Emorragia
Emorragia (dal greco αἱμορραγία, composto di αἷμα, "sangue", e ῥήγνυμι, "rompere") indica la fuoriuscita del sangue dai vasi sanguigni, che può avvenire verso l'esterno dell'organismo (per es., epistassi, menorragia) o al suo interno, in una cavità naturale del corpo (emoperitoneo, emopneumotorace, emoftalmo, emopericardio) o nell'encefalo (emorragia cerebrale).
L'emostasi è il più importante sistema omeostatico dell'uomo e degli animali ed è preposta alla prevenzione delle emorragie da vasi danneggiati o recisi. Il processo è molto complesso e richiede non soltanto un sistema vascolare funzionante, ma anche piastrine e fattori plasmatici della coagulazione e della fibrinolisi nei limiti della norma. Il meccanismo dell'emostasi, che si attiva in seguito a emorragia per lesione vascolare, può essere suddiviso in due tappe fondamentali. La prima (detta anche emostasi primaria o vasopiastrinica) consiste in una rapida vasocostrizione dei capillari danneggiati, seguita dall'adesione delle piastrine alla parete vascolare alterata e dall'aggregazione delle piastrine stesse con formazione di una massa cellulare fragile (tappo emostatico), ma sufficiente a produrre un iniziale arresto dell'emorragia; anche i globuli rossi e i globuli bianchi contribuiscono all'emostasi primaria. La seconda tappa (o emostasi secondaria) consiste nell'attivazione, preferenzialmente localizzata sul tappo emostatico, del processo della coagulazione (v.) del sangue con conseguente formazione e deposizione di fibrina, a consolidare definitivamente il tappo emostatico primario. È evidente che la sequenza di eventi qui semplificata risulta in vivo più complessa, in quanto le diverse componenti agiscono in maniera combinata e sinergica. L'importanza relativa delle fasi dell'emostasi e la dinamica del loro entrare in gioco dipendono certamente tanto dal tipo quanto dalla gravità della lesione vascolare. Per es., nei capillari e nei vasi di piccolo calibro, l'emostasi primaria è sufficiente a raggiungere e mantenere un'emostasi efficace, senza il contributo dei fattori della coagulazione. Ciò spiegherebbe come lesioni cutanee superficiali non comportino gravi rischi emorragici nei pazienti che sono affetti da emofilia, ma possano diventare pericolose in pazienti con difetti piastrinici. Invece, in caso di lesioni più profonde con danno tessutale e coinvolgimento di vasi di medio-largo calibro, un'efficiente coagulazione del sangue è necessaria per arrestare la perdita emorragica.
L'emostasi è deputata a proteggere da complicanze emorragiche gravi sia il soggetto che presenti una tendenza emorragica congenita o acquisita, sia il soggetto normale sottoposto a stress emorragici, quali interventi chirurgici, traumi accidentali, estrazioni dentarie. Di fronte a un paziente emorragico si richiede una storia anamnestica molto accurata, un esame obiettivo approfondito, l'esecuzione di una serie di test di screening (conteggio delle piastrine, tempo di emorragia, tempo di protrombina, tempo di tromboplastina parziale) e, se necessario, di test di laboratorio più specifici. Ovviamente, questo approccio combinato, clinico e di laboratorio, varia a seconda della situazione clinica.
Risulta importante, inoltre, distinguere i disturbi locali dai disturbi sistemici dell'emostasi, per i quali l'indicazione farmacologica può essere completamente diversa (per es., trattamento specifico con fattore VIII nel paziente emofilico, trattamento adiuvante con farmaci antifibrinolitici nella menorragia di una paziente piastrinopenica).
Il sistema emostatico è dunque impostato per frenare le emorragie: attualmente, il rischio di lesioni emorragiche da fattori esterni (se si fa eccezione per gli incidenti stradali) è più basso rispetto al passato (si pensi alle lesioni dovute all'attività bellica o agli incidenti di caccia) e il sistema dell'emostasi si attiva dunque più frequentemente all'interno dei vasi, danneggiati dall'ipercolesterolemia, dal diabete, dall'ipertensione. Un meccanismo di difesa contro il dissanguamento è diventato perciò la base patogenetica della trombosi, non a caso definita un'emostasi nel luogo sbagliato. In questo contesto, non è sorprendente che livelli relativamente ridotti di fattori dell'emostasi, come il fattore VII della coagulazione, potrebbero essere associati a un ridotto rischio di infarto cardiaco, una classica malattia 'moderna' su base trombotica.
Le emorragie legate a difetti quantitativi e qualitativi delle piastrine si manifestano a livello della cute e delle mucose e sono caratterizzate da epistassi, sanguinamenti gengivali, menorragia e porpora. Porpora è una parola di origine latina (il nome deriva da un tipo di gasteropode marino, Purpura lapillus, che produce appunto un colorante rosso purpureo), che viene utilizzata per descrivere l'eruzione di foci multipli purpurici conseguenti alla fuoriuscita di sangue dai capillari.
a) Difetti congeniti
I più importanti difetti congeniti delle piastrine sono rappresentati dalla trombastenia di Glanzmann e dalla sindrome di Bernard-Soulier. La prima di queste due malattie emorragiche fu descritta, nel 1918, dal pediatra svizzero da cui prende il nome, mentre la seconda fu descritta, nel 1948, dall'ematologo francese J. Bernard e dal trasfusionista J.-P. Soulier. In entrambi i casi l'identificazione di una nuova entità nosografica fu effettuata essenzialmente su base clinica e con l'ausilio di test di laboratorio elementari. Soltanto molti decenni più tardi è stato possibile caratterizzare le basi biochimiche e molecolari (con le inevitabili varianti), coinvolgenti entrambe alcune glicoproteine della membrana piastrinica. Il complesso glicoproteico IIb-IIIa costituisce il recettore piastrinico per il fibrinogeno plasmatico (e, in misura minore, per altre proteine adesive), una proteina costituita da due porzioni simmetriche, capaci perciò di legare una piastrina per parte, formando così la base dell'aggregazione piastrinica da tutti gli induttori noti. Questi ultimi, quali adenosindifosfato (ADP), trombina, collagene ecc., hanno in comune la capacità di 'segnalare' alle glicoproteine (Gp) IIb e IIIa di assumere la conformazione di un complesso capace di legare il fibrinogeno.
Nella trombastenia di Glanzmann il deficit (quantitativo o funzionale) di GpIIb-IIIa non permette al fibrinogeno di svolgere il suo ruolo fisiologico di legante, con conseguente ridotta o assente aggregazione piastrinica. Nei rari pazienti con afibrinogenemia, l'assenza di aggregazione piastrinica (apparentemente paragonabile a quella della trombastenia di Glanzmann) è dovuta invece all'assenza della proteina plasmatica legante. Per quanto riguarda il complesso glicoproteico Ib-IX/V, la sua carenza nella sindrome di Bernard-Soulier comporta un deficit di legame delle piastrine al fattore von Willebrand (v. oltre) e la conseguente difettosa loro adesione alla parete vascolare. Tale difetto si riscontra anche nei pazienti affetti da malattia di von Willebrand, ma per deficit del legante, non del recettore piastrinico. In sintesi, trombastenia di Glanzmann e sindrome di Bernard-Soulier sono due malattie emorragiche da deficit/difetto di recettori piastrinici, mentre afibrinogenemia e malattia di von Willebrand sono malattie emorragiche da deficit/difetto delle corrispondenti proteine leganti. Dal punto di vista clinico, le manifestazioni emorragiche nella trombastenia di Glanzmann, presenti già nelle prime fasi della vita, sono in ordine di frequenza: menorragia (98%), porpora (86%), epistassi (73%) ed emorragie gengivali (55%); mentre i pazienti con sindrome di Bernard-Soulier presentano più frequentemente: epistassi (70%), ecchimosi (58%), menometrorragia (44%) ed emorragie gengivali (42%). Le modalità di prevenzione e cura, attualmente disponibili (igiene dentaria, controllo ormonale del menarca e del ciclo mestruale, supplementazione orale di ferro, trasfusioni piastriniche sempre meglio tipizzate, farmaci emostatici antifibrinolitici), hanno sensibilmente migliorato la severa prognosi di entrambe queste malattie.
È da segnalare che i difetti molecolari qui descritti sono stati utilizzati recentemente come modelli farmacologici per sviluppare nuove terapie antipiastriniche e antitrombotiche, allo scopo di prevenire l'insorgenza e la ricaduta di malattie cardiovascolari su basi ischemiche (infarto cardiaco, ictus cerebrale, arteriopatie periferiche). I risultati sinora ottenuti con anticorpi o inibitori non immunologici del complesso GpIIb-IIIa sono promettenti, ma le complicanze emorragiche costituiscono un prevedibile, importante fattore limitante nell'impiego ad ampio raggio di questi nuovi farmaci.
b) Difetti acquisiti
I difetti acquisiti, quantitativi e qualitativi, delle piastrine sono relativamente frequenti nella pratica clinica (tabb. 2 e 3): a volte essi sono facilmente correlabili con condizioni cliniche ben precise (come, per es., uremia, uso di aspirina, disordini mieloproliferativi), altre volte la condizione di base è più difficilmente identificabile (come, per es., sindrome da anticorpi antifosfolipidi). In tutti i casi, comunque, le emorragie spontanee sono abbastanza rare. La maggioranza dei pazienti affetti da piastrinopenia (o trombocitopenia) o piastrinopatie sono asintomatici. Peraltro, non esistono indicazioni di laboratorio o cliniche per poter prevedere un rischio emorragico; neanche la severità della piastrinopenia correla in modo soddisfacente con la tendenza emorragica, probabilmente per l'interferenza di altri fattori clinici (difetti associati vascolari o coagulativi, malattie concomitanti ecc.). Nei casi di piastrinopenia severa (meno di 10.000 piastrine/µl) si possono osservare petecchie cutanee (emorragie puntiformi) o lesioni purpuriche più estese (ecchimosi), soprattutto in sede di trauma o semplicemente di prelievo endovenoso. In generale, un esordio insidioso della sintomatologia emorragica è tipico della porpora idiopatica cronica, mentre un esordio improvviso suggerisce una piastrinopenia postinfettiva o da farmaci. La presenza di sintomi associati, come febbre, linfoadenopatie o splenomegalia, orienta differentemente la diagnosi.
La porpora idiopatica trombocitopenica (o morbo di Werlhof) è un disordine autoimmune, relativamente frequente, caratterizzato da distruzione precoce delle piastrine ricoperte da immunoglobuline IgG da parte del sistema reticoloendoteliale. L'eziologia è sconosciuta. Nei casi più severi che presentano piastrinopenia e sintomatologia emorragica gravi, o che devono andare incontro a procedure chirurgiche o invasive, si richiedono trasfusioni piastriniche associate ad alte dosi di immunoglobuline IgG e metilprednisolone. La terapia cronica prevede invece l'impiego di cortisonici e la splenectomia. Per quanto riguarda la piastrinopenia immunologica da farmaci, quella indotta da eparina è la più importante dal punto di vista clinico, ma - contrariamente al previsto - è associata a complicanze trombotiche, piuttosto che emorragiche. La chinina (presente in alcune bevande analcoliche) può indurre, invece, piastrinopenia severa ed emorragie anche gravi. Lo stesso dicasi di numerosi altri farmaci (ampicillina, cimetidina, diazepam, carbomazepina, α-interferone, cocaina ecc.). In tutti i casi è necessario interrompere immediatamente l'uso del farmaco responsabile.
La porpora trombotica trombocitopenica e la sindrome uremico-emolitica sono due rare forme cliniche complesse, caratterizzate da piastrinopenia, anemia emolitica e, dal punto di vista istologico, microtrombi ricchi di piastrine, localizzati prevalentemente nel sistema nervoso centrale e nei reni. Il trattamento, basato sull'infusione o lo scambio di plasma, ha notevolmente migliorato la severa prognosi di entrambe le forme. Un problema di grande rilevanza clinica è la soglia di piastrinopenia sotto la quale è necessario somministrare profilatticamente trasfusioni piastriniche ai pazienti leucemici. Un recente studio italiano ha stabilito che 10.000 piastrine/µl costituiscono un livello di sicurezza per prevenire il rischio di emorragie importanti durante la fase di induzione della chemioterapia in pazienti affetti da leucemia mieloide acuta. Soglie leggermente più alte possono essere considerate in caso di febbre o emorragie in atto o in vista di procedure invasive. Può essere utile menzionare la pseudopiastrinopenia, un artefatto di laboratorio relativamente frequente (1 su 1000 esami del sangue) che può inutilmente allarmare medico e paziente. Si tratta di un fenomeno di agglutinazione delle piastrine da parte di anticorpi che reagiscono a temperatura ambiente e in assenza di Ca++; è sufficiente perciò tenere il campione di sangue sospetto a 37 °C, avendo usato come anticoagulante non l'acido etilendiaminotetraacetico (EDTA, Ethylenediaminetetraacetic acid), chelante del calcio, ma eparina o citrato di sodio.
I disordini relativi alla fase vascolare dell'emostasi primaria sono molto meno definiti dei disordini piastrinici o coagulativi. Essi, tuttavia, costituiscono un variegato complesso di entità nosologiche che sono caratterizzate da lesioni purpuriche ed ecchimosi in assenza di anomalie piastriniche primitive documentabili. La sintomatologia emorragica può variare dall'ecchimosi, il cui disturbo è puramente estetico, alle gravissime condizioni associate alla purpura fulminans. La patogenesi dei disordini primari è ancora mal definita, ma si ritiene possa coinvolgere la perdita della funzione endoteliale, e provocare un'aumentata permeabilità dei vasi con associata fragilità e difettosa contrazione da stimoli nocivi. Tra le porpore secondarie, va menzionata quella del bambino maltrattato o sottoposto ad abusi e violenze. Tuttavia, l'estrema delicatezza del problema richiede al medico un esame molto attento della storia e del quadro clinico e di laboratorio della presunta vittima, poiché sono stati riscontrati difetti vascolari ed emostatici, non precedentemente diagnosticati, in circa il 15% dei casi sospetti.
I difetti di fattori della coagulazione, congeniti e acquisiti, sono accompagnati tipicamente da emorragie profonde, in particolar modo a livello muscolare (ematomi) o nelle articolazioni (sintomo caratteristico dell'emofilia); meno frequenti sono, invece, gli episodi emorragici a livello gastrointestinale o intracranico e l'ematuria.
a) Difetti congeniti
Le manifestazioni emorragiche nell'emofilia A classica (deficit del fattore VIII della coagulazione) e nell'emofilia B (deficit del fattore IX) sono molto simili e iniziano già al momento dell'eruzione dei primi denti. Attualmente, sono diventati molto rari nei soggetti emofilici i drammatici quadri clinici di emartrosi con conseguente artropatia che si potevano osservare fino agli anni Settanta del 20° secolo, quando non erano ancora entrati nell'uso terapeutico corrente i concentrati di fattore VIII o la stessa proteina ricombinante. Tuttavia, l'uso massivo di concentrati ottenuti da pool di sangue infetto dal virus dell'AIDS ha imposto negli ultimi due decenni del 20° secolo a numerosi emofilici un contributo di sofferenza e di fatalità che risulta sicuramente superiore al dramma dell'emofilia stessa.
La malattia di von Willebrand (o pseudoemofilia) presenta importanti analogie con l'emofilia, ma ne differisce per le modalità di trasmissione genetica (autosomica dominante) che colpisce ugualmente uomini e donne, il tipo di sanguinamento prevalente (mucoso-cutaneo) e un test di esplorazione dell'emostasi primaria (tempo di emorragia o di sanguinamento o di stillicidio) generalmente alterato. Test di laboratorio mostrano un deficit di varia entità del fattore von Willebrand, una macromolecola sintetizzata dai megacariociti o dalle cellule endoteliali, capace di promuovere l'adesione delle piastrine alla parete vascolare lesa. Una volta secreto nel plasma, questo fattore si lega al fattore VIII della coagulazione (di qui il legame 'storico' con l'emofilia A).
Il deficit di fattore XIII (che rappresenta il fattore stabilizzante la fibrina) si manifesta in modo caratteristico dopo la nascita, con sanguinamento a livello del cordone ombelicale reciso, e inizia diverse ore dopo l'insulto traumatico.
La mancanza di fibrinogeno si accompagna inve- ce a manifestazioni emorragiche meno severe di quelle che ci si potrebbe aspettare dal fatto che il fibrinogeno è il precursore diretto della fibrina (v. coagulazione). D'altro canto, in oltre metà dei soggetti portatori di un difetto qualitativo del fibrinogeno (disfibrinogenemia), non si osserva alcuna sintomatologia emorragica. Anche i pazienti con deficit dei fattori che intervengono, per lo meno in vitro nelle fasi iniziali della coagulazione (fattore XII, precallicreina e chininogeno ad alto peso molecolare) sono asintomatici oppure, nel caso di deficit del fattore XI, sanguinano in modo relativamente poco severo. Tutto ciò suggerisce che i meccanismi della coagulazione del sangue in vivo sono più complessi di quanto le attuali conoscenze ci permettano di comprendere.
b) Difetti acquisiti
Complicanze emorragiche acquisite si riscontrano più frequentemente in pazienti con malattie renali (uremia, dialisi emoperitoneale) o epatiche, tumori solidi e leucemia, deficit di vitamina K, coagulazione intravascolare disseminata (CID), inibitori della coagulazione (anticoagulanti circolanti), oppure in pazienti sottoposti a trasfusioni di sangue massive o a terapie farmacologiche antitrombotiche; possono presentare disordini emorragici anche pazienti che abbiano subito interventi di by-pass cardiopolmonare.
Oltre a quanto già indicato in rapporto ad alcune condizioni cliniche ben precise, è prassi generale, nei pazienti con difetti congeniti delle piastrine o di un fattore della coagulazione, prevenire l'emorragia o trattarla mediante trasfusione piastrinica o somministrazione endovenosa del fattore mancante. Analogamente, le emorragie acquisite possono giovarsi, a seconda dei casi, di piastrine o del fattore coagulante eventualmente deficiente o di vitamina K, senza trascurare di rimuovere o risolvere la malattia primitiva.
Tuttavia, si possono presentare complicanze emorragiche anche in pazienti chirurgici che non mostravano, ai test di screening preoperatori, alcun difetto emostatico. Ciò può essere dovuto a errori nella tecnica chirurgica, o nelle procedure anestetiche o nella somministrazione di farmaci (per es. eparina in eccesso), o a trasfusioni non ben tipizzate, alla trasfusione di dosi massicce di sangue o di succedanei del plasma. Si possono però osservare episodi emorragici senza alcuna causa apparente, né di tipo chirurgico, né ematologico, né vascolare.
Se le perdite avvengono durante un intervento chirurgico, si può tentare di ridurle o arrestarle in vari modi, per es., per mezzo di elettrocoagulazione, suture, riduzione della pressione arteriosa sistemica, assorbenti, garze, raffreddamento dei liquidi da somministrare o blocco del sistema nervoso simpatico. Se tutte queste misure non hanno successo o se l'emorragia è localizzata in sedi inaccessibili o quando non si riesce a identificare alcuna causa plausibile di emorragia, allora si può far ricorso a farmaci cosiddetti emostatici. Alcuni di questi farmaci sono ancora oggi usati su basi empiriche o come placebo 'psicologici' (per l'operatore più che per il paziente), ma per alcune sostanze sono disponibili dati clinici che ne hanno dimostrato l'efficacia terapeutica. Tra le sostanze indicate in tabella le prove più convincenti sono state offerte, per il momento, dagli inibitori sintetici della fibrinolisi, usati nella menorragia primitiva, nell'emorragia del tratto gastrointestinale superiore e nelle estrazioni dentarie in pazienti con difetti della coagulazione o delle piastrine. La desmopressina è stata usata con successo in pazienti con emofilia A di grado lieve e nella malattia di von Willebrand classica; più incerti i risultati ottenuti in pazienti con uremia e con cirrosi epatica. Gli estrogeni coniugati hanno trovato invece qualche favorevole applicazione nel controllo dell'emorragia dei pazienti uremici. In questi ultimi, inoltre, è opportuno mantenere, mediante trasfusione di globuli rossi o eritropoietina, un valore ematocrito non inferiore al 30%.
A.L. Bloom et al., Haemostasis and thrombosis, 2 voll., Edinburgh, Churchill Livingstone, 1994.
G. de Gaetano, V. Bertelè, Fisiopatologia dell'emostasi primaria, in Trattato italiano di medicina interna, diretto da P. Introzzi, 5° vol., Firenze, USES Edizioni Scientifiche, 1988, pp. 4253-69.
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