Cecchi, Emilio
Scrittore e saggista, nato a Firenze il 14 luglio 1884 e morto a Roma il 5 settembre 1966. Tra i protagonisti della saggistica e del giornalismo del Novecento, spaziò dalla critica letteraria agli studi sull'arte, dalla produzione creativa ai libri di viaggio. Nel cinema, di cui riconobbe subito, con la sua sensibilità culturale, le possibilità espressive tipiche di un'arte moderna che sa cogliere l'urgenza dei nuovi tempi, lavorò sia come sceneggiatore e critico militante, sia come responsabile nel sistema della produzione: in quest'ultima veste svolse, all'inizio degli anni Trenta, una decisiva funzione di rinnovamento della cinematografia italiana sul piano sia organizzativo sia artistico. Il suo interesse, almeno all'inizio, fu soprattutto per il cinema statunitense, scoperto durante un soggiorno a Londra alla fine del 1918, come inviato del quotidiano romano "La tribuna". Molti anni dopo, un invito della University of California a Berkeley (dove insegnò cultura italiana tra la fine del 1930 e l'inizio del 1931) gli permise una conoscenza diretta di Hollywood. Tornato in Italia, nel 1931-32 fu titolare della rubrica cinematografica del settimanale "L'Italia letteraria": nei suoi articoli sostenne le opere dei registi Mario Camerini e Alessandro Blasetti, allora esordienti, e teorizzò la necessità di non seguire pedissequamente, nella produzione italiana, i gusti del pubblico, ma di migliorarli attraverso un progressivo innalzamento della qualità dei film. La favorevole accoglienza ricevuta dal suo lavoro di critico fece sì che venisse invitato a collaborare con la casa di produzione Cines, allora l'unica in Italia organizzata con criteri industriali, vale a dire a ciclo completo. Nel 1931 fu così chiamato all'Ufficio soggetti e sceneggiature dal suo nuovo presidente, Guido Pedrazzini (nominato in seguito alla morte del proprietario Stefano Pittaluga); ma la collaborazione si interruppe dopo solo un mese. In novembre a Pedrazzini succedette il banchiere Ludovico Toeplitz; quest'ultimo, che preferiva occuparsi soprattutto degli aspetti organizzativi dell'attività produttiva, nell'aprile 1932 decise di nominare C. direttore artistico. Tale scelta fu certo dovuta al fatto che si vide in lui un intellettuale dotato anche di capacità organizzative, che di fatto si risolsero nell'assunzione della responsabilità degli stabilimenti e della produzione. Una scelta che si inseriva comunque all'interno degli sforzi per un rilancio del cinema italiano ‒ in crisi dalla metà degli anni Venti ‒ che presupponeva una collaborazione più attiva e concreta da parte degli scrittori (v. Cinecittà e fascismo). Alla Cines C. introdusse il concetto, allora del tutto inedito, di politica cinematografica, fondata su una vera e propria programmazione produttiva. Il suo intento fu quello di sprovincializzare il cinema italiano, garantendone la solidità e la razionalità mediante film che fossero al tempo stesso di mercato e di buon livello, e soprattutto distanti, sia nei dialoghi sia nello stile, dalla retorica che caratterizzava buona parte della cultura italiana di quegli anni. Per quanto riguarda i dialoghi, C. ricorse a una nutrita schiera di sceneggiatori provenienti dalla critica e dalla letteratura: Mario Soldati, Umberto Barbaro, Guglielmo Alberti, Raffaele Viviani, Corrado Alvaro, Aldo De Benedetti, Giacomo Debenedetti, Alessandro De Stefani, Luigi Bonelli, Stefano Pirandello; a essi chiese di utilizzare un italiano 'medio', più vicino alla lingua colloquiale che a quella aulica e artificiale fino allora prevalente nei film. Per quanto riguarda lo stile, pur essendo costretto a servirsi anche di alcuni registi veterani, puntò soprattutto su giovani come Camerini, Blasetti e Carlo Ludovico Bragaglia (il quale esordì proprio con lui), che andarono alla scoperta di un'Italia minore e popolare, anche attraverso metodi non molto usuali come l'uso di esterni e i primi piani delle comparse; fece inoltre ricorso a cineasti stranieri già affermati, come il tedesco Walter Ruttmann. Dedicò grande attenzione anche a un aspetto dei film spesso considerato fino allora secondario, chiamando artisti come lo scultore Arturo Martini o il pittore Carlo Levi a disegnare le scenografie e colse, tra i primi, l'importanza che, con la fine del cinema muto, avevano assunto le colonne sonore, ricorrendo a musicisti di valore come Gian Francesco Malipiero, Mario Labroca, Luigi Colacicchi, Nino Rota. Ottimo animatore culturale, capace di stimolare il lavoro altrui, sostenne, sulla linea di Pittaluga, lo sviluppo del documentario come tirocinio dello sguardo sulla realtà, e vi fece fare le prime prove a trentenni come Barbaro, Ferdinando Maria Poggioli, Mario Serandrei, Ivo Perilli, Francesco Di Cocco, Raffaello Matarazzo, alcuni dei quali sarebbero poi passati al cinema a soggetto. I film, prodotti sotto la sua gestione, mostrarono quanto la 'nuova visività' da C. intuita e voluta (in opposizione a quella dei film di second'ordine, privi di specificità cinematografica) comportasse non solo la necessità di un modello estetico ma anche la certezza che il cinema doveva e poteva essere uno strumento culturale originale per narrare, in maniera inedita, la realtà italiana: da Gli uomini, che mascalzoni… (1932) di Camerini, che si muove in una prospettiva già di realismo; all'espressività concreta e popolare di La tavola dei poveri, dello stesso anno, diretto da Blasetti e scritto e interpretato da Raffaele Viviani; alla comicità colta e mai banale di O la borsa o la vita (1933) di Bragaglia; alla descrizione della vita nei quartieri popolari di Roma in Ragazzo (1933) di Perilli, che fu vietato per espresso ordine di B. Mussolini. Ma i due migliori risultati della Cines quando C. fu direttore furono Acciaio (1933) di Ruttmann, dalla novella di L. Pirandello Giuoca Pietro (da cui, lo stesso autore ricavò il soggetto cinematografico), avente per scenario la fabbrica e per tema l'impossibilità di integrazione dell'individuo; e 1860 (1933) di Blasetti, un grande film sull'immaginario nazionale, che fu anche quello in cui lo scrittore investì maggiormente, collaborandovi sotto diverse forme. C. non si fermò infatti alla teoria, e partecipò, quasi sempre senza firmarle, alle sceneggiature di La tavola dei poveri, Ragazzo, Acciaio, 1860. La sua esperienza alla Cines non poté certo dirsi rivoluzionaria, dato che l'esplorazione di un'Italia popolare, in precedenza spesso ignorata dalla produzione cinematografica, rimase nel complesso superficiale; ma segnò il momento di maggiore vicinanza e collaborazione tra gli intellettuali italiani e il cinema, e trasformò lo sguardo gettato da quest'ultimo sulla realtà nazionale: operò così un'azione di indubbio rinnovamento, aprendo prospettive che sarebbero maturate nel decennio seguente con il Neorealismo.La politica di C. e Toeplitz venne sempre più criticata all'interno del regime fascista (in particolare dopo l'episodio di Ragazzo), e i margini di autonomia della Cines vennero progressivamente ristretti. Nel novembre 1933 Toeplitz decise quindi di lasciare l'incarico, ed emigrò addirittura in Gran Bretagna (dove divenne collaboratore di Alexander Korda). Subito dopo anche C. preferì andarsene, e riprese l'attività letteraria, ma non per questo abbandonò del tutto il cinema, dedicandovi saltuari, ma lucidi articoli di critica tra il 1932 e il 1939 (pubblicati su riviste specializzate come i mensili "Scenario" e "Bianco e nero", il quindicinale "Cinema", il settimanale "Lo schermo"), nei quali scrisse soprattutto su grandi autori del cinema statunitense, come Charlie Chaplin, Buster Keaton, Frank Capra. Durante la Seconda guerra mondiale collaborò inoltre alle sceneggiature di Piccolo mondo antico (1941) di Soldati, Sissignora (1942) di Poggioli, Giacomo l'idealista di Alberto Lattuada e Harlem di Carmine Gallone, entrambi del 1943. Nei primi anni del dopoguerra riprese in maniera più continuativa il lavoro di critico: dal settembre 1944 all'agosto 1945 sul settimanale "Voci" ("Radiovoci" dal luglio 1945), e dal gennaio al luglio 1946 sul mensile "Mercurio". Tornò brevemente all'attività cinematografica nei due anni successivi, partecipando alla sceneggiatura di Fabiola (1949) di Blasetti e dirigendo due documentari di storia dell'arte, Vita e morte degli Etruschi (1947) e Anatomia del colore (1948). Nel 1949 riprese la collaborazione con la nuova Cines (la cosiddetta quarta Cines, rifondata quell'anno con una forte partecipazione dello Stato): ne fu consulente artistico fino al 1952, e membro del Consiglio d'amministrazione nel 1952-53.Sono suoi figli lo scenografo e costumista Dario Cecchi e la sceneggiatrice Suso Cecchi d'Amico (che collaborò con il padre in Fabiola). *
Cecchi al cinema. Immagini e documenti, 1930-1963, a cura di M. Ghilardi, Palazzo Strozzi, Firenze 1984 (catalogo della mostra); F. Bolzoni, Emilio Cecchi fra Buster Keaton e Visconti, Roma 1995.