Garroni, Emilio
Filosofo e studioso di estetica, nato a Roma il 14 dicembre 1925. La sua riflessione, che ha preso le mosse da interessi di storia e critica dell'arte, lo ha portato a occuparsi di cinema, nell'ambito di una più generale indagine sui cosiddetti messaggi non verbali e sui fondamenti della semiotica. Rifiutando la prospettiva di una semplice estensione della 'scienza dei segni' a queste forme di comunicazione, di cui il cinema rappresenta un caso esemplare, ha assunto una posizione critica rispetto alla semiologia del cinema, mentre essa si diffondeva, negli anni Sessanta, contestualmente allo strutturalismo. Laureatosi in filosofia con G. De Ruggiero nel 1947, dal 1951 è stato assistente di U. Spirito presso la cattedra di filosofia teoretica della facoltà di Lettere e filosofia dell'Università degli studi di Roma; in questa stessa facoltà ha iniziato a insegnare estetica nel 1964, come professore incaricato, attività che ha proseguito dal 1973 come ordinario della disciplina. Dopo i primi saggi dedicati alla storia e alla critica d'arte, in La crisi semantica delle arti (1964) ha iniziato a confrontarsi con gli studi semiotici e più in particolare con le indagini sulla struttura comunicativa dei prodotti artistici, avviando quella linea di ricerca che sarebbe proseguita per oltre un decennio con Semiotica ed estetica. L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico (1968), Progetto di semiotica (1972), e Ricognizione della semiotica (1977). In quest'ultima opera la riflessione sul cinema occupa una posizione cruciale, sebbene nel quadro di una più complessa indagine sullo statuto della semiotica (o della semiologia), che affronta questioni rilevanti della linguistica strutturale e, più in generale, del dibattito epistemologico di quegli anni. Proprio in quanto nasce dalla commistione di messaggi verbali (parlati e scritti) e messaggi non verbali (musica, fotografia, architettura ecc.), il cinema rappresenta infatti un caso esemplare di linguaggio eterogeneo, la cui corretta comprensione spinge la semiotica a oltrepassare i propri originari confini linguistici, attraverso la messa a punto di strumenti e metodi di analisi specifici. In un serrato confronto con la teoria linguistica di L. Hjelmslev (ma con continui riferimenti alle concezioni di F. de Saussure, R. Jakobson e A. Martinet), G. si propone quindi di fornire una definizione generalizzata di semiotica, applicabile al cinema e all'insieme dei prodotti artistici, rielaborando in senso formale nozioni come quelle di segno, significato, espressione e contenuto, ossia 'depurandole' dalle residuali presupposizioni di tipo realistico-referenzialistico. In questo quadro la comunicazione estetica costituisce un caso particolare di semiosi, in cui l'eterogeneità propria di ogni linguaggio viene esibita (invece di essere 'messa tra parentesi', come nei linguaggi verbali) con modalità specifiche, legate anche ai mezzi materiali e alle tecniche di volta in volta impiegati. La comunicazione filmica, a sua volta, rappresenta un caso esemplare di semiosi estetica, in quanto mette in gioco la relazione implicita tra immagine e parola, evidenziando il carattere intrinsecamente linguistico della rappresentazione visiva (il discorso interiore dello spettatore, che conferisce senso alle immagini semoventi e che già B.M. Ejchenbaum aveva individuato come problema centrale della teoria del cinema), assieme alla dimensione rappresentativa dell'espressione verbale. Una posizione, questa, che G. argomenta anche sul piano storico: da un lato riallacciandosi alla riflessione di Sergej M. Ejzenštejn e dei teorici sovietici, capace di cogliere questa complessità, e quindi di riconoscere sia la specificità del linguaggio cinematografico sia i nessi profondi che lo legano agli altri linguaggi artistici e alla semiosi in generale; dall'altro lato sottolineando gli esiti paradossali cui pervengono le prime teorizzazioni dello 'specifico filmico', in quanto tendono a postulare un linguaggio cinematografico puro, di natura essenzialmente visiva, e finiscono così per negare legittimità estetica al film sonoro, come nel caso sintomatico di Rudolph Arnheim. Di qui anche la posizione critica rispetto alla discussione sulla semiologia del cinema, in cui G. riscontra un riduzionismo opposto, ossia la tendenza ad assimilare il cinema ai linguaggi verbali, attraverso un'applicazione acritica della semiotica, quale quella che G. rimprovera a Pier Paolo Pasolini, a Roland Barthes e a Gilles Deleuze (v. anche estetica del cinema).
Questa linea di ricerca si è radicalizzata, al tempo stesso approfondendosi, nella nutrita serie di studi pubblicati da G. nei due decenni successivi. A partire da Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla "Critica del giudizio" (1976), ma in modo più marcato in Senso e paradosso: l'estetica, filosofia non speciale (1986) ed Estetica: uno sguardo-attraverso (1992), la riflessione di G. si è impegnata in un ripensamento dell'estetica, che trova nella filosofia di I. Kant, e specialmente nella lezione della Kritik der Urteilskraft, il proprio punto di riferimento centrale, ma tocca in maniera significativa anche il pensiero di L. Wittgenstein e di M. Heidegger. In questa prospettiva l'estetica appare come disciplina di confine, interrogazione filosofica sulle condizioni preliminari dell'esperienza in genere, in cui il problema del senso si pone nella sua intrinseca paradossalità e in maniera ormai indipendente da qualsivoglia esperienza artistica. L'interesse teoretico di G. per il cinema è andato quindi attenuandosi, senza tuttavia spegnersi del tutto, come testimonia peraltro la sua collaborazione alla rivista "Filmcritica" e la partecipazione alla giuria del Premio Filmcritica-Umberto Barbaro.
P. Montani, Fuori campo. Studi sul cinema e l'estetica, Urbino 1993, p. 138 e segg.; P. D'Angelo, L'estetica italiana del Novecento, Roma-Bari 1997, pp. 255-57 e 264-66; F. Casetti, Teorie del cinema, Milano 1998⁴, p. 147.