ENVIRONMENT
Environment come stimolazione sensoriale. Environment come riflessione sull’abitabilità. Environment come segnale politico. Bibliografia
Il termine environment indica, nell’arte visiva contemporanea, un’opera che ha le dimensioni di un ambiente e che avvolge il visitatore, distinguendosi per questo dalle installazioni, che occupano lo spazio in modo parziale. All’inizio degli anni Duemila questa pratica si è diffusa sia nell’ambiente interno sia in quello esterno, raggiungendo accezioni molto vaste: la definizione, introdotta da una mostra del 1961 a New York presso la Martha Jackson Gallery (Environments, situations, spaces), articolata dal punto di vista teorico da Allan Kaprow in un testo del 1966 (Assemblage, environments & happenings), si presenta dunque come una parola-ombrello, anche se le opere che vi rientrano condividono alcune caratteristiche: insistono sulle variabili percettive generate dalla grande dimensione; tendono a influenzare il comportamento e le sensazioni dello spettatore; ne stimolano la partecipazione; sono concepite per un determinato luogo (site-specific) o contesto (context-specific); utilizzano materiali di qualsiasi natura; sono orientate a una ricaduta sociale. Quest’ultima caratteristica, legata alla sensibilità ecologica e quindi all’attenzione per lo stato del pianeta, connota la maggior parte degli e. dei primi anni Duemila. Questi sono in parte di nuova concezione, in relazione a dispositivi tecnologici quali computer e connessioni telefoniche, ma portano avanti quanto è stato impostato negli anni Sessanta.
Si può ipotizzare che lo sviluppo dell’opera nell’ambiente, chiuso o aperto che sia, derivi dal drastico cambiamento che si è avuto in tempi sempre più accelerati riguardo al modo di concepire l’ambiente stesso: attraverso mezzi come la luce elettrica, Internet, tipologie di lavoro sempre meno legate a orari standard, ma anche causa di inquinamento e violenze sulla natura, l’uomo ha assunto consapevolezza della sua posizione attiva nel costruire o distruggere lo spazio, nonché delle relazioni dello spazio con il corpo e con lo scorrere del tempo. In questo senso tutte le riflessioni sviluppatesi nel Novecento attorno al soggetto in relazione al suo contesto, fino al pensiero di Gaston Bachelard sulla spazialità e di Maurice Merleau-Ponty sulla corporeità, oltre a tutti gli scritti sull’ecologia e sulla necessità di porre rimedio ai ritmi del capitalismo, da Thomas Pikketty a Serge Latouche e Paolo Virno, possono essere considerati fonti rilevanti. Altrettanto importanti sono state le sperimentazioni tecnologiche che hanno avuto luogo in centri come lo ZKM (Zentrum für Kunst und Medientechnologie) di Karlsruhe, la Science Gallery di Dublino o le aree espositive del MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, nonché in alcuni musei di carattere scientifico dove sono state sperimentate installazioni immersive. In termini teorici questo settore sta sviluppando una sua letteratura che parte dalla scuola di Marshall McLuhan e giunge fino a Derrick de Kerckhove, Lev Manovich, Michael John Gorman e così via.
Non si possono comunque dimenticare alcune premesse poste all’inizio del 20° sec.: l’espansione dell’opera nello spazio teorizzata nel 1912 dal futurista Umberto Boccioni; l’esplosione del quadro in un ambiente vissuto, come testimonia il Merzbau o Cattedrale della miseria erotica (1923-44) del dadaista Kurt Schwitters; il passaggio dalla decorazione murale al quadro che si dilata nella scatola architettonica, come nell’Ambiente di musica di Vasilij Kandinskij per l’esposizione di Berlino Juryfreie (1922) e nell’Ambiente dei Proun (1923) di El Lissitskij; l’utilizzo di movimento e luce, come nel Modulatore di luce e spazio (1922-30) di László Moholy-Nagy che gettava ombre cangianti sulle pareti. Andavano in tale direzione anche i primi veri allestimenti di mostre, di cui Marcel Duchamp fu pioniere: si pensi ai sacchi di iuta che pendevano dal soffitto e a molti altri accorgimenti ambientali che, in qualità di générateur arbitre, realizzò nella Exposition internationale du Surréalisme (Parigi 1938). Possiamo dire che l’evoluzione, nei primi anni Duemila, del curatore in quanto figura autoriale, capace di concepire le sue mostre non come susseguirsi di opere discrete, ma in quanto tutto unitario, può intendersi come uno sviluppo collaterale dell’e. come opera.
Solo gli artisti del secondo dopoguerra, però, hanno incominciato a realizzare e. in modo continuativo. I protagonisti di allora hanno continuato a perfezionarsi e a proporre soluzioni nuove, che si sono confrontate con quelle nate da artisti di generazioni successive e con le riletture critiche del primo Novecento.
Environment come stimolazione sensoriale. – Un primo tipo di e. che ha avuto largo sviluppo e straordinaria continuità fino al presente è quello che cerca di offrire allo spettatore sensazioni inconsuete, disorientanti, catalogabili nell’ambito del sublime kantiano in quanto superano la soglia della comprensione razionale. Gli artisti hanno agito anzitutto sulla stimolazione del rapporto spazio-lucemovimento, generando uno spiazzamento del riguardante fondato su una sfida all’apparato percettivo e al suo modo automatico di strutturarsi. Fondativi in questo senso, e oggetto di rivalutazioni recenti, sono stati gli studi di György Kepes (suo l’influente Arts of environment del 1972) che hanno proseguito quelli nati al Bauhaus con Moholy-Nagy e le teorie sulla percezione visiva di Rudolf Arnheim. Contestualmente, molti artisti si sono indirizzati verso la cosiddetta Arte cinetica e programmata basata sulla gestalttheorie. Tra questi hanno creato e. il venezuelano Jesús-Raphael Soto, il francese Victor Vasarely, il Groupe de recherche d’art visuel (GRAV) a Parigi e il gruppo Zero di Düsseldorf.
In Italia, grazie anche all’influenza di Lucio Fontana che propose la prima opera ambientale con luce elettrica nel 1949, dalla fine degli anni Cinquanta hanno lavorato su queste premesse il Gruppo T, Piero Manzoni, Enrico Castellani, il Gruppo N e altri artisti di area postinformale.È del 1964 la Strutturazione cinevisuale abitabile concepita da Gianni Colombo a Parigi, presso il Musée des arts décoratifs del Louvre, un ambiente che metteva in evidenza la fragilità delle consuetudini percettive. Un anno di svolta della tendenza ambientale fu il 1967, quando si tenne la mostra Lo spazio dell’immagine a Foligno focalizzata sul rapporto tra arti visive e spazi. Paolo Scheggi con Intercamera (1967) e Getulio Alviani con Interrelazione speculare curva (1967) precisarono una direzione connotata dalla prevalenza del progetto impersonale su ogni aspetto autobiografico.
Queste esperienze, a lungo dimenticate, sono state riproposte in molte esposizioni nel corso degli anni Dieci del nuovo secolo: si pensi allo Spazio elastico di Gianni Colombo, ricostruito alla Biennale di Venezia del 2013. Le realizzazioni più stupefacenti sono state quelle che hanno ampliato le valenze emotive della luce, usata soprattutto da artisti californiani quali Doug Wheeler, Robert Irwin e James Turrell. Questi, in particolare, ha perfezionato i suoi Ganzfeld, campi di luce in cui viene simulata una parete grazie a una lama uniforme di colore. Più ci si avvicina a essa, più ci si rende conto che non si tratta di un muro solido e che la superficie luminosa nasconde un’ulteriore stanza. L’e. più significativo di Turrell è un work in progress iniziato nel 1979 e non ancora terminato nel 2015 (benché talvolta visitabile): il Roden Crater, un vulcano spento in Arizona che viene di anno in anno trasformato aggiungendo ambienti che inducono alla meditazione e alla relazione con la natura, il cielo stellato, il cosmo intero.
L’insistenza sull’aspetto polisensoriale è stata lungamente indagata da Bruce Nauman con stanze accecanti, corridoi strettissimi, muri di garza, dispositivi architettonici che inducono a sentirsi aggrediti da emozioni prelogiche quali l’ira, la precarietà o la paura, anche in installazioni ridotte al solo aspetto sonoro con lamenti e grida. L’artista ha vinto il Leone d’oro alla Biennale di Venezia nel 2009 per un’operazione che, oltre a una mostra personale nel padiglione Stati Uniti, prevedeva anche la trasformazione di vasti ambienti nelle due università, Ca’ Foscari e IUAV, in e. in cui le voci di studenti, emanate da altoparlanti, marcavano il passare del tempo immergendo il visitatore in un insieme di ripetizioni ossessive.
Un modo per parlare dello spazio come ambito in cui si riflettono le nostre ossessioni è stato quello della giapponese Yayoi Kusama (n. 1929), attiva già dagli anni Sessanta, ma guardata con molta attenzione solo nei primi anni Duemila. Nei suoi ambienti la percezione del pubblico viene colpita da colori esasperati, pallini, superfici specchianti, configurazioni ossessive, ripetizione infinita dello stesso pattern, come il pubblico ha potuto apprezzare soprattutto nella retrospettiva alla Tate Modern di Londra nel 2012.
La riscoperta degli ambienti concepiti con spazio e luce si deve anche al successo di alcune operazioni simili da parte di artisti più giovani. Tra questi il più noto è The weather project (2003) del danese Olafur Eliasson (n. 1967) presso la Tate Modern di Londra, che ha avuto circa due milioni di visitatori: si trattava di un sole artificiale che, sorgendo e tramontando, trasformava il museo in una sorta di spiaggia. L’aria era umidificata da una mistura di zucchero e acqua, mentre il disco solare era composto da centinaia di lampade monocromatiche che irradiavano luce gialla. Il soffitto della hall era coperto da un enorme specchio su cui si riflettevano i visitatori, cosa che favoriva comportamenti giocosi e socievoli. L’artista ha poi esteso il suo modo di operare anche a teorici, architetti, artigiani di varia natura, dando al suo lavoro un’impronta sociale. Nel suo studio lavora una trentina di architetti e nel 2009 ha fondato l’Institut für Raumexperimente. La sua attenzione allo spazio ha assunto anche risvolti sociopolitici, per es. attraverso la creazione di piccoli girasoli di plastica, con un pannello solare incorporato, da diffondere nei Paesi in cui è difficile trovare energia elettrica così come in quelli in cui l’ambiente è messo in pericolo da un forte uso di derivati del petrolio a fini energetici.
Molti artisti hanno utilizzato elementi di stimolazione sensoriale che vanno oltre la luce e il movimento. Si pensi al bar che il tedesco Tobias Rehberger (n. 1966) ha installato stabilmente presso il Palazzo delle esposizioni della Biennale di Venezia nel 2009, dove pareti e arredi sono tutti connotati da superfici basate sul dazzling: un tipo di camouflage molto acceso, con colori acidi e patterns distorti, creato per motivi militari durante la Prima guerra mondiale: impedisce infatti di ricostruire a occhio nudo la distanza di una nave. Le sfere della sensibilità a cui Rehberger fa appello sono quelle dell’equilibro, della cenestesi e della configurazione dell’orientamento.
In altri casi, come quello del brasiliano Ernesto Neto (n. 1964), l’e. stimola l’olfatto: nei suoi ambienti, che contengono enormi quantità di spezie o altre sostanze odorose, ci si ritrova immersi in un’atmosfera separata da quella della vita quotidiana, dato accentuato sovente dal fatto che l’artista costringe a camminare su pavimenti morbidi.
In altri casi sono state create sensazioni di oppressione attraverso un’azione sull’architettura: la colombiana Doris Salcedo (n. 1958), nel 2006, ha abbassato una volta di mattoni in una sala del Castello di Rivoli, occludendo alla vista la parte alta delle finestre, in modo da rendere l’ambiente scuro, depressivo, sinistro, agendo sui risvolti psicologici del buio e del chiuso.
Il senso su cui l’artista insiste può essere il tatto, come nel caso della performance con cui l’anglo-tedesco Tino Sehgal (n. 1976) ha partecipato a Documenta 13 (This variation, 2012): il visitatore entrava all’interno di un luogo buio in cui faticava a orientarsi e dove sentiva passi, sussurri, voci, ma soprattutto veniva toccato da altri esponenti del pubblico o da uno dei 20 performers che animavano l’ambiente con una danza.
Anche l’aspetto acustico ha acquisito nel tempo sempre maggiore importanza. Tra gli altri, Janet Cardiff (n. 1957) e George Bures Miller (n. 1960) hanno realizzato opere in cui lo spettatore si trova a percorrere un luogo seguendouna narrazione. È, per es., accaduto nell’itinerario inventato per la mostra Documenta 13, dove si percorreva la stazione di Kassel con la guida di uno schermo portatile e di una voce in cuffia. Vero e fittizio si fondevano fino a trasformare un ambiente reale in un e. irreale e animato da un vissuto onirico e fortemente emotivo.
Sensazioni di pericolo, disagio, sconfinamento dalle possibilità di sopravvivere sono comuni negli ambienti del brasiliano Cildo Meireles (n. 1948), fatti di suoni, vetri rotti sui quali i visitatori sono costretti a camminare o passerelle che conducono nel vuoto; allo spaesamento che generano i suoi ambienti l’artista intende conferire una valenza sia politica sia poetica.
Environment come riflessione sull’abitabilità. – Un altro dei temi di rilievo nell’ambito dell’e. è quello dello spazio in quanto luogo abitabile dal corpo. Dagli Igloo di Mario Merz, iniziati nel 1967 e proseguiti fino alla sua morte (2003), fino alle installazioni percorribili di Jannis Kounellis in cui troviamo letti, armadi, alimenti (si ricordi il labirinto Atto unico, Milano 2006), quasi tutti gli artisti collegati al gruppo italiano dell’Arte povera si sono confrontati con la tematica dell’abitabilità, elaborata in termini esistenziali e legati non più a un progetto impersonale, ma al dipanarsi dell’energia vitale. Nel suo lavoro Michelangelo Pistoletto, dai Quadri specchianti dei primi anni Sessanta, è giunto a un rispecchiamento del mondo intero, in termini anche pratici, nel microcosmo produttivo che ha instaurato con la nascita e l’espansione dal 1996 della Cittadellarte in un complesso di ex filande a Biella; l’obiettivo si è sempre più spostato sui valori della natura e della convivenza, come per il progetto Coltivare la città (2014) teso a ricongiungere architettura, vita urbana e agricoltura con i risvolti ecologici di questo proposito, dal proteggere la biodiversità al reintegrare i rifiuti nel ciclo produttivo.
Come si vede, alla riflessione sulla vita domestica si può affiancare quella sull’abitare nello spazio aperto e sottoposto alle dinamiche sociali. Un elemento da tenere a mente è come in questo senso si rifranga e si modifichi l’idea classica di monumento, con una nuova visione dell’interferenza tra opera e spazio sociale. Un esempio saliente è quello di Claes Oldenburg, che già nel 1960 presentò alla Martha Jackson Gallery l’e. The Street, un’installazione a cielo aperto con un tenore ironico e politico attorno allo spazio pubblico. Nel 1961 l’artista affittò un negozio che trasformò nell’opera The Store come critica al consumismo. Il suo lavoro nello spazio pubblico ha continuato ad avere uno sviluppo anche con la collaborazione della moglie Coosje van Bruggen, giungendo alla realizzazione di opere nell’ambiente urbano come Ago, filo e nodo (2000) a Milano e la Paint torch (2009) a Filadelfia: si tratta di oggetti quotidiani enormemente ingigantiti, realizzati per assecondare il gusto comune e al contempo per criticarlo. Una prosecuzione di tale poetica si trova negli interventi per lo spazio pubblico di Jeff Koons (n. 1955), come l’enorme Puppy (ingrandimento di un cagnolino di pelouche) realizzato con piantine vive e installato di fronte al Guggenheim Museum di Bilbao (1992-95).
Più interessante risulta comunque il filone che tocca la relazione arte-città-natura, in cui è incluso il ciclo produttivo. Alcune tappe salienti: nel 1965 Alan Sonfist ha realizzato un parco urbano al Greenwich Village di New York; nel 1982 Agnes Denes seminò sempre a Manhattan, in un’area lasciata vuota dalla speculazione, un campo di grano dimostrativo; dagli anni Novanta numerosi progetti di ‘guerriglia urbana’ hanno portato alla trasformazione di aiuole e cortili abbandonati in orti spesso anonimi. Tra questi, è significativo il progetto di installazioni artistiche sulla West Side Line a New York, costruita negli anni Trenta e abbandonata nel 1980. Dal 1999 i residenti si sono riuniti in un’associazione per evitarne l’abbattimento e aiutando la sua trasformazione in un parco urbano con continua esposizione di opere all’aperto. Grazie al progetto degli architetti Diller Scofidio+Renfro, nel 2009 ne è stata aperta al pubblico una prima tranche e nel 2014 l’ultima. Con circa cinque milioni di visitatori l’anno, l’area è diventata un parco in cui si alternano continuamente progetti artistici a forte valenza ambientale e civica.
Environment come segnale politico. – Interconnesso a questi aspetti è dunque un vasto interesse per la natura e l’idea di sostenibilità dell’ambiente. Per comprenderne lo spirito dobbiamo risalire a quando, nel 1968, l’artista Robert Smithson organizzò presso la Dwan Gallery di New York la mostra Earth works, in cui tutte le opere erano rappresentate da testimonianze fotografiche di lavori creati nella natura. Solo allora stava nascendo la coscienza dei pericoli ai quali lo sviluppo espone il pianeta. Questo suggerimento è stato ed è largamente accolto dalla Land art (il termine è stato offerto dal titolo del film del 1969 in cui Gerry Schum documentò opere di Michael Heizer, Robert Smithson, Richard Long, Dennis Oppenheim, Barry Flanagan e Marinus Boezem). Si noti come questa definizione, traducibile con «arte del territorio», sia simile ma non sovrapponibile all’Earth Works, che significa «arte fatta con la terra» e dove l’enfasi è più incentrata sui materiali.
Da allora la nuova consapevolezza ambientalista si è associata anche all’idea che l’arte debba porsi come agente politico e non solo autoreferenziale (l’art pour l’art): come ha messo in evidenza Rosalind Krauss già in Sculpture in the expanded field («October», Spring 1979, 8, pp. 30-44), la rigidità della scultura modernista ha sortito un desiderio opposto, quello di dare alle opere caratteristiche mobili e disposte in un ‘campo esteso’.
In questo senso l’e., connesso ai precedenti, ha a che fare con l’opposizione all’aspetto commerciale del sistema dell’arte, in cui le opere di natura oggettuale si trasformano spesso in prodotti facili da mercificare; questa reazione si ribalta anche contro i musei, considerati templi di una validazione culturale che aiuta quella mercantile: siamo nell’ambito di quella che, nei suoi sviluppi dei primi anni Duemila, è stata definita critica istituzionale (v. arte: Critica istituzionale). Sol LeWitt, Lawrence Weiner, Joseph Kosuth, Art&Language, Daniel Buren, Marcel Broodthaers sono stati pionieri nell’utilizzare l’e. per depotenziare la trasformazione dell’opera in bene di consumo e molti artisti dell’area definita concettuale hanno continuato a lavorare in tal senso. Tra questi ricordiamo Dan Graham con i suoi padiglioni di vetri semispecchianti o Richard Serra con enormi spirali oblique di metallo arrugginito.
Se il capitalismo vuole oggetti da vendere, criticarlo significa anche proporre strutture troppo grandi e troppo semplici da proporre al mercato. Recentemente le tematiche ambientali hanno trovato anche un incrocio con aspetti legati alla relazione forte/debole. L’opera ambientale può quindi diventare il simbolo e l’indicazione di una possibile, più vasta operatività politica, di cui si daranno qui alcuni esempi particolarmente significativi.
Lo statunitense Theaster Gates (n. 1973) per i suoi Dorchester projects ha acquistato a partire dal 2008 alcuni edifici abbandonati di Chicago per farne centri di aggregazione e di servizio: all’interno trovano spazio cucine, biblioteche, archivi musicali e residenze per artisti che riattivano una zona vittima della crisi. Lucy e Jorge Orta (n. rispettivamente nel 1966 e nel 1953) hanno organizzato performance collettive che includono creazioni di abiti, cibi, suppellettili in modo collettivo e tale da aumentare i legami umani. Uno dei risultati di tale ricerca di un ambiente umanamente ed ecologicamente sostenibile è stata la creazione di un complesso di residenze volte a uno stile di vita essenziale nella vallata lungo il fiume Grand Morin, in Francia. La statunitense Andrea Zittel (n. 1956) ha parimenti esteso il concetto di e. passando dalla creazione di cellule di sopravvivenza per stili di vita individuali, spesso costruite in piccole roulotte come quelle esposte a Documenta X nel 1997, alla fondazione di un villaggio per l’ospitalità e la vita all’aperto in California. Dopo avere comprato un primo appezzamento di terreno nel 2000, vi ha costruito la propria abitazione e vi ha distribuito negli anni servizi e capsule di alluminio che svolgono la funzione di tende per dormire o isolarsi. Il progetto, intitolato A-Z West, prevede momenti comunitari in cui si rafforzino sia i legami umani sia quelli uomo-natura. Il performer thailandese Rirkrit Tiravanija (n. 1961) ha sviluppato, dal 1998, il progetto The Land in una vasta area agricola in Thailandia, accogliendo principi tradizionali per la coltivazione del riso. L’ambiente è stato attivato dal lavoro di altri artisti e architetti: la cucina è nata dalle discussioni con Kamin Lertchaiprasert, Superflex e Tobias Rehberger, in altre parti dell’appezzamento sono intervenuti artisti quali Pedro Lapas, Atelier Van Lieshout, Philippe Parreno e altri. Negli anni il territorio si è popolato di costruzioni che stanno tra la grande scultura e un’architettura di sussistenza. Il proposito è sia quello di costruire una comunità, sia quello di restituire al luogo la sua dignità di ecosistema produttivo.
Artiste come Aviva Rahmani (n. 1955) e Rosalie Gas coigne (1917-1999) hanno messo in relazione l’ecologia con il femminismo, creando sculture di spazzatura e rifiuti da reinserire in aree rurali. Patrice Stellest (n. 1953) ha trasformato in sculture dei dispositivi per la creazione di energia solare. Marjetica Potrč (n. 1953) ha creato una serie di opere agendo su aree coltivabili e realizzando sistemi per l’utilizzazione dell’acqua piovana, di fonti di energia alternative e un modo per trasformare i giardini urbani in aree di impegno e incontro collettivo. La Semeuse (dal 2011), per es., ad Aubervilliers, è una piattaforma dove l’artista coordina attività di scambio di semi provenienti da molte parti del mondo, in favore della biodiversità e, simbolicamente, anche della molteplicità di culture umane chiamate a convivere in un solo ambiente.
Sarah Sze (n. 1969) porta in ambienti soprattutto interni il risultato di attività come queste, volte alla resilienza delle culture tradizionali e al riuso dei nuovi rifiuti urbani. Le sue installazioni, di cui si è avuto un esempio nel padiglione degli Stati Uniti alla Biennale di Venezia del 2013, trasformano in ambienti formalmente compositi e suggestivi il risultato di interazioni sociali e naturali (in quel caso con la comunità che ruota attorno al Bronx Museum of the arts).
Beverly Naidus (n. 1955) ha dato luogo ad ambienti in cui l’attivismo politico si incrocia con la ricerca scientifica: in Eden reframed (dal 2011), per es., ha creato una comunità basata sulla cultura condivisa dei vegetali, dove vengono coltivati funghi, piante medicinali e commestibili. La sua attività ha anche un risvolto didattico-teorico. Sollecitati dal riscaldamento globale e da altri cambiamenti dovuti all’utilizzo di energia, altri artisti si sono rivolti sistematicamente alla sperimentazione di fonti di energie alternative, come Andrea Polli (n. 1968) con il suo Queensbridge wind power project, un ponte in cui sono state incorporate delle turbine per dare illuminazione al circondario.
L’e. come luogo di indagine del vissuto soggettivo, insomma, convive con l’e. come ambito di impegno sociale. In entrambi i casi la tecnologia gioca un ruolo importante e gli esperimenti della cosiddetta Net art o Computer art (v. internet art) in questo senso, più che essere interessanti in quanto tali, si sono rivelati un aiuto a realizzazioni che fanno della tecnica un mezzo e non un fine virtuosistico. Sarà comunque sullo sviluppo tecnologico che, probabilmente, si fonderà un prevedibile ulteriore ampliamento di questa critica allo spazio espositivo come white cube asettico e mero contenitore.
Bibliografia: R. Krauss, Passages in modern sculpure, London 1977 (trad. it. Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land art, Milano 1998); Land and environmental art, ed. J. Kastner, London 1998 (trad. it. Land art e Arte ambientale, London 2004); J.C. Wildy, Defining environmental art, Master of art history, University of Adelaide, Adelaide 2010; P. Osborne, Art space, in Anywhere or not at all. Philosophy of contemporary art, London-New York 2013, pp. 133-73.