SIBILIA, Enrico
– Nacque ad Anagni il 17 marzo 1861, in un’antica famiglia da sempre legata alla Chiesa, cui aveva dato illustri prelati.
Date le origini e l’ambiente in cui crebbe, la città dei papi, l’avvio agli studi religiosi fu immediato, prima al locale seminario poi, dal 1878, a Roma, presso il pontificio seminario romano. La sua via era tracciata e si completò con l’ordinazione sacerdotale a 23 anni e la laurea in filosofia e teologia. A 29 anni era pronto per assumere cariche nella Curia di Leone XIII, suo conterraneo e conoscente. E così fu: il papa lo introdusse al servizio diplomatico vaticano, che lo assegnò alla rappresentanza della S. Sede in Colombia come uditore. Era la prima delle diverse sedi latinoamericane in cui compì la sua lunga carriera diplomatica.
Il Sudamerica era terra cattolica come nessun’altra, ma per la Chiesa erano tempi duri: il clero era cronicamente scarso e la cultura religiosa delle masse assai superficiale. Le élites politiche e i ceti intellettuali erano divisi, ma buona parte di loro erano intrisi di ideali liberali e positivisti: volevano estirpare il retaggio ispanico e cattolico, convinti che inibisse lo sviluppo economico e la libertà politica. Come nei Paesi cattolici d’Europa, dunque, le tensioni tra Stato e Chiesa erano acute. Per la S. Sede il problema era aggravato dall’esistenza dell’istituto del patronato nazionale, privilegio per secoli riconosciuto alla Corona di Spagna. In breve, consisteva nel diritto dell’autorità regia di presentazione dei candidati alle cariche episcopali. Benché l’impero spagnolo fosse scomparso da un pezzo, gli Stati dell’area reclamavano quel diritto per tenere sotto controllo la Chiesa, consci del suo enorme potere su popolazioni in larga parte analfabete ed estranee per etnia e costumi al mondo delle élites. Il patronato era dunque fonte di ulteriori conflitti, risolti talvolta con modus vivendi di natura pacifica, ma altre volte assai acuti. Infine, le Chiese latinoamericane conservavano una forte impronta locale, tale in molti casi da rendere assai labile il legame con il centro della cristianità. Tanto che Leone XIII perseguiva in quegli anni un ambizioso piano di romanizzazione della cristianità in America Latina, destinato a culminare nel concilio latinoamericano del 1899.
Quel mondo complesso e ignoto fu quello che Sibilia conobbe nelle sue destinazioni giovanili, quando la sua posizione nel corpo diplomatico era ancora modesta e limitate, perciò, erano le responsabilità. In Colombia, la S. Sede aveva all’epoca appena una delegazione apostolica, ma nel Paese regnava una cronica instabilità politica e Sibilia toccò con mano le sfide che un cattolicesimo forte e tradizionale affrontava per effetto della diffusione degli ideali liberali. Anzi, scoprì che tanto più forte e radicale era l’anticlericalismo quanto più esteso e assoluto era stato il predominio della religione e del clero. Ciò ne rafforzò la già naturale propensione all’intransigenza e la determinazione a riscattare la cristianità in pericolo.
Maturata una solida esperienza a Bogotà, dove rimase oltre sei anni, Sibilia fu promosso a uditore di seconda classe e trasferito ai primi del 1898 a Rio de Janeiro, dove si fece le ossa sostituendo il nunzio a capo della rappresentanza durante le sue lunghe assenze dal Paese. L’esperienza brasiliana fu assai più breve e quieta di quella colombiana, dove le tensioni religiose erano più forti. Anche in Brasile, però, dove il positivismo era assurto a religione civile delle élites e la costituzione aveva separato Chiesa e Stato, Sibilia si batté per difendere le prerogative religiose della S. Sede e maturò le ragioni del revanscismo cattolico cui aderiva.
Nel 1901 fu destinato, per appena un anno, alla nunziatura di Bruxelles e da lì a Madrid, dove era richiesto un esperto del mondo ispanico e buon conoscitore della lingua: vi rimase sei anni.
Ma le sedi in cui affrontò i maggiori scogli della sua carriera diplomatica e i nodi politici e religiosi della sua epoca furono quelle successive, dove ormai era titolare: il Cile prima e l’Austria tempo dopo. A Santiago del Cile, dove la S. Sede aveva da poco elevato la sua rappresentanza al grado di internunziatura, lo volle inviare Pio X, che lo nominò nel 1908. Le autorità gli prestarono una buona accoglienza, ma l’attendevano tempi duri. Non poteva essere altrimenti: per sua formazione e per il pontificato che rappresentava; Sibilia incarnava la révanche cattolica contro la diffusione del liberalismo, sia come filosofia politica, sia come metodo di governo. Nei Paesi ispanici ciò attentava alla tradizionale fusione tra Stato e Chiesa, tra politica e religione, alla prassi dello Stato cattolico secondo cui la legge positiva doveva corrispondere alla legge di Dio. La separazione dei due ambiti non poteva esservi indolore e infatti non lo fu, come Sibilia scoprì in fretta sulla sua pelle.
Ben presto si trovò al crocevia e obiettivo naturale degli scontri tra conservatori e radicali: gli imputarono di interferire nella vita politica violando le norme del patronato, di privilegiare il clero peruviano a discapito di quello cileno in un’annosa disputa di frontiera e altre cose ancora. La sua azione pastorale presso le popolazioni autoctone dell’Araucania gli attirò ulteriori ostilità dai locali proprietari terrieri. La rigidità, prossima alla pedanteria, con cui egli talvolta difese le prerogative formali di cui soleva godere la Chiesa, non gli attrasse simpatie.
Quando rientrò in Cile dopo un soggiorno in patria, trovò ad accoglierlo una marcia di studenti inferociti che assaltarono a colpi di pietre la sua carrozza e l’edificio della nunziatura. I cattolici scesero in piazza a difenderlo, così il nunzio si trovò al centro dei conflitti intestini dei cileni, cosa che la diplomazia vaticana non poteva vedere di buon occhio. Anche in Parlamento subì duri attacchi per le stesse ragioni e nemmeno i deputati cattolici, in quel caso, presero apertamente le sue difese, per timore di passare per ultramontani e di essere accusati di infedeltà alla patria. L’accusa di ultramontanismo Sibilia se l’era attirata anche con la decisione di affidare il seminario di Santiago ai gesuiti, così da riportarlo alla piena ortodossia. Alla fine, quando Roma lo richiamò nel settembre 1913, molti sospettarono fosse per pacificare gli spiriti. Pare che lo stesso governo cileno ne chiedesse il ritiro.
I nove anni trascorsi da allora al successivo incarico diplomatico furono per taluni il purgatorio che gli toccò scontare per i guai di Santiago, ma per altri si dovettero solo alla coincidenza tra la guerra e l’assenza di adeguate sedi vacanti. Fatto sta che quando nel febbraio 1923 arrivò la nomina, fu a Vienna, prestigiosa capitale di una piccola nazione, quel che rimaneva del glorioso impero della monarchia cattolica austriaca. Era una promozione? Oppure una destinazione di ripiego? Comunque sia, a Vienna Sibilia rimase ben tredici anni e visse in prima persona le convulse fasi postbelliche, le grandi tensioni politiche, la crescente pressione per l’unificazione con la Germania.
A Vienna Sibilia portò a conclusione i negoziati in corso da tempo per la stipula di un concordato. Il testo definitivo, approvato nel 1933, lo soddisfece appieno, poiché in sostanza ribadiva che lo Stato austriaco era uno Stato cattolico. Ciò rinsaldò i suoi rapporti con le autorità statali e con il governo, ma comportò anche che, nel clima polarizzato del Paese, risultasse inviso alle opposizioni: sia quelle socialdemocratica e liberale, sia quella nazionalsocialista, in forte crescita.
In tal modo, Sibilia visse a Vienna quel che gli era stato precluso a Santiago: la speranza di vedere risorgere un ordine politico cristiano, sotto la guida del cancelliere cattolico Engelbert Dollfuss, con il quale ebbe uno stretto rapporto personale e spirituale. Per Sibilia, come per l’intero fronte cattolico intransigente del tempo, Dollfuss si erse a modello di governante cristiano: sostenitore di un ordine corporativo e nemico della democrazia e del liberalismo, devoto esecutore dei fondamenti dottrinali della Chiesa in campo sociale e in campo morale. Si capisce perciò che il suo assassinio, il 25 luglio 1934, colpisse Sibilia negli affetti e negli ideali. Fu come se il suo mondo, a 73 anni, tramontasse di colpo, benché mantenesse una stretta collaborazione con lo Stato corporativo e cattolico austriaco fino alla fine del suo mandato a Vienna, nel giugno 1936.
Dopo di allora, ricevette gli ultimi e più elevati onori di una lunga carriera al servizio della S. Sede: nel 1935 fu insignito della porpora cardinalizia e l’anno successivo, rientrato dall’Austria, Pio XI gli assegnò la direzione delle congregazioni dei Religiosi, del Cerimoniale e quella degli Affari ecclesiastici straordinari. Nel 1939 fu tra i protagonisti del conclave che elevò il cardinale Eugenio Pacelli al soglio pontificio con il nome di Pio XII.
Morì il 4 agosto 1948 nella stessa città in cui era nato, ad Anagni, all’età di 87 anni. Era il decano del collegio cardinalizio.
Fonti e Bibl.: E. Sibilia, Korrespondenz, Wien 1933; S. Sibilia, Il cardinale E. S. Un diplomatico della Santa Sede (1861-1948), Roma 1960; J.G. Heise, Historia de Chile. El Periodo Parlamentario 1861-1925, Santiago del Cile 1974, pp. 223-237; F. Jankowiak, La Curie romaine de Pie IX à Pie X: Le gouvernement central de l’Eglise et la fin des Etats pontificaux (1846-1914), Roma 2007; M.L. Grignani, En pro de la Religión y de la dignidad humana. Las fuentes chilenas de la encíclica «Lacrimabili statu Indorum» de Pío X y la solicitud pastoral de la Santa Sede, in Teología y Vida, 2013, vol. 54, n. 2, pp. 339-374.