JENCO, Elpidio
Nacque a Capodrise, in Terra di Lavoro, il 9 febbr. 1892, da Nicola e da Camilla Nacca. Dopo aver frequentato il seminario diocesano della sua città fino alla quinta ginnasiale, continuò gli studi al liceo classico P. Giannone di Caserta. Si iscrisse poi all'Università di Napoli, dove si laureò in lettere, conseguendovi in seguito anche il diploma in lingua e letteratura francese.
Si formò, giovanissimo, nell'ambiente della rivista partenopea La Diana, ove ebbe modo di conoscere alcuni fra i maggiori artisti e letterati del tempo. Fu in particolare gratificato da un rapporto di stima e di amicizia con G. Ungaretti - da lui considerato il vero caposcuola della nuova poesia -, il cui stile senza dubbio lo influenzò. Divenne intimo amico dello scultore R. Uccella, con il quale visse a Napoli per un lungo periodo, condividendone la partecipazione attiva alle correnti d'avanguardia che in quegli anni fecero della città partenopea un centro culturale particolarmente vivace.
La collaborazione con le riviste letterarie, iniziata con La Diana, proseguì poi per tutta la vita dello J. che scrisse anche in Vela latina, Cronaca bizantina, L'Unione, Crociere barbare, Realismo lirico e Circoli.
Nel 1918, per conoscere E. Pea, insieme con R. Uccella, si recò a Viareggio, da dove però dovette ripartire ben presto, richiamato, prima a Modena poi a Firenze, per il servizio militare.
Frutto di questo primo soggiorno viareggino fu il saggio La poesia di Enrico Pea (Napoli 1918), pubblicato a cura di Crociere barbare.
Al termine del servizio militare tornò a Capodrise, dove nel 1918 fondò la rivista La Primalba. Pur vivendo nel piccolo centro aveva conservato i contatti con l'entourage della Diana, proseguendo anche gli studi di lingua e letteratura giapponese che gli giovarono l'incarico di redattore capo nella rivista Sakurà (1920-21), diretta dal poeta nipponico H. Shimoi, divulgatore in Italia della cultura del suo paese. Nel 1921, grazie a una segnalazione di Pea, partecipò al concorso per cinque cattedre di materie letterarie nel ginnasio G. Carducci di Viareggio; uscito vincitore, nello stesso anno si trasferì a Viareggio, dove per qualche tempo fu ospitato da Pea nella sua abitazione, a villa Paolina.
Lo J. s'integrò in breve tempo nella cerchia degli intellettuali viareggini, entrando a far parte della Accademia degli Zeteti, aperta a tutti gli artisti di passaggio o residenti, raccolti intorno alla figura carismatica di Pea. Il cenacolo, che si riuniva preferibilmente nel caffè Margherita, ospitò G. Papini, P. Pancrazi, L. Repaci, M. Tobino, G. Puccini e molti altri.
Divenuto preside del liceo Carducci, presso il quale insegnava storia dell'arte, lo J., che era tacciato di simpatizzare per le idee socialiste, nel 1925 fu aggredito da alcuni fascisti, per aver offeso, nel corso di un'accesa discussione politica, il principe ereditario Umberto di Savoia. L'incidente gli costò un breve passaggio in carcere, e il rischio, peraltro superato, di non venire riconfermato nel ruolo scolastico. Nel 1934, con la lirica Ho visto la Vittoria in un campo di grano, vinse il premio "Poeti del tempo di Mussolini", nell'ambito del concorso indetto da L'Artiglio, settimanale della federazione dei Fasci di combattimento di Lucca. Ciò nonostante i rapporti dello J. con il regime non furono mai veramente cordiali tanto che, nel 1943, gli venne ritirata la tessera del partito. Terminata la guerra si iscrisse al partito socialista, venne eletto consigliere comunale e, alle successive elezioni, nominato assessore alla Pubblica Istruzione.
Vincitore di premi letterari di rilievo, come il Giglio (1932), il Caselli (1934), il S. Pellegrino (1948) e il Chianciano (1955), lo J. fu figura di primo piano nella vita culturale della sua città d'adozione: fondò la rivista letteraria Il Sagittario, fu presidente del Centro versiliese delle arti e punto di riferimento per molti giovani esordienti nel campo delle lettere. Legato a L. Repaci, fu uno dei fondatori del premio Viareggio e, sino alla morte, fece parte della giuria.
Lo J. morì a Viareggio il 30 marzo 1959.
Gli esordi dello J. come poeta risalgono al 1911, anno in cui pubblicò a sue spese il poemetto lirico Laude a Silo - Canto orientale antico (Caserta 1911) e L'organo del castello (ibid. 1912).
In questi componimenti giovanili, gravati da forme metriche rigide e da elementi stilistici ancora legati al modo dannunziano, sono tuttavia percepibili alcuni elementi tematici e stilistici che furono costantemente presenti nelle opere successive: l'amore per la natura, la predilezione per le culture orientali e la formazione classica, preminente nel suo bagaglio culturale, come testimoniano le traduzioni di lirici greci e latini, con le quali iniziò a cimentarsi giovanissimo.
Determinante per la sua formazione poetica fu, come si è già accennato, la collaborazione con La Diana, fondata a Napoli da G. Martone nel 1915, dove apparivano le firme di personalità quali F. De Pisis, A. Onofri, E. Pea, C. Carrà, A. Savinio, Ungaretti, C. Govoni, L. Fiumi; i frequenti contatti con la redazione fecero sì che lo J. potesse ampliare i suoi orizzonti culturali in anni in cui la poesia italiana si apprestava a radicali innovazioni. La Diana, infatti, si faceva promotrice di una poesia libera dalle tradizionali costrizioni retoriche e svincolata dal realismo, contribuendo a creare l'humus ideale per la nascita dell'ermetismo; nella medesima prospettiva vanno inquadrati gli ampi spazi dedicati alla diffusione della lirica giapponese, tanto cara allo Jenco.
Quale traduttore e divulgatore di autori nipponici antichi e moderni, lo J., contribuì notevolmente alla diffusione della lirica giapponese che, nella forma stilizzata dei tanka e degli haikai, si avvicinava molto alla poetica del frammento che tanto influenzò gli ermetici. E, appunto nel saggio La poesia di Akiko Yosano (Napoli 1917), lo J. delinea acutamente il legame tra i poeti d'avanguardia della sua generazione e i giapponesi, nel segno di un impressionismo cosmopolita che accomunava esperienze culturali apparentemente lontanissime (p. 16).
Nel 1917, conclusasi l'esperienza della Diana, nacque a Marcianise Crociere barbare, fondata da un gruppo di giovani intellettuali, fra cui lo J., che volevano proseguire l'opera di svecchiamento della poesia italiana. Tale finalità appare evidente nel Poema del dopopioggia. N. 3 op. 5 sol diesis maggiore (Napoli 1917), in cui lo J. è costantemente alla ricerca della musicalità interna di un verso progressivamente liberato dagli impacci metrici.
La struttura data alla composizione è analoga a quella di un concerto, con le sue scansioni in movimenti. D'altro canto il profondo interesse dello J. per la musica è confermato da uno studio condotto sul musicista V. Davico (in Antologia della Diana, ibid. 1918, pp. 72-76), il cui fraseggio musicale, ricco di suggestioni impressioniste sulla scia di C.-A. Debussy, viene assimilato a quello dei poeti giapponesi, per i cui componimenti Davico aveva creato alcune musiche d'accompagnamento.
Nello J. era dunque maturata la convinzione che l'interrelazione tra differenti forme artistiche fosse necessaria e auspicabile per giungere a una liricità essenziale ed evocativa, in grado di esprimere le suggestioni della memoria e della fantasia, e ciò appare già evidente in Poemi della prim'alba (ibid. 1918), e ancor più nelle successive raccolte: Notturni romantici (ibid. 1928) e Acquemarine (ibid. 1929).
In esse, senza rinnegare del tutto la tradizione - e il richiamo è soprattutto a G. Pascoli -, la ricerca si concentra sul suono della parola e sul colore, nella volontà di raggiungere una sorta di impressionismo poetico vicino ma non coincidente con l'ermetismo, anche se alcuni critici hanno riscontrato in queste prove un eccesso di tecnica: G. Titta Rosa, per esempio, parla di "squisiti lavori in ferro battuto" (cfr. L'Italia letteraria, 18 sett. 1932).
Nel 1932 pubblicò Cenere azzurra (Urbino), raccolta di canti dedicata a una donna amata, morta precocemente.
Nessun tratto biografico realistico connota questa figura femminile (chiamata simbolicamente Ofelia D'Alba, detta l'"Amara"), che è disegnata quasi in veste di vergine preraffaellita; gli eventi legati alla vicenda personale sono addolciti dalla memoria e trasfigurati nella contemplazione della natura; l'amata diviene di volta in volta farfalla, fiore o usignolo e la consapevolezza della fatale caducità di tutte le cose, che è nel mondo della natura, trasforma la disperazione in pacata rassegnazione per il destino umano.
In Essenze (1916-1932). Poesie vecchie e nuove (introd. e annotate da F. Garibaldi, Genova 1933), un'antologia di liriche scelte da A. Capasso con la collaborazione dello J., confluiscono, in una produzione sempre più intima e rarefatta, le influenze sia del lirismo greco sia della poesia giapponese, i due principali punti di riferimento di tutta la poesia dello Jenco. Nel 1955 pubblicò La vigna rossa (ibid.), raccolta di liriche composte sulla falsariga degli haikai e dei tanka giapponesi, che gli valse il premio Chianciano. Alla sua morte venne, infine, pubblicata un'antologia poetica, La Marsilvana (Siena 1959), con un saggio introduttivo di F. Flora, in cui tra l'altro il critico afferma: "il più intimo sentire di Jenco, il pensiero dominante, è nella professione stessa della poesia come mediazione e riscatto" (p. 15). Ed è in questa medesima chiave che deve essere considerata la costante attività dello J. come critico militante e attivissimo operatore culturale.
In particolare lo J. partecipò attivamente al dibattito sull'ermetismo, che aveva seguito fin dagli esordi, di cui tuttavia non approvava gli eccessi, stigmatizzando l'involuzione che, a suo parere, aveva subito cadendo in tecnicismi astrusi e intellettualistici; insieme con Fiumi, Capasso e altri sottoscrisse la Lettera aperta ai poeti italiani sul "realismo" nella lirica (agosto 1949, in Pagine nuove [Roma] e Il sentiero dell'arte [Pesaro]), dove si sosteneva la validità di una poetica che potrebbe essere definita "realismo lirico", in quanto sottolineava la necessità di mantenere anche in poesia il contatto con la realtà, rifuggendo la voluta oscurità perseguita da quelli che lo J. definiva epigoni dell'ermetismo.
Fonti e Bibl.: Per una bibliografia esaustiva delle opere dello J. si rimanda ad A. Finizio, Il poeta E. J., in Gazzetta di Gaeta, XV (1987), 7, pp. 9-15. Vedi ancora: M. Gaglione, E. J., in L'Unione, XXIV (1916), 17, pp. 1 s.; G. Marone, Il "Poema del dopopioggia", in Crociere barbare, I (1917), 3, p. 26; B. Chiara, Fra i giovanissimi. E. J., Napoli 1919; M. Gaglione, E. J.: i poemi della prim'alba (rec.), in Il Desco, I (1920), 3, pp. 108 s.; R. Franchi, in Solaria, XII (1928), pp. 57 ss.; E. Palmieri, E. J., in Orizzonti. Il Novecento ed altri studi, Foligno 1930, pp. 161-193; A. Bocelli, E. J., in Nuova Antologia, 1° genn. 1933, p. 142; M. Battistrada, La poesia di E. J., Ascoli Piceno 1934; N. De Paulis, E. J., in Cenni storici della città di Marcianise e dei suoi figli illustri, Marcianise 1937; E. Fusco, La lirica, II, Ottocento e Novecento, Milano 1950, pp. 534 ss.; L. Fiorentino, Mezzo secolo di poesia, Siena 1951, pp. 246-253; D. Carlesi, La fedeltà lirica di E. J., in Realismo lirico, VI (1955), 1, pp. 36 s.; M.G. Lenisa, ibid., 10 bis, pp. 42 s.; F. Flora, Prefazione a E. Jenco, Marsilvana, cit., pp. 9-33; Id., E. J., in Letterature moderne, X (1960), 6, pp. 773-785; F. Palmerio, Ricordo di E. J., in Palaestra, III (1964), 6, pp. 302-312; Id., E. J. a Viareggio, Viareggio 1965; G. Titta Rosa, E. J., in Vita letteraria del Novecento, III, Letture e memorie, Milano 1972, pp. 161-165; A. Galletti, Il Novecento, Milano 1973, p. 653; G. Andrisani, E. J. nella poesia del '900, Capua 1975; M. Lami, E. J. e la cultura del primo Novecento. Atti del Convegno di studio… 1989, a cura di M. Lami, Viareggio 1991; G. Andrisani, Gli ambiti culturali della formazione di J., in Gazzetta di Gaeta, 1991, n. 2, pp. 1-9; A. Di Benedetto, in Critica letteraria, 1993, n. 1, pp. 202 s.