CARACCIOLO, Enrico
Figlio di Giovanni e Antizia Tomacelli nacque, verosimilmente, a Napoli, città d'origine della sua famiglia, all'inizio del XIV secolo. Appartenente ad uno dei due rami principali di una delle più antiche e ragguardevoli famiglie napoletane, quello dei Caracciolo Rossi, si ritrova spesso citato nei documenti e nelle cronache del Regno col diminutivo di "Henrichettus", "Herrichetus" o "Arriqueto", mentre il Villani inspiegabilmente lo ricorda col nome di "Maruccio" e il Palinieri con quello di "Iacobus". Seguendo la tradizione della sua gente, già distintasi ai tempi di re Roberto per i servizi resi alla casa d'Angiò, entrò ben presto alla corte della regina Giovanna I conquistandone favori e protezione come testimoniano le concessioni e i privilegi ripetutamente accordatigli (Reg. Ang. 347, f. 40v; Reg. Ang. 342, f. 268).
Proprio la protezione offerta al C. dalla giovane regina ne caratterizzerà, l'insieme condizionerà, tutta l'esistenza. Negativamente interpretata da molti contemporanei che vi vedevano, e non a torto, qualcosa di più intimo che un semplice sentimento di gratitudine essa generò, infatti, non solo maldicenze e dicerie popolari, ma anche preocupazioni e prese di posizione papali e se, probabilmente, offrì al C. un aiuto determinante per il conseguimento delle posizioni di predominio cui arrivò, è fuori di dubbio che fu anche la causa principale, se non unica, della sua immatura e violenta scomparsa.
Creato giustiziere del Principato Ulteriore in data imprecisata, fu rimosso da tale carica il 1º sett. 1344 da Aimeric de Chalus, legato pontificio nel Regno, e sostituito con Niccolò Acciaiuoli che anche in futuro assumerà spesso, più o meno volontariamente, il ruolo di antagonista. La rimozione, avvenuta del resto nel quadro di un generale rinnovamento dell'amministrazione interna, per nulla pregiudicò il prestigio del C. che anzi sembrò rinsaldare e migliorare la sua posizione di favorito alla morte di Andrea d'Ungheria, marito di Giovanna.
Tale morte, chiarissima nella macabra meccanica, ma non altrettanto nei giochi di potere che l'avevano determinata, portò allo scoperto le varie camarille che agivano nel Regno e che si identificavano essenzialmente nei due rami cadetti di casa d'Angiò: i Durazzo e i Taranto. Accanto a queste non vanno però dimenticate altre fazioni, come quella che faceva capo a Roberto de' Cabanni, forse meno famose per risonanza di nome, ma non meno potenti, che agivano o direttamente o accordando appoggio all'uno o all'altro dei contendenti. Non si può dire con assoluta certezza se il C. abbia avuto a corte una sua fazione e se, al di là del predominio che gli veniva dall'essere l'esponente della più antica famiglia napoletana, abbia esercitato questo privilegio, accresciuto dalle sue personali risorse, per manovrare la regina ai fini della nobiltà che egli rappresentava. La diversa evoluzione che ebbe il suo destino in confronto a quello di Roberto de' Cabanni che pure, secondo la voce popolare, aveva avuto un posto molto simile nel cuore di Giovanna, porterebbe a credere che nel C. più che nel Cabanni i sentimenti personali, in qualunque modo espressi, prevalessero sulle mire politiche.
Fu certamente il manifestarsi sempre più palese della simpatia che legava il C. alla regina a provocare le violente reazioni del popolo e a generare 0 avvenimenti del febbraio 1347 di cui egli fu principale e non certo positivo protagonista. Il C., infatti, che pure non sembra abbia partecipato più attivamente di altri alla morte di Andrea, seppure partecipazione vi fu, era, agli occhi dei Napoletani, colpevole di un legame non tanto illecito quanto inopportuno; fu così che proprio sotto le sue case situate nella piazza o borgo delle Corregge il 25 febbraio di quell'anno si recò una folla esagitata dalla vista di una "baneriam in qua depinserat regem Andream suspensum" (Cronicon siculum, p. 11), lanciando insulti "quae pro verecundia et pudore narrare non decet" (Cronicon suessanum, p. 72). Il C. subito sopraggiunto con i suoi fedeli - "plusquam centum" - acciuffato il capopopolo, un tal "Thomasius de Iacca aurifex" secondo alcuni, un "sutor caput artis" secondo altri, lo fece impiccare sul ponte di Castelnuovo.
Neanche queste circostanze valsero però a mutare l'atteggiamento protettivo di Giovanna che anzi, poco tempo dopo, il 19 apr. 1347, affidò al C. la prestigiosa carica di conte camerario arricchendola della rendita di ben 400 once. La nomina, che non era certo un modello di opportunismo politico in un momento così delicato per il Regno minacciato dall'incombente arrivo di Ludovico d'Ungheria, il quale, interessatamente appoggiato da alcuni elementi locali e desideroso insieme di vendicare il fratello e di riconquistare i mai abbandonati diritti degli Angiò d'Ungheria nel Regno, premeva ai confini dello Stato, "valde omnibus displicuit" (Cronicon suessanum, p. 72): a Luigi di Taranto che forse a quella carica aveva aspirato come veicolo per una più facile risoluzione delle sue mire matrimoniali, a Carlo di Durazzo e Roberto di Taranto che accusarono Giovanna di sperperare i beni dello Stato e di non occuparsi degli interessi del Regno.
All'approssimarsi delle avanguardie ungheresi la situazione precipitò; il 15 genn. 1348 la regina e il suo seguito, in cui primeggiava naturalmente il C., s'imbarcarono sulle galere marsigliesi diretti in Provenza, dove erano ad attenderli tutti i membri della nobiltà locale. Ma l'accoglienza non fu quella che Giovanna aveva certamente vagheggiato. Giunti ad Aix il C., il nipote Nicola ed altri nobili che avevano accompagnato la regina nella fuga furono arrestati e imprigionati con l'accusa di complicità nella morte di Andrea e solo l'intervento papale, che non è azzardato supporre vivamente sollecitato da Giovanna, permise al C. di non essere consegnato nelle mani di Ludovico d'Ungheria. Nel maggio, infatti, Clemente VI diede "mandatum Hugonis Rogerii... iuris civilis Professori, quatenus inquirens diligentius veritatem facias iustitiae complementum super deditione nobilium virorum Henrici Caraczoli, Nicolai Caraczoli, militum Hospitii Iohanne..." (in Baddeley, pp. 432 s.). Il processo velocissimamente istruito ed eccezionalmente portato avanti anche in tempo di festa, si risolse, com'era prevedibile, nel nulla; i baroni provenzali non seppero o non poterono addurre reali prove di colpevolezza, così come non aveva potuto farlo Ludovico d'Ungheria a una precisa richiesta del pontefice, e alla fine di luglio il C. venne liberato e largamente ricompensato con la concessione della contea di Gerace, che la regina gli donò con privilegio emanato a Marsiglia il 26 luglio.
Frattanto in Italia la situazione si era evoluta positivamente per Giovanna che, nell'agosto 1348, invocata dallo stesso popolo napoletano prima favorevole a Ludovico d'Ungheria presentatosi più come vendicatore di un'offesa personale che come conquistatore, poteva rimettere piede nel Regno mentre il C. riassumeva le funzioni di conte camerario svolte in sua assenza da Lalle Camponeschi fedele a Ludovico. Luigi di Taranto partiva invece per la riconquista della Capitanata lasciando libero campo d'azione al C. che il 12 marzo vedeva le sue rendite accresciute dei beni che Tommaso d'Aquino, conte di Loreto, accanito fautore del re d'Ungheria, possedeva nella città e nel territorio di Aversa. Il 17 marzo lo stesso Luigi e Giovanna gli confermarono le funzioni di camerario e conte di Gerace.
Fu questa l'ultima manifestazione della protezione reale verso il Caracciolo. Il 25 apr. 1349, infatti, Luigi di Taranto, che la presenza del favorito disturbava nei desideri di consolidare la sua personale posizione nel Regno, lo fece arrestare insieme con il figlio Antonio. Il C. fu condannato per adulterio; i suoi beni furono confiscati e tutti i poteri accentrati nelle mani di Luigi di Taranto e del gran siniscalco Niccolò Acciaiuoli cui fu conferita anche la signoria di Gerace e che forse non era stato del tutto estraneo alla decisione del re. Proprio questo sospetto armò, il 16 giugno 1350, la mano di Filippo, fratello del C., che nella piazza Capuana ferì per vendetta l'Acciaiuoli. Ma l'iniziativa di Luigi non risolse i suoi problemi né facilitò le sue aspirazioni, perché anzi lo privò dell'appoggio della nobiltà così duramente colpita nel suo esponente più rappresentativo ed esasperò i già tesi rapporti con la regina. Ancora una volta Giovanna sperò che l'intervento papale potesse salvare il favorito e intercesse per lui presso il pontefice; si spiega così, infatti, una lettera inviata da Clemente VI a Luigi di Taranto il 10 sett. 1349, in cui, nel discorso più generale volto a richiamare il re a una maggiore comprensione e benevolenza verso la regina, il pontefice inserisce un'aperta preghiera di clemenza per i prigionieri invitando Luigi "ipsius reginae consideratione... misericorditer agere et in eorum liberatione... eiusdem reginae condescendere voluntati" (Clément VI, n. 4245). Le fonti non dicono quale effetto abbia ottenuto l'azione papale, anche se l'assoluta mancanza di ulteriori notizie sul C. lo lascia facilmente immaginare; è certo però che una tale lettera è una testimonianza, indiretta ma indiscutibile, dell'intenso sentimento di Giovanna che non risulta scalfito neanche da una successiva, formale discolpa che la regina inviò al pontefice il 12 novembre "sub anulo secreto". Che l'amarezza fosse profonda e difficile da sopportare è invece testimoniato anche dal successivo atteggiamento della regina che nel 1363, non appena morto Luigi, si affrettò, quasi per una sorta di riparazione, a restituire al figlio del C., Antonio, evidentemente scampato alla morte, la contea di Gerace e sempre si mostrò verso di lui prodiga di favori e privilegi creandolo, tra l'altro, suo ciambellano.
Anche altri dei molti figli che il C. ebbe, secondo il Litta, da Fedrina del Tufo frequentarono la corte di Giovanna; tra questi il secondogenito Marino che raggiunse l'ambitissima carica di siniscalco del Regno.
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