BERLINGUER, Enrico
Nacque a Sassari il 25 maggio 1922 da Mario e da Maria Loriga.
La famiglia era antica, di origine catalana, iscritta negli "stamenti nobiliari della Sardegna" e legata da una fitta rete di parentele, vicine e lontane ad altre della locale aristocrazia e borghesia,come i Siglienti, i Satta Branca, i Segni e i Cossiga; di tradizione laica, il nonno Enrico mazziniano; il padre, socialista, poi deputato aventiniano, svolgeva la professione di avvocato.
L'infanzia del B. e del fratello secondogenito Giovanni si svolse nella natìa Sassari in quel relativo isolamento proprio di chi era ai margini del regime, stretto nella cerchia dei legami familiari e delle amicizie scelte. Nel 1936, quando non aveva ancora quindici anni, gli moriva la madre. La sua adolescenza doveva così maturare in un'atmosfera malinconica e severa, temperata dal tranquillo sfondo provinciale. Il B., iscritto al locale ginnasio e liceo "Azuni" (dove aveva studiato anche Togliatti), percorreva i suoi studi senza lode, ma con una sua inclinazione per la storia e la filosofia, arricchita dalle letture della fornita biblioteca domestica. Si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza sassarese nel 1940, dove, non ancora esaurito il curriculum degli esami, nel 1943 progettava di laurearsi con una tesi su "Filosofia e filosofia del diritto da Hegel a Croce e Gentile".
I coetanei lo ricordano "timido, di carattere chiuso"; nel riandare con la memoria a quegli anni egli si vedeva "guidato da un sentimento naturale di ribellione che investiva gran parte di ciò che lo circondava". Le poche sue testimonianze epistolari di quel periodo ci mostrano come la caduta del fascismo fu da lui gioiosamente vissuta, quasi la fine di un incubo giovanile. Il padre aveva fondato l'Avanti Sardegna! clandestino, ma egli, a differenza del fratello Giovanni, non partecipava nemmeno materialmente a questa impresa. Voleva fare da sé. Seguiva le riunioni convocate per la fondazione del partito comunista clandestino, nel vivaio Bianchi, alle porte di Sassari. Il B. "non era ancora iscritto - ricorda Bruno Mura, comunista sassarese - ma era considerato un compagno perché era venuto varie volte con me alle riunioni in quella tenuta agricola fuori città" (Baduel, p. 23). Erano i primi mesi del 1943; nell'ottobre si sarebbe iscritto e avrebbe subito assunto la segreteria della federazione giovanile. Il 7 genn. 1944 veniva arrestato per aver partecipato ai "moti del pane", una manifestazione antibadogliana svoltasi nella cittadina sarda, probabilmente organizzata dalla locale sezione comunista. Rimase in prigione quattro mesi, fino al 25 aprile di quell'anno. Il rapporto di polizia dice che il B., "seguendo la nota prassi comunista, si è chiuso in un assoluto mutismo". Ruppe poi quel silenzio, cercando di scrollarsi l'accusa di "principale istigatore" e "maggior responsabile". Molto si adoperò il padre per liberarlo; ma influì anche, certamente, sul mutato atteggiamento del B., l'apprendere che la linea del partito non era più quella.
Nel giugno 1944 il B. raggiunse a Salerno il padre, che lo presentò a Togliatti. Dopo la liberazione di Roma vi si stabili, iniziando a lavorare come funzionario del PCI negli uffici del movimento giovanile. Dopo il 25 aprile si trasferì a Milano, sede del Fronte della gioventù, l'organizzazione fondata da Eugenio Curiel durante la Resistenza. I comunisti vi entreranno sciogliendo il loro movimento giovanile, sostituito da una commissione giovanile centrale di cui il B. sarà il responsabile, e farà parte dei direttivo e della segreteria del Fronte. Per più di un decennio avrà un ruolo rappresentativo nel piccolo arcipelago delle organizzazioni giovanili politiche, come scrupoloso interprete della linea togliattiana.
Quel "mondo a parte" giovanile era, all'indomani della Liberazione, prevalentemente, ma non soltanto, una cassa di registrazione di direttive e comportamenti dei partiti politici. Dove non prevalse il modello dell'organizzazione e della propaganda, magari per impossibilità o incapacità, si svolse un'esperienza politica sostanzialmente elitaria, a ridosso dei dibattito interno dei rispettivi partiti, come fu il caso della federazione giovanile socialista e dei gruppi giovanili democristiani. I comunisti si posero, invece, subito il problema di un modello organizzativo di massa. Al mondo giovanile il fascismo aveva dedicato un'articolata struttura parastatale, parallela a quella scolastica e militare; la Chiesa con le sue istituzioni ecclesiali e le sue associazioni del laicato cattolico, aveva a sua volta costituito un solido filtro formativo e un'ampia rete di consensi. Anche in una società arretrata come quella italiana, l'universo giovanile non poteva più essere raggiunto soltanto attraverso le tradizionali istituzioni familiari e locali. La questione giovanile si poneva ormai strutturalmente come un ingranaggio necessario dei modello consensuale di una democrazia di massa. L'organizzazione comunista fu chiamata ad autogenerare quella giovanile, con modalità simili, anche se peculiarmente diverse, a quanto succedeva nei settori femminile, contadino, sindacale, ecc. Di questi prese anche inizialmente, con il Fronte della gioventù, il modulo politico unitario: c'era un'organizzazione interna e ce n'era una unitaria esterna; tra le due, la valvola di trasmissione necessaria era l'apposito apparato dei partito.
Così i comunisti sorreggevano organizzativamente il Fronte della gioventù e cercavano attraverso di esso alleanze e rapporti più ampi, soprattutto verso i cattolici e perfino a destra. A questa esperienza si applicava il giovane B. con grande impegno. Lo specchio di problemi da affrontare, per quanto la dimensione giovanile fosse riduttiva, era ampio, giacché di specifico c'era poco: voto a diciott'anni, beni ex GIL, ecc.; ma quello che contava era la reductio propagandistica dei problemi più generali, istruzione, terra, lavoro, repubblica. L'organizzazione unitaria resse naturalmente al clima della Costituente, ma non a quello successivo. In preparazione delle elezioni politiche del 1948 quel che restava del Fronte della gioventù confluirà, assieme a un caleidoscopio di altre sigle giovanili, nell'Alleanza nazionale giovanile del Fronte democratico popolare.
Dopo il 18 aprile maturò l'esigenza di riordinare quegli strumenti organizzativi e di propaganda. Nel marzo 1949 il cornitato centrale del PCI decise di ridar vita alla federazione giovanile comunista (FGCI). Il B., che era stato eletto membro del comitato centrale nel congresso del gennaio 1948 e, nella sua qualità di responsabile della corrumissione giovanile centrale, era stato nominato membro candidato della direzione del partito, ottenne la carica di responsabile del comitato costitutivo della FGCI e dopo il congresso (il XII) di questa, tenuto a Livorno (29 marzo-2 apr. 1949), ne assumeva la segreteria generale.
Molte sono le testimonianze dell'impegno scrupoloso e febbrile del Berlinguer. Valga per tutte la lettera che egli nel 1950 scriveva a Italo Calvino nell'invitarlo a dirigere il settimanale dei giovani comunisti Pattuglia: "Se ti imbarchi in questa impresa, se diventi un funzionario - lo ammoniva - non ti illudere di poter continuare a scrivere romanzi" (Spriano, p. 17). Come funzionario si identificava in quel modello di militanza, che era stato proprio della generazione precedente, tra fuoruscitismo, carcere, confino e centro interno. Il rigore non si misurava più nell'azione clandestina, ma era interiorizzato nei comportamenti personali e si esprimeva nella propaganda, come modello sociale e politico. La moralità era così insieme un cliché di carattere etico che sostanziava l'immagine del militante. E questo era già di per sé un aspetto storicamente rilevante di "una politica giovanile", perché qui, ancor più che in altri settori, diventava sensibilmente pedagogico quel mutamento di stile associativo e organizzativo che nel secondo dopoguerra i comunisti generalizzarono a sinistra, per cui all'anima "ingenua e ribelle (e perciò anche deciamante e velleitaria)" del libertarismo socialista, sostituivano "una concezione oltremodo sospettosa dell'individualità e delle sue manifestazioni, l'apprezzamento per l'organizzazione, la serietà, la disciplina, più che per il gesto, l'insofferenza e lo sdegno" (E. Galli della Loggia, Ideologie, classi e costume, in L'Italia contemporanea 1945-1975, Torino 1976, p. 396). Il B. fu consapevole propagandista di questo modello e molti suoi scritti e discorsi di segretario della gioventù comunista lo documentano, il più noto e discusso dei quali è quell'appello alle "ragazze italiane" perché conservassero "quella personalità che si esprime nel gusto, nella moda, nell'abbigliamento, nell'aspirazione ad una vita moderna, che si esprime anche nella moralità e nello spirito di sacrificio di cui sono così ricche anche le tradizioni italiane, le tradizioni di Irma Bandiera e di Maria Goretti" (Baduel, p. 38).
La FGCI era una grande organizzazione di massa che tra il XII e XIII congresso, quello di Ferrara del febbraio 1953, aveva toccato i quattrocentósessantamila iscritti con ottomilaottocento sezioni. L'insieme di servizi ricreativi, sportivi, culturali, da creare intorno ad essa, richiedeva uno sforzo notevole. Così la messa a punto dei rituali delle iniziative e manifestazioni implicava un impegno "puntiglioso". Nel ricordo di un dirigente giovanile: "svolgemmo una campagna di "inaugurazione" delle "bandiere della pace" nel corso della quale si svolgevano conferenze o comizi su temi storico-politici. Dopo "inventammo" le "coccarde della pace" e intorno a queste "trovate" del resto spiegabili anche con l'esplodere della pratica politica di massa dopo il fascismo, avevano luogo raduni, sfilate, grandi manifestazioni"; quanto ai contenuti "l'esempio dei Komsomol" era sempre un "esempio luminoso" (R. Trivelli, in Il ruolo dei giovani comunisti. Breve storia della FGCI, p. 67) e veniva adattato ai particolari problemi della condizione giovanile nella società italiana. Lo idanovismo della guerra fredda si esprimeva qui in termini elementari, con i suoi fattori impliciti di populismo e anche di nazionalismo, che tornavano utili a fronteggiare, nel 1953, le agitazioni studentesche di destra sulla questione di Trieste. L'organizzazione aveva così una sua carica, ma anche delle cadute difensive: quelle della "FGCI dei bigliardini", come la si definì dopo il 1956, quando le mutate aspettative dell'incipiente miracolo italiano presero a sovrapporsi a quelle del miracolo sovietico. Soprattutto là dove si tentava di andare oltre lo sviluppo di questa grande macchina organizzativo-propagandistica, l'esperienza politica della FGCI rimaneva povera. Nel 1952, nella crisi strisciante delle organizzazioni giovanili del laicato cattolico, il B. prese l'iniziativa della "campagna delle tre domande - proposte ai dirigenti della Gioventù di azione cattolica", che produsse qualche adesione al PCI, ma non propriamente un'iniziativa politica. Vennero fatti tentativi per qualificarne l'azione culturale, ad esempio con la rivista Incontri oggi, cui collaboravano tra gli altri Lucio Lombardo Radice, Enzo Modica e Romano Ledda. Ma l'iniziativa della FGCI non riuscì in quegli anni veramente ad andare oltre gli argini di quello che era il mondo comunista in cui si era strutturata. Un esempio tipico fu quello dell'università, dove - con una decisione presa dallo stesso Togliatti - l'organizzazione comunista, il CUDI, veniva sciolta nel 1954 per confluire nell'Unione goliardica italiana, l'associazione laica che aveva saldamente conservato posizioni maggioritarie.
Quella della FGCI fu comunque per il B. una grande esperienza burocratico-politica, per la quale si dimostrò oltremodo tagliato. Prese a conoscere i codici e lo stile del partito e ad identificarsi con essi. Il suo ruolo di responsabile giovanile e di membro della direzione, anche se nella forma statutaria di membro candidato, in cui fu confermato nel congresso di Roma (VII) dell'aprile 1951, che gli dava diritto di parola ma non di voto, lo metteva a stretto contatto con Togliatti, di cui fu uno scrupoloso esecutore. Ebbe così modo anche di fare un'intensa esperienza internazionale nel mondo comunista. Nel 1950 assumeva la presidenza della Federazione mondiale della gioventù democratica, che tenne fino al 1952, durante la quale fu organizzato il Festival mondiale della gioventù di Berlino Est. Ma anche dopo il 1952 rimase intensa l'attività internazionale del B., legata al suo ruolo di responsabile giovanile.
Dopo il XIV congresso della FGCI (Milano, 1955), alla vigilia dell'VIII congresso del partito (dicembre 1956), egli lasciò la segreteria di quella organizzazione e, rieletto nel comitato centrale, non rientrò nella direzione. Dopo il congresso assunse l'incarico di direttore dell'Istituto centrale di studi comunisti, la scuola di partito delle Frattocchie (Marino), e nel luglio 1957 venne inviato in Sardegna come vicesegretario regionale. Lo stesso anno sposò Letizia Laurenti; dal matrimonio nasceranno quattro figli: Bianca, Marco, Maria e Laura.
Il congresso del 1956 aveva visto un grande rivolgimento della dirigenza di partito. Si era tenuto a caldo sui fatti. d'Ungheria e sullo sfondo del rapporto Chruàèév al XX congresso del Partito comunista dell'URSS. Aveva dovuto scontare la polemica degli intellettuali e l'opposizione interna di A. Giolitti e F. Diaz. Con l'uscita dalla direzione di P. Secchia, si suggellava poi, non solo la definitiva chiusura di un vecchio scontro interno, ma anche l'inizio del trapasso della vecchia guardia staliniana. Entrava nel comitato centrale una generazione nuova (la "terza generazione"), rappresentata da F. Di Giulio, L. Lama, E. Macaluso, L. Barca, A. Natta, G. Napolitano, A. Reichlin, A. Cossutta, e che si sarebbe rafforzata nel congresso seguente con l'immissione di A. Tortorella, G. Chiaromonte, B. Trentin, N. Colajanni, P. La Torre, U. Pecchioli, R. Rossanda, mentre quella precedente occupava ormai gli incarichi chiave nella direzione con G. Amendola all'organizzazione, M. Alicata alla cultura, P. Ingrao alla propaganda. La regia di Togliatti era stata abile, avendo saputo gettare le premesse del rinnovamento del gruppo dirigente in un momento di forte crisi, e non solo d'immagine, del "partito nuovo".
Il B., grazie alla sua vicenda di responsabile giovanile, aveva anticipato in questa ascesa negli organi del partito la "sua" generazione. Il rapido avvicendarsi in incarichi diversi nei due anni seguenti all'VIII congresso, può essere interpretato come una versione accelerata del rituale curriculum d'un giovane dirigente di partito. Nel luglio 1958 tornava a Roma ed entrava a far parte della segreteria e dell'ufficio di segreteria, sotto la direzione di L. Longo, allora vicesegretario. Poiché era stato Togliatti a richiamarlo, non si può escludere che lo volesse tenere a portata di mano. Il B. aveva avuto in quegli anni un atteggiamento prudente. Quasi tutto il partito, in un modo o nell'altro, aveva partecipato al dibattito sul XX congresso e sui fatti d'Ungheria, mentre non si trova una sola compiuta riflessione del B. su questi argomenti. Militavano poi a suo favore l'esperienza maturata nel lavoro "internazionale" e la conoscenza conseguita dei mondo comunista. Dal luglio 1958 il suo rapporto con Togliatti e Longo divenne pressoché quotidiano. "Diverrà evidente - come è stato notato - già allora una caratteristica" del B.: "trattare i problemi dei partito sempre e solo nelle sedi a ciò deputate; evitare ogni genere di confusione fra i rapporti privati e di lavoro; sfuggire a qualunque uso di gruppo" (Baduel, p. 65). L'immagine è quella di una rigorosa identificazione con le procedure collegiali e gerarchiche del partito, che egli riproporrà più di una volta in altra forma, raggiunta la carica di segretario, mettendo l'accento sul compito, il ruolo e l'adeguatezza ad essi della sua persona.
Erano quegli ultimi anni Cinquanta di notevole difficoltà per la leadership di Togliatti. Questi non si trovava in sintonia con il nuovo corso chruàèéviano. Rispetto a quella che era la sua arte di governare il movimento comunista, centrata sul costante adeguamento alla realtà, senza mai operare rotture di continuità, rimproverava a Chruščëv sostanzialmente due brusche fratture: quella del mito staliniano, a cui non si accompagnava una plausibile critica della evoluzione e involuzione delle società socialiste, e poi quella della sfida produttivista e industrialista, che necessariamente veniva ad offuscare il mito dei modello sovietico. Sentiva come per questa via si verificasse una caduta degli antichi valori e venissero messi in discussione dei presupposti totalizzanti necessari al movimento comunista, specie nell'Europa occidentale, dove lo sviluppo capitalistico aveva aperto prospettive non prevedibili all'indomani della guerra. E ciò valeva anche per la situazione interna italiana, in evoluzione non solo economico-sociale, ma politica. La questione delicata era l'incrinarsi del rapporto tra l'identità comunista e l'azione politica dei partito nei sistemi di democrazia occidentale. Ed infatti, all'interno stesso del PCI, nascevano differenti interpretazioni, non più, come nel passato, sul problema della linea "rivoluzionaria", ma su quello della politica "riformista". I riformismi in nuce erano i due che nel decennio seguente si contenderanno il campo, quello di Amendola e quello di Ingrao. Ambedue acquisivano forza dall'eresia ortodossa di Chruščëv, per quanto essa consentiva di disinnescare l'iniziativa comunista dai ceppi dello stalinismo. Il primo aveva un contenuto più classico, in un certo senso era rivisitazione del frontismo degli anni Trenta, che manteneva fermissimo il cordone ombelicale con il mondo sovietico e nello stesso tempo si collocava nella dialettica della ricostituita società capitalistica, accettandone le forme istituzionali e la logica produttiva ed economica, sulla base di un programma democratico, capace di aggregare il vecchio blocco sociale progressista e le forze politiche che vi si riconducevano. Il secondo muoveva allora i suoi primi passi ed aveva un fondamento piuttosto organicistico che dialettico, attento soprattutto all'evoluzione delle forme istituzionali tra società e Stato, e alla possibilità di operare alleanze politiche più ampie, soprattutto verso il mondo cattolico, in un'ambigua commistione di populismo ed operaismo, onde consentire la crescita di un sempre più ampio movimento democraticorivoluzionario, presentandosi così come uno sviluppo dello stesso togliattismo.
Amendola ha definito gli anni dal 1958 al 1961 come quelli dell'"unità fittizia" interna al partito comunista. In effetti un dibattito più aperto lo si avrà negli anni Sessanta. Togliatti teneva congelata la discussione, convinto d'una rapida inversione conservatrice in URSS e preoccupato degli sviluppi dell'unificazione socialista e della preparazione del centrosinistra. Giudicava soprattutto la posizione di Amendola una fuga in avanti, decidendosi così a tagliargli la strada al IX congresso del partito (Roma, febbraio 1960). Fu il congresso in cui il B. fece il suo ingresso a pieno titolo in direzione ed assunse l'incarico dell'organizzazione, sostituendovi Amendola. La sua nomina, richiesta da Longo, sembra una chiara sottolineatura della linea centrista di Togliatti.
Il nuovo incarico presentava non poche difficoltà. Il partito subiva una caduta costante di iscritti, sebbene crescessero i suffragi elettorali. Il B. raccoglieva poi l'eredità di Amendola, che nei cinque anni precedenti aveva operato cambiamenti incisivi, sostituendo la vecchia guardia, linea conseguente per il successore di Secchia, ma che poi negli anni dei rovente dibattito sull'URSS, aveva lasciato uno strascico crescente di fratture e incomprensioni. Il B. si applicava con scrupolo a riequilibrare la situazione interna dell'organizzazione (Valentini, p. 133) lungo le linee dei suo rapporto al comitato centrale del 20 nov. 1961 (Le forze, lo sviluppo e i compiti del P.C.I. nel momento presente, Roma 1961).
Nel comitato centrale seguente dei dicembre 1961 era poi tornato al pettine il tema della destalinizzazione, suggerito dal XXII congresso del PCUS, dove Chruščëv aveva inaspettatamente accentuato nuovamente i toni. Era stato Amendola a riprendere la polemica, che necessariamente investiva Togliatti, che ne usciva infatti indebolito. Lo stesso segretario, subito dopo, aveva preso l'iniziativa di un documento, la cui prima stesura affidò al B. e al Bufalini. Il documento, in alcuni suoi spunti, anticipava quello che sarà il Memoriale di Yalta. Si metteva l'accento sulle degenerazioni istituzionali delle democrazie popolari e si affacciava la tesi che senza cambiamento di metodi non si sarebbe arrivati al comunismo. Al patriottismo prosovietico si incominciava a sostituire quello del partito nazionale. Era un modo abile per spostare il cuore dei dibattito interno, facendo un passo avanti. Il B., che nel dibattito al comitato centrale aveva con equilibrio contrattaccato Amendola, ed aveva probabilmente seguito i suggerimenti di Togliatti nello stendere il documento, veniva così per la prima volta alla ribalta su una questione politica rilevante. Un corrunentatore non occasionale osservava che "il protagonista dell'ultimo c.c. del PCI è stato un giovane poco più che trentenne, piccolo, nervoso, con i capelli corti sempre in disordine, Enrico Berlinguers (A. Gambino, I due scudi di Togliatti, in L'Espresso, 31 dic. 1961), il che dà la misura di quanto in realtà poco egli fosse ancora conosciuto nell'arena politica italiana.
Con il X congresso (Roma, dicembre 1962) il B. faceva un altro decisivo passo in avanti nella dirigenza del partito, uscendone membro della direzione e della segreteria e responsabile dell'ufficio di segreteria. Quest'ultimo incarico, che tenne fino al gennaio 1966, faceva di lui il diretto esecutore di tutte le risoluzioni prese dalla segreteria. Assumeva inoltre l'importante ufficio delle relazioni estere. Nell'agosto 1964 fu così il B. a ricevere da Longo il Memoriale di Yalta e a firmare la lettera che comunicava la decisione di pubblicarlo da parte della, direzione del partito. La pubblicazione del Memoriale fu un gesto di fermezza nei riguardi dei sovietici. Il B. si muoveva, come si èvisto, in sintonia con quegli orientamenti.
Nel 1960 aveva fatto parte della delegazione a Mosca per la conferenza degli 81 partiti comunisti e operai, partecipando a tutti i lavori preparatori, lungo i mesi di novembre e di dicembre. Nel 1964 Togliatti lo aveva mandato a Parigi al congresso del PCF ad esprimere fermamente il no dei comunisti italiani per un'assise internazionale di condanna dei comunisti cinesi. Ora, a due mesi dalla morte di Togliatti, maturava un altro evento decisivo con la deposizione di Chruščëv. I comunisti italiani non trovavano convincenti le motivazioni ufficiali; e Longo decise di inviare, per chiarimenti, una delegazione a Mosca composta da P. Bufalini, E. Sereni e guidata dal Berlinguer. Per la prima volta gli incontri con i sovietici restarono interlocutori su alcune questioni. Il documento conclusivo della direzione del PCI sottolineava che o si è constatata l'esistenza di punti di vista diversi fra il PCUS e il PCI" (Atti del PCI dal IX al XII congresso, Roma 1966, p. 247). Il B. notava che bisogna "liberarsi da ogni nostalgia" e trovare "una unità che riconosca come inevitabili ed ammetta le differenze, senza che questo debba dar luogo a condanne" (l'Unità, 15 nov. 1964). È l'assestamento della sofferta elaborazione togliattiana dell'ultimo quinquennio. 1 rapporti con i sovietici vanno basati sulla parità, che implica l'accettazione delle diversità. Dopo il XX congresso il destino dei comunismo occidentale non può più identificarsi con quello dell'URSS giacché ci sono di mezzo due processi storici paralleli, l'uno costituito dai ritardi e le deviazioni nel corso della costruzione della società socialista, l'altro dato dal peculiare sviluppo dei paesi capitalistici dell'Occidente. Soprattutto per il B., come per tutti i dirigenti comunisti della sua generazione - che non era stata di militanti "rivoluzionari" come le precedenti, ma "democratici", i quali avevano vissuto il "sovietismo" interamente come ideologia -, la dichiarata e crescente discrasia tra ideale e reale non poteva essere interamente rimossa: incominciava anzi a fare la sua strada; e si cercavano le prime giustificazioni. A ciò spingeva anche Longo, che proprio del B. fece l'esecutore di questo nuovo corso. Queste posizioni venivano del resto ribadite nei successivi colloqui di Mosca del marzo 1965 (Le posizioni del PCI all'incontro di Mosca, in Rinascita, 13 marzo 1965).Quell'ultimo scorcio di 1964 aveva peraltro visto all'interno del PCI riaprirsi acutamente lo scontro tra le nuove due anime, presunte di sinistra e di destra. Gli anni dell'"unità fittizia" erano finiti. I termini dei dibattito erano stati fissati prima del X congresso, nella seconda Assemblea nazionale dei comunisti nelle fabbriche del 1961 e, ancora più nettamente, lo saranno poi nel convegno organizzato dall'Istituto Gramsci nel marzo 1962 sulle tendenze tlel capitalismo italiano (in cui il B. però non intervenne).
Più che un'analisi del capitalismo si trattava di una risposta critica all'incipiente operazione del centrosinistra. La tesi di sinistra, di cui il capofila era stato Ingrao, sosteneva l'esistenza d'un nesso storico-politico tra l'ormai raggiunta fase di sviluppo economico, definita "neocapitalista", e il procedere dell'alleanza tra democristiani e socialisti, rispondente ad una necessità del "capitale" di razionalizzare ed integrare i rapporti di classe in un nuovo quadro politico-istituzionale. La tesi di Amendola non vedeva nulla di particolarmente nuovo in questa operazione, piuttosto la considerava come la risultante di un ritardo, anch'esso storico, dell'intera sinistra, nell'elaborare una compiuta alternativa al blocco moderato. Per Ingrao si trattava di elaborare "un nuovo modello di sviluppo", da contrapporre al "neocapitalismo"; per Amendola, più semplicemente, di progettare un programma di iniziativa sindacale e di alternativa di governo.
Ma nel 1964 quelle tesi acquistavano una più diretta pertinenza politica. Si era già formato il secondo governo di centrosinistra, definendo un quadro di isolamento più accentuato per i comunisti. La coalizione poi era al bivio di una difficile prova parlamentare, essendosi dimesso il presidente Segni, e dovendo rieleggersi un nuovo capo dello Stato. Nella Democrazia cristiana veniva avanti, come candidatura non ufficiale, quella di A. Fanfani, che per questa stessa ragione, ma anche per altre, si presentava come candidato fuori dagli equilibri parlamentari, come era già stato per l'elezione di Gronchi. Il Partito socialista italiano di unità proletaria si era subito dichiarato per il parlamentare aretino; anche Ingrao e una larga parte dei gruppi parlamentari comunisti erano per questa tesi. La decisione era delicatissima, e prevalse allora la linea di Amendola, consistente nel puntare prima sulla candidatura unitaria di Nenni, e poi confluire su quella di Saragat.
Rimase naturalmente aperta la frattura interna; e Amendola provvide ad accentuarne i termini quando, alla fine di novembre, riprendendo una sollecitazione di N. Bobbio, propose un'analisi critica che poneva in parallelo il fallimento degli obiettivi politici perseguiti in Europa occidentale sia dalle socialdemocrazie sia dai partiti comunisti, e formulava l'ipotesi di un "partito nuovo" come partito unico della classe operaia. Amendola aveva forzato la mano e fu costretto a rettificare; ma la sostanza della sua proposta andò necessariamente a collocarsi al centro del dibattito precongressuale comunista. Ingrao, da parte sua, aveva riformulato le tesi della sua "nuova sinistra". Lo scontro tra le diverse posizioni fu molto forte ed ebbe riflessi laceranti anche in alcuni congressi provinciali. Fu M. Alicata, più ancora che Amendola, a condurre lo scontro da destra. Longo era contrario alle posizioni ingraiane, ma non voleva lacerazioni. La commissione per la preparazione delle tesi congressuali non riusciva a concludere e venne ristretta ad un comitato di otto persone: c'erano Amendola e Chiaromonte, Ingrao con Trentin e Garavini. Il compito della mediazione, Longo lo aveva affidato di nuovo al B. e a Bufalini. Ne usciva un compromesso soddisfacente che, almeno, consentiva di arrivare al congresso.
Quel compromesso sulle tesi avrebbe segnato le conclusioni dell'XI congresso (Roma, gennaio 1966), come peraltro sui contenuti avvenne, se l'incrinatura non si fosse trasferita su di un terreno, che fino ad allora aveva accomunato Ingrao ed Amendola, quello delle maggiori garanzie del dibattito interno, la rivendicazione che nell'era chruščëviana Togliatti aveva tenuto sopita. Ora Amendola si riteneva garantito dalla sintonia che le sue tesi trovavano nella relazione della segreteria del partito. Fu Ingrao a riproporre il problema quando, proprio a proposito della relazione di Longo, nel suo intervento pronunciò l'inciso che rimase famoso: "non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto persuaso" (XI congresso del PCI, Roma 1966, p. 265). Metteva così in discussione la ferrea logica del centralismo democratico ed ebbe tutto il gruppo dirigente contro, il che diede l'impronta al congresso. Quello del B., di tutti, fu l'intervento più equilibrato: distingueva anche benevolmente, a proposito di Ingrao, tra "democrazia" e "democratismo"; non piacque a sinistra e ancor meno a destra, Alicata ad esempio lo trovò senza "grinta" (Reichlin, p. 43), ma acquisiva così al B. certamente una rendita di posizione.
L'andamento del dibattito di quell'XI congresso ebbe un effetto traumatico su quelle che avrebbero potuto essere le prospettive della successione a Longo nell'incarico di segretario generale, non incipienti ma che comunque si ponevano ormai nel medio termine. Ingrao usciva, naturalmente, di scena, trascinando con sé, per opposizione, lo stesso Amendola. Alicata moriva nel dicembre di quello stesso anno. La porta si schiudeva sulla "terza generazione". Il rinnovamento congressuale degli organi direttivi sembrò implicitamente lanciare la candidatura di G. Napolitano, che entrava a far parte dei tre organismi (direzione, ufficio politico e segreteria); mentre il B. sembrava arretrare, essendo stato confermato nei primi due ma non nel terzo, e venendo destinato di lì a poco alla segreteria regionale del Lazio.
Ma proprio negli anni del suo apparente confino laziale il B. compi il suo definitivo decollo politico. A metà novembre 1966 aveva svolto una visita ufficiale in Vietnam. L'anno seguente Longo gli affidava l'incarico di rappresentare il PCI ai lavori preparatori della conferenza internazionale dei partiti comunisti e operai che i sovietici da anni volevano tenere sulla questione cinese e che si tenevano a Budapest.
Il B. fece la spola tra Roma e la capitale ungherese; nel febbraio 1968 si oppose alla nomina della commissione per i lavori finali, chiese una seconda conferenza consultiva, respinta la quale, ripropose l'apertura dei dibattito. L'agenda dell'internazionale comunista si era del resto arricchita di un altro problema, quello del nuovo corso cecoslovacco. Ad agosto giunse la notizia dell'invasione di Praga e la direzione dei PCI, convocata da Napolitano, prendeva una posizione netta di condanna. Poiché la conferenza era stata nel frattempo rinviata, i sovietici tentarono di far rientrare le dissidenze. Per primi furono convocati i francesi, che cedettero (J. Kanepa, Kremlin-Pcf: conversations secrètes, Paris 1984). In un clima tutt'altro che facile toccò poi alla delegazione italiana, guidata dal B. (novembre 1968), ma dopo una settimana di fitti incontri nessun documento congiunto venne sottoscritto. Mesi dopo, il 7 giugno 1969, il B. interveniva alla conferenza convocata al Cremlino. Nei giorni precedenti i sovietici avevano fatto forti pressioni perché anche la delegazione del PCI votasse la risoluzione finale, così come era stata redatta. La direzione del PCI aveva invece deciso per l'astensione su due punti qualificanti. La posizione venne tenuta ferma. Nel suo intervento il B. ribadiva la condanna dell'invasione della Cecoslovacchia, e sottolineava tra l'altro: "noi respingiamo il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni. In verità le stesse leggi generali di sviluppo della società non esistono mai allo stato puro, ma sempre e solo in realtà particolari, storicamente determinate e irripetibili. Contrapporre questi due aspetti è schematico e scolastico e significa negare la sostanza stessa del marxismo" (Tatò, I, p. 79). Si mettevano così in discussione quei principi, dalla sovranità limitata al monopolio ideologico, che il documento ufficiale sosteneva. Lo strappo era senza precedenti e l'indomani tutta la grande stampa internazionale lo sottolineava. Il parigino Le Monde (13 giugno) dedicava al B. il suo fondo, sottolineando che "il seme del dubbio era stato gettato"; egli balzava così prepotentemente alla ribalta internazionale.
L'ultima sua comparsa sulla scena moscovita l'aveva fatta avendo già ricevuto quell'investitura decisiva che lo avrebbe poi nel 1972 portato alla segreteria generale del partito. Il XII congresso del PCI (Bologna, febbraio 1969) lo aveva collocato accanto a Longo come vicesegretario. Il vecchio segretario, reso parzialmente infermo da un ictus cerebrale, aveva patrocinato la sua candidatura in una rosa di tre, che comprendeva anche Napolitano e Natta. Anche sui problemi di politica interna il B. aveva scelto la strada giusta. Se il congresso del 1966 aveva visto alla ribalta la destra del partito, gli avvenimenti del 1967 e 1968, sul fronte sindacale e studentesco, non solo in Italia, sembravano piuttosto dar di nuovo fiato a quelle che erano state le tesi della "nuova sinistra" interna del partito. Il B. appoggiò la linea prudente ma decisa di Longo, che fu di sostanziale apertura verso i movimenti della società civile che rompevano prepotentemente i vecchi argini dell'Italia postbellica, in cui si era annidato il centrosinistra. E le elezioni politiche del 1968 segnarono un decisivo successo elettorale comunista e la sconfitta secca del Partito socialista unificato (fu in questa consultazione elettorale che il B. divenne per la prima volta deputato). Il B., a cui Longo aveva affidato la replica finale del l'XI congresso, fece un intervento atteso, che impressionò la platea congressuale e l'opinione pubblica. Alla più tradizionale linea della "lotta sui due fronti", egli sostituiva, con un'oratoria convincente, una prima teorizzazione di centralità comunista, tra i movimenti della società da un lato e il governo istituzionale dall'altro, che era una promessa di novità, piena di interrogativi da chiarire, ma che chiudeva il dibattito interno e collocava il partito comunista in una posizione forte sulla più ampia scacchiera sociale e politica.
La situazione creatasi dopo le elezioni del 1968 era per il partito comunista del tutto nuova e piena di prospettive. L'isolamento in cui era stato tenuto fin dal 1947, e che l'operazione di centrosinistra avrebbe dovuto ulteriormente istituzionalizzare, veniva ora profondamente incrinato. Grazie alla situazione sociale che si era messa in movimento, il PCI poteva tornare a pesare in modo determinante sia nella società sia in Parlamento. Proprio il nesso che intercorreva tra la società e le istituzioni di governo doveva costituire l'oggetto dell'elaborazione politica dei partito. Il centro del partito, e per esso il B., si era posto ancora una volta in una posizione mediana tra le due opposte linee del dibattito interno, quella che invitava al pieno accoglimento della sfida di una società in mutamento, aprendo il partito verso il basso, e quella che puntava su di una proposta politica di compromesso sociale, su uno scambio tra intervento moderatore del partito verso le masse e ammissione nell'area di governo. "Sarebbe sbagliato - notava il B. alla fine del dicembre 1969 - porre il problema dello "sbocco politico"" delle lotte operaie "come se si trattasse dei problema del governo". Andavano considerati altri "luoghi di sbocco politico", sindacati, comuni, Parlamento, in cui il partito doveva acquisire, restando all'opposizione, "un peso crescente nella formazione delle decisioni che riguardano la vita e l'avvenire del paese" (Rinascita, 19 dic. 1969). Così il problema dello "scambio" veniva posto, ma rinviato, senza dover quindi affrontare il problema dei contenuti della negoziazione, piuttosto volgendosi all'obiettivo di risolvere la crisi sociale in crisi di governabilità e, rispetto ad essa, consolidare la presenza comunista nella cosiddetta "area decisionale" (Amato-Cafagna, p. 54). Ciò del resto rispondeva ad una valutazione di relativa incertezza sulla possibilità a breve termine di controllare l'azione di massa, onde la teoria dello scambio era bene che non fosse enunciata, così come un'eventuale ipotesi di alternativa di governo, perché nella indeterminatezza essa fosse fungibile ai contenuti in atto dell'azione di massa. Si operava piuttosto una delega al sindacato, quanto al diretto rapporto con i movimenti della società, densa di conseguenze, e che si dilatava in modo abnorme in un processo di vera e propria "supplenza politica".
Il partito delegava dunque alle istituzioni collaterali ed esterne la più diretta gestione della crisi sociale, mentre conservava intatto il suo monolitismo interno. Non si spiega altrimenti la radiazione dal partito, che avvenne nel novembre 1969, del gruppo del Manifesto, contraria alla logica di sintonia con il movimento intellettuale e di massa di quegli anni (sintonia che tra l'altro aveva avuto l'effetto di massimizzare quel dissenso), ma conseguente alla vecchia impostazione leninista del partito, e che il B. cercò di evitare, nella convinzione tuttavia che le regole dei gioco interno dovessero rimanere intangibili (Valentini, pp. 213 ss.).
Anche l'azione parlamentare fu funzionale a questa linea. I comunisti cercavano sostanzialmente sbocchi alle rivendicazioni del movimento di massa, facendo pesare la loro accresciuta forza numerica sulle ormai croniche difficoltà delle vecchie maggioranze. E fu quella del "biennio caldo" una stagione parlamentare ricca di novità, con lo "statuto dei lavoratori" e l'ordinamento regionale, che rafforzavano la logica degli "altri luoghi" di sbocco politico, mentre sul terreno della politica economica, invece di bilanciare le spinte salariali, si diede inizio a quella fortissima dilatazione della spesa pubblica che caratterizzerà tutto il decennio seguente, con la riforma delle pensioni e la mancata approvazione del "decretone" congiunturale dell'agosto 1970, che era il primo tentativo di fronteggiare gli squilibri economici provocati dall'autunno caldo.
Messe da parte le posizioni di Amendola, l'attenzione che il PCI dedicò ai problemi di politica economica a cavallo degli anni Settanta si pose prevalentemente in chiave ideologica. Entrarono allora nel dibattito le tesi elaborate dalla Rivista trimestrale di cui era direttore F. Rodano e condirettore l'economista C. Napoleoni. Per fronteggiare i problemi posti dalla grande operazione redistributiva degli anni 1969-70, di cui si segnalava l'effetto "anarchizzante" nei consumi e l'incompatibilità con il processo d'investimento e quindi di sviluppo, si preconizzava (mantenendosi nell'ambito di un'economia di mercato, ma preparando un salto di qualità di tipo socialista) un'attivazione dell'offertai di beni e servizi a finalità sociale, facendo leva soprattutto sulla mano pubblica al fine di mutare strutturalmente la composizione dei consumi. Ciò sembrava inoltre superare la logica cosiddetta dei "due tempi" della politica economica, che postulava il contenimento della domanda, come premessa di una politica degli investimenti. Notava il B.: "se si vuole saldare la congiuntura alle riforme occorre con un atto di coraggio determinare una forte domanda di tipo qualitativamente nuovo per investimenti e consumi sociali, che si sostituisca alla domanda per consumi non essenziali" (l'Unità, 12 luglio 1970).
È stato notato polemicamente che "l'infantile ipotesi che i tempi della riforma del consumo possano essere quelli della congiuntura è da registrare come uno dei punti più bassi della cultura di "governo" della sinistra" (Amato-Cafagna, p. 84). Vero è anche che questa tesi, come altre che allora vennero discusse, non era prioritariamente funzionale a una strategia di politica economica, quanto piuttosto ai problemi di governo del movimento di massa che i comunisti avevano preso a cavalcare, e costituiva un tentativo di elaborazione ideologica nuova, misurata sulle necessità dei momento. Anche quella dei comunisti si configurava infatti come una strategia dei due tempi, non già d'ordine economico, ma squisitamente politico. Il primo tempo era quello del consolidamento della forza comunista, di cui abbiamo visto i primi accenti; il secondo sarebbe dovuto essere il momento dello "scambio" o dell'"accordo" di cui però ci si preoccupava soprattutto di definire gli aspetti politico-istituzionali, più che quelli propriamente economici.
È su questo crinale che proseguì l'elaborazione teorico-politica dei B. alla guida dei partito comunista nei primi anni Settanta. Egli si trovò a modulare il tradizionale bagaglio di strumenti politici ed ideologici, che erano propri della tradizione comunista, in un contesto storico del tutto nuovo e che non aveva propriamente precedenti, cosicché spesso il raffronto che si fa, a proposito della sua leadership, con quella togliattiana, non aiuta il giudizio. Già nella sua replica di chiusura al congresso del 1968 il B. aveva riproposto in chiave critica un vecchio adagio. Parlando di "strategia delle riforme" aveva osservato che questa prospettiva andava "integrata con altri concetti e inglobata nell'espressione, che anch'essa è propria della nostra tradizione, di blocco storico". Anche Amendola, che era per le riforme, riteneva che la "strategia" non dovesse implicare un "disegno" da contrapporre alla classe avversaria. Il B. cercava di porsi da un angolo visuale più ampio e precisava che "la strategia delle riforme è quindi essenzialmente una strategia delle alleanze", di qui il concetto di "blocco storico". Così introdotto, esso consentiva di giostrare ambiguamente sull'abusato dilemma tra rivoluzione e riforme. Nell'analisi della società capitalistica avanzata, in cui egli lo collocava, non era necessariamente la vecchia smička leninista. Poteva essere la versione storicistica che di esso aveva dato Gramsci, quella cioè di referente socio-politico del grado, storicamente dato, di egemonia della borghesia o della classe operaia, e questo in effetti voleva essere, avvertendo però che nelle presenti situazioni occorreva o concepire la lotta per il socialismo come un'avanzata non lineare, ma assai più complessa, aspra e articolata, dei gruppi sociali progressivi e della loro unità, della società nel suo complesso e di uno sviluppo della democrazia" (Tatò, I, p. 31).
Era dunque una strada tutta da percorrere, in cui in primo luogo doveva essere evidente che i comunisti sarebbero rimasti sul terreno della cosiddetta "rivoluzione democratica", in secondo luogo andavano individuate le alleanze, quelle sociali e quelle politiche, tenendo conto dei ribaltamenti che potevano derivare nel corso storico da una ripresa delle forze conservatrici e reazionarie. Era quindi già in nuce una teorizzazione difensiva dell'avanzata comunista. Sul lato delle alleanze sociali le analisi che vennero proponendosi furono poco fruttuose di soluzioni. Si tentò di rispondere, sempre sulla falsariga di questo concetto di blocco storico, a quell'interrogativo che da ultimo Togliatti aveva formulato, senza sostanzialmente riuscire a dargli una risposta: "è in grado la classe operaia di trovare, nella società capitalistica avanzata, quella forma di massa che deriva dall'intesa, dalla collaborazione, dalla alleanza con strati di popolazione non proletari, come furono in altri paesi, le grandi masse di contadini poveri e senza terra?" (Rapporto al X congresso, dicembre 1962). Tornò al pettine cioè il problema dei ceti medi, che nelle esperienze socialdemocratiche aveva trovato una soluzione in un preciso quadro di politica economica e nelle realizzazioni istituzionali della concertazione sindacale e dello Stato sociale. Nell'elaborazione togliattiana questo tema era stato sviluppato secondo una logica di espansione dell'area comunista e democratica, non come un problema di governo. Ora la questione si riproponeva in termini nuovi e si tentò di analizzarla, usando a più riprese la categoria della "rendita", che per converso riproponeva il tema di un'alleanza tra "salario e profitto": tutte cose che avrebbero dovuto avere la loro premessa sul terreno economico e su di esso trovare le discriminanti; ma certo non potevano averla su quello socio-politico, dove, come non si tardò a realizzare, le commistioni e contraddizioni erano indistricabili. Sul terreno sociale si poteva anzi constatare un'altra cosa: che l'autunno caldo operaio aveva trasmesso una sorta di contagio a pressocché tutte le categorie di ceto medio, spingendo anch'esse sul terreno rivendicativo, da cui una corretta analisi non poteva non trarre segnali allarmanti, per quel fenomeno di "corporativizzazione" della società che veniva ora allo scoperto e per il conseguente ulteriore indebolimento del quadro economico, che finiva per andare a detrimento degli strati più poveri della società e ad acuire il problema del Mezzogiorno.A meno di un anno dall'autunno caldo il B. osservava che "solo una concezione infantile della lotta di classe può portare a dimenticare che, ad ogni rottura positiva degli equilibri esistenti, ad ogni virata verso sinistra, segue sempre un periodo più aspro e complesso, nel quale anche il momento della resistenza e della difesa assume un valore decisivo" (Rinascita, 16 ott. 1970). I segnali politici che venivano dal paese non erano confortanti. Nelle elezioni regionali del 1970, in molte situazioni, c'era stato un arretramento del PCI, anche se in generale il risultato era stato buono, e ancor più del PSIUP, e un'avanzata della destra, che assunse dimensioni preoccupanti nelle elezioni regionali siciliane dell'anno seguente, in particolare ai danni della Democrazia cristiana. C'erano poi le trame nere o di Stato, quella strategia della tensione, che aveva il suo precedente nel supposto tentativo di colpo di stato progettato all'inizio dell'esperienza di centrosinistra, e ora si riproponeva in modo oscuro, a cominciare dall'attentato di piazza Fontana a Milano, in un susseguirsi di episodi e voci allarmanti. Maturava una crisi politica che avrebbe avuto per la prima volta sbocco, dopo l'elezione di G. Leone alla presidenza della Repubblica, nello scioglimento anticipato delle Camere. Queste contingenze spingevano sempre di più ad una considerazione del tema delle alleanze in chiave preminentemente politica.
Nella sua relazione al XII congresso del partito (Milano, marzo 1972), in cui avrà la definitiva investitura della segreteria, il B. non parlerà più di "blocco storico". Il problema di cavalcare la grande diaspora dei movimenti della società non è più un punto decisivo della sua riflessione. Il problema centrale è quello della prefigurazione di "una nuova direzione politica": la formula è di nuovo quella togliattiana della "collaborazione tra le grandi correnti popolari: socialista, comunista, cattolica". Anche la giustificazione è quella di allora: "la natura della società e dello Stato italiano, la sua storia, il peso dei ceti intermedi, l'acutezza di grandi questioni sociali, la profondità delle radici del fascismo … impongono una simile collaborazione", rispetto a cui "noi siamo disposti ad assumerci le nostre responsabilità" (Tatò, I, p. 415). Era un segnale decisivo di voler stabilizzare la situazione politico-sociale ponendo una sola condizione, quella della caduta della cosiddetta conventio ad excludendum, con il definitivo ingresso del PCI nell'area decisionale.
La formula del "compromesso storico" partì da queste vecchie premesse, per aggiungervi qualcosa di più. 1 tre articoli che il B. scrisse su Rinascita (28settembre, 5 e 12 ott. 1973) prendendo spunto dal colpo di stato contro Allende in Cile, oltre alla riproposizione della distinzione tra "alternativa di sinistra" e "alternativa democratica", aggiungevano, accanto alla dizione "nuovo grande compromesso storico", un accenno al tema della maggioranza per cui il 51% non era, per chiunque, democraticamente sufficiente per governare una democrazia quale quella italiana. Questo era appunto il contributo nuovo, la teorizzazione della democrazia italiana come democrazia speciale. Si erano date fino ad allora versioni "politiche", ma mai propriamente definizioni "istituzionali". Su questo spunto, negli anni seguenti, dovevano articolarsi altre varianti, quali la centralità del Parlamento, il sistema delle autonomie e il pluralismo. Nessuna di esse di per sé era un postulato nuovo; ma a caratterizzarle era l'enfasi strumentale con cui le si-collegava alla formula del "compromesso storico". Questo era certo il caso del "pluralismo", termine descrittivo della dinamica sociopolitica propria delle democrazie occidentali, da tempo usato nella letteratura, specialmente anglosassone, e che nella formulazione del B. comportava un significato ulteriore: esso difatti veniva a sostituire quell'elemento dialettico ed antagonistico, che è il presupposto primario di una concezione liberaldemocratica, e che la formula della grande alleanza permanente, cioè istituzionalizzata, necessariamente appannava, con uno statuto garante dell'autonomia di tutte le forze politico-sociali e religiose in gioco.
La sostanza della questione è colta bene da A. Tatò (che fu dal 1972 il suo più stretto collaboratore e che proveniva dal gruppo di cattolico-comunisti che nel dopoguerra aveva fatto capo a F. Rodano) a proposito dei problema religioso. Egli nota che là dove Togliatti aveva guardato "al problema della coscienza religiosa anche con l'intento di trovare il modo di superarla", per il B. "la dimensione religiosa (quindi più esattamente interpretando, la fede religiosa) sono realtà che il partito non si propone di "superare" ma alle quali si riconosce valoreautonomo" (Critica marxista, p. 210). Trasferito in termini istituzionali, il principio significava che la democrazia, bloccata a livello politico dalla formula della grande alleanza, riconosceva gli altri soggetti contrapposti della vita religiosa, sociale, culturale nella loro autonomia, come partecipi del "dialogo" democratico, Non operando più il principio di maggioranza, la democrazia acquisiva così necessariamente l'aspetto di una e partitocrazia illuminata". Ed era appunto una visione fortemente "illuministica" della stessa realtà democratica italiana, contro la quale il modello dei "compromesso storico" avrebbe dovuto, nelle sue prime realizzazioni, presto scontrarsi, trovando proprio questi soggetti antagonistici, soprattutto sociali, poco disposti al dialogo.
Proprio l'analisi dei partiti politici italiani che accompagnava la proposta del B. era stata condotta con notevole spessore analitico. In particolare si coglieva l'identificazione della DC con le strutture dello Stato, il mutamento dei suo originario interciassismo in un arcipelago ramificato di fattori "corporativi"; si comprendeva che, con il fanfanismo prima e il doroteismo poi, essa era uscita dal vecchio modello trasformista, costruendo un sistema incoerente ma stabile, di referenti sociali, economici e istituzionali, che aveva in qualche modo carattere totalizzante e si risolveva in una forma di "autogoverno", che investiva di sé tutta la realtà italiana. Perciò, già nella relazione al XIII congresso del PCI (marzo 1972) il B. formulava coerentemente l'obiettivo "che quanto più si andrà oltre la convergenza su singole misure di riforma per giungere all'unità sui grandi temi della politica nazionale, tanto più sarà difficile alla Democrazia cristiana tamponare le sue contraddizioni interne, e dalla crisi potrà scaturire uno spostamento politico di fondo di correnti cattoliche e una loro intesa con le forze socialiste e comuniste" (Tatò, I, p. 419).
Il B. contava di poter operare questa sostituzione decisiva di piani nel confronto politico, grazie alla forza e peculiarità del partito di cui era alla guida, che si riproponeva graniscianamente nella sua qualità di "nuovo principe", illuminato, compreso della sua forza, della sua accresciuta rappresentatività sociale, del suo rigore e della sua disciplina come nuovo partito "nazionale". Ciò presupponeva che i tempi dello scontro politico fossero quelli in qualche modo programmati dalla strategia comunista, mentre poi i tempi reali furono altri. Quando il PCI operò, infatti, quello sfondamento elettorale decisivo, pe rcui fu improrogabile aprirgli le porte della "solidarietà nazionale", molti giuochi erano già stati fatti e la situazione profondamente pregiudicata.
Fu il governo di centrodestra presieduto da Andreotti e che aveva al Tesoro il liberale G. Malagodi a segnare definitivamente, nell'estate del 1972, i fattori politico-sociali determinanti dell'intero decennio. La prima risposta alle spinte salariali dell'autunno caldo (1969) era stata una manovra defiattiva, che i comunisti avevano contrastato e che, per la poca tenuta della maggioranza di governo, non aveva dato alcun risultato, a differenza di quanto era avvenuto in Francia e in altri paesi. Nel 1972, all'inverso, la scelta fu quella di un recupero dei margini di profitto, favorendo la corsa dei prezzi, sia mediante la svalutazione della lira, sia mediante una politica monetaria espansiva. Ciò dava luogo ad un decennale corso di spinte inflattive e di stabilizzazioni relative, attraverso politiche classiche di stop and go, la cui intermittenza era resa più affannosa dal susseguirsi delle due crisi petrolifere, che portavano così ad intrecciare problemi strutturali con altri tipicamente congiunturali.
Sul terreno politico e sociale questo nuovo ciclo consentiva alla DC di governare gli antagonisti a distanza, senza scalfire il suo ampio edificio di referenti sociali, lasciando al PCI di seguirli da presso e alle imprese di governarli nei processi produttivi, ricostruendo, attraverso il processo inflattivo, i necessari margini di profitto. Questo era il compromesso congiunturale che si stava delineando, se vogliamo usare una formulazione di tipo granisciano, tra borghesia produttiva e parassitaria. Non erano propriamente queste le premesse di una svolta a sinistra. Nei regimi di democrazia parlamentare le svolte a sinistra hanno per loro natura un contenuto-redistributivo ed egualitario che si traduce in politiche economiche ed istituzionali volte ad introdurre elementi sia congiunturali sia strutturali in questa direzione. La fortuna dei partiti democratici, laburisti, socialdemocratici sta nella relativa stabilità con cui riescono ad operare in queste due direzioni; e, rispetto ad esse, la stabilità congiunturale, costituisce un presupposto essenziale. Si verificava, invece, in Italia che, sotto una spinta di massa intensa, procedesse una politica governativa, la cui peculiarità conservatrice consisteva nel garantire la redistribuzione e l'egualitarismo, ma sui presupposti instabili di una congiuntura infiattiva, di cui si procrastinava il rientro a quando ne sarebbero maturate le condizioni politiche e sociali, con un connesso maggior controllo dell'ordine pubblico. Proprio l'indecisione del gruppo dirigente democristiano sulla manovra politica che doveva reggere questa linea economica, connotata a destra, aprì varchi ulteriori all'iniziativa dei comunisti, anche se quel ritardo nel fissare i tempi della stabilizzazione, avrebbe poi pesato in modo determinante sulla seguente legislatura di unità nazionale. Fin dalle elezioni del 1968 e dalla seguente crisi del cosiddetto centrosinistra organico, era in corso nella DC uno scontro interno, che, al di là degli elementi confusi che la dialettica di un grande partito di potere come quello democristiano sempre trascina con sé, aveva profili abbastanza chiari. Vi era chi riteneva, tra l'altro traendo l'auspicio proprio da quei risultati elettorali che avevano sigillato il fallimento dell'unificazione socialista, che nella sostanza la DC potesse fare da sé e garantirsi la continuità del suo potere, considerando le alleanze come un momento, non più strategico, ma meramente tattico. Era una specie di ritorno al 1954, e non a caso l'interprete più significativo di questa linea tornava ad essere A. Fanfani. C'era poi chi sosteneva che al contrario la DC non potesse fare da sé, ponendo l'accento sul problema della legittimazione democratica dei potere in un sistema centrista, per cui il partito di maggioranza relativa era necessariamente tenuto a coinvolgere le altre forze politiche, perché, in assenza di una dialettica alternativa, ciascuno avesse una parte, sia in termini di responsabilità sia di potere, così appunto da legittimare la parte di maggiore responsabilità e potere. Era stata la filosofia della collaborazione coi socialisti propria di A. Moro che ora, a partire dal 1969, rivolgeva la sua attenzione verso i comunisti.
I comunisti presero a guardare a Moro come possibile punto di riferimento. Il primo colloquio privato del B. con il leader democristiano risale al dicembre 1971. È da notare che in quel colloquio "su un punto Moro fu fermo, sia a proposito della elezione dei presidente della Repubblica, sia a proposito del futuro. Certamente c'era stato nella Dc un processo di appiatti ma era tutta la Dc univa che doveva superarlo. Egli non sarebbe mai stato l'uomo della rottura. Essa avrebbe giovato solo alla destra e indebolito la democrazia. Indubbiamente la Dc poteva, tuttavia, essere molte cose diverse" (Barca, p. 101).
Nelle elezioni del presidente della Repubblica dei dicembre 1971 non passò Fanfani, ma neppure Moro, che i comunisti erano pronti a votare; e Leone fu il risultato del compromesso interno alla DC. Nel sostanziale equilibrio dei rapporti di forza interni, il partito di maggioranza relativa non riusciva a compiere una scelta univoca di linea politica. Le sue oscillazioni a destra, con i primi due governi Andreotti, vennero riequilibrate al centro, con una transitoria riesumazione della maggioranza di centrosinistra. Ma dopo il congresso del giugno 1972 e il ritorno alla segreteria di Fanfani, questi tenterà nuovamente uno sfondamento sul centrodestra, cavalcando la campagna referendaria antidivorzista. Moro e i comunisti si erano mossi, fin dall'indomani dell'approvazione della legge sul divorzio, per evitare questa prova; e il B. si era impegnato di persona in una fitta serie di contatti, anche diretti, col Vaticano.
La campagna referendaria sul divorzio fu voluta da una parte del mondo cattolico e della DC (nel fronte laico solo i radicali, che non erano ancora neppure rappresentati in Parlamento, volevano questa prova); così le sue valenze politiche vennero sempre più allo scoperto e portarono i comunisti a schierarsi in modo fermo in difesa della legge. E l'esito del voto (maggio 1974) fu anche decisivo, rispetto ai futuri equilibri elettorali del paese e a quelli interni alla Democrazia cristiana. Non è un caso che fosse Moro a riassumere la guida del governo all'indomani di quella consultazione elettorale. Ma l'immagine della DC ne era rimasta irrimediabilmente compromessa, troppo in contrasto col processo di secolarizzazione che si era andato svolgendo nel paese; aveva palesato inoltre, proprio scegliendo quel terreno di scontro, di non avere in sé la volontà politica sufficiente per fronteggiare come forza egemone di governo la grave crisi economica e sociale, che si collocava per la prima volta dal dopoguerra su di un inquietante scenario politico internazionale.
Il nuovo governo Moro era un bicolore DC-PRI e vicepresidente del Consiglio era U. La Malfa. Poiché i socialisti, definitivamente chiusa ogni ipotesi di centrosinistra, non erano più in grado di prendere iniziative, il vecchio leader repubblicano veniva a costituire l'unico punto di riferimento certo fuori dalla DC. Egli sollecitava un'operazione di stabilizzazione economica che fosse sostenuta, o almeno non osteggiata, dai sindacati e dal PCI. Concretamente essa comportava, al di là della manovra monetario-creditizia, che si operasse sulla dinamica salariale e sulla crescita dei deficit pubblico, in termini sia strutturali, sia congiunturali. Era una posizione non allineata con la destra economica, che anzi riproponeva la linea infiattiva del 1972, come risulterà evidente dall'accordo sulla scala mobile che il presidente della Confindustria G. Agnelli siglerà nel gennaio 1975 con le confederazioni sindacali. Poteva essere quello un terreno di confronto decisivo, l'occasione per i comunisti, senza ancora assumersi ruoli di governo o di maggioranza, di presentarsi al paese con una proposta politica compiuta, come partito di governo (ed Amendola riprenderà proprio da qui il filo della sua polemica interna), imprimendo una svolta al dibattito politico.
Questa svolta fu fatta solo a metà nella relazione del B. al comitato centrale del dicembre 1974.
Coerentemente con la vecchia impostazione, per cui si privilegiano le scelte politiche rispetto a quelle economiche, essa si esprimeva in modo chiaro sulle opzioni d'ordine strutturale, non su quelle congiunturali, in una sorta di logica dei due tempi rovesciata. Questa relazione del B. fu comunque una notevole apertura politica su molti temi decisivi: la compatibilità con l'alleanza atlantica, la prima formulazione dei cosiddetto "eurocomunismo", un chiaro accenno a non pretendere interventi di pubblicizzazione dei sistema delle imprese private, dichiarando già sufficientemente ampio il settore pubblico, un primo accenno ai "sacrifici necessari per il duro sforzo di ripresa e rinnovamento" (Tatò, II, p. 867). Era la parte propositiva a rimanere generica nei suoi riferimenti alla distribuzione del reddito, alla gestione della spesa pubblica, alle modalità della programmazione, in cui si introduceva l'idea, che avrà una certa fortuna negli anni seguenti, dei piani di settore, dei quali però molti venivano suggeriti, ma più come elenco di problemi che di soluzioni. Così sul tema delle istituzioni veniva meglio precisato il ruolo che rispetto ad esse doveva giocare il "compromesso storico" e la funzione innovativa di questo. Per quanto vi fossero anche accenni pertinenti ai problemi di riforma della pubblica amministrazione e di funzionamento dello Stato, questa rimaneva la parte più debole, partendo dal presupposto, che si rivelerà il più errato, che un semplice accordo di natura politica tra i due maggiori partiti fosse un punto di partenza sufficiente per rendere operante il sistema delle istituzioni pubbliche. Il PCI era presentato dal B. come "partito di lotta e di governo", quasi a sottolineare l'inizio di una fase transitoria oltre che una modalità di iniziativa politica. Anche se i due termini risultavano chiaramente in relazione tra loro nella proposta del B., tuttavia quelle indicazioni, che sostanziarono poi anche la sua relazione al XIV congresso del partito, nel marzo dell'anno seguente, e che alcuni comparavano agli assunti programmatici veterofrontisti che i comunisti francesi pretendevano di introdurre nel programma comune della sinistra francese, parvero ancora una volta una rivoluzione copernicana che accompagnava il PCI verso il successo elettorale nelle elezioni amministrative dei giugno 1975.
Il successo elettorale comunista in quelle elezioni amministrative sconvolse profondamente il sistema politico italiano. Da quasi un decennio l'Italia era attraversata da una conflittualità sociale altissima di contro a uno sgretolamento progressivo delle strutture statuali, un indebolimento dei sistema produttivo, una crescente inadeguatezza dei servizi e soprattutto un'instabilità politica endemica, in un cangiare continuo di formule e di schieramenti. E tuttavia tutto ciò avveniva senza che, dal punto di vista strettamente politico, fossero mutati i tradizionali presupposti che avevano accompagnato lo svolgersi di tutta la recente storia repubblicana, cioè quelli di un sistema centrista fondato su tre ipotesi permanenti e interscambiabili di maggioranze parlamentari, quella propriamente centrista, quella di centrosinistra e quella di centrodestra. Proiettando il risultato delle amministrative sulle prevedibili elezioni politiche anticipate, si poteva constatare come di quel tradizionale ventaglio di maggioranze restasse solo quella di centrosinistra e come fosse il PSI a costituire il jolly necessario di quella combinazione.
Ma, proprio nei mesi seguenti, si doveva anche constatare che, definitivamente esaurita la vecchia formula di centrosinistra, i socialisti non erano in grado di assumersi quel ruolo, pressati dal successo comunista, in un'acuta crisi della loro identità politica. Così, di fatto, i comunisti, che con la tesi del compromesso storico formulata dal B. avevano fatto proprio lo schema centrista, entravano necessariamente a far parte del virtuale equilibrio del sistema politico.
La legittimazione del PCI a far parte della maggioranza poggiava ormai su due argomenti, uno elettorale e l'altro logicamente derivante dalla peculiare caratteristica centrista del sistema politico italiano. Facevano difetto invece altri due aspetti, pure essenziali, permanendo una "diversità" comunista, sia sul terreno dell'impostazione ideologica, sia riguardo alla collocazione internazionale. Lo sforzo del B. e dei suo partito, dalla data delle elezioni amministrative, fu quello di accentuare le "rassicurazioni" verso le altre forze politiche, rispetto a questi due temi. Le premesse sancite dal XIV congresso del partito dei marzo 1975 vennero ribadite e insistentemente sottolineate anche in numerose interviste alla stampa estera: in politica estera l'accettazione della NATO, lo sviluppo dell'eurocomunismo, in collaborazione con i comunisti francesi e spagnoli, ribadendo a Mosca i principi di autonomia e diversità delle linee nazionali (al XXV congresso del PCUS, febbraio 1976); in politica interna nascondendo sempre più le pregiudiziali ideologico-culturali di tipo anticapitalistico e presentando un cauto riformismo, connesso ad una promessa di moderazione e di assunzione di responsabilità.
Si vennero così ponendo le premesse di quel rapporto di scambio tra il PCI e le forze tradizionali di governo, ma in primo luogo la DC, che diventerà operante dopo le elezioni del 20 giugno 1976, lungo i tre lunghi mesi di trattativa per la fondazione del terzo governo Andreotti. Questo sarà un monocolore democristiano, detto della "non sfiducia", perché ebbe il voto dalla sola DC e l'astensione anche del PCI (settembre 1976).
Il rapporto di scambio fu essenzialmente politico. I comunisti offrivano il loro appoggio di contro al superamento della cosiddetta conventio ad excludendum nei loro confronti. Era un terreno scivoloso su cui il partito vincente, quello comunista, si trovava in posizione di debolezza.
Il dominus di questa trattativa fu Aldo Moro. Questi aveva sostenuto la candidatura di Andreotti al governo ed era attraverso di lui che il B. teneva il filo principale dei suoi rapporti con la DC. Ambedue erano stretti dal fattore tempo, ma in senso inverso: il B. aveva fretta, al contrario Moro aveva bisogno di prendere più tempo possibile. Le resistenze interne erano forti, ma ancor più quelle esterne, che rafforzavano le prime. A caldo sui risultati elettorali, al vertice di Portorico, Americani, Inglesi, Tedeschi e Francesi uscirono con una congiunta ed esplicita dichiarazione di non gradimento per un ingresso al governo dei comunisti in Italia. Mentre negli anni successivi l'atteggiamento del cancelliere tedesco Schmidt doveva cambiare in espressa stima nei riguardi dei comunisti italiani, quello dell'amministrazione americana, su cui si era fatto affidamento dopo l'elezione di Carter, sostanzialmente non mutò, anzi tornò ad essere ribadito più volte, anche duramente, specie verso la fine del 1977 e i primi del 1978, quando la non sfiducia, si trasformò in maggioranza di "solidarietà nazionale".
Questo lento procedere del compromesso storico dal giugno 1976, mentre risolveva solo in parte l'esigenza di legittimazione comunista, realizzava invece quella di diverso segno che aveva a sua volta la Democrazia cristiana. Di fronte alla crisi economica e sociale di fatto la DC non era stata in grado, come nel 1947 con De Gasperi, scegliendosi gli alleati, di fare da sola. Invece di affrontare i problemi, li aveva, come si è visto, accompagnati con una politica di stop and go sostanzialmente infiattiva. Per uscime aveva bisogno dell'avallo comunista, in modo che l'effetto negativo sul consenso sociale ed elettorale fosse distribuito equamente col PCI. Andreotti l'ha definita una "trasfusione di sangue" (1986, p. 231) e in effetti fu un'autorizzazione ad operare una politica defiazionistica, in termini sia economici, sia di controllo sociale e d'ordine pubblico. Da questo punto di vista il compromesso storico ebbe molti sostenitori autorevoli al centro e a destra, nella finanza e nell'industria, oltre che nella grande stampa, perché in effetti prese a svolgere l'attesa e necessaria funzione stabilizzatrice della situazione economicosociale.
Questo della politica economico-sociale fu del resto il punto più debole dell'operazione politica di compromesso storico. La preoccupazione della piena legittimazione del loro ruolo politico ebbe infatti nei comunisti il sopravvento sui concreti problemi di scambio che una politica economica postulava.
La politica di stabilizzazione era certamente indispensabile. Ma era anche presente in larghi strati sociali la domanda che essa non andasse a scapito dell'occupazione e di un'equa distribuzione del reddito. Riguardo a quest'ultimo problema il freno, che occorreva imprimere alla dinamica salariale, avrebbe dunque dovuto essere bilanciato da un'oculata politica del cambio e dall'uso sia della leva fiscale sia di una solida costruzione del welfare state. In questo quadro sarebbe stato anche logico bilanciare l'attenuazione delle spinte sindacali e contrattuali, conferendo un ruolo più istituzionalizzato al sindacato.
Non erano obiettivi facili da conseguire e vi erano anche molte incertezze di impostazione. Si cominciò a premere sul sindacato per ridurne semplicemente il potere contrattuale, con i classici vecchi strumenti di "cinghia di trasmissione" politica, non affrontando il tema della distribuzione del reddito né dal lato del salario né da quello della politica fiscale. Quanto alla politica di occupazione, si pretese non dargli un fondamento macroeconomico, ma soltanto settoriale e funzionale, sostenendo provvedimenti sostanzialmente inadeguati, come la legge di riconversione industriale e quella sull'occupazione giovanile. La spesa sociale continuò ad essere potenziata, senza tener conto dell'essenziale parametro dell'efficienza dei relativi servizi (l'ultima legge varata dalla maggioranza di unità nazionale, nel gennaio 1979, fu il nuovo servizio sanitario nazionale). I comunisti si applicarono al problema della riforma dello Stato, ma con una propensione pregiudiziale al tema del decentramento e delle autonomie, che doveva rivelarsi funzionale, più che a principi di efficienza e imparzialità della pubblica amministrazione, al modello spartitorio del sistema politico.
Senza un programma e senza una strategia sullo scambio da operare con i partiti tradizionali in materia economico-sociale, il pericolo era quello di trovarsi irretiti nel reticolo storico del "trasformismo politico italiano". Togliatti, a proposito dei centrosinistra aveva temuto che "ci si possa trovare di fronte niente altro che a un'operazione trasformista tentata da una parte delle classi dirigenti e del partito oggi dominante" e, evocando le difficoltà del riformismo socialista nel primo decennio dei secolo, ammoniva "che bisogna evitare di ripetere quegli errori. Se si ripetessero, il risultato potrebbe essere analogo a quello di allora, quando dopo pochi anni, ci si trovò di fronte ad un'offensiva reazionaria, in cui erano già presenti i germi del fascismo" (L. Paggi-M. Angelillo, p. 106). Egli non aveva tuttavia avuto l'occasione storica di impegnarsi su questo difficile crinale; questa toccava invece al Berlinguer. Il problema era profondamente sentito nel movimento comunista. Lo esprime bene un ricordo di Chiaromonte, al comizio di chiusura della festa dell'Unità a Napoli nel settembre 1976, quando il B. "passò alle cose nostre, parlò del 20 giugno e cominciò a spiegare perché ci eravamo astenuti sul governo Andreotti … Si fece un grande silenzio, si ebbe subito la sensazione fisica di una grande tensione, la diffidenza di centinaia di migliaia di persone divenne, per alcuni minuti, quasi un fatto palpabile" (Quattroanni, p. 40). Quella diffidenza doveva clamorosamente scoppiare nel 1977 ed ebbe come episodi emblematici il contestato comizio di Lama all'università di Roma (febbraio 1977) e la marcia dei metalmeccanici a Roma (dicembre 1977).
Erano due fronti sociali che scricchiolavano, quello sindacale, coinvolto in una retromarcia sul salario, ma soprattutto colpito dalla recessione, e quello dell'emarginazione giovanile, che si dimostrò subito contingentemente il più pericoloso. Da Roma l'insorgenza passò a Bologna (marzo 1977), dove il centro storico dovette venire evacuato dalle forze dell'ordine. Nacque la cosiddetta arca dell'autonomia, con connessioni dirette ed indirette con i gruppi dei terrorismo. Questo fenomeno si era manifestato sin dal 1972. Già rinchiusi nelle carceri i primi "nuclei storici" della diaspora terroristica, il fenomeno poteva essere chiuso, sicché si discute se non lo fu per incapacità oppure per un disegno; certo è che esso trovava ora un referente sociale che non aveva mai avuto. Non riusciva, in quella congiuntura, al PCI quanto aveva fatto dopo la Liberazione, cioè di spazzare interamente il campo dalle frange eversive alla sua sinistra, stringendosi in un coerente, ma difficile, allineamento in difesa dell'azione dello Stato e dell'adeguamento della legislazione in materia, che avrebbe improntato poi l'atteggiamento rigido dei PCI nei giorni del rapimento di Moro, la cosiddetta "linea della fermezza".
Il B. aveva avvertito la necessità di porre dei puntelli su questo terreno scivoloso. Nel gennaio 1977 aveva lanciato lo slogan dell'"austerità", che verrà in seguito ribadito e sviluppato. Da un lato si presentava come una giustificazione della mano tesa alla politica di stabilizzazione, dettata da una situazione di emergenza che, del resto, i comunisti ribadirono in più sedi, anche in campo sindacale, con le polemiche di Amendola e le prese di posizione di Lama che prelusero alla svolta dell'EUR (febbraio 1978), in cui il sindacato dichiarava di voler scambiare, non precisandone tuttavia le modalità, salario contro occupazione. Ma sotto un altro aspetto l'"austerità" era una proposta di tipo "etico-politico", che presupponeva un'altra società e un altro Stato da quello in cui i comunisti si trovavano ad operare, era un recupero di identità comunista che riproponeva più o meno esplicitamente le vecchie assonanze anticapitalistiche, rivendicava quella matrice "diversa", che poi impronterà di sé anche l'indicazione nominale della "terza via".
Era un mettere le mani avanti; e nel contempo il B. cercava di affrettare i tempi dell'operazione governo, la cui contestualità diveniva decisiva. Nel novembre 1977 partecipando a Mosca alle celebrazioni dei sessantesimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre, il B. operò un ulteriore "strappo", che ebbe echi profondi in Italia. La Malfa prese ad insistere per una formula d'ingresso comunista nel governo, proponendo un "patto sociale" come sua premessa. Moro era molto più cauto per una diversa valutazione delle difficoltà interne e delle variabili internazionali. Si rilevava come nel mondo comunista la posizione del partito italiano fosse più isolata. L'eurocomunismo rimaneva una bandiera da cui, per le pressioni sovietiche, i comunisti francesi avevano disertato e quelli spagnoli subivano lacerazioni profonde al loro interno (J. Fabian, La guerre des camarades, Paris 1985). Ci si domandava se qualcosa d'analogo fosse in atto nei riguardi del PCI. Moro cercava contemporaneamente altri agganci, per esempio verso i socialisti (Gismondi, p.272); e tuttavia permaneva la sua convinzione sulla necessità di proseguire la politica di intesa con i comunisti. Il succo del suo pensiero sta probabilmente in uno spunto dei Diari di Andreotti: "Mi dice che se gli americani volevano davvero che i comunisti non fossero necessari, non avrebbero dovuto spingerci sulla strada del Fondo Monetario" (p. 178).
Tra il dicembre 1977 e il febbraio dell'anno seguente si snodò una trattativa bizantina il cui tema era quello di dare ad un nuovo monocolore Andreotti il supporto di una maggioranza in cui anche formalmente il voto dei comunisti fosse, secondo le regole proprie d'una democrazia parlamentare, computato come costitutivo della maggioranza medesima, che si battezzò di "solidarietà nazionale". Quella maggioranza, all'atto della sua costituzione, fu segnata dal rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse nel marzo 1978. La logica dell'emergenza la stravolse fin dalle origini. Era del resto convinzione dello stesso B. che senza Moro difficilmente quella strada potesse essere proseguita. Conclusasi la tragica vicenda del leader democristiano (9 maggio), passata l'estate, il problema rimaneva quello, e non altro, di scegliere l'occasione di rottura, che fu data nel novembre dall'adesione dell'Italia al serpente monetario europeo. La crisi del governo maturava infatti nei mesi seguenti (febbraio 1979), per dar luogo al terzo monocolore Andreotti di quella legislatura, che preparava le elezioni anticipate del 1979.
È stato detto che quella rottura fu il "capolavoro" del B. (Schiavone, p. 102); certo essa fu inevitabile. E difficile fu anche il bilancio di quegli anni di compromesso storico, che il B. si apprestò a fare nella sua relazione al XV congresso del partito comunista (marzo-aprile 1979). Diveniva ora necessario trovare un punto diverso di assestamento della strategia comunista da quella che era stata la linea del compromesso storico; e alla soluzione di questo problema il B. diede ancora il suo contributo.
Di quegli anni rimaneva una traccia profonda nelle istituzioni e nel sistema politico. Il compromesso storico non si era realizzato; ma attraverso il suo faticoso percorso si era radicata quella prassi definita come "consociativa", che da più parti veniva interpretata come una ormai consolidata forma di "costituzione materiale". Gli anni del compromesso storico avevano, con il consenso pressoché di tutti, rafforzato l'ossatura partitica del sistema politico-istituzionale, con la legge sul finanziamento pubblico dei partiti e quella sull'editoria, con la riforma della RAI, e con i criteri di controllo e di nomina di molteplici enti e strutture pubblici, sia nazionali sia territoriali. I comunisti erano entrati così per più vie nei centri decisionali pubblici in posizione di compartecipazione. Da questo punto di vista avevano acquisito un ruolo permanente di governo della cosa pubblica al di là della pregiudiziale discriminante del principio di maggioranza. "Né l'interruzione dell'esperienza dell'unità nazionale portò con sé il ritorno alla situazione precedente" (Rodotà, in Laboratorio politico, pp. 63 ss.). La formula diventava quella di un "governo dell'opposizione", di cui le prassi di cogestione istituzionale, principalmente attraverso le assemblee elettive, erano un elemento reale, soggetto tuttavia ad un'ambivalenza tutta politica.
Con l'VIII legislatura, che seguiva le elezioni politiche del 1979, il PSI tornò a proporsi come garante della stabilità della maggioranza di governo. Nel 1980 al congresso della DC aveva prevalso la tesi dei cosiddetti "preambolisti", che mettevano in minoranza la segreteria di Zaccagnini e la maggioranza interna poggiata a sinistra, riproponendo la tesi della chiusura della maggioranza di governo ai comunisti. Il potere reale dei comunisti doveva fare i conti con questo nuovo diaframma, mentre la loro proposta politica di "unità" tornava ad essere "ipotetica", in una situazione di stallo dei rapporti politici, in cui la linea di "governabilità" dei socialisti prendeva quota, conservandosi tuttavia come alternativa potenziale il ripristino di un rapporto privilegiato tra il PCI e la DC, o almeno con una parte di essa.
I comunisti si trovarono così in una posizione residuale di carattere preminentemente tattico che da sola non costituiva un quadro di identità sufficiente. L'immagine comunista chiedeva di essere rivisitata. L'antico patrimonio di simboli offriva sempre minori suggestioni. Si succedevano i casi dell'Afghanistan (1979) e della Polonia (1981). Il B., su questo terreno doveva procedere per la strada intrapresa e tenacemente perseguita. Nel dicembre 1981 i casi polacchi gli dettavano la sofferta dichiarazione secondo cui doveva considerarsi "esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre". Lo "strappo" raggiungeva così la sua massima latitudine ideologica. Sul terreno più strettamente politico, tenendo conto anche delle reazioni interne di una parte cospicua del suo partito, egli seguiva una linea di politica estera più marcatamente allineata all'URSS rispetto agli anni precedenti, con le campagne per la pace contro il riequilibrio missilistico e appoggiando la politica sovietica nel Corno d'Africa e nel Mediterraneo.
Ma il B. operava una netta svolta a sinistra sul terreno-politico e sociale, schierandosi con l'ala dura operaista nella vertenza FIAT dell'ottobre 1980, arrivando a dichiarare l'appoggio del partito ad un'eventuale occupazione della fabbrica, contro la stessa linea del sindacato. Nel novembre dello stesso anno, dopo il terremoto in Irpinia, formalizzava la nuova linea dell'"alternativa democratica", che pareva un completo rovesciamento del compromesso storico, e che preconizzava un governo senza la DC.
Era un'alternativa senza illusioni che veniva ancorata ad un insieme di considerazioni pregiudiziali, che mettevano l'accento sulla degenerazione del sistema istituzionale e si compendiavano nella formula della "questione morale", di cui un caso limite venne individuato nella vicenda della loggia massonica P2 che fu intesa come "potere occulto", non solo extraistituzionale, ma anche extrapolitico, più che come apparato trasversale, funzionale ai giochi di una parte dei potere politico, sia "durante" sia "contro" il compromesso storico. Il B. metteva allora l'accento su di un problema reale, attento tuttavia a non determinare con la sua polemica una delegittimazione eccessiva del sistema politico e con esso della stessa DC. Insieme tendeva a rilanciare un'immagine del PCI come principale, se non unico, garante della "moralità delle istituzioni democratiche".
Il B. imbastiva inoltre allora il discorso della "terza via" tra capitalismo e socialismo reale, che aveva scarsa credibilità come strategia di politica economica e sociale, ma era il segno della necessità che egli avvertiva di fissare necessari puntelli ideologici alla conservazione della "diversità" comunista: questa era un dato reale a cui non aveva potuto sfuggire e che si era illuso di superare con la proposta del compromesso storico. Temi tutti che trovarono la loro sistemazione nella sua relazione al XVI congresso del PCI (marzo 1983).
Un giornalista come E. Scalfari, che con il suo quotidiano lo aveva a lungo appoggiato, lo ricorda in questi ultimi anni immerso nella "solitudine politica" (p. 340). Cercava insieme di difendere il patrimonio storico del partito di. cui era da più di un decennio alla guida e di tenere aperto almeno uno spiraglio della politica a cui aveva legato il suo nome. Quando, in apertura della nuova legislatura, un governo di coalizione presieduto dal segretario del PSI, B. Craxi, spinse il suo disegno di governabilità oltre la frontiera della maggioranza di governo, sul terreno economico e sociale, varando un decreto che modificava il sistema di indicizzazione salariale (febbraio 1984), tema di tradizionale appannaggio della contrattazione collettiva e che quindi implicava normalmente l'assenso della componente sindacale comunista, il B. aprì in Parlamento la più aspra battaglia parlamentare dal tempo dei dibattiti sulla legge elettorale maggioritaria del 1953, e fece seguire ad essa la proposta di indizione di un referendum popolare.
Impegnato a fondo contro un atto di governo che il B. giustamente valutava come un ulteriore decisivo affossamento della linea politica che aveva tentato di costruire, durante un comizio della campagna elettorale per il Parlamento europeo, veniva colto da ictus cerebrale, e moriva a Padova l'11 giugno 1984.
I funerali di Stato videro il cordoglio unanime del paese. Il corpo elettorale tributò alla sua memoria un riconoscimento, che egli aveva invano atteso, conferendo al partito comunista un numero di suffragi lievemente maggiore di quello della DC. Più che il suggello di un'egemonia politica fu una testimonianza di sintonia che una larga parte del paese tributava alla onestà e coerenza della sua figura di uomo politico.
Fonti e Bibl.: Si vedano gli atti dei congressi comunisti dall'VIII al XVI e gli atti ufficiali tra un congresso e l'altro editi dagli Editori Riuniti. Per gli anni 1969-1975 si vedano i due volumi della raccolta di scritti del B., La "questione comunista" 1969-1975, a cura di A. Tatò, Roma 1975. Una bibliografia completa degli scritti del B. è in Critica marxista, XXIII (1985), n. 2-3 (dal titolo Gli anni di B.), pp. 321-403. Ricco di notizie il quaderno commemorativo delle Edizioni dell'Unità, E. B., Roma 1985, con una traccia biografica di U. Baduel e numerose testimonianze di cui in particolare si è utilizzata quella di L. Barca. Tra i profili biografici si vedano: V. Gorresio, B., Milano 1976; U. Faller, B., marxismo in doppiopetto, Milano 1976; A. Lunacara, B. segreto. Carriera e lottainterna nel PCI, Roma 1978; T. Giglio, B. o il potere solitario, Milano 1982; C. Valentini, Il compagno B., Milano 1985. È sempre utile il volume di G. Mammarella, Il Partito comunista italiano 1945-1975, Firenze 1976, ad Indicem. Per la FGCI si veda: P. De Lazzeri, Storia del Fronte della gioventù, Roma 1974, ad Indicem; D. Ronci, I giovani comunisti dalla Liberazione al '57, Roma 1971, passim, e il volume miscellaneo Il ruolo dei giovani comunisti. Breve storia della FGCI, con prefazione del B., Rorna-Rimini 1976, passim; ancora sul periodo, P. Spriano, Le passioni di un decennio 1945-56, Milano 1986, ad Indicem. Sul compromesso storico, Laboratorio politico, marzo-giugno 1982, con vari saggi, in particolare quello di S. Rodotà; M. Margiocco, Stati Uniti e PCI, Bari 1971, ad Indicem; G. Amato-L. Cafagna, Duello a sinistra, Bologna 1982, passim; A. Schiavone, Per il nuovo PCI, Roma-Bari 1985, passim; L. Paggi-M. Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo, Torino 1986, passim; A. Gismondi, Alle soglie del potere, Milano 1986, ad Indicem. Tra la molta letteratura sul terrorismo, G. Galli, Storia dei partito armato 1969-1982, Milano 1986, ad Indicem. Della numerosa memorialistica e saggistica: D. Lajolo, Finestre aperte alle Botteghe Oscure, Milano 1975, passim; C. Salinari-A. Reichlin-A. Tortorella, Mario Alicata intellettuale e dirigente politico, Roma 1978, passim; G. Napolitano, In mezzo al guado, Roma 1979, ad Indicem; A. Manzella, Il tentativo La Malfa, Milano 1980, ad Indicem; G. Andreotti, Diari, Milano 1981, ad Indicem; P. Bufalini, Uomini e momenti della vita dei PCI, Roma 1982, ad Indicem; A. Cossutta, Lo strappo, Milano 1982, ad Indicem; C. Galuzzi, La svolta, Milano 1983, passim; G. Chiaromonte, Quattro anni difficili. Il PCI e i sindacati. 1979-1983, Roma 1984, passim; Id., La scelta della solidarietà democratica, Roma 1985, ad Indicem; D. Settembrini, E. B., in Critica sociale, XCIV (1985), n. 9, pp. 10-15; G. Andreotti, Visti da vicino, Milano 1986, pp. 219 ss.; E. Scalfari, La sera andavamo in via Venero, Milano 1986, ad Indicem; R. Vacca, Tra compromesso storico e solidarietà. La politica del PCI negli anni '70, Roma 1987, passim.