empirismo
Dal gr. εμπειρία («esperienza»). In generale, atteggiamento filosofico che pone nell’esperienza la fonte della conoscenza. Tradizionalmente considerato nelle storie della filosofia in opposizione a «innatismo» e a «razionalismo», l’e. si caratterizza per il rifiuto di ogni dottrina filosofica che faccia derivare la conoscenza per deduzione da principi razionali evidenti a priori, in quanto tali anteriori e indipendenti dall’esperienza. In questo senso Hegel definiva l’e. come l’atteggiamento gnoseologico che «in luogo di cercare il vero nel pensiero stesso, lo va ad attingere dall’esperienza». Vari sono gli autori che nella storia del pensiero hanno fatto appello all’esperienza sensibile nel processo conoscitivo e, in questo senso, si parla comunemente di forme di e. già nella filosofia greca e in quella medievale. Più propriamente, il termine sta a indicare l’indirizzo filosofico originatosi in area britannica nei secc. 17° e 18°, per opera soprattutto di autori quali Locke, Berkeley e Hume, con importanti sviluppi nel sec. 19° grazie alle ricerche di J.S. Mill. Tale indirizzo, sulla base dell’esperienza, ha elaborato una compiuta teoria della conoscenza, sullo sfondo dei profondi mutamenti che erano stati prodotti dalla nuova immagine del mondo frutto della rivoluzione scientifica.
In un noto passo della Critica della ragion pura, Kant, discutendo della controversia se le conoscenze pure della ragione derivino dall’esperienza o se piuttosto abbiano la loro sorgente nella ragione stessa, indicava in Aristotele «il capo degli empiristi», seguito da Locke «nei nuovi tempi». Che Aristotele possa dirsi l’iniziatore dell’e. è questione discussa: se infatti Aristotele privilegiò un approccio empiristico e induttivistico nelle indagini sui fenomeni naturali, la sua concezione della vera scienza resta legata piuttosto all’impostazione platonica basata sulla dialettica e sul procedimento deduttivo. Rispetto ad Aristotele, secondo quanto riconosceva lo stesso Kant, Epicuro fu assai più conseguente. Nella sua «canonica» (o teoria della conoscenza, dal termine greco κάνον che sta per «criterio»), Epicuro, sviluppando temi democritei, fece della sensazione il criterio fondamentale della conoscenza. Dagli oggetti ester- ni si staccano pellicole sottili di atomi che vanno a colpire gli organi di senso producendo immagini, corrispondenti in linea generale agli oggetti. Ma essendo queste pellicole, per quanto sottili, anch’esse di natura materiale, può avvenire che nel processo di trasmissione subiscano deformazioni, dando luogo a immagini ingannevoli; si tratta comunque di difetti che vanno corretti restando sempre nell’ambito dell’esperienza, facendo ricorso alle anticipazioni (o prolessi) che altro non sono che le tracce di sensazioni passate ripetute e rese stabili.
Contro la tradizione aristotelico-scolastica, nella prima metà del sec. 17°, fu Gassendi a riproporre una logica empiristica ispirata a un recupero dell’epicureismo nell’ambito dell’ortodossia cristiana. Come per Epicuro, anche per Gassendi il criterio della verità consiste nella sensazione, cioè nelle immagini che l’intelletto recepisce dall’esterno creando un siste- ma di segni e dando luogo, attraverso il ricorso a procedimenti induttivi, a una forma di conoscenza sperimentale e fenomenica. Coerentemente con il recupero dell’e., Gassendi fece valere le istanze di un moderato scetticismo contro gli arbitri della metafisica scolastica, una forma di scetticismo non distruttivo riguardo alle capacità della conoscenza umana, ma volto in chiave essenzialmente antidogmatica. È quella forma di scetticismo che accompagnerà non poche espressioni dell’e. moderno, dove il privilegiamento del dato, quale si presenta all’esperienza sensibile, diventa atteggiamento critico nei confronti delle pretese della ragione di pervenire a verità assolute, e l’appello all’esperienza assume il ruolo di criterio di verifica di ogni assunto sul mondo e sulle possibilità del conoscere. Tale istanza critica è esplicitamente dichiarata da Locke in apertura del Saggio sull’intelletto umano (➔) (1689), dove si avverte il lettore che intento dell’autore è quello di procedere con un «semplice metodo descrittivo» a stabilire le condizioni, i limiti e le possibilità della conoscenza, per appurare quali verità sia possibile conoscere con certezza e quali siano oggetto di probabilità e di congetture, perché se è irragionevole la pretesa di conoscere tutto lo è altrettanto il rinunciare in nome di uno scetticismo assoluto alle conoscenze che sono invece accessibili all’uomo. L’orizzonte in cui si colloca la ricerca di Locke è quello del rifiuto del dogmatismo, delle concezioni della metafisica scolastica e del principio di autorità; punti di riferimento sono il metodo induttivo e i procedimenti di verifica delle ipotesi tipici del metodo sperimentale dei grandi protagonisti dell’indagine scientifica contemporanea: R. Boyle, Th. Sydenham, «il grande Huyghens e l’incomparabile Newton», di fronte ai quali Locke si pone come il «semplice manovale che sgombera il terreno e lo ripulisce da alcuni detriti che ostacolano la via verso la conoscenza». Rientrano a pieno titolo in questa operazione la scelta in senso decisamente antinnatistico dell’e. di Locke, vale a dire il rifiuto delle idee innate proprie della tradizione platonizzante, ripresa in età moderna da Cartesio e dai platonici di Cambridge; la sua concezione della mente come tabula rasa e dell’esperienza come fonte di tutti i materiali della conoscenza, tanto delle idee che provengono dal senso esterno quanto di quelle che nascono dalla riflessione dell’intelletto sulle proprie operazioni; la critica del concetto di sostanza, che vanifica la pretesa della metafisica tradizionale di conoscere l’«essenza delle cose».
La distinzione tra impressioni e idee, fatta valere da Hume reinterpretando la linea analitica dell’e. di Locke, diventa strumento di una critica radicale delle generalizzazioni logico-metafisiche dei razionalisti. Anche per Hume quella di sostanza è una nozione inintelligibile, e frutto di ipostatizzazioni arbitrarie sono le idee astratte, sulle quali si era già appuntata la critica demolitrice di Berkeley. L’indagine del filosofo scozzese culmina nella dissoluzione del principio razionalistico di causalità. Le connessioni causali e il principio di uniformità della natura, che su quelle si basa, non sono ricavabili né dalla ragione né direttamente dall’esperienza: la loro origine va piuttosto cercata in una sorta di istinto naturale, che è compito dell’«anatomista della natura umana» analizzare, ricostruendo i meccanismi psicologici che operano sull’immaginazione tramite procedure che Hume definisce con termini quali «custom», «habit», «belief». Erano questi i risultati del «newtonismo morale» di Hume, vale a dire del tentativo di estendere allo studio della natura umana i procedimenti della nuova fisica sperimentale.
Le conclusioni del nuovo approccio humiano finivano con il mettere in discussione, al di là delle ipostatizzazioni della metafisica tradizionale, anche alcuni dei presupposti filosofici della fisica di Newton, come per es. le nozioni di spazio e tempo assoluti. Fu Kant ad attribuire alla lettura di Hume la funzione di averlo scosso dal «sonno dogmatico» delle sue prime prove filosofiche, ponendo però al tempo stesso il problema di ricostruire, una volta rese impercorribili le vie della vecchia metafisica, i fondamenti logico-razionali della nuova fisica, sottraendoli al relativismo. La soluzione kantiana è nota: non si dà conoscenza al di fuori dell’esperienza, ma essa è valida solo nell’ambito delle condizioni a priori che la rendono possibile: le nozioni di spazio e tempo acquistavano stabilità come forme trascendentali della sensibilità.
Ricollegandosi in pieno sec. 19° alla tradizione dell’e. britannico, J.S. Mill si trovò a confrontarsi con problemi nuovi, legati alle diverse risposte che allo scetticismo gnoseologico attribuito a Hume avevano dato, da una parte, il trascendentalismo kantiano, riecheggiato in Inghilterra dalla filosofia dell’induzione dell’epistemologo Whewell, e dall’altra dall’intuizionismo della scuola scozzese del common sense. Riferendosi al dibattito filosofico contemporaneo, Mill lo vedeva animato essenzialmente dallo scontro tra due scuole: la «scuola a priori», o intuitiva, che sosteneva la presenza in ogni atto del pensiero di elementi mentali originali e non derivati, quali le nozioni di tempo, spazio, estensione, solidità, e la «scuola a posteriori», o dell’esperienza, i cui rappresentanti non negavano affatto l’importanza di quelle nozioni, ma contestavano il loro carattere di verità non ulteriormente analizzabili. Ricostruire i processi attraverso i quali si formano le presunte verità a priori è il compito che Mill si pose nel System of logic (1843), ricorrendo agli strumenti analitici della psicologia associazionistica. L’esito delle ricerche di Mill va in direzione di una forma radicale di e., in cui non solo le relazioni logiche fondamentali nascono da generalizzazioni di dati provenienti in ultima istanza da induzioni empiriche, ma gli stessi assiomi matematici, punto di forza di ogni posizione intuizionistica, hanno un’origine analoga, in quanto scaturiscono dalle nostre interazioni con il mondo.
Tacciata di ‘psicologismo’, la concezione milliana secondo cui il carattere necessario della logica e della matematica risiederebbe nei processi dell’associazione mentale andò incontro a una rapida eclissi nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Le nuove ricerche nei campi della logica e della matematica contribuirono alla rielaborazione del concetto stesso di esperienza, nello stesso momento in cui la rivoluzione relativistica in fisica rimetteva in discussione quel paradigma epistemologico newtoniano che per circa due secoli aveva costituito un punto di riferimento essenziale dell’e. britannico. La rinascita novecentesca dell’e. prenderà il nome di e. logico e avrà come strumenti di verifica le tecniche logico-formali di analisi del linguaggio.