DE FABRIS, Emilio
Nacque a Firenze il 28 ott. 1807. Il padre, Domenico, veneto di origine, dopo aver viaggiato e soggiornato in più luoghi, si era stabilito a Firenze avviando un suo modesto commercio; nella città toscana aveva sposato Rosa Gonnelli avendone quattro figli. Il D., terzogenito, compì gli studi presso i padri scolopi, dalle, elementari fino al corso cosiddetto di retorica, ovvero all'apprendimento delle lettere italiane e latine; mostrò tuttavia interesse anche per il disegno, se è vero che già in questi anni frequentava lo studio di Giuseppe Bezzuoli.
Forse per le ristrettezze economiche della famiglia il giovane, nel 1823, a sedici anni, si trovò a dover accettare un incarico di segretario presso Bartolomeo Borghesi a San Marino. Ma il rapporto con il dotto uomo di lettere non fu, pare, felice; senz'altro breve: l'anno successivo il giovane se ne tornava a Firenze per riprendere con maggior impegno i suoi studi d'arte. seguendo ancora il Bezzuoli nel disegno e Gaetano Baccani nell'architettura presso l'accademia di belle arti dove, nel 1828, meritò un premio per una esercitazione di "meccanica" e poco dopo la licenza di professore di disegno architettonico. Non furono tuttavia anni felici: morta la madre e, successivamente, anche il fratello Luigi che aiutava i commerci dei padre, la situazione economica della famiglia divenne precaria. Il D. si mantenne agli studi con vari espedienti, dando lezioni private ed anche colorando all'acquarello le stampe con le quali l'editore Batelli arricchiva le sue edizioni di lusso.
Un periodo questo - ben risulta dal carteggio con la sorella Annunziata (Arch. di Stato di Firenze, Carte Tabarrini), istitutrice presso una ricca famiglia tedesca - che venne interrotto nel 1836, allorché il D. risultò vincitore di un concorso bandito dall'accademia di belle arti per una borsa di studio da usufruirsi fuori del granducato di Toscana: in sostanza un pensionato triennale che dette modo al giovane di perfezionare i suoi studi di architettura.
A Roma per due anni indagò minuziosamente le rovine classiche (vengono ricordati dai biografi gli studi sul tempio di Marte condotti in collaborazione con l'archeologo A. Nibby), rivolgendo anche i suoi interessi alle testimonianze del Rinascimento. Una predilezione che lo portò a studiare Vignola, e nel '39 a Venezia, per studiare Palladio e Scamozzi e stringere amicizia con Pietro Selvatico, attento studioso e restauratore dell'architettura, iniziando un rapporto che si manterrà nel tempo e che risulterà fondamentale per le fortune del De Fabris.
Tornato a Firenze, non ottenne incarichi come architetto; perito del tribunale in alcune cause, continuò con qualche successo, anche commerciale, il suo mestiere di acquarellista esponendo in alcune mostre presso la Società promotrice. E fu proprio un dipinto, notato da Alessandro Manetti, l'ingegnere idraulico responsabile delle bonifiche nella Valdichiana, che gli procurò una commessa di prestigio: raffigurare all'acquarello, per il granduca, i lavori eseguiti alla Chiusa dei Monaci, chiave del sistema idraulico di tutta la Chiana. Incarico che il D. espletò con successo tanto che il granduca prima lo volle con sé quale vedutista in un viaggio a Napoli e in Sicilia (1840) e poi, l'anno successivo, lo inviò nelle province meridionali della costa ionica a ritrarre i paesaggi e i monumenti di quei luoghi, allora impervi, dove il giovane contrasse febbri malariche di cui stenterà a liberarsi. Tornato a Firenze nel '42, vi trovò ridestato l'interesse per il completamento di S. Maria del Fiore: prima N. Matas su incarico del conte P. Guicciardini e del marchese Luca Del Monte, poi G. Baccani ed altri, quindi lo svizzero G. Múller, avevano proposto progetti per la facciata. Stando alla testimonianza del Tabarrini (1887, p. 11), il D. avrebbe elaborato un suo disegno improntato al "concetto che il duomo di Firenze rappresentasse il passaggio dell'architettura del Medio Evo all'architettura del Rinascimento". Di fatto nessuno dei progetti ebbe seguito e l'impresa fu rimandata ad altri tempi.
Nel 1845, mentre continuava nell'attività di perito, di insegnante privato, di fine acquarellista, il D. "inaspettatamente" ma senza dubbio per le amicizie che già vantava nell'ambiente fiorentino e forse anche per i buoni uffici di P. Selvatico, fu nominato maestro di prospettiva presso l'accademia di belle arti, incarico che tenne per cinque anni. "Alieno da tumulti e da fanatismi", come ancora annota il Tabarrini, non partecipò ai moti del '48 e del '49, impegnandosi totalmente nell'insegnamento. Passato nel 1850 alla cattedra di architettura, si fece promotore nell'ambiente fiorentino di alcune delle riforme che Pietro Selvatico (con il quale già da questi anni si registra un fitto scambio di lettere, di pareri, di reciproci consigli) andava tentando a Venezia, cercando di apportare migliorie, difendendo, in oltre trent'anni di impegno per la scuola, la specificità dell'architettura come arte, di contro alla meccanica e all'ingegneria e preparando le future scuole di architettura istituite soltanto più tardi, nel 1885 (cfr. Scuole superiori di architettura. Deliberazioni e voti del Collegio dei professori di belle arti di Firenze, relazione di F. Francolini, Firenze 1890). Sostanzialmente dunque sia nel bene sia nel male, il D. fu assertore di una architettura umanistica nutrita di storia, avversario di quel funzionalismo ingegneristico, di quella scienza costruttiva che altrove in Europa andava perseguendo "sorti magnifiche e progressive".
Con tutta evidenza ancora per l'appoggio di P. Selvatico, nel 1856 gli venne offerta dal ministro dell'Istruzione e dei Culti dell'Impero austriaco la cattedra di architettura nell'accademia di Venezia, incarico che il D. rifiutò per non lasciare Firenze, mentre accettò, l'anno dopo, dal granduca di Toscana, quello di architetto consultore della direzione di Acque e Strade.
Migliorate così le sue condizioni economiche, sposò Teresa Grilli, dalla quale ebbe una figlia, poi sposa di quel Marco Tabarrini che sarà suo appassionato biografo e attento conservatore delle sue carte. Nel '58, in qualità di consulente della Banca commerciale, consigliò alcune modifiche al progetto che l'architetto Michelangelo Majorfl aveva predisposto per la Camera di commercio di Firenze, sul lungarno delle Grazie, in luogo degli antichi tiratoi: modifiche tanto sostanziali che l'edificio risulterà più improntato al classicismo del D., probabilmente sostenuto dal desiderio di rappresentatività della committenza, che alle idee del progettista ufficiale (si vedano i due schizzi pubbl. in Cresti-Zangheri, 1978, p. 280). E ancora, negli anni Sessanta, si deve ricordare una attività cospicua per partecipazioni a commissioni di studio e di consulenza, a comitati, a collegi di perizia (pareri e studi sulle cappelle Medicee, sul palazzo pretorio di Prato, sul ponte Vecchio, sulla porta Saragozza a Bologna ...) e a commissioni giudicatrici in vari concorsi (facciata di S. Petronio a Bologna, teatro di Alessandria d'Egitto, fontana nella piazza del duomo di Prato, cimitero di Cremona, restauro del teatro Comunale di Messina, progetti per l'area della fortezza Paolina di Perugia, chiesa dell'Immacolata a Genova ...).
A fronte della mancanza di concreti e significativi incarichi di architettura - almeno stando alle fonti non se ne registrano prima degli anni '70 - fece riscontro l'impegno per la facciata del duomo di Firenze alla cui progettazione il D. dedicò le sue totali energie; opera che, a ben vedere, fra concorsi, polemiche e realizzazione, caratterizza la biografia dell'architetto come la storiografia sulla sua attività complessiva.
L'idea della facciata di S. Maria dei Fiore era stata ripresa un'ennesima volta nel 1857. Nel settembre dell'anno successivo era stato formato un comitato presieduto dal principe ereditario, e nell'aprile del '59 veniva divulgato il bando di concorso. Dopo la parentesi della guerra e dell'annessione al Regno, a simbolo della fattiva volontà di procedere alla realizzazione dell'opera, il re Vittorio Emanuele pose la prima pietra della facciata (22 apr. 1860). Al concorso ribandito nel novembre del '61, che vide la partecipazione di 42 concorrenti, non fu presente il D.: il suo elaborato non era pronto e, come nota il Tabarrini (p. 15), l'architetto era "scoraggiato e diffidente di sé". Forse in quest'assenza è da leggersi anche la volontà, il programma, di entrare in lizza a un livello più alto, dopo che la giuria, della quale facevano parte Boito, Antonelli, Alvino e con altri anche Baccani, avesse espresso un qualche preferenziale orientamento. In effetti dal giudizio non uscì nessun vincitore, ma furono segnalati tre progetti: C. Ceppi di Torino e M. Falcini di Firenze per la soluzione "monocuspidale", V. V. Petersen di Copenaghen per quella, tricuspidale".
Bandito un secondo concorso nel 1861 "con prassi a dir poco singolare" - come nota Cresti (1978, p. LVII) - vennero invitati a partecipare, insieme ai tre segnalati precedentemente, anche gli stessi membri della giuria nonché A. Cipolla e il D., "allievi prediletti" rispettivamente dell'Alvino e del Baccani. Certamente sulla vittoria che il progetto del D. riportò dopo innumerevoli discussioni e polemiche accese, a fronte delle più varie alchimie, dovette pesare il parere di Pietro Selvatico, chiamato a presiedere un giurì al quale ufficialmente non prese parte ma che comunque orientò nelle scelte. Dovette pesare anche il fatto, che il progetto del D. nacque dalla collaborazione con il Selvatico: da una fitta corrispondenza fra i due, da una sorta di contin.áa revisione dei particolari come dell'insierne, che il dotto professore padovano esercitò sui progetti del fiorentino. Ma non basta, ché fra le "mattacciate" - termine con il quale anni dopo sarà sintetizzata la complessa questione - messe in atto per il completamento del massimo monumento fiorentino, dobbiamo annoverare ancora un concorso col quale si misero nuovamente a confronto i progetti usciti dai giudizi precedenti; ancora una giuria presieduta da Pietro Selvatico; la riconferma infine, ma con alcune "leggere modifiche", della facciata tricuspidale proposta dal De Fabris.
Il 12 luglio del 1868 la Deputazione affidò al progettista l'incarico di sviluppare il disegno in tutte lesue partiedue anni dopo lo nominò ufficialmente "architetto della facciata". A tale lavoro il D. attese per ben dieci anni, sovrintendendo di persona alla messa in opera di ogni particolare, organizzando minuziosamente il cantiere di quella che, con un orgoglio tutto municipalistico, veniva reputata "la più grande opera monumentale del secolo". Fu amareggiato tuttavia dalle polemiche che, malgrado il lungo iter concorsuale, ancora circondavano la questione del coronamento; anzi fu ancora il D. a studiare, nell'83, un modello basilicale alternativo di coronamento (grande al vero e sovrapponibile alla parte già compiuta della facciata), da proporsi al giudizio popolare. Un esperimento, effettivamente messo in atto l'anno dopo, in morte del D., che fornirà la quasi definitiva versione dell'opera al suo continuatore e primo allievo Luigi Del Moro. Conclusione, se si vuole, degna del controverso procedere di quasi trent'anni di dibattiti, di polemiche, di "mattacciate" appunto, con cui si dette vita a quella che è stata definita icasticamente "un'opera da cioccolatieri" (Martelli, 1887); comunque, anche dai più benevoli, giudicata troppo affollata di particolari decorativi, testimonianza deteriore di uno storicismo privo di vitalità.
A partire dalla fine degli anni '60, ovvero dall'esito del concorso per S. Maria del Fiore, si registra una certa attività architettonico-restaurativa e progettuale del D. per lo più nell'area fiorentina. Nel 1871 intervenne con lievi modifiche nella facciata ammannatesca e nel giardino del palazzo Della Porta-Giugni (via Alfani); disegnò una nuova scala per la Biblioteca Laurenziana ed eseguì alcuni lavori nei sotterranei e nella sacrest.ia vecchia del S. Lorenzo.
Al 1873-1874 risalgono i suoi progetti di una chiesa con alcuni annessi, destinata al nuovo quartiere della Piagentina (non realizzata), per la quale si ispirò a S. Maria Maddalena de' Pazzi, e di una villa di campagna per il corite Leopoldo Galeotti a Montevettolini (Pistoia) in duplice versione: la prima sulla falsariga di esempi toscani cinquecenteschi, la seconda improntata ad un gusto tipicamente mediottocentesco, sobria negli ornati quanto banale nell'impianto. Parimenti non adatto a incontrare il gusto della committenza si dimostrò il progetto di ampliamento della villa dei principi Demidoff a Pratolino nel 1880. Ebbero esito viceversa, fra il 1876 C il '78, alcuni restauri e trasformazioni alla badia fiesolana, in collaborazione con Giuseppe Poggi, e la riduzione a museo del palazzo della Crocetta (attuale Museo archeologico). Infine, nel 1882 portò a termine (il lavoro gli era stato affidato fin dal 1864) la tribuna del David nella fiorentina Galleria dell'Accademia: un'opera redatta in un pacato linguaggio rinastimentale che parve consona alla valorizzazione museografica dell'opera di Michelangelo.
Un operatore dunque, il D., attivo in restauri e rifacimenti soprattutto per una committenza pubblica, naturale referente in virtù della sua posizione nell'accademia di belle arti; un architetto che non trovò committenza privata né, malgrado il gran fervore edilizio della Firenze capitale, occasione per opere significative al di là del cospicuo impegno per la facciata del duomo. Tecnicamente preparato, reputato onesto culturalmente e professionalmente, fu corretto, non geniale, interprete di un'ufficialità architettonica troppo spesso confinata nel culto anacronistico di un passato che pareva funzionale al presente. Un mondo nel quale il D. trovò un proprio ruolo soprattutto come uomo di scuola, alto funzionario e membro di commissioni e concorsi; attività nelle quali fu ancora molto impegnato, con l'energia prodigiosa di una verde vecchiezza.
Morì a Firenze il 3 giugno del 1883, senza vedere completata l'opera cui resta legato il suo nome.
Del D. ricordiamo le seguenti opere: Del sistema tricuspidale per il coronamento della facciata di S. Maria del Fiore, Firenze 1864; Del sistema tricuspidale in seguito alle considerazioni pubblicate nel 1864, ibid. 1867; Intorno allo stato di consistenza della vecchia facciata del Duomo e delle sue fondazioni: rapporto, ibid. 1871; La facciata di S. Maria del Fiore: appendice artistica alla relazione della Deputazione Promotrice, ibid. 1875.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Appendice Segreteria di Gabinetto, Fabbriche, Ministero delle Finanze, ma soprattutto Carte Tabarrini, filze 40-48 (cfr. invent. dettagliato in Ferrara, 1978, pp. 55-58; Firenze, Arch. dell'Opera del Duomo (non inventariato, danneggiato dall'alluvione del 1966); Ibid., Arch. dell'Accademia di belle arti, filze 1828-1883; Ibid., Arch. storico comunale, filze 4166, 4525; Ricordi di architett., VI (1883), 1, tav. VI: Tribuna del David di Michelangelo. Fra le opere con uno specifico taglio biografico, specialmente utili risultano C. Zei, E. D., Firenze 1883;M. Tabarrini, La vita e le opere dell'architetto E. D., Firenze 1887.Molto vasta per la questione della facciata, la bibliografia critica sul D.: cfr. in particolare, oltre a U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, XI, pp. 168 s. (sub voce Fabris, Emilio de) e Diz. enc. di architettura e urbanistica, II, p. 308, E. Saltini, Le arti belle in Toscana, Firenze 1862, p. 23; Der Ausbau der rentiner Domfassade und die Konkurrenz von 1865, in Zeitschrift für bildende Kunst. Beiblatt, I (1866), pp. 76 s.; C. Da Prato, Firenze ai Demidoff. Pratolino e S. Donato. Relaz. storico descrittiva, Firenze 1886, p. 368; D. Martelli, Di Santa Maria del Fiore non ché delle mattacciate che il popolo e il Comune hanno fatto per raggiungere il fine desiderato di una facciata. Lamento, Pisa 1887 (poi ripubbl. in Scritti d'arte, Firenze 1952); L. Del Moro, La facciata del duomo di Firenze, Firenze 1888; L. Beltrami, Storia della facciata di S. Maria in Fiore a Firenze, Milano 1900; A. Melani, Architett. ital. antica e moderna, Milano 1910, pp. 268, 289; F. De Fusco, La scuola napol. nei concorsi per la facciata di S. Maria del Fiore, Napoli 1930, pp. 12-82; N. Tarchiani, L'architettura ital. nell'Ottocento, Firenze 1937,, pp. 56 s.; A. M. Brizio, Ottocento-Novecento, Torino 1939, p. 506; C. Maltese, Storia dell'arte in Italia 1785-1943, Torino 1960, ad Indicem; C. L. V. Meeks, Italian architecture 1750-1914, New Haven-London 1966, pp. 227, 230, 236; F. Gurrieriì. Nel I centenario della "querelle" tra mono e tricuspidofili per la facciata di S. Maria del Fiore, in Antichità viva, X (1971), 3, pp. 45-54; G. Fanelli, Firenze architettura e città, Firenze 1973, p. 447; M. Dezzi Bardeschi, G. Semper e l'architettura..., in G. Semper und seine Zeit, Zürich 1974, pp. 330-345; L. Patetta, L'archit. dell'Eciettismo, fonti teorie modelli 1750-1900, Milano 1975, p. 305; M. Ferrara, Aggiunte a D., in Architettura in Toscana dal periodo napoleonico allo Stato unitario, Firenze 1978, pp. 47-58; C. Cresti-L. Zangheri, Architetti e ingegneri nella Toscana dell'Ottocento, Firenze 1978, pp. 76 s., XIII-XVI, XXIV, .XXVI-XXVIII, LVII-LVIII e passim, ill. 58 e 59; A. Restucci, Città e architetture nell'Ottocento, in Storia dell'arte italiana, VI, Torino 1982, p. 764, ill. 714; C. Cresti, Le Sante Marie del Fiore, in F. M. R., III (1982), 9, pp. 55-73; C. Travaglini, La facciata ottocentesca di S. Maria del Fiore, in Arte in Friuli - Arte a Trieste, VII (1984), 7, pp. 145-71; G. Carapelli-M. Cozzi-C. Cresti, L'avventura di una facciata…, Firenze 1987, con ampia bibliografia e note archivistiche.