Energia
E=mc2: dalla massa l'energia del futuro
Energie per il domani: prospettive e problemi
di Carlo Rubbia
12 aprile
All'ordine del giorno del vertice dei ministri dell'Ambiente degli otto paesi più industrializzati, aperto a Banff sulle Montagne Rocciose del Canada, è la preparazione di un piano di misure comuni in materia di energia da sottoporre al Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile che si terrà a Johannesburg dal 26 agosto al 4 settembre. Viene approvata la proposta italiana di costituire un pool di scienziati per studiare come accelerare l'introduzione dell'idrogeno, combustibile pulito, nei sistemi energetici nazionali.
L'energia: ingrediente essenziale della civiltà umana
L'energia è un ingrediente essenziale della civiltà umana. Basti pensare che, nel corso della storia dell'umanità, il consumo pro capite di energia è cresciuto di circa un fattore 100. Per la popolazione dei paesi più industrializzati del mondo tale consumo è oggi di 0,9 GJ/giorno/persona ed equivale a un consumo pro capite di 32 kg di carbone al giorno, ovvero, visto in un altro modo, alla fornitura continua di circa 10 kW/persona. Per confronto, si tenga presente che l'energia media che proviene dal cibo corrisponde a una fornitura continua di 0,14 kW/persona; l'energia proveniente dal cibo rappresenta, pertanto, poco più dell'1% dell'energia da noi richiesta per soddisfare le nostre necessità.
Vista a livello planetario, l'energia attualmente necessaria per soddisfare tutti i bisogni dell'uomo equivale alla produzione continua di una 'macchina' di potenza dell'ordine di 10 TW (104 GW); essa è cresciuta con regolarità negli ultimi 150 anni a un tasso costante del 2,3% all'anno (fig. 2). Per fare un confronto, l'energia di origine geologica proveniente dalla crosta terrestre - dovuta al decadimento dell'uranio naturale e del torio - equivale all'incirca a una potenza continua di 16 TW: l'uomo ha, pertanto, quasi raddoppiato la generazione di energia interna del pianeta. L'energia associata alle maree è invece equivalente in media a una potenza di 3,5 TW: quindi nelle maree non vi è un'energia sufficiente per soddisfare tutti i nostri bisogni!
Non vi è dubbio che il consumo mondiale di energia è destinato ad aumentare in futuro, poiché la popolazione è in stabile crescita e miliardi di persone dei paesi in via di sviluppo reclamano tenori di vita più elevati. L'attuale, enorme disparità nei consumi di energia (per es., in Svezia si consumano 15.000 kWh di energia elettrica/persona/anno, in Tanzania 100 kWh/p/a) tenderà gradualmente a scomparire. L'energia dovrà certamente essere prodotta e utilizzata in modo più efficiente: questa è una condizione necessaria ma non sufficiente per una stabilizzazione dei consumi di energia. Otterremo indubbiamente più chilometri di percorrenza da un litro di benzina, ma vi saranno anche più automobili; le lampadine avranno certo un'efficienza maggiore, ma ve ne sarà un numero più grande, e così via. Assisteremo insomma a una migliore efficienza, ma anche a un forte aumento dei consumi. Sappiamo che la cosiddetta intensità energetica - data dal rapporto tra energia consumata e PIL - è all'incirca una costante, che varia lentamente in funzione delle condizioni sociali e del tempo. La tendenza economica mondiale è quella di una crescita del PIL di circa il 2% annuo. Non è affatto casuale che questo valore rappresenti anche all'incirca il tasso di crescita atteso per i consumi di energia a livello mondiale. Questa ingente quantità di consumi energetici solleva un'ovvia questione relativa alla longevità delle risorse, in particolare di quelle fossili (carbone, petrolio e gas). Non vi è dubbio che, al fine di sostenere il ritmo di sviluppo della nostra civiltà, siano richieste nuove fonti di energia nel lungo termine. La durata effettiva dell'era, necessariamente limitata, incentrata sui combustibili fossili (v. fig. 3, per quanto riguarda la domanda e la produzione mondiale di greggio) sarà influenzata da un lato dalla scoperta di nuove risorse - il cui sfruttamento sarà fortemente condizionato dal prezzo - e dall'altro dall'entità della popolazione mondiale e dal suo standard di vita. Si prevede che la popolazione mondiale cresca fino a 10 miliardi di individui circa alla fine del 21° secolo e poi rimanga stabile. Ipotizzando un consumo medio pro capite pari al valore medio europeo (3 tep/anno, dove tep = tonnellata equivalente di petrolio) troviamo che ai livelli attuali di incremento di domanda (2,3%/anno) si raggiungerà nell'arco di 55 anni (in assenza di interventi limitativi) una richiesta di energia corrispondente a una potenza di circa 39 TW, ovvero quasi quattro volte il livello attuale. Di contro, ai livelli attuali di consumi, le riserve note di carbone, petrolio e gas naturale corrispondono rispettivamente a una durata di 230, 45 e 63 anni. L'uranio naturale, come usato nelle attuali centrali nucleari, presenta riserve per 54 anni. Queste cifre possono essere modificate in senso positivo in virtù della scoperta di nuovi giacimenti e in senso negativo a causa dell'aumento dei consumi. Anche se questi fattori sono difficili da determinare, tenendo conto dei tempi lunghi richiesti per sviluppare nuove fonti energetiche, si può già intravedere la fine dell'era dei combustibili fossili. Che cosa ci riserva il futuro?
Effetti delle attività umane sul pianeta Terra
L'impiego dei combustibili fossili può essere limitato prematuramente in conseguenza di considerazioni sui danni ambientali, per es., l'effetto serra. È questo un fatto con cui fare i conti, una realtà che l'uomo può combattere o accettare. Si potrebbe affermare che, con un massiccio effetto serra, il mondo di domani non sarebbe necessariamente peggiore per tutti (la Siberia e il Canada settentrionale probabilmente ne guadagnerebbero con una mitigazione climatica, mentre altre regioni, come quelle del Mediterraneo, ne perderebbero, a causa della crescita delle malattie tropicali, della desertificazione, della siccità, della deforestazione e così via): quel che è certo è che il mondo di domani sarà molto differente e, cosa più preoccupante, sostanzialmente imprevedibile.
È evidente che, per la prima volta nella storia, le attività umane iniziano a modificare le condizioni globali del pianeta. Cominciamo a renderci conto che il prezzo che la comunità deve in definitiva pagare per un barile di petrolio - tenuto conto degli effetti ambientali - è significativamente più alto del costo caricato dai produttori. Queste recenti, diffuse preoccupazioni sono formalmente ammesse a livello politico dal protocollo della Conferenza di Kyoto, che ha introdotto una nuova dimensione del problema e ha indicato l'esistenza di un limite potenziale per l'utilizzo dei combustibili fossili molto più vicino di quanto non sia quello determinato dalla pura capacità naturale di produzione.
Gli effetti delle attività umane sul pianeta sono rappresentati in fig. 1, che mostra, per il periodo della civiltà che va dal 1850 a oggi, l'andamento delle seguenti grandezze: popolazione mondiale, emissioni di carbonio, concentrazione di anidride carbonica (CO2), temperatura media della Terra. È evidente la presenza di una correlazione tra gli andamenti tendenziali di queste grandezze: a un aumento della popolazione consegue infatti quello delle emissioni della concentrazione di CO2 nell'atmosfera e, quindi, un aumento della temperatura media del pianeta. Negli ultimi anni l'evidenza statistica e scientifica ha mostrato che il clima è disturbato dall'aumento della concentrazione nell'atmosfera dei gas serra, come conseguenza del nostro modello di sviluppo. Secondo l'autorevole IPCC (International panel on climate change) la temperatura media del pianeta è aumentata nel corso del 20° secolo di 0,6 ± 0,2 °C. Gli anni Novanta sono stati, in media per tutto il globo, il decennio più caldo dal 1861 e in particolare per l'emisfero Nord l'aumento della temperatura nel corso del 20° secolo è stato il più grande degli ultimi 1000 anni; infine il livello globale medio dei mari è cresciuto, nel corso del 20° secolo, di un valore che va da 10 a 20 cm, mentre lo spessore dei ghiacciai artici, nel periodo di tarda estate-inizio autunno, è diminuito di circa il 40% negli ultimi decenni.
Il pianeta ha già sperimentato milioni di anni fa variazioni climatiche dovute a eventi naturali (per es., vulcanici); tuttavia oggi, nell'era del più forte progresso dell'umanità, la velocità di cambiamento è di circa due ordini di grandezza maggiore: la Terra sta evolvendo verso una nuova situazione. La correlazione tra concentrazione di CO2 nell'atmosfera e variazione della temperatura media è confermata dai dati (rappresentati in fig. 2) relativi all'analisi di una 'carota' di ghiaccio polare (nota come carota di Vostok, località del Polo Sud), che evidenziano un'impressionante similarità e corrispondenza negli andamenti di queste due grandezze a partire da 160.000 anni fa. Per quanto riguarda in particolare la concentrazione di CO2 si nota una forte crescita tra l'inizio dell'era industriale, cui corrisponde un valore medio di 280 ppmv (parti per milione in volume), e il momento attuale, cui corrisponde un valore medio di 353 ppmv. Va detto comunque che, anche se il riscaldamento globale del pianeta e la crescita del tasso di CO2 nell'atmosfera hanno andamenti non controversi, le cause e l'entità del fenomeno nonché la gravità delle conseguenze sono ancora oggetto di dibattito e dipendono da una serie di fattori, quali la grande quantità di CO2 scambiata tra il mare e l'atmosfera, pari all'incirca a 30 volte le emissioni dovute ad attività umane, la presenza e il ruolo di altri gas a effetto serra, come per es. il metano e i composti a base di cloro e di fluoro e, infine, l'intrinseca instabilità del clima del pianeta, soggetto a grandi variazioni anche prima dell'avvento dell'era tecnologica. L'IPCC stima, nei suoi vari scenari, che la temperatura media della Terra salirà tra il 1990 e il 2100 di un valore compreso tra 1,4 e 5,8 °C e questo causerà una crescita del livello medio dei mari compresa tra 9 e 88 cm. Le aree costiere, ma anche intere isole e arcipelaghi saranno spazzati via dalla mappa geografica (si pensi a Venezia!). Le conseguenze potrebbero essere ancora più catastrofiche se combinate con altri fattori aggravanti connessi alle attività economiche e all'uso del territorio; siccità e inondazioni saranno verosimilmente più severe e frequenti, minando le fondamenta dell'agricoltura. A partire dalla prima rivoluzione industriale, la concentrazione dei sei gas serra (CO2 - responsabile dell'80% del contributo - N2O, CH4, HFC, PFC e SF6) è sostanzialmente cresciuta (CO2 +30% dal 1750), mentre la capacità naturale di assorbirli è andata diminuendo. In Europa, per es., il 94% delle emissioni è attribuibile al settore energetico. Circa il 90% della crescita prevista nelle emissioni di CO2 deriverà dal settore dei trasporti (che ha fatto registrare un aumento del 50% tra il 1990 e il 2010): il trasporto su strada è la causa dominante (84%), data la bassa efficienza dei motori (circa il 17%), ma anche il trasporto aereo dà un contributo rilevante (13%). La riduzione della dipendenza dai combustibili fossili e l'aumento dell'efficienza energetica, soprattutto nei trasporti, costituiscono una necessità ambientale e una sfida tecnologica (Libro verde dell'Unione Europea sull'energia). L'aumento previsto per le emissioni di CO2 nell'Europa allargata a 30 paesi è rappresentato in fig. 1, dove si possono notare da un lato l'effetto dell'applicazione delle prescrizioni di Kyoto e dall'altro le conseguenze di un abbandono progressivo del nucleare (corrispondente al mancato rinnovamento delle centrali); queste ultime in particolare equivalgono - dal punto di vista delle emissioni - a 80 milioni di automobili in più in circolazione. Va osservato anche che, come mostrato chiaramente in fig. 2, l'efficacia delle prescrizioni di Kyoto per contenere l'aumento delle emissioni di CO2 si rivela insufficiente se confrontata con l'aumento previsto nei vari scenari prospettati dall'IPCC, che non ipotizzano alcun provvedimento restrittivo da parte dei governi: qualora le prescrizioni medesime venissero estese fino al 2100, ne conseguirebbe un contenimento dell'ordine del 15%, ovvero, in termini di concentrazione, un ritardo di nove anni nel raggiungimento di un livello pari a due volte quello pre-industriale (550 ppmv).
Si pone quindi un interrogativo in merito alla migliore strategia da adottare per combattere il riscaldamento globale, visto che le prescrizioni di Kyoto possono produrre soltanto un leggero beneficio, che senza nuove misure veramente significative non sarà possibile soddisfare neppure i requisiti di Kyoto, che misure fiscali, aiuti di Stato e politiche che agiscono sulla domanda sono inadatti a fornire risposte adeguate a queste domande e, infine, che il problema non può essere risolto unicamente con misure di carattere politico: è in effetti necessaria una grande rivoluzione tecnologica che richiede, a sua volta, un vasto sviluppo di nuove tecnologie.
Le fonti primarie di energia: la grande sostituzione
Molte persone, comitati, gruppi di lavoro ecc. hanno tentato di prevedere la combinazione di fonti di energia primaria per il futuro, con una varietà di scenari possibili. Un elemento comune a tutte queste previsioni è la crescita dei consumi, quotata all'incirca nel 2% annuo, come già indicato in precedenza. Vi sono due approcci principali alla questione: il primo è noto come l'approccio di continuità di Marchetti (figg. 3 e 4) e fa uso delle cosiddette equazioni epidemiche (cioè insensibili agli eventi umani) per approssimare l'andamento passato dell'energia al fine di estrapolarlo per il futuro. Secondo questo schema, come si è verificato nel passato, le transizioni tra una fonte energetica e un'altra sono pilotate da fattori sia tecnologici sia economici e non causate dalla disponibilità di risorse. I picchi di massimo dei consumi energetici seguono i cicli di Kondriatev, della durata di circa 55 anni, che coincidono con i picchi nei prezzi delle fonti energetiche. Secondo questo approccio, le prossime fasi saranno: il gas naturale con un massimo nel 2030, seguito da un 'nuovo' nucleare da fissione, con un massimo nel 2090, a sua volta seguito da una fonte a scelta tra solare e/o fusione durante il secolo successivo. Le durate di questi cicli sono le solite e appaiono simmetriche attorno ai massimi.
Il secondo approccio è noto come energy mix, ipotizzato per es. dal World Energy Council (fig. 3), nel quale un certo numero di tecnologie nuove, differenti e ancora da sviluppare deve progressivamente prendere il posto dei combustibili fossili, che al 2050 rappresenteranno non più di 1/3 del totale di produzione di energia primaria. Queste nuove tecnologie sono l'eolico, le nuove biomasse, il solare, il geotermico e una 'fonte a sorpresa', che si svilupperà rapidamente dopo il 2020, in un modo esplosivo. L'energia nucleare da fissione classica sopravviverà, ma in quote modeste. Non vi sarà un contributo della fusione, almeno fino al 2100. L'ipotesi del geotermico deve essere scartata, in quanto è stato ipotizzato, in modo non realistico, un contributo di potenza media pari a 3 TW mentre, come sottolineato sopra, tutto il calore geologico della crosta terrestre è di appena 16 TW. Al contrario dell'approccio di Marchetti, nel quale dominano una continuità con il passato e considerazioni puramente economiche, l'approccio di energy mix pone una straordinaria enfasi sulla capacità della tecnologia di introdurre nuovi metodi per la produzione di energia, pilotati da esigenze ecologiche. Questi metodi implicano anche una rete distribuita nello spazio di dispositivi di dimensioni ridotte al posto di grandi sorgenti centralizzate, come nel caso delle attuali sorgenti di produzione di energia. La questione più spinosa nel secondo approccio consiste nel fatto che le nuove fonti rinnovabili (eolico, solare ecc.), anche se sono in grado di avere un ruolo molto importante nel medio e lungo termine, non possono da sole soddisfare le attese richieste di consumi, quantificabili in potenze di produzione superiori a 30 TW, che provengono per la maggior parte in modo indiretto dal Sole.
La risorsa Sole
La potenza che arriva dal Sole, integrata su tutta la superficie del pianeta, è pari a 105 TW. Tuttavia, come si può vedere in fig. 1, la distribuzione della radiazione solare media sulla superficie del pianeta è molto diversificata: si va da valori di 130 W/m2 nelle regioni a latitudini estreme a valori più che doppi (fino a 290 W/m2) in alcune regioni del continente africano e dell'America Meridionale. In una localizzazione favorevole, con un flusso medio di potenza di 280 W/m2, l'energia proveniente in un anno dal Sole è dell'ordine di 2500 kWh/m2. Essa costituisce una 'pioggia' di energia equivalente a quella che produrrebbe in un anno uno strato di 20 cm di petrolio (1,5 barili/m2). Per es., l'energia solare che investe l'Arabia Saudita è equivalente a circa 1000 volte l'energia proveniente dai combustibili fossili esportati (petrolio+gas). Un fattore chiave per l'utilizzo di tale energia è l'efficienza di raccolta dei diversi mezzi di trasformazione del solare. Come illustrato in fig. 2, la superficie totale attiva necessaria per raccogliere una potenza solare di 15 TW è pari a Scoll5(5,4∙104/h km2), dove h rappresenta l'efficienza di conversione dell'energia primaria solare in energia utile. La superficie potenziale impegnata per produrre energia utile a partire dall'energia primaria del Sole è, pertanto, inversamente proporzionale all'efficienza di conversione dei diversi sistemi utilizzati. Nel caso del solare termico a concentrazione, tale valore di efficienza arriva fino a 0,3, per cui l'area è pari a 1,8∙105 km2 (si noti che l'area totale coltivata del pianeta è all'incirca pari a 107 km2). L'efficienza è circa 0,1 per il fotovoltaico e 0,005 per la nuova biomassa (piante a crescita rapida, per le quali tra l'altro è necessaria abbondante acqua); in questi casi, pertanto, l'area risulta maggiore. Nel caso dell'energia eolica (con torri alte 50 m, eliche di 33 m di diametro separate in media da una distanza pari a 1,25 volte il diametro, vento forza 4), l'area richiesta è all'incirca dieci volte maggiore di quella necessaria per il fotovoltaico. Per quanto riguarda i costi, si deve ricordare che la migliore energia è quella più a buon mercato: pertanto, in definitiva, l'energia solare deve divenire competitiva con i combustibili fossili. Come si vede in fig. 3, relativa ai costi di varie forme di produzione di energia, il solare fotovoltaico presenta costi di gran lunga superiori a quelli dei combustibili fossili e del nucleare. La situazione è diversa per il solare termico, come illustra la fig. 1 a p. 316, che presenta una proiezione al 2020 dei costi relativi alle diverse opzioni di tale tecnologia.
Le tecnologie per lo sfruttamento diretto dell'energia solare
L'energia solare (1304290 W/m2), in assenza di dispositivi che ne consentano la concentrazione, è adeguata per produrre acqua calda o riscaldamento domestico, ma non è sufficientemente intensa per essere trasformata in energia efficiente, per la quale è richiesto calore a elevata entalpia, come avviene nella combustione dei fossili. Mediante applicazioni più avanzate, è possibile ottenere dal calore solare prestazioni che sono specifiche della fiamma prodotta dai fossili. Queste applicazioni sono basate sulla concentrazione della luce solare diretta (che raggiunge la Terra senza apprezzabile diffusione da parte dell'atmosfera) su di una superficie di piccole dimensioni, con densità di potenza dell'ordine di 10041000 W/cm2. In tal modo, è possibile raggiungere temperature tra 400 °C e oltre 1200 °C, utilizzabili per una quantità di applicazioni che vanno dalla produzione di energia elettrica alle reazioni endotermiche, utili per es. per la produzione di idrogeno mediante la dissociazione dell'acqua.
Esistono attualmente tre tecnologie, ben sviluppate a livello internazionale, per l'utilizzazione del solare termoelettrico, che illustriamo qui di seguito.
Specchi parabolici lineari. Noti con la sigla SEGS (Solar electric generating system), gli specchi parabolici lineari sono usati per focalizzare i raggi solari su un singolo asse, un lungo tubo ricevente situato lungo la linea focale degli specchi concentratori. Un mezzo portatore di calore, per es. olio, pompato attraverso i tubi ricettori, alimenta una stazione di potenza localizzata centralmente. Il calore solare è trasformato in vapore allo scopo di far funzionare un turbogeneratore elettrico. La temperatura tipica di operazione è di 390 °C. Tali impianti oggi hanno potenze caratteristiche da 30 a 80 MW elettrici e bruciano anche una certa quantità di combustibile fossile (gas naturale) per produrre energia quando l'energia solare è deficitaria.
Torri solari. Un sistema di specchi che inseguono il moto del Sole su due assi, chiamati eliostati, riflette l'energia solare su di un ricevitore montato sulla sommità di una torre localizzata al centro dell'impianto. Il calore solare è raccolto da un fluido, per es. un nitrato fuso, che ha anche la funzione di accumulatore di energia. Con il calore accumulato nei sali fusi si produce vapore (a 565 °C), allo scopo di far girare un turbogeneratore elettrico. Le torri solari sono particolarmente adatte alla produzione centralizzata di energia nell'intervallo di potenza solare da 100 a 200 MW elettrici.
Concentratori parabolici indipendenti. Consistono in specchi parabolici mobili, indipendenti, che inseguono il movimento del Sole e riflettono i raggi solari verso un punto focale, dove sono assorbiti dal ricevitore. Il calore assorbito è trasferito (a 750 °C) tramite un sistema fluido-vapore, per es. sodio, al motore-generatore. Le dimensioni dei singoli moduli possono variare in un intervallo che va da 5 a 50 kW elettrici; con una serie di tali concentratori si possono realizzare impianti di qualsiasi dimensione e potenza. Mentre impianti con un numero limitato di specchi hanno di solito il generatore individualmente montato su ciascun punto focale, in impianti su più grande scala il calore può essere raccolto attraverso guide di calore (heat-pipes) presso una stazione di potenza centrale, dove può essere aggiunto anche l'accumulo dell'energia termica, come nel caso delle torri solari. Un impianto solare è essenzialmente un generatore di calore. Il calore ad alta temperatura è il tipico punto di partenza per la produzione di energia elettrica. Con lo sviluppo del mercato dell'idrogeno, esso potrebbe divenire anche una sorgente di questo elemento mediante, per es., la dissociazione dell'acqua o di altre sostanze. I costi della produzione di calore basata sull'opzione nucleare possono essere confrontati con quelli della produzione per via solare, essendo il costo dell'utilizzazione successiva di calore lo stesso per entrambi. Il costo della generazione di calore in un impianto nucleare da 3 GW del tipo LWR (ad acqua leggera: Low water reactor) è oggi dell'ordine di 1,5÷2 miliardi di dollari. Per ottenere costi di investimento competitivi, il sistema di specchi solari di raccolta da 2∙107 m2 dovrebbe costare non più di circa 75÷100 dollari/m2. Attualmente, il suo costo, basato su una potenza installata solare termica complessiva (di picco) dell'ordine di 350 MW, è di circa 200 dollari/m2. In vista di un fattore di scala notevole (105 e oltre), ipotizzare un fattore di riduzione del costo dell'ordine 2÷3 non appare troppo assurdo.
Se ben costruito, un impianto solare dovrebbe avere una durata comparabile a quella di un impianto nucleare LWR, pari cioè a 40 anni o più. I suoi costi di manutenzione sono, però, nettamente inferiori e il costo di combustibile è rigorosamente nullo: non vi è, infatti, combustibile da produrre, da trattare o da confinare una volta esaurito. L'impiego dell'energia solare richiede generalmente un mezzo efficace di immagazzinamento per compensare le variazioni giornaliere e stagionali. Ciò è correntemente ottenuto scaldando un sale fuso di nitrato (punto di fusione 220 °C, stabile fino a circa 600 °C) che viene mantenuto in un serbatoio a bassa perdita termica. Questa tecnologia è molto matura (tab. 1) ed esistono molte sostanze a basso costo che possono essere scaldate fino alla temperatura richiesta, funzionando come magazzini termici. Uno schema di principio relativo a un impianto solare dotato di sistema di accumulo di calore è rappresentato in fig. 2.
Come detto in precedenza, l'opzione del solare termico può divenire competitiva con altre forme attuali di produzione di energia, a patto che essa venga sviluppata su scala sufficientemente ampia. Se il fattore di efficienza di conversione dell'energia primaria solare in energia utile (η) è reso sufficientemente alto, l'estensione di territorio richiesta diviene quasi ragionevole. Riferendosi, per es., al consumo annuo di energia elettrica in Italia, che è di circa 300 TWh (corrispondente a una potenza media elettrica di 34,2 GW), se si dovesse produrre il 90% di questa potenza con impianti solari termici con h≈0,166 (efficienza di raccolta della luce solare pari a 1/3, tenendo conto anche di localizzazioni non ottimali, efficienza termodinamica pari a 1/2), la superficie coperta da captatori dovrebbe essere all'incirca di 616 km2 e il territorio occupato, non coltivabile, all'incirca di 1500 km2 (assumendo un fattore 2,45), cioè circa lo 0,5% della superficie totale del paese.
L'idrogeno come vettore energetico e come combustibile
Finora sono state considerate le possibili alternative per le fonti primarie di energia. Tuttavia, è di fondamentale importanza anche la scelta del 'vettore energetico' dalla generazione all'utilizzo, specialmente tenendo conto che, sia nel caso del solare sia in quello del nucleare, la distanza fra i punti di produzione e quelli di utilizzo è necessariamente molto ampia. Si sta assistendo a un incremento progressivo della quota di utilizzo dell'energia elettrica, con aumenti pro capite nelle regioni più sviluppate che vanno da 1100 kWh/persona a 25.000 kWh/persona in meno di 100 anni. Evidentemente, l'energia elettrica non può essere l'unico vettore energetico. Molte applicazioni ora basate sui combustibili fossili non possono essere immediatamente convertite all'uso dell'energia elettrica. Per queste applicazioni, sta emergendo l'impiego dell'idrogeno. Si deve sottolineare che l'idrogeno e l'energia elettrica sono gli unici due vettori energetici che non producono emissioni pericolose al punto di utilizzo e, per sé stesse, anche al punto di produzione.
L'idrogeno (H2) promette usi futuri unici, che lo rendono molto più valido di qualsiasi altro materiale che produce ignizione. L'introduzione dell'idrogeno come vettore energetico non richiede grossi salti tecnologici. È tecnicamente realizzabile la sostituzione del petrolio e del gas naturale con idrogeno in tutti gli usi attuali. L'idrogeno può essere immagazzinato, trasportato e distribuito usando tecnologie simili a quelle già largamente utilizzate per il gas naturale, ha una densità più bassa del metano (0,0899 contro 0,714 g/l ntp) e un'energia di combustione per unità di volume che è soltanto 1/3 (12,76 contro 39,7 kJ/l ntp). La diffusività è più grande di circa un fattore 3, il che implica la necessità di perdite minori dalle tenute. Ma l'idrogeno circola anche lungo una conduttura circa 2,8 volte più velocemente. Una conduttura progettata per il gas naturale trasporterà idrogeno alla stessa pressione, ma trasferendo soltanto l'80% dell'energia. Il costo di vettoriamento per unità di energia dell'idrogeno risulta approssimativamente del 50% più alto di quello del gas naturale.
Quando l'idrogeno viene bruciato nell'aria i soli inquinanti prodotti sono ossidi di azoto (NOx), che vengono grandemente ridotti a causa della presenza di H (H2O). Le celle a combustibile consentono la trasformazione diretta di idrogeno in energia elettrica a un'efficienza teorica di 0,83 (limite entalpico), nonostante l'effettiva prestazione risulti più bassa (0,540,7). Questo valore di efficienza di conversione è all'incirca il doppio di quello degli ordinari turbogeneratori o motori di veicoli; inoltre le celle non producono NOx e generano una quantità molto minore di calore di risulta. Questo calore, se è a temperatura sufficiente (per es., 800 °C), può essere recuperato con metodi convenzionali (turbina), incrementando ulteriormente l'efficienza del sistema. Studi sulla sicurezza relativa del gas metano, dell'idrogeno e della benzina hanno concluso che nessuno di questi combustibili è intrinsecamente più sicuro degli altri, ma che tutti e tre possono essere usati e sono stati effettivamente usati in modo sicuro. Gas ricchi di idrogeno sono stati impiegati per il riscaldamento delle case e per la cottura dei cibi per oltre un secolo. Infatti, il cosiddetto gas di città altro non è che una miscela costituita all'incirca per metà da ossido di carbonio (CO) e per metà da H2 ed è stato largamente usato nei paesi più sviluppati prima che il gas naturale divenisse disponibile su ampia scala.
La produzione di idrogeno a partire da combustibili fossili (in particolare di gas naturale) comporta la produzione di anidride carbonica (CO2) che, però, può essere abbattuta mediante metodi di sequestro; inoltre, la produzione può avvenire anche in impianti che utilizzano le fonti rinnovabili. In un sistema che combini il tutto, vengono ridotte a zero le emissioni legate sia alla produzione sia all'utilizzo dell'idrogeno. Tecniche di sequestro della CO2 sono già adottate nel mondo, non solo allo scopo di contenere le emissioni, ma anche per migliorare le prestazioni delle odierne tecniche di estrazione dei combustibili fossili. Lo sviluppo su larga scala delle tecnologie per la separazione e il sequestro della CO2 costituisce un vasto programma che comporta sia lo sviluppo di tecnologie separative (membrane, processi di absorbimento e adsorbimento, processi criogenici) e per il trasporto, sia l'individuazione di soluzioni per il confinamento a lungo termine. Al fine di raggiungere elevate densità, la CO2 deve essere confinata a pressioni supercritiche (>74 bar, d=1,1 t/m3), alle quali si trova in forma liquida. Vi sono diverse alternative: giacimenti esauriti di petrolio (404100 Gt C, cioè gigatonnellate di carbonio) e gas naturale (904400 Gt C), incluso l'immagazzinamento con miglioramento del recupero di petrolio (>20 Gt C); letti profondi di carbone, insieme al recupero di metano a letto carbone (CBM); acquiferi salini (50414000 Gt C) profondi (>800 m). Vi è una crescente fiducia che in futuro si possa confinare una significativa frazione della CO2 prodotta dalle attività umane (6 Gt C/anno nel 1990).
Il futuro: la cella a combustibile
In linea di principio, la cella a combustibile opera come una batteria, ma, a differenza di questa, non si scarica mai e non ha bisogno di essere ricaricata. Produce energia elettrica e calore fintanto che le viene fornito combustibile. Una cella a combustibile (fig. 3) consiste di due elettrodi assemblati come in un sandwich con al centro un elettrolita (per es., una membrana polimerica). L'ossigeno passa attraverso un elettrodo e l'idrogeno attraverso l'altro, generando energia elettrica, acqua e calore. Il combustibile idrogeno viene immesso nell'anodo della cella, mentre l'ossigeno (o l'aria) entra nella cella attraverso il catodo. Con l'ausilio di un catalizzatore, l'atomo di idrogeno si suddivide in un protone e un elettrone, che prendono differenti strade verso il catodo: il protone passa attraverso l'elettrolita. Gli elettroni creano invece una corrente separata che può essere utilizzata prima che ritornino al catodo per riunirsi con l'idrogeno e l'ossigeno, andando a formare una molecola di acqua.
Una cella a combustibile che includa un reformer di combustibile può utilizzare l'idrogeno proveniente dal gas naturale o dal metanolo, e anche dalla benzina. Poiché la cella a combustibile è basata sulla chimica e non sulla combustione, le emissioni da parte di questo tipo di sistema sono molto più basse di quelle dei più puliti processi di combustione. Vi sono diversi tipi di cella a combustibile (tab. 3) che differiscono per il tipo di elettrolita, per la temperatura di operazione e per altre caratteristiche. Le celle ad acido fosforico sono commercialmente disponibili e sono già state largamente installate in tutto il mondo in ospedali, alberghi, uffici, scuole, aeroporti. Esse generano energia elettrica con il 40% di efficienza e circa l'85% del vapore prodotto da queste celle può essere utilizzato per la cogenerazione. Questi dati vanno confrontati con il rendimento medio del 35% delle altre tecnologie di generazione dell'energia elettrica immessa sulla rete. Le temperature di operazione sono attorno ai 200 °C. Le celle a membrana a scambio di protoni (PEM, Proton exchange membrane) operano a temperature più basse (tipicamente 80 °C), hanno una densità di potenza più elevata, possono variare rapidamente il livello di potenza prodotta per adeguarsi alle variazioni della domanda e sono quindi adatte per applicazioni - come quelle dei motori di autoveicoli - nelle quali è richiesto un rapido avvio. La membrana a scambio protonico consiste in un sottile foglio plastico che permette il passaggio agli ioni di idrogeno. La membrana è rivestita su entrambi i lati da particelle di leghe metalliche altamente disperse (in genere platino) che fungono da catalizzatori aiutando la scissione degli atomi di idrogeno.
Le celle a carbonati fusi promettono elevate efficienze e operano a temperature elevate (di circa 650 °C). Celle di questo tipo hanno funzionato con successo per potenze unitarie che vanno da 10 kW a 2 MW per applicazioni stazionarie.
Le celle a ossidi solidi costituiscono un'altra variante molto promettente, che trova impiego in applicazioni a elevata potenza, tipicamente su impianti industriali e di generazione di energia elettrica su larga scala. Vi sono comunque anche esempi di applicazioni su veicoli. Questo sistema utilizza normalmente un materiale duro ceramico invece che un elettrolita liquido, consentendo un'operazione a temperature dell'ordine di 1000 °C ed efficienze dell'ordine del 50-60%. Riguardo ai costi e alle efficienze, la fig. 1 illustra proiezioni del Department of Energy statunitense che evidenziano il consistente abbattimento di costi realizzato negli ultimi anni e l'ulteriore riduzione prevista per i prossimi decenni, con la contemporanea crescita dell'efficienza. La fig. 2 mostra le emissioni in atmosfera di un impianto di generazione di potenza elettrica da 1 MW: si può notare come all'impianto basato sulla cella a combustibile (di cui si riporta nella fig. 1 a p. 332 uno schema concettuale) sia associato un valore nullo delle emissioni. Analogamente, la fig. 2 a p. 332 illustra le emissioni relative da veicoli per diversi tipi di motori; anche in questa applicazione le celle a combustibile non producono emissioni.
Conclusioni
Nel lungo termine i combustibili fossili non saranno verosimilmente in grado di assicurare un sostanziale incremento della produzione di energia primaria rispetto a quella oggi disponibile. Il fattore all'incirca 4 di aumento della domanda di energia previsto per la metà del 21° secolo (in accordo a un incremento della domanda pari a circa il 2% annuo) dovrà essere soddisfatto con tecnologie differenti e innovative. La combustione dei fossili non può essere per il momento abbandonata, ma i suoi effetti ambientali possono essere limitati attraverso l'introduzione di efficienze più elevate e di tecnologie basate sull'idrogeno (sequestro della CO2 + celle a combustibile), sia in impianti fissi per la generazione di energia elettrica (gli attuali impianti possono essere modificati), sia nel settore dei trasporti, per il quale si prevede la massima crescita (un'automobile media emette annualmente una quantità di CO2 pari a quattro volte il proprio peso!). Si prevede che una nuova forma di energia rinnovabile, che deve essere sviluppata a costi competitivi, sostituirà una quota considerevole della produzione dei combustibili fossili (50% di sostituzione nel 2050). Il solare termico con accumulo appare il migliore candidato. L'energia solare è abbondante e se usata efficientemente potrebbe produrre l'energia richiesta per il lungo termine. Oggi forse la migliore delle energie rinnovabili che abbiamo ancora in mano e che possiamo sperare sia la sorgente del futuro è essenzialmente l'innovazione. Dobbiamo preparare il futuro energetico del pianeta e questo è un obbligo per la scienza e la tecnologia e, direi, anche per una società civile come la nostra.
repertorio
Le fonti di energia
Per fonte di energia si deve intendere qualsiasi fenomeno capace di dar luogo a una liberazione di energia impiegabile in effetti utili per mezzo di appropriate apparecchiature. Comunemente, però, l'espressione è usata per indicare, in luogo del fenomeno, la materia più importante che in esso interviene e che economicamente caratterizza il processo produttivo. Così si indicano come fonti di energia il carbone fossile invece della reazione chimica tra carbone e ossigeno, oppure i materiali fissili anziché il fenomeno della fissione dei loro atomi. In questa accezione, si chiamano fonti primarie di energia quelle che si trovano in natura (per es., il petrolio) e fonti secondarie di energia quelle che si ottengono da operazioni tecnologiche su sostanze che costituiscono fonti primarie (per es., la benzina ottenuta dalla distillazione del petrolio). Le fonti primarie di energia possono essere classificate in base alla loro origine: dall'energia irradiata dal Sole deriva l'energia dei combustibili fossili (attraverso la sintesi clorofilliana e le successive trasformazioni biochimiche), delle acque fluenti (attraverso i fenomeni di evaporazione per riscaldamento e successiva precipitazione di masse d'acqua), dei venti (attraverso la creazione di sovrapressioni e depressioni per riscaldamento di masse d'aria); dall'energia del campo gravitazionale Sole-Luna-Terra deriva l'energia delle maree; dal processo di formazione del Sistema solare deriva il calore endogeno. Tra le numerose fonti di energia, allo stato attuale solo alcune hanno un'importanza commerciale rilevante; esse sono i combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale), l'energia idraulica, l'energia nucleare, l'energia geotermica e, in misura minore, l'energia solare, eolica e delle maree. Per comprendere meglio le modalità di impiego di queste fonti, è di grande importanza conoscere sia la classificazione che le distingue in energie rinnovabili (energia idraulica, eolica, solare, delle maree, geotermica) e non rinnovabili (energia da combustibili, nucleare), sia il loro grado di impatto sull'ambiente. In tal modo si pongono in evidenza gli effetti che l'uso di una fonte piuttosto che di un'altra ha sulle scorte reali del sistema energetico della Terra.
Cenni storici
Dopo il fuoco, la prima fonte di energia naturale adoperata per produrre effetti utili è stata l'energia del vento, utilizzata per la navigazione a vela. Seconda nel corso del tempo è stata la fonte idrodinamica: di ruote idrauliche scrive Filone di Bisanzio fin dal 230 a.C. e da Plinio il Vecchio (1° secolo d.C.) abbiamo testimonianza di un tipo di mulino, già diffuso in Italia prima dell'era cristiana, azionato da ruote idrauliche. Antichissima è pure l'utilizzazione dell'energia eolica per i mulini, rimasti per lungo tempo l'unica importante applicazione dell'energia meccanica ricavata da fonti naturali. Mulini a vento sembra esistessero in Inghilterra già nel 9° secolo, ma le prime notizie sicure di questo impiego si hanno soltanto nel 1400. Un'altra fonte di energia impiegata in passato era quella delle maree, che si è riproposta alla tecnica in tempi recenti. I veneziani usarono, fin dal 1044, mulini azionati da ruote idrauliche mosse dal flusso e riflusso delle maree e nel 1637 anche gli olandesi, che avevano perfezionato tale tipo di apparecchiature, ne avevano un certo numero. Le idee sulla possibilità di utilizzare, oltre al calore della combustione, le fonti eoliche e idrodinamiche erano dunque mature fin da tempi remoti, ma la domanda di energia non era tale da favorirne lo sviluppo, che del resto non sarebbe stato possibile anche per motivi tecnici. Nel 18° secolo, in Inghilterra, un'improvvisa scarsità di legna da ardere portò all'uso del carbone fossile, di cui il sottosuolo abbondava; questo materiale era noto già dal 12° secolo, come testimoniano alcuni documenti del 1113 che attribuiscono ai monaci di Klosterrath, presso Limburgo, la prima estrazione mineraria di carbone fossile, ma fino al Settecento era stato poco sfruttato. Fu l'avvento della macchina a vapore, inventata da James Watt nel 1765, a dare una forte spinta all'industria carbonifera. Ebbe inizio così la rivoluzione industriale, che dall'Inghilterra si diffuse prima nell'Europa occidentale e poi negli Stati Uniti, dove esistevano sia il combustibile sia l'apparato finanziario necessari alla sua utilizzazione. Il 19° secolo fu quindi dominato dall'uso del carbone, che determinò la divisione del globo in due parti ben distinte: da un lato i paesi industrializzati, acquirenti e trasformatori di materie prime, dall'altro i paesi fornitori di materie prime e consumatori di manufatti industriali. La produzione di petrolio ebbe inizio nella seconda metà del 19° secolo: già nel 1870 se ne consumavano 4 milioni di tonnellate all'anno, ma quasi esclusivamente per l'illuminazione; nello stesso periodo la diffusione dell'energia idroelettrica consentiva l'espansione dell'area industriale europea alla Svizzera e all'Italia settentrionale. Con l'inizio del 20° secolo i consumi energetici aumentarono rapidamente, soprattutto per quanto riguardava le applicazioni dell'energia elettrica e del motore a combustione interna. Il crescente impiego di energia elettrica comportò la valorizzazione delle fonti idrodinamiche e l'impiego di quantità sempre crescenti di combustibili, solidi, liquidi e gassosi. Lo sviluppo dell'automobilismo, e più tardi dell'aviazione, fu la causa determinante dell'impiego dei combustibili liquidi. La più recente fonte di energia per la produzione di calore ed energia elettrica è quella nucleare: la data del 2 dicembre 1942, nella quale Enrico Fermi mise in funzione a Chicago la prima pila a uranio naturale, ha segnato l'inizio della produzione di energia da fissione nucleare. La speranza, invece, di un impiego ravvicinato dell'energia nucleare ottenuta da processi di fusione è stata più volte frustrata.
Carboni fossili
Il carbone fossile è una roccia sedimentaria organogena e combustibile, costituita da resti vegetali che hanno subito un arricchimento in carbonio in seguito a un processo di fossilizzazione e di diagenesi. È composto di sostanza carboniosa, chimicamente costituita di carbonio e, in quantità subordinata, di sostanze organiche azotate, residui dei tessuti vegetali non del tutto trasformati, cui si associano, con incidenze generalmente minime, minerali diversi, legati all'ambiente di sedimentazione (minerali argillosi, carbonati secondari, solfuri di ferro, solfati vari ecc.). Il carbone fossile ha una struttura e una tessitura assai complicate, in quanto la sostanza carboniosa stessa, tutt'altro che omogenea, risulta microscopicamente risolubile in numerosi componenti con caratteristiche morfologiche diverse. Dal punto di vista industriale, la classificazione più nota è fondata sul maggiore o minore contenuto in carbonio e quindi sul diverso potere calorifico. Secondo tale classificazione i carboni fossili possono essere suddivisi in torbe (50460% in C), ligniti (60470% in C), litantraci (70493% in C) e infine antraciti (93495% in C). Questa suddivisione rispecchia grossolanamente un andamento cronologico (le torbe sono generalmente recenti o, comunque, quaternarie, le ligniti terziarie o mesozoiche, le litantraci e le antraciti paleozoiche); si può tuttavia osservare che non sempre a un più avanzato stato di carbonizzazione corrisponde un'età più antica.
A seconda della natura del giacimento, il carbone può essere estratto a cielo aperto oppure mediante pozzi e gallerie. Il primo caso si verifica principalmente quando lo strato di terreno che ricopre il giacimento e che dev'essere asportato per scoprire il carbone, non è troppo alto in rapporto allo spessore e all'estensione del giacimento. L'asportazione dello strato superficiale di copertura si compie di solito con draghe mobili e il carbone si recupera con mezzi meccanici. Il sistema a cielo aperto, quando è possibile, consente sensibili economie ed elevate produttività. Si applica largamente in diversi paesi (Sudafrica, Stati Uniti, Germania, Australia, Siberia ecc.). Se invece il giacimento è profondo, viene raggiunto mediante pozzi e la coltivazione dello strato si esegue con tagliatrici e trasporti meccanici; questo metodo richiede però forti investimenti di capitale. Oggi si tentano anche sistemi di abbattimento idraulico. Il carbone estratto risulta di pezzatura diversa e può contenere percentuali anche sensibili di componenti estranei, che vanno eliminati. Noto fin da tempi remoti, il carbone fu usato inizialmente in Cina per usi metallurgici. In Europa, la Gran Bretagna è il paese nel quale l'estrazione e l'uso di questo materiale si svilupparono per primi e dove nel 17° secolo l'esportazione era già notevole. Fu però l'invenzione della macchina a vapore che, creando un'enorme richiesta di combustibile, diede impulso all'industria carbonifera, fornendo allo stesso tempo il mezzo meccanico per l'estrazione da profondità sempre maggiori e dando incentivo alle ricerche in altri paesi, specialmente Francia settentrionale, Lussemburgo, Belgio, Germania, Polonia e Stati Uniti. Il ritmo della produzione mondiale crebbe da circa 20 milioni di tonnellate annue nel 1800 a 100 milioni nel 1850, a 700 milioni nel 1900, per giungere a un massimo di 1260 milioni nel 1913 e, dopo la parentesi della Prima guerra mondiale, di 1400 milioni nel 1929. Successivamente il ruolo svolto dal carbone, soprattutto per le produzioni di energia se-condaria, è stato sempre più massicciamente assunto dal petrolio. Alla diminuzione del consumo di carbone hanno contribuito anche altri fattori, quali l'applicazione delle leggi contro l'inquinamento atmosferico, i progressi realizzati nella riduzione delle cariche di coke degli altiforni e la sostituzione dei derivati della carbochimica con quelli della petrolchimica. Di conseguenza, l'attività di estrazione è sensibilmente diminuita, soprattutto nei paesi dell'Europa occidentale, dove moltissime miniere sono state gradualmente chiuse. L'impiego del carbone come fonte energetica presenta, però, alcuni importanti vantaggi, legati alla competitività dei suoi prezzi e alla mancanza di particolari tensioni capaci di ingenerare pressioni destabilizzanti sul mercato. Fondamentale è anche la maggiore equità della ripartizione delle riserve (i giacimenti hanno una larga diffusione, anche se il 60% delle riserve accertate è localizzato in tre aree: Stati Uniti con il 25,4%, Repubbliche ex sovietiche con il 23,4% e Cina con l'11,6%; India, Australia, Germania, Sudafrica cumulativamente possiedono una quota pari al 28%) e la loro abbondanza rispetto ad altre fonti energetiche: considerando gli attuali livelli di produzione e l'entità delle riserve mondiali (circa 1012 t) si stima che la produzione potrebbe continuare per oltre 200 anni. Il carbone continua quindi a rappresentare, soprattutto in riferimento alla produzione di energia elettrica, una scelta privilegiata per molti paesi e anche per il futuro non è plausibile ipotizzare scenari in netta contrapposizione con il quadro attuale. Da sottolineare anche il progressivo aumento che si registra nel consumo di energia nei paesi in via di sviluppo, particolarmente quelli asiatici. In Cina, per es., il carbone resta la principale risorsa energetica, in considerazione delle abbondanti riserve a disposizione e della scarsa disponibilità di petrolio e gas naturale, ed è ampiamente utilizzato anche nel settore industriale, a differenza di quanto avviene normalmente nel resto del mondo. In India, invece, rimane prioritario l'impiego nel settore dell'energia elettrica e secondo le stime ufficiali si prevede che il consumo di carbone a questo scopo aumenterà fino al 2020 del 3,1% all'anno. Molto diversa è, invece, la tendenza relativa ai consumi di carbone nei paesi dell'Europa occidentale, tendenza in larga parte connessa con l'andamento della produzione europea: dopo la chiusura delle ultime miniere di carbone in Belgio (1992) e in Portogallo (1994), solamente Regno Unito, Germania, Francia e Spagna continuano a produrre carbone e in tutti gli Stati europei la produzione è comunque diminuita. Anche nei paesi dell'Europa orientale e in quelli dell'ex Unione Sovietica si è registrata una diminuzione dei consumi e della produzione. Diversa è invece la tendenza che si registra nella regione nordamericana. Si stima, per es., che negli Stati Uniti e in Canada il carbone contribuirà in misura crescente alla produzione di energia elettrica; i più alti consumi in Canada saranno dovuti, in larga misura, alla necessità di utilizzare fonti energetiche diverse da quella nucleare prodotta in impianti che entro il 2020 dovranno essere chiusi perché usurati. Le stime riguardanti il continente africano indicano egualmente un aumento dei consumi, pari a 29 milioni di tonnellate tra il 2000 e il 2020. La tendenza è la stessa per quanto riguarda la produzione, ma va sottolineata, in questo ambito, la posizione quasi di monopolio del Sudafrica.
Petrolio
Il petrolio, detto anche olio minerale, è un liquido oleoso, più o meno denso e viscoso, di colore da giallo a bruno scuro e a nero, dotato di fluorescenza da verde ad azzurra, costituito prevalentemente da idrocarburi liquidi che contengono disciolti idrocarburi naturali solidi o gassosi, accompagnati da percentuali relativamente piccole di composti ossigenati, solforati, azotati; si ritrova in sacche o falde permeanti rocce porose, a profondità variabili da poche decine di metri a qualche chilometro. Gli sviluppi conseguiti dalla geochimica organica hanno evidenziato come il carbonio, che entra a far parte della sostanza organica attraverso il processo della fotosintesi, giochi un ruolo fondamentale nel processo di formazione degli idrocarburi (naftogenesi). Con la morte degli organismi, la sostanza organica è degradata a opera dei batteri e il carbonio organico viene in parte ossidato a CO2 e in parte riutilizzato dagli organismi per sintetizzare nuova materia vivente (ciclo del carbonio organico). Il carbonio che è sfuggito nel corso del tempo geologico a questi due processi si è accumulato in grandi quantità nei bacini sedimentari e in determinate rocce ha raggiunto concentrazioni maggiori dello 0,3-0,5%, rendendo queste rocce potenzialmente in grado di generare petrolio (rocce madri). Tra i diversi litotipi che costituiscono le rocce madri, in ordine di importanza si hanno: le rocce madri argillose, quelle calcaree e dolomitiche, quelle silicee e quelle carboniose. La sostanza organica contenuta nei sedimenti è formata da molecole piuttosto semplici (biomonomeri), le quali derivano da molecole più complesse (biopolimeri) che costituiscono in origine la sostanza organica prima della scomposizione operata dai batteri. Parallelamente alle trasformazioni che subiscono i sedimenti per diventare rocce, anche la materia organica in essi contenuta si modifica e in particolare i biomonomeri si ricondensano in molecole più complesse, i geopolimeri. Di queste ultime il prodotto più importante è rappresentato dal cherogene, che costituisce la sostanza dalla quale, attraverso successive modificazioni, si genererà il petrolio, attraverso un lungo processo di trasformazione indicato con il termine di maturazione. Il processo di trasformazione della materia organica in cherogene e da questo in petrolio avviene attraverso tre stadi successivi, chiamati diagenesi, catagenesi e metagenesi; un quarto stadio è rappresentato dal metamorfismo, che porta i sedimenti alla perdita quasi completa dei propri caratteri originari attraverso una più o meno completa ricristallizzazione delle rocce e del loro contenuto organico. Nel primo stadio (diagenesi) i processi fondamentali sono la trasformazione del sedimento in roccia e della sostanza organica in cherogene. Durante questa fase i sedimenti raggiungono profondità intorno a 1000 m e temperature di 50 °C; l'acqua presente nel sedimento viene espulsa per compattazione e nella materia organica, a seguito dell'attività batterica, si hanno la distruzione dei biopolimeri e la formazione di molecole più complesse: i geopolimeri. Sempre durante la diagenesi, in presenza di una materia organica composta quasi esclusivamente di resti vegetali, si formano ligniti e carboni bruni. Nel secondo stadio (catagenesi) il processo più importante è la trasformazione del cherogene in petrolio, a cui si accompagna anche la formazione di metano. Durante questa fase, per effetto della subsidenza, lo spessore dei sedimenti può raggiungere e superare anche i 2000 m e la temperatura aumentare fino a 150 °C. In queste condizioni la pressione sui sedimenti e sulla materia organica è molto elevata, così che, a seguito dell'ulteriore compattazione, le rocce diminuiscono la loro porosità e permeabilità, viene espulsa altra acqua e il cherogene, completando la sua maturazione, produce tutto il petrolio possibile. Durante la metagenesi il cherogene perde ulteriormente idrogeno e ossigeno e si arricchisce sempre più in carbonio; durante questa fase cessa la formazione di idrocarburi liquidi e si genera solo metano e i carboni si trasformano in antracite. Con ulteriore aumento della temperatura (150-200 °C) e a profondità superiori a 5-6 km si entra nel campo del metamorfismo; in questa fase gli idrocarburi sono assenti e quel che resta del cherogene si trasforma in grafite. Nella formazione dei giacimenti petroliferi un ruolo fondamentale è rappresentato dalla cosiddetta migrazione del petrolio, processo attraverso il quale il petrolio si muove dalle zone di origine (rocce madri) a quelle dove impregna rocce porose e permeabili, chiamate rocce serbatoio. Queste ultime sono generalmente sedimentarie; tra i litotipi più frequenti vi sono ghiaie e conglomerati, sabbie e arenarie, calcari e dolomie. Nel processo di migrazione vengono distinte due fasi successive: la migrazione primaria e quella secondaria. Con la migrazione primaria il petrolio si muove dalla roccia madre a quella serbatoio a causa del costipamento dei sedimenti. Per effetto del carico, infatti, gli idrocarburi vengono espulsi e migrano nelle rocce porose e permeabili, con le quali sono a contatto, attraverso correnti idrauliche di costipamento. Il processo di migrazione primaria termina quando nella roccia madre si sono raggiunti valori di porosità molto bassi. La migrazione secondaria avviene nell'ambito della roccia serbatoio e dura finché il petrolio non raggiunge il luogo dove si accumula per formare un giacimento. In altri casi questa migrazione può portare a giorno il petrolio e dar luogo a manifestazioni petrolifere.
La storia dell'industria petrolifera si fa incominciare dal giorno (27 agosto 1859) in cui a Titusville, un villaggio di legnaioli della Pennsylvania, scaturì il petrolio dal primo pozzo perforato da E.L. Drake. Prima di allora, il petrolio utilizzato era soltanto quello che trasudava in superficie o che poteva essere scremato da venature e pozzi d'acqua. Il motivo che portò alla trivellazione del primo pozzo petrolifero fu la necessità di avere petrolio in maggiori quantità per scopi di illuminazione. Fino ad allora si era usato l'olio di balena, divenuto insufficiente a coprire le richieste. Nel 1850 lo scozzese J. Young aveva brevettato un mezzo per estrarre un idrocarburo grezzo liquido dal carbone e dagli scisti: tra i prodotti della distillazione vi era il cherosene, che serviva all'illuminazione e che ebbe ben presto un suo importante mercato. La trivellazione del pozzo di Titusville, permettendo di utilizzare in quantità commerciali il petrolio per ricavarne cherosene, aprì improvvisamente ai produttori ampie prospettive di facili guadagni in un mercato che era stato già preparato convenientemente dai commercianti del cherosene ottenuto per distillazione del carbone. Il salto produttivo del grezzo, nella sola Pennsylvania nord-occidentale, negli anni immediatamente successivi alla perforazione del pozzo di Titusville, è già di per sé sufficiente a indicare il passaggio dalla fase primitiva dell'estrazione del petrolio a quella industriale e commerciale moderna: dai 2000 barili del 1859 si passò, dieci anni dopo, a 4.800.000 barili e, nel 1871, a 5.205.000 barili. Nel periodo che precedette la formazione delle grandi società petrolifere, le condizioni del mercato del petrolio erano disordinate e tumultuose. Piccole società, con capitali assai modesti, si inserivano con facilità in uno dei rami del processo produttivo: in quello della perforazione, in quello della vendita o in quello della fabbricazione dei barili per la conservazione e il trasporto, quasi sempre senza nessun vincolo o rapporto con gli altri settori della produzione. L'interesse economico per il petrolio determinò la nascita di società per l'estrazione, la raffinazione e il trasporto del combustibile. Nel mercato, dominato dalla Standard Oil di J.D. Rockefeller fin dalla fine del 19° secolo, emersero successivamente alcune grandi società (le cosiddette sette sorelle). Dopo che, nel 1925, una guerra di prezzi ebbe il risultato di ridurne le rendite, le 'sette sorelle' decisero di organizzarsi, adottando un sistema di prezzi chiamato Gulf plus e ricorrendo ad accordi per assicurarsi condizioni di monopolio, quali lo sfruttamento in comune delle risorse e degli impianti e il contingentamento della produzione e della distribuzione sui mercati mondiali e locali. Con la Seconda guerra mondiale l'industria petrolifera compì altri passi in avanti, soprattutto con lo sfruttamento delle risorse dell'America Meridionale, in particolare di quelle importantissime del Venezuela, e con l'intensificazione delle ricerche e della coltivazione dei giacimenti nel Vicino e Medio Oriente, dimostratisi sempre più necessari all'industria europea in un'epoca di vasti consumi di prodotti energetici sostitutivi del carbone. Il forte aumento della domanda di idrocarburi, in concomitanza con la scoperta di giacimenti sempre più ricchi, agevolò l'ingresso di nuove compagnie nell'industria petrolifera. Malgrado l'accresciuta concorrenza, la supremazia delle 'sette sorelle' rimase intatta fino agli inizi degli anni Settanta, allorché cominciarono a manifestarsi due importanti novità: da una parte l'ingresso dell'industria petrolifera in una fase di costi crescenti, che seguiva un lungo periodo di costi decrescenti (in conseguenza della scoperta, come tendenza storica, di giacimenti sempre meno costosi da sfruttare); dall'altra parte il capovolgimento dei rapporti di forza tra le compagnie e gli Stati petroliferi, a favore di questi ultimi. Fino al 1950 il dominio delle compagnie sui paesi petroliferi era stato incontrastato e il capitale petrolifero aveva potuto impossessarsi della maggior parte della rendita mineraria, nonostante gli sforzi prodotti dai paesi produttori di petrolio, già alla fine degli anni Quaranta, per ribaltare tali rapporti a loro favore. La storia delle relazioni tra paesi petroliferi e compagnie subì una svolta decisiva nel 1960, con la creazione dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), che riuniva inizialmente cinque paesi produttori (Arabia Saudita, Iraq, Iran, Kuwait e Venezuela) e che ne conta oggi undici, essendosi aggiunti ai precedenti Qatar, Indonesia, Libia, Emirati Arabi Uniti, Algeria, Nigeria (Ecuador e Gabon, che vi avevano aderito nel 1973, ne sono usciti rispettivamente nel 1992 e nel 1996). Fin dal momento della sua nascita l'OPEC riuscì non solo a impedire ulteriori ribassi del prezzo di riferimento, ma anche a modificare, a vantaggio dei paesi membri, i termini dei contratti di concessione. Parallelamente ai cambiamenti delle modalità di spartizione della rendita, i paesi petroliferi si erano sforzati, a partire dall'inizio degli anni Cinquanta, di partecipare all'attività produttiva, e di mutare così la loro posizione di semplici beneficiari di una rendita. Questo obiettivo è stato perseguito attraverso accordi di partecipazione tra le società nazionali dei paesi petroliferi e le compagnie internazionali operanti sul loro territorio, nonché attraverso la progressiva nazionalizzazione delle concessioni delle grandi compagnie petrolifere occidentali (la prima in Iran nel 1950, le ultime intorno al 1975). L'essere diventati proprietari, a tutti gli effetti, della maggior parte dei giacimenti situati sui loro territori ha conferito ai governi dei paesi esportatori, soprattutto a quelli del Golfo Arabico, un ruolo geopolitico considerevole. Il conflitto arabo-israeliano del 1967 e, più tardi, il nuovo inasprimento dei rapporti nel 1973 hanno avuto importantissime conseguenze sul mercato mondiale del petrolio, con vistosi incrementi dei costi. Agli aumenti del prezzo seguirono una riduzione dei ritmi di produzione e una diminuzione delle esportazioni verso alcuni paesi. Ciò nonostante, la domanda di grezzo sui mercati mondiali riprese a crescere fino alla fine degli anni Settanta, quando si verificò il secondo shock petrolifero: la rivoluzione islamica iraniana, disorganizzando l'apparato produttivo di questo paese, ridusse del 13% il quantitativo di grezzo complessivamente fornito dall'OPEC. Il timore di penuria, da parte del mondo industrializzato, fece subire una nuova impennata ai prezzi, che raggiunsero per un breve periodo punte massime, mai più registrate in seguito. Ma quest'evento si verificò in un momento in cui la domanda già dava segni di riflusso e già si stava intensificando l'estrazione del petrolio in nuove zone di produzione, in paesi non appartenenti all'OPEC (specialmente nel Mare del Nord e in Alasca). Pertanto i prezzi si adeguarono alla nuova situazione di abbondanza e, dal 1982, presero a diminuire, dapprima lentamente, poi con ritmo accelerato. Anche l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq, nel 1990, e la crisi mondiale che ne seguì, non riuscirono a far ripartire i prezzi al rialzo se non per poche settimane, malgrado la scomparsa dalla scena petrolifera di due grandi produttori, appunto l'Iraq e il Kuwait (220 milioni di tonnellate annue). Per i paesi consumatori, le crisi degli anni 1970-90 hanno avuto l'effetto positivo di suscitare un processo di riflessione sul modo più razionale di utilizzare le risorse energetiche disponibili, nel quale il petrolio, dopo gli eccessivi entusiasmi del precedente periodo, tornava a configurarsi come risorsa energetica di primaria grandezza, ma relativamente costosa e limitata nella quantità, perché non rinnovabile. Le politiche di contenimento e di razionalizzazione dei consumi hanno fatto leva su vari provvedimenti, quali l'adozione di misure di risparmio energetico, la sostituzione del petrolio con altre fonti, l'intensificazione della ricerca di fonti rinnovabili. A partire dalla metà degli anni Ottanta, nonostante la caduta dei prezzi del petrolio rischiasse di esplicare un'azione frenante sugli sforzi intrapresi in questa direzione, la presa di coscienza dei problemi ambientali, locali e globali (inquinamento urbano, piogge acide, effetto serra) ha fornito un potente incentivo a proseguire su quelle stesse linee di comportamento. Contemporaneamente l'industria della raffinazione del petrolio ha avviato un processo di riformulazione dei carburanti, richiesto da norme ambientali sempre più severe. Le nuove opzioni di lavorazione comportano la limitazione del contenuto di benzene e di idrocarburi aromatici totali nelle benzine, l'aggiunta di ossigeno, la limitazione della volatilità, la riduzione del contenuto di zolfo e infine l'aumento di componenti di pregio da inserire nella formulazione delle benzine.
Energia nucleare
Propriamente viene così definita l'energia di legame delle particelle costituenti i nuclei atomici, parte della quale si rende libera in processi di decadimento radioattivo naturale oppure in reazioni nucleari esoenergetiche, sotto forma di energia elettromagnetica e di energia cinetica di particelle libere stabili e instabili; correntemente, come energia nucleare si intende questa energia, liberata in modo controllato e quindi atta a essere utilizzata industrialmente, in primo luogo per la produzione di energia elettrica e per la propulsione navale. Questo tipo di energia ha grande importanza in rapporto al crescente fabbisogno energetico e al prevedibile esaurirsi delle fonti di energia tradizionali. L'impiego pacifico dell'energia nucleare è ancora basato esclusivamente sulla conversione dell'energia derivante da reazioni di fissione di nuclei pesanti in energia termica e successivamente in energia meccanica; infatti, non è stato ancora possibile realizzare in forma controllata la conversione dell'energia derivante da reazioni di fusione, nonostante le intense ricerche in corso: la soluzione di questo problema metterebbe a disposizione dell'uomo risorse energetiche in modo praticamente inesauribile (il combustibile potrebbe essere il deuterio presente nell'acqua degli oceani). La produzione di energia elettrica a partire da energia termica liberata in reazioni nucleari di fissione avviene nelle centrali elettronucleari, nelle quali il calore è prodotto mediante reazioni nucleari in un reattore nucleare. Nel reattore nucleare di un impianto elettronucleare non ha luogo soltanto la produzione di calore derivante dalla fissione controllata degli elementi combustibili in esso contenuti, ma anche il trasferimento del calore stesso a un fluido (acqua, liquidi organici, metalli liquidi, ovvero anidride carbonica, elio ecc.) che, direttamente o attraverso ulteriori scambi termici, evolve secondo un ciclo operante la trasformazione dell'energia termica in energia meccanica. Uno degli elementi che caratterizzano la produzione di energia elettrica a partire dall'energia nucleare è la grande varietà di reattori disponibili. Le centrali entrate in funzione per prime producevano energia elettrica a costi alquanto superiori a quelli degli impianti tradizionali, ma hanno arrecato un contributo fondamentale allo sviluppo della tecnica nucleare. Quelle costruite successivamente presentano costi altamente competitivi. Infatti i bassi costi del combustibile fanno sì che, nonostante i maggiori investimenti necessari per le centrali elettronucleari, l'energia che vi viene prodotta abbia un costo dell'ordine del 40% rispetto a quella prodotta dalle centrali a olio combustibile e del 60% rispetto a quella prodotta dalle centrali a carbone; le previsioni per il futuro sono ancora più favorevoli alla produzione elettronucleare. Parallelamente alle ragioni di natura economica, l'interesse per le centrali elettronucleari è giustificato da ragioni strategiche, sia per la maggiore diffusione che hanno nel mondo i giacimenti di uranio, sia per la possibilità di garantirsi pienamente, e a costi modesti, dai sempre più gravi rischi di interruzione nell'approvvigionamento dei combustibili fossili mediante riserve di uranio sufficienti per assicurare il funzionamento degli impianti per lungo tempo. Pertanto, a partire dalla crisi petrolifera iniziata nel 1973, l'energia prodotta dalle centrali elettronucleari è stata oggetto di grande attenzione in tutti i paesi industrializzati, ove sono stati avviati vasti programmi di costruzione di questi impianti. In Francia alla fine del 2000 le centrali elettronucleari coprivano il 76,4% del fabbisogno totale di elettricità, in Belgio il 56,8%, in Svizzera il 38%, in Germania il 30,1%, in Corea il 40,9% in Giappone il 34,0% (la percentuale mondiale era 23,8). In Italia a metà degli anni Sessanta erano già in funzione le centrali elettronucleari di Latina, Trino Vercellese e Garigliano. In seguito alla crisi energetica, fu poi avviata la costruzione della centrale di Caorso, entrata in funzione nel 1977, e quindi di quella di Montalto di Castro. L'incidente nucleare verificatosi nel 1986 nella centrale nucleare di Chernobyl (Ucraina) ha però avuto profonde ripercussioni sull'opinione pubblica italiana; il referendum popolare dell'8 novembre 1987 ha abrogato le norme per l'erogazione di contributi a favore dei Comuni e delle Regioni sedi di centrali alimentate con combustibili diversi dagli idrocarburi. La politica energetica italiana ha per conseguenza subito un radicale mutamento, con la rinuncia alla costruzione di nuove centrali nucleari e la sospensione dell'attività di quelle esistenti. Oltre a quello di Chernobyl, che ha interessato, in diversa misura, la quasi totalità dell'Europa, già nel 1979 era peraltro avvenuto un incidente nella centrale di Three Mile Island, a Harrisburg in Pennsylvania. Tali avvenimenti, analogamente a quanto avvenuto in Italia, hanno destato grande preoccupazione nell'opinione pubblica mondiale, con conseguente cancellazione o revisione, per aumentarne i livelli di sicurezza, di centrali già programmate. Le preoccupazioni sono focalizzate su tre questioni: gli effetti degli effluenti radioattivi controllati, prodotti nel normale funzionamento degli impianti; gli effetti degli effluenti incontrollati, prodotti da un guasto; la sistemazione dei residui radioattivi a lunga durata presenti negli elementi di combustibile già utilizzato. A queste preoccupazioni si devono aggiungere le remore, a livello di governi, relative al possibile uso del combustibile già utilizzato nelle centrali per ricavarne plutonio per armi nucleari. Tuttavia, i tecnici del settore rispondono con i risultati dei numerosi studi sulla sicurezza degli impianti nucleari, i quali mostrano il bassissimo livello di radioattività emessa dalle centrali nel loro normale funzionamento e la bassissima probabilità di guasti che comportino emissione di effluenti radioattivi.
Energia eolica
L'energia eolica è l'energia contenuta nelle masse d'aria che si muovono in senso orizzontale nella bassa atmosfera per effetto del diverso riscaldamento della Terra e dell'atmosfera, in funzione della latitudine e della quota, e per effetto della rotazione terrestre; tra tutte le fonti di energia rinnovabili, è quella attualmente con maggiori prospettive di competitività. Volendo utilizzare questo tipo di energia, occorre tenere conto di alcune caratteristiche fondamentali del vento: l'aria è un fluido a bassa densità, pertanto le dimensioni dei dispositivi atti a convertire l'e-nergia cinetica del vento in altre forme utilizzabili di energia sono inevitabilmente rilevanti; l'intensità e la direzione del vento sono abbastanza casuali e gli unici dati sufficientemente ripetibili sono i valori medi annuali; l'intensità del vento cresce con l'altezza dal suolo. Prima dell'avvento della macchina a vapore e, successivamente, del motore a scoppio ed elettrico, l'energia eolica ha costituito una delle principali fonti di propulsione per il trasporto (navigazione a vela) e per l'azionamento (mulini a vento) di macchine per i più diversi impieghi. Macchine eoliche di piccole dimensioni e di buone prestazioni, destinate soprattutto a scopi irrigui, furono prodotte a partire dalla metà del 19° secolo; all'inizio del 20° secolo ha preso avvio, principalmente in Danimarca, la produzione di aerogeneratori. Il crescente processo di elettrificazione urbana e rurale e il prevalente impiego del petrolio come materia prima hanno arrestato la diffusione delle macchine eoliche. L'interesse per l'energia eolica è rinato dopo la prima crisi del petrolio (1973), quando è iniziato lo sviluppo intensivo, spesso sovvenzionato da finanziamenti pubblici, di generatori eolici per la produzione di energia elettrica. La tecnologia eolica attuale, tuttavia, non ha ancora raggiunto la piena maturità industriale, soprattutto per quanto riguarda le macchine di notevoli dimensioni. In questo settore, sono particolarmente attive le grandi industrie aeronautiche, che hanno realizzato i principali impianti negli USA, in Danimarca, in Germania e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, buone prospettive di utilizzazione del vento si hanno nelle isole Hawaii, situate nella zona degli alisei, venti costanti che, per buona parte dell'anno, soffiano a una velocità di circa 5 m/s. L'isola di Oahu, in particolare, è decisamente favorita, giacché una serie di colline poste perpendicolarmente alla direzione del vento ne determina il raddoppio della velocità: disponendo gli aerogeneratori in posizione adeguata, ciascuno di essi potrebbe fornire 1 MW; si calcola che per rifornire l'isola di un'adeguata quantità d'energia ne occorrerebbero un migliaio. In Italia l'energia eolica rappresenta oggi il 2,6% della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Energia solare
Il Sole è una sorgente di energia, che viene prodotta all'interno della nostra stella da reazioni di fusione nucleare e irraggiata all'esterno sotto forma di luce e di altre radiazioni; una piccola parte arriva sulla Terra e rende possibile la vita, mantenendo temperature medie adatte agli organismi viventi e fornendo i flussi energetici che alimentano i vegetali attraverso la fotosintesi e che sono quindi alla base della catena alimentare di tutti gli esseri viventi. L'energia solare è dunque una forma di energia pulita, diffusa su larga parte della Terra e rinnovabile ogni giorno. È quindi ovvio che l'evoluzione tecnologica abbia pensato di farvi ricorso come fonte di elettricità e di calore. Per poter utilizzare l'energia solare occorre raccogliere la radiazione solare e trasformarla in forme che si prestino ai vari usi. L'energia solare può essere convertita direttamente in elettricità impiegando i sistemi fotovoltaici oppure in calore che, a sua volta, può essere utilizzato come tale o convertito in altre forme di energia. La conversione diretta con i sistemi fotovoltaici appare la più promettente fra le tecnologie per lo sfruttamento delle energie rinnovabili, pur se al momento attuale non è competitiva dal punto di vista economico. La tecnologia fotovoltaica, sviluppata negli anni Cinquanta nell'ambito dei programmi spaziali, si sta estendendo anche a numerose applicazioni terrestri; essa impiega cellule fotoelettriche basate sull'effetto fotovoltaico tra materiali diversi, cioè sul fatto che sotto l'azione della luce si genera una forza elettromotrice nella zona di contatto tra un metallo e un semiconduttore. In Italia, nei pressi di Manfredonia (Foggia), è stato messo in funzione nel 1987 un impianto sperimentale da 300 kW, che utilizza celle fotovoltaiche di silicio monocristallino. Attualmente l'ostacolo principale alla diffusione di questa tecnologia è l'elevato costo dell'energia prodotta, ma si ritiene che tale ostacolo possa essere superato da un prevedibile sviluppo tecnologico che sperimenti anche nuovi materiali fotovoltaici. La conversione in calore può essere invece effettuata utilizzando i pannelli solari, dispositivi atti a convertire l'energia della radiazione solare in energia termica di un fluido, in genere acqua; questi pannelli vengono impiegati generalmente per usi domestici oppure per il riscaldamento delle abitazioni.
Energia geotermica
L'energia geotermica sfrutta il calore proveniente dall'interno della Terra: al di sotto della crosta terrestre, alla profondità di alcuni chilometri, esistono infatti sacche di magma che, riscaldando le acque freatiche, generano depositi di vapore, raggiungibili con apposite trivellazioni. Un tipico esempio di sfruttamento geotermico è rappresentato dai soffioni boraciferi di Larderello (Pisa), i cui impianti, oltre a produrre boro, forniscono energia sotto forma elettrica, mediante una centrale di potenza installata di 380 MW. Naturalmente le regioni più indicate per ottenere energia geotermica sono quelle vulcaniche: nel nostro paese ricerche geotermiche sono state effettuate nei Campi Flegrei (Napoli). Esistono inoltre installazioni geotermiche in Islanda e, fuori dall'Europa, nella Nuova Zelanda (Wairakei, nell'Isola del Nord, con potenza installata di 150 MW), in California (dove impianti geotermici forniscono energia elettrica a San Francisco), a Giava, in Giappone e nella maggior parte delle isole Hawaii. Tornando agli Stati Uniti continentali, nel Parco nazionale di Yellowstone sarebbe disponibile una fonte geotermica di grandi capacità: il famoso geyser detto 'il vecchio fedele', che non è stato finora sfruttato per non turbare l'ambiente del parco e non privarlo della maggiore attrazione turistica. Nel sottosuolo, oltre a focolai di vapore, esistono rocce calde che non contengono acqua: queste possono essere utilizzate iniettando acqua nel sottosuolo, per poi riportarla calda in superficie. Si ricorda, infine, che l'acqua calda ipogea, specialmente quando si presenta pura e priva di sali incrostanti, con opportune canalizzazioni può essere utilizzata direttamente per il riscaldamento di abitazioni e serre; tale impiego è assai diffuso in Islanda, la cui popolazione fa fronte in tal modo alla rigidità del clima.
Energia maremotrice
L'utilizzazione delle maree come fonte energetica è possibile là dove l'ampiezza delle stesse è molto pronunciata: in Francia è da tempo in funzione la centrale della Rance, corso d'acqua che sfocia nel Golfo di Saint-Malo, dove l'ampiezza di marea supera i 6 m; sulle coste atlantiche degli Stati Uniti sarebbe particolarmente indicata, per tale scopo, la baia di Fundy, nella quale l'ampiezza di marea è di circa 20 m. Questo tipo di energia continua comunque a non presentare prospettive di applicazioni significative per l'industria, a causa dei costi elevati e delle difficoltà tecnologiche.
Energia dai rifiuti
Anche l'energia dai rifiuti rappresenta una risorsa non trascurabile, in relazione alle enormi quantità che se ne producono giornalmente, specialmente nei paesi industrializzati. L'utilizzazione di combustibile derivato dai rifiuti è già rilevante in Giappone, negli Stati Uniti e anche in alcuni paesi europei, come Danimarca, Francia, Germania, Paesi Bassi e Svezia. In Italia si producono circa 26 milioni di tonnellate all'anno di rifiuti solidi urbani. Dati i costi dell'intero ciclo, la produzione di energia elettrica dai rifiuti va inquadrata nel contesto più ampio della riduzione dell'impatto ambientale, tenuto conto delle limitate capacità e degli inconvenienti delle discariche.