione su 177 secondo il Trasparency International Index) all’interno delle istituzioni e della pubblica amministrazione rimane un grande problema, sia per quanto riguarda i danni al bilancio statale, sia per il malessere potenzialmente destabilizzante che crea fra la popolazione. Da esso, e più in generale, dal miglioramento del sistema di redistribuzione e di giustizia sociale, dipende il successo o il fallimento del nuovo governo e della transizione egiziana verso la democrazia.
Tra i paesi del mondo arabo l’Egitto è la terza più grande economia dopo l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, con un pil di 286,1 miliardi di dollari. Dal 2006 al 2008 l’economia egiziana è cresciuta in media del 7%, registrando una flessione (4,7%) nel 2009 a causa delle ripercussioni della crisi economica internazionale, per poi riprendersi nel 2010 (5,1%).
Lo scoppio delle rivolte interne e l’instabilità politica che ne è seguita dal 2011 a oggi hanno bloccato la ripresa della crescita economica, la quale si è attestata sul 2,2%. Il forte calo delle attività economiche ha avuto un inevitabile impatto negativo sul quadro macro-economico, evidenziando un aumento del debito pubblico egiziano e del deficit (che corrispondono rispettivamente a più del 100% e al 14% del pil totale), una forte contrazione degli investimenti e il conseguente deterioramento della bilancia dei pagamenti ha causato una repentina emorragia di riserve valutarie, le quali dai 32 miliardi di dollari di fine 2010 sono tornate a stabilizzarsi a poco più della metà dopo il picco minimo raggiunto nel 2012 (11 miliardi). A peggiorare ulteriormente lo stato del deficit, si è aggiunto il piano da 3,2 miliardi di dollari in investimenti pubblici sussidi (quali il salario minimo garantito per i lavoratori impiegati nel settore pubblico), atto a stabilizzare la tensione sociale, approvato dal governo poche settimane prima delle elezioni presidenziali del maggio 2014.
A risentire della profonda tensione politica interna è stato soprattutto il comparto del turismo che costituisce una buona fetta del pil egiziano e contribuiva nel periodo pre-crisi con introiti pari a 11,9 miliardi di dollari. Nel tentativo di ridare fiato all’economia il governo Mahlab ha cercato di stimolare gli investimenti attraverso una parziale riforma del sistema legale e un tentativo di deregulation per ridurre il peso della complessa burocrazia egiziana. Sebbene il governo tardi ad attuare riforme strutturali più profonde di cui l’economia avrebbe bisogno, quest’ultimo ha recentemente lanciato un importante piano di investimenti nel settore infrastrutturale attraverso partnership pubblico-private, come quella riguardante i lavori di ampliamento del Canale di Suez.
Se da un lato questi investimenti potrebbero contribuire ad affrontare il problema della disoccupazione, dall’altro, faranno aumentare il deficit fiscale, già appesantito soprattutto dall’estesa politica di sussidi su beni di prima necessità quali alimenti e carburante. È questa una delle ragioni del mancato accordo sul prestito dell’Imf che richiederebbe l’attuazione di profonde riforme e il taglio ai sussidi, peraltro in parte già ridimensionati dall’introduzione di alcuni provvedimenti legislativi dell’aprile 2014. A dare una boccata di ossigeno alla difficile congiuntura economica egiziana hanno contribuito i preziosi aiuti delle monarchie del Golfo, arrivati copiosamente dalla caduta di Mohammed Mursi nell’estate 2013. Soprattutto grazie all’intensa mediazione di al-Sisi, Arabia Saudita, Kuwait e Emirati Arabi Uniti hanno contribuito alla stabilizzazione economica del paese nel breve periodo impedendo una fuoriuscita dei capitali stranieri ed evitandone un pericoloso default finanziario. L’Egitto figura oggi al 128° posto su 187 paesi analizzati nell’indice sul Doing Business della Banca mondiale (nel 2008 era tra i primi dieci top reformer) e al 118° su 148 paesi nell’indice di competitività globale. Sebbene i costi delle rivolte e della transizione siano elevati e il clima generale rimanga incerto e volatile, la situazione politica in Egitto sembra avviarsi verso una forma di stabilità che potrebbe favorire nel lungo periodo una certa ripresa economica del paese.
L’Egitto rimane fra i principali produttori di petrolio e di gas della regione nonostante l’impoverimento dei giacimenti del Golfo di Suez che ha portato il governo ad avviare attività esplorative di gas e petrolio nelle aree di frontiera, come il Deserto occidentale al confine con la Libia, le zone off-shore del Mediterraneo e il Sinai. Le esplorazioni sono state intraprese da compagnie straniere (in primis Bp e Eni) in collaborazione con la compagnia statale Egyptian General Petroleum Corporation (Egpc). Un’importante infrastruttura per l’esportazione del petrolio è la Suez-Mediterranean Pipeline (Sumed), detenuta al 50% dall’Egitto. Essa rappresenta una via di transito alternativa al Canale di Suez per il petrolio proveniente dal Mar Rosso e destinato al Mediterraneo.
La crescita del consumo elettrico dell’8% annuo (ininterrotta dal 2009) si è sommata dal 2011 al crollo nella produzione di gas (diminuito ogni anno dal 2012 più del 10%), ai ritardi nei progetti di costruzione dei nuovi impianti elettrici e, infine, all’accumulo dei deficit sulle sovvenzioni elargite dal governo a quasi la metà del fabbisogno totale di uso domestico. Tutto ciò si è tradotto in continui black-out, che diventano particolarmente frequenti durante i mesi più caldi dell’anno. La Kuwaiti Petroleum Corporation è corsa in aiuto dell’Egitto, offrendo una copertura di 85.000 barili al giorno di greggio e di 1,5 t di diesel per supplire alla mancanza di gas, garantendo una copertura energetica di emergenza fino al 2016. Il tutto finanziato da prestiti del governo kuwaitiano. La capacità di fare fronte a queste criticità energetiche, come di trovare risposte concrete alla difficile congiuntura economica, appare la sfida più pressante dell’esecutivo in carica.
Grazie alla sua posizione geografica strategica, l’Egitto ha svolto un ruolo chiave nella politica e nella sicurezza mediorientale sin dalla Prima guerra mondiale. Nel corso del Novecento potenze come il Regno Unito, l’Unione Sovietica e da ultimo gli Usa hanno considerato il paese come attore di grande importanza nelle loro strategie a livello regionale e mondiale. In particolare, il Canale di Suez si è rivelato cruciale non solo per la sicurezza del Golfo, ma anche delle rotte del commercio tra l’Asia e l’Europa. Dopo le guerre del 1948, del 1967 e del 1973 contro Israele, il presidente al-Sadat ha inaugurato un nuovo corso nella politica regionale egiziana, sfociato nella firma degli Accordi di Camp David nel 1978 e del Trattato di pace con Israele nel 1979. Se il riavvicinamento a Tel Aviv, da un lato, ha portato alla rottura delle relazioni diplomatiche con gli stati arabi e all’espulsione dalla Lega Araba dal 1979 al 1989, dall’altro è valso all’Egitto la concessione di aiuti economici e militari statunitensi per 1,3 miliardi di dollari all’anno.
Dalla fine degli anni Settanta, l’Egitto si è adoperato per assicurare la stabilità e la pace regionale. Il paese ha contribuito alla forza internazionale contro l’Iraq durante la guerra del Golfo del 1990-91 con 35.000 effettivi, il contingente più numeroso dopo quelli statunitense e britannico. Allo stesso modo, l’Egitto ha fornito il proprio sostegno logistico agli Usa per l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel 2003, benché Mubarak fosse contrario al rovesciamento del regime di Saddam Hussein per il timore di ricadute negative sulla stabilità regionale e di un ridimensionamento della partnership con gli Usa, nonché del flusso di aiuti provenienti da Washington. L’enfasi sulla stabilità regionale, cui è improntata la politica di difesa egiziana, spiega i diversi tentativi di mediazione condotti dall’Egitto sia tra arabi e israeliani sia, più di recente, tra le diverse fazioni palestinesi. Esse sono state riprese sia dal deposto presidente Mursi, sia dall’attuale governo al-Sisi, dimostrando la volontà di muoversi su una linea di continuità rispetto a questi temi. Sempre in un’ottica di stabilizzazione della regione e di lotta al terrorismo jihadista, lo stato centrale è stato impegnato nella messa in sicurezza dell’area strategica del Sinai e del suo confine orientale a seguito di una recrudescenza del fenomeno all’indomani della destituzione di Mursi nel luglio 2013.
Le relazioni Usa-Egitto sono state caratterizzate a lungo da un rapporto di reciprocità strategica a causa del ruolo del Cairo sia di baluardo dell’Occidente contro la penetrazione sovietica in Medio Oriente e in Africa orientale, sia di avamposto per la proiezione delle forze Usa nel Golfo. Una situazione che è variata a seguito degli eventi rivoluzionari del 2011 e soprattutto del 2013 che hanno imposto una delicata fase di ridefinizione strategica delle relazioni tra Il Cairo e Washington. Un primo cambio di rotta si era palesato ufficialmente il 10 ottobre 2013 quando la Casa Bianca aveva sospeso una parte degli aiuti militari e finanziari all’Egitto, circa 560 milioni di dollari previsti dagli accordi di Camp David del 1979 e poi revocati sul finire del 2013. Un’azione che, di fatto, ha favorito un avvicinamento del Cairo alla Russia di Vladimir Putin. In questo riposizionamento geopolitico dell’Egitto, la Russia ha mosso la sua principale arma diplomatica – il comparto militare – per attrarre a sé l’antico alleato dell’epoca Nasser. Infatti, grazie alla firma di un accordo da 3 miliardi di dollari per la fornitura di armamenti militari (novembre del 2013), Mosca era riuscita a espandere la propria influenza in quello che è visto come uno degli attori cardine della regione. Le successive visite di al-Sisi in Russia (tre, di cui due da ministro della difesa) e la firma di alcuni accordi di partenariato strategico (come la partecipazione egiziana nei lavori di ampliamento del Canale di Suez) hanno confermato sia il rafforzamento del trend commerciale bilaterale (l’interscambio è aumentato del 70%, arrivando a 3,5 miliardi di dollari nel 2012), sia lo shift politico del Cairo verso Mosca. Da parte sua Mosca, pur non aspirando a sostituirsi a Washington come attore principale nella regione, ha approfittato della ridefinizione della politica estera mediorientale Usa per ampliare anche in altri teatri (per esempio in Algeria, in Libia, in Siria e in Iraq) il proprio export militare e aumentare la propria influenza.
Il 4 novembre 2013 al Cairo ha avuto inizio il processo al deposto presidente Mohammed Mursi e ad altre 14 persone del Partito libertà e giustizia accusate di «istigazione alla violenza, teppismo, tortura e uccisione di sette manifestanti dinanzi al palazzo presidenziale di al-Ittihadiyah a Heliopolis (Il Cairo) il 5 dicembre 2012». Il processo potrebbe richiedere diversi mesi: sono oltre 30.000 i faldoni e i documenti da esaminare. Oltre a queste accuse sono giunte a carico di Mursi nuove imputazioni: tentata evasione dal carcere nel 2011 durante le prime rivolte anti-Mubarak e spionaggio a favore di Hamas e del governo del Qatar. Per quest’ultima accusa rischiava la pena di morte. Secondo il procuratore generale del Cairo, Hesham Barakat, l’ex presidente dovrà rispondere di «cospirazione con organizzazioni straniere finalizzata al compimento di atti di terrorismo e rivelazione di segreti a uno stato estero». Stessi addebiti per altre 35 persone, compresi Mohamed Badie e Saad al-Katatni, leader rispettivamente dei Fratelli musulmani e del Partito per la libertà e la giustizia. Destituito da un golpe militare il 3 luglio 2013, Mursi era stato posto immediatamente agli arresti nella prigione di Torah, al Cairo, dov’era imprigionato assieme agli altri leader della Fratellanza musulmana, mentre da novembre 2013 è stato spostato nel penitenziario di Borg al-Arab ad Alessandria. La Corte criminale del Cairo ha annunciato che il 21 aprile 2015 verrà emesso il verdetto su questo processo.
Il 15 maggio 2014 le autorità giudiziarie egiziane hanno condannato a 7 anni di reclusione tre giornalisti di al-Jazeera English, arrestati il 29 dicembre 2013, con l’accusa di aver diffuso ‘false notizie’, di essere una ‘minaccia per la sicurezza nazionale’ e di essere vicini ai Fratelli musulmani, gruppo dichiarato terroristico all’indomani degli attentati di Mansoura del 24 dicembre 2013. La sentenza è stata definita dalla dirigenza qatarina del canale all-news come ‘politica’ e mirata a punire il governo di Doha, sostenitore politico ed economico dell’ex presidente Mursi. Dalla deposizione del leader islamista nel luglio 2013 il network aveva assunto una linea molto critica nei confronti del crescente autoritarismo delle istituzioni transitorie egiziane. Gli arresti e la condanna avevano seguito una serie di intimidazioni, perquisizioni e sequestri contro il personale dell’emittente all’indomani della deposizione di Mursi e culminati con la chiusura della sede del Cairo. Il recente riavvicinamento diplomatico tra Egitto e Qatar, mediato dall’Arabia Saudita, ha favorito anche una svolta nel processo a carico dei giornalisti. Il 3 gennaio 2015, la Corte di cassazione ha ordinato una ripetizione del processo per vizi procedurali.
Il 5 agosto 2014 Ihab Mamish, presidente dell’autorità che gestisce il Canale di Suez, ha annunciato in diretta tv da Ismailia l’inizio dei lavori di ampliamento del nuovo canale. Il progetto del valore di 12 miliardi di dollari, che si rifà a quelli di Mubarak e Mursi, sarà realizzato dalle forze armate egiziane e prevedrà la costruzione di un canale parallelo a quello attuale lungo 72 km. L’infrastruttura sarà realizzata entro il 2016, con la possibilità di creare oltre un milione di nuovi posti di lavoro. Inoltre il progetto comprenderà la costruzione di un altro tunnel, cantieri navali, stazioni di servizio per i cargo ma anche resort per passeggeri. In questa grande opera confluiranno anche capitali russi – anche se non è chiara la quota di partecipazione di Mosca – come confermato anche dall’accordo firmato da al-Sisi e Putin a Soči, in Russia, il 12 agosto 2014 che prevede la creazione di una zona economica di libero scambio russa nell’area di Suez sul modello di quella proposta alla cinese Teda (Tianjin Economic and Technological Development Area) nell’area nel 2012 dal precedente esecutivo Mursi.
Dopo la caduta di Mubarak nel 2011, lo stato di sicurezza nella Penisola del Sinai ha subito un vuoto di potere a causa del collasso degli apparati statali e di sicurezza e al conseguente scoppio di rivolte guidate dalle tribù beduine autoctone e da gruppi terroristici infiltrati nella Penisola e legati ora ad al-Qaida, ora allo Stato islamico (i più attivi sono Ansar Bayt al-Maqdis, Muhammad Jamal Network e Mujahideen Shura Council). Particolarmente colpiti sono stati gli obiettivi militari egiziani, gli impianti e le infrastrutture economiche nella zona tra Sheikh Zuweid, al-Arish e Rafah, vicino al confine israeliano e la Striscia di Gaza, dove sono attive queste cellule che utilizzano i numerosi tunnel che collegano le due aree per il contrabbando di armi e beni. Nel tentativo di ripristinare la legalità, il governo di Mursi aveva avviato – senza fortuna – trattative con le tribù locali beduine. Ciononostante gli attacchi contro i check-point militari e le forze di polizia non hanno conosciuto sosta e dopo il coup d’etat del luglio 2013 si è assistito ad una costante escalation di violenze nella penisola. Una situazione che ha portato le autorità militari a lanciare nuove operazioni di counter-terrorism nell’area nel tentativo di decapitare le cellule jihadiste e di riportare l’ordine statale nella regione, sempre più fuori controllo.
Già dalle prime settimane dopo lo scoppio della rivolta in Egitto il 25 gennaio 2011 fino alla conclusione della rivoluzione il 3 luglio 2013, i rapporti tra Fratellanza musulmana ed esercito sono stati conflittuali. La Fratellanza musulmana, che non aveva partecipato alle prime giornate dei moti ma che era in seguito scesa in piazza intuendo le potenzialità sovvertitrici delle folle di piazza Tahrir, ha perseguito un percorso di legittimazione dopo le repressioni degli anni di Mubarak e di conquista dell’egemonia che ha attraversato varie fasi. Dapprima ha appoggiato il processo costituzionale imposto dall’esercito attraverso lo Scaf (Consiglio supremo delle forze armate) a tal punto che, sbagliando completamente l’interpretazione, si è parlato degli «islamisti che mettevano il cappello sulla rivoluzione controllata dai militari», ma poi ne ha preso le distanze seguendo una via sua propria che la ha condotta a vincere le elezioni politiche e infine a eleggere alla presidenza della repubblica il suo candidato Mohammed Mursi. L’esercito, da parte sua, aveva, appunto, cercato di controllare la rivolta al fine di conservare le strutture del regime mubarakiano, pur senza Mubarak, e di garantire il mantenimento dei propri privilegi sociali ed economici. Ma questa scelta lo poneva inevitabilmente in rotta di collisione con la Fratellanza musulmana, proiettata a far trionfare l’islamismo nella temperie successiva alla dittatura. Quando Mohammed Mursi, nell’estate 2012, ha defenestrato il capo dello Scaf, il maresciallo Tantawi, il conflitto ha raggiunto la sua acme e pareva momentaneamente risolversi a favore degli islamisti. Ciò tuttavia apriva la strada al generale al-Sisi.
Abdal Fattah al-Sisi è nato nel 1954 nel popolare quartiere cairota di Gamaliyya. Ha frequentato l’accademia militare dove si è diplomato col grado di sottotenente a ventitré anni. Ha poi percorso la carriera nell’esercito con buon successo fino ad arrivare al grado di generale. Essendo l’ultima guerra dell’Egitto stata combattuta nel 1973 (la guerra dello Yom Kippur), al-Sisi non ha maturato una esperienza vera e propria di combattimento, ma ha affinato le sue abilità tattiche. Nel 2011 era il più giovane membro dello Scaf anche se, sconosciuto al grande pubblico, non pareva destinato a ulteriori passi in avanti. Il momento topico è accaduto allorché Mursi ha defenestrato Tantawi, sostituendolo proprio con al-Sisi il 12 agosto 2012 come ministro della difesa. Al-Sisi infatti aveva fama di uomo profondamente religioso ed evidentemente Mursi ha creduto di poter trovare in lui una sponda che gli avrebbe permesso ad un tempo di manovrare l’esercito e di proseguire nell’islamizzazione dello stato. Al-Sisi invece è diventato acerrimo avversario della Fratellanza musulmana. Tra il 2012 e il 2013 si è consumato il rovesciamento della situazione. La Fratellanza musulmana e Mursi hanno tentato di porre sotto controllo la magistratura e hanno imposto una nuova costituzione non condivisa. Queste forzature anti-democratiche, unite all’incapacità del governo di affrontare i gravi problemi dell’economia, hanno suscitato contro Mursi le proteste e la mobilitazione di una vasta opposizione. Presentandosi come vindice delle rivendicazioni popolari contro il malvisto governo islamista, l’esercito guidato da al-Sisi ha proceduto il 3 luglio 2013 con un colpo di stato ad abbattere e incarcerare Mursi e a disperdere la Fratellanza musulmana.
La data del 3 luglio segna la fine della rivolta o rivoluzione di gennaio (2011) perché ha interrotto un esperimento di trasformazione delle istituzioni politiche in Egitto che, pur nelle sue storture e contraddizioni, costituiva un interessante laboratorio non solo di potere civile (il primo dopo la nascita della repubblica tra il 1952 e il 1953), ma soprattutto di ascesa legale alla guida del più importante paese arabo di un partito islamista moderato. Al-Sisi è stato frettolosamente promosso feldmaresciallo, ma ha presto deposto la divisa per poter concorrere alle nuove elezioni presidenziali, che ha vinto iniziando il suo mandato l’8 giugno 2014. Dopo il 3 luglio 2013, al-Sisi ha deciso di procedere a una nuova repressione della Fratellanza Musulmana, soffocando le manifestazioni pro-Mursi e incarcerando perfino la guida suprema dell’organizzazione Mohammed Badie. La durezza di questa repressione è stata in parte motivata dal timore che la Fratellanza musulmana potesse essere il cavallo di Troia dell’infiltrazione in Egitto di un islamismo più radicale, ma le sue conseguenze potrebbero essere imprevedibili fino al punto di destabilizzare il paese.
Al-Sisi non è Atatürk, né l’esercito egiziano ha rappresentato un bastione del secolarismo come quello turco. Piuttosto al-Sisi – e lo ha esplicitamente rivendicato – ha di fronte a sé la strada e l’esempio di Gamal Abdal Nasser, il quale governò laicamente lo stato pur nel quadro di un riferimento etico all’islam e la formazione religiosa di al-Sisi potrebbe proprio andare in quella direzione. In ogni caso egli ha di fronte a sé l’oneroso compito non solo di tranquillizzare una nazione ansiosa e agitata, ma anche di intraprendere un cammino di progresso economico e sociale e di recupero del prestigio dell’Egitto sulla scena internazionale