EPIGRAMMA (gr. ἐπίγραμμα)
Epigramma, secondo il valore della parola greca, vuol dire iscrizione, e dallo scopo poetico di lasciare il ricordo d'una vita, d'un'impresa, d'un'offerta, ecc., nacque questo breve componimento letterario che poi ebbe tanta fortuna per tutta l'età classica. Il significato che prese poi la parola epigramma, quale piccolo componimento mordace, appare solo in età romana, e pare derivi da influsso dello spirito satirico dei Latini; certo nel periodo romano si fanno più frequenti in greco tali epigrammi, veramente epigrammatici, che sono nel periodo anteriore rarissimi.
Letteratura greca. - Età classica. - Il mondo antico, in cui fu vivo il senso della pubblicità, ebbe particolarmente caro di lasciare nelle iscrizioni memoria di sé, incidendovi quasi la propria storia; e di dare all'iscrizione, per aiuto della memoria e per quell'istinto d'arte che nei greci è sempre vigile, la forma armoniosa della poesia. L'origine di questo genere si perde naturalmente nel buio della preistoria: la tradizione, che non vuol lasciare spazî in penombra, attribuisce epigrammi già a Omero, anzi all'età eroica cantata da Omero. Ma i più antichi che abbiano autorità, o che si leggano su lapidi o oggetti, sono al massimo del sec. VII a. C. Semplici, severi, concisi, chiusi molto spesso in un solo esametro o in un distico che dice l'occasione, il voto, il ricordo del defunto, gli epigrammi dei primi secoli hanno la stilizzazione austera dell'arte arcaica. L'autore non vi appare; gli antichi sentono squisitamente questa poesia fatta di parole brevi e solitarie che suonano solenni e discrete, come da un'immensità lontana, senza che si sappia chi le proferisce e che lasciano nell'anima il senso religioso del mistero. Per i Greci classici l'epigramma non appartiene al poeta, ma al popolo; non è letteratura, ma forma di vita. Gli storici antichi riportano di solito i distici epigrammatici, anche i più mirabili e gloriosi, che le età seguenti si sono ripetuti come cose perfette, senza il nome dell'autore. Queste ragioni spiegano perché tanti epigrammi antichi siano senza nome o abbiano attribuzione incerta, e perché ai più famosi poeti dell'età classica si siano attribuiti epigrammi che ad essi sono contestati validamente dalla critica. Essi del resto non si curavano di raccoglierli, e la tradizione ebbe libero campo di attribuire queste piccole e squisite opere di cesello poetico agli autori da lei preferiti.
Così ad Archiloco, a Saffo, ad Alceo, ad Anacreonte, a Bacchilide, a Cleobulo, a Pisandro, a Pitagora, a Empedocle, sono attribuiti epigrammi che tradiscono quasi tutti origine più tarda. Ad Archiloco si diede l'onore di avere per primo usato per l'epigramma il distico elegiaco che, come piccola strofe, chiude artisticamente il pensiero quasi in conio di medaglia. Gli epigrammi attribuiti ad Archiloco sono però di dubbia autenticità; è certo tuttavia che il distico elegiaco rimarrà il metro preferito dell'epigramma, per tutte le età, benché se ne siano composti, oltre che in soli esametri, in trimetri giambici, tetrametri trocaici e più raramente in altri più complessi metri. Maestro dell'epigramma nell'età classica fu senza dubbio Simonide di Ceo e si comprende come, per la sua indiscussa maestria nello scolpire robusti epitafî e argute offerte votive, gliene siano poi stati attribuiti assai più di quanti ne componesse, e come la critica, che giustamente restrinse il numero di essi, sceverando quelli che, per indubbie ragioni, sono spurî, abbia poi esagerato sino al punto di negare l'autenticità di quasi tutti, togliendo così il modo di spiegare perché egli propriamente sia stato da tutta la tradizione considerato l'artefice sommo dell'epigrammistica classica. Negli epigrammi suoi, o dell'età sua, di cui molti abbiamo anche in reali epigrafi, è scolpito massimamente il forte rilievo dell'eroismo antico, in iscrizioni che sulla tomba del defunto consacrano l'offerta della vita per la patria: e le età delle guerre persiane e del Peloponneso offrirono i momenti più solenni a questi austeri encomî. Ma le occasioni di tale poesia, pubbliche e private, si fanno ormai molto varie, e a ciascuna il poeta sa piegare ingegnosamente il suo genio inventivo. Il senso della misura, dell'armonia e del giusto risalto artistico, che sono in quest'età sovrani, fanno di tali piccoli componimenti veri capolavori, e già qualche poeta, come Ione di Chio (v. fr. 1 Diehl), sente l'orgoglio di chiudere nel distico epigrammatico anche il proprio nome; primo accenno, nella fine dell'età attica, di una prepotente coscienza individuale manifestantesi pure in quella forma poetica che più amava il fascino dell'impersonalità.
Età alessandrina. - Nell'età alessandrina, in cui tutto diviene letteratura e libro, anche l'epigramma cambia carattere. Non già che non si continuino a fare iscrizioni metriche anonime, ma esse sono più spesso opera di mestieranti. Ormai si comincia dagli eruditi, come Filocoro e Polemone, a raccogliere gli antichi epigrammi dalle pietre, dai bronzi. E i letterati, essi pure, raccolgono le proprie, se le recitano con fine compiacenza e ne fingono le occasioni, le offerte, i lutti; variando i generi in piccoli quadri o bozzetti che con l'iscrizione hanno ormai un rapporto assai tenue; sì che, per un passaggio assai naturale e per la fusione dei generi letterarî, propria di quell'età, prende nome di epigramma ogni poesia breve conchiusa, lavorata con paziente virtuosità d'artista. L'epigramma ormai è il sonetto delle letterature classiche: più che altro, una forma, un'occasione d'arte. ogni materia poetica può così divenire epigramma: compianti, sorrisi, ironie, lamenti amorosi, battute di dialogo, offerte pure o voluttuarie, spunti di polemica letteraria, in un artistico contrasto d'intenzioni dotte e di espressioni ingenue, di complicazioni sentimentali e di commenti scettici. In essi i poeti scrivono spesso la storia delle loro giornate fuggevoli, nella notazione rapida dell'attimo. E "poema dell'attimo" si potrebbe veramente chiamare l'epigramma alessandrino. L'anima ellenistica, che non ha passioni profonde e durevoli, si trova a suo agio in quella brevità limata e arguta.
La storia dell'epigramma è ormai, per gran parte, la storia della lirica ellenistica; perché il tempo quasi solamente gli epigrammi ci ha conservati tra i componimenti più propriamente lirici e soggettivi di quell'età. Tracciare questa storia non è facile, perché parecchi epigrammi sono di varia attribuzione, e di molti poeti nulla o quasi nulla sappiamo e la cronologia stessa è spesso incerta. Tuttavia qualche corrente si può indicare e delineare qualche figura più notevole di poeta. Caratteristico di quest'età è che appariscano sin dai primi tempi varie poetesse di epigrammi. Una precorritrice era stata Erinna sulla fine dell'età precedente, e Meleagro, che raccolse nella sua Corona gli epigrammi dell'età anteriore e della sua (Anth. Pal., IV,1), ricorda per primi i gigli di Anite e di Miro e i giaggioli di Nosside, accanto alle rose di Saffo. Anite di Tegea, la poetessa d'Arcadia, pare quasi la creatrice dell'epigramma bucolico e campestre, che ebbe tanta fortuna in quell'età, ed è tra i più delicati artefici dell'epigramma ellenistico. In quei suoi epigrammi che ci fanno sentire il murmure di una fonte (Amh. Plan., 228,291) o il pianto di una fanciulla per la morte del grillo (Anth. Pal., VII, 190) è un lieve incanto d'arte pronto a dileguare; ma che per un attimo ci rinfresca l'anima col suo lieve profumo di religione campestre, con i suoi paesaggi appena accennati, che attingono la loro grazia da quell'intima poesia di ricordi e di rimpianti che ciascuno chiude in cuore. È una poesia fatta, si può dire, con nulla, un poco scarna e pur nitida nella linea dell'immagine, melodiosa e pura nel suono del verso. Nosside, la poetessa di Locri italica, si proclama la nuova Saffo (ibid., VII, 718) ed ha qualche calda voce d'amore. Ad Anite si riconnettono, fra gli altri, Mnasalca, Nicia, l'amico di Teocrito, e lo stesso Teocrito, che se ne ricordò probabilmente anche negli Idillî. La poesia d'amore, di dissipazione, di avide gioie, solcate spesso da una ruga melanconica, che è propria di quell'età, ebbe i suoi principali poeti, nel primo periodo dell'età ellenistica, in Asclepiade, Posidippo, Edilo, che pare costituiscano un cenacolo letterario, con i suoi dulcia vitia di poeti dotti, ma anche con novità di spiriti moderni, nel darci ad ora ad ora le notazioni della propria vita interiore. Callimaco fu considerato, nella sua età, e più tardi ancora, il maestro dell'epigramma alessandrino e trattò veramente questo genere con rara eleganza, concisione e arguzia, sebbene con una certa aridità di sentimento che è di lui propria sempre. Alceo di Messenia, vissuto nell'età della Lega etolica, è degno di essere ricordato, soprattutto perché quasi il solo in cui la passione politica, nei suoi contrasti con Filippo V di Macedonia, abbia trovato qualche eco in quest'età in cui per l'ultima volta la Grecia crede di tenere in pugno il destino della propria grandezza. Leonida di Taranto si rivela nei suoi epigrammi il poeta degli umili e degli amari sorrisi velati di lagrime. Errante e sbattuto per il mondo greco, una simpatia delicata d'artista lo fece il più incisivo interprete della vita degli oscuri, di cui seppe, nella densa brevità di un'iscrizione funebre, di un'offerta, di un voto, di un lamento, rappresentare le esistenze faticose, visitate a tratti da gioie fuggevoli. Nei suoi epigrammi ci appare tutta una folla brulicante di figure di pescatori, di artigiani, di cacciatori, di filatrici, di auletridi; mondo popolaresco e rustico in penombra, che era in gran parte sfuggito all'antica poesia, intesa a magnificare le idealità più luminose della vita classica. Nessuno meglio di lui ha saputo renderci l'eutanasia di un vecchio bifolco (Anth. Pal., VII, 731), o un bozzetto quasi romantico di mestizia pastorale (ibid., VII, 173). E l'ultimo saluto (VII, 715) che manda alla sua patria lontana, alla sua Italia luminosa e rimpianta, è ancor ora pieno di poesia. Meleagro, nato a Gadara, la piccola città siriaca presso il lago Tiberiade, chiude l'età ellenistica con una squisita nota di grazia voluttuosa. Nessuno più di lui rese il sapore di quell'ellenismo orientale che lento sfiorisce, quasi inconsapevole, nella gioia della sua dolce vita decadente e dell'arte sua matura e deliziosa. Le figure delle donne da lui amate, dai nomi armoniosi e dai caldi fascini sensuali, prendono vita nuova nella poesia ellenistica. Zenofila ed Eliodora sono tra le pochissime creature d'amore che veramente esistano, per diritto d'arte, nelle molte migliaia di versi della passione erotica alessandrina. I suoi piccoli mimi drammatici della gelosia (v., p. e., Anth. Pal., V, 175,182) sono, nei loro rapidi scorci espressivi, più moderni di certe scene di Menandro. Ma soprattutto il suo pianto d'amore sulla tomba della sua perduta Eliodora (VII, 476) ha una commozione ardente e pura che par quasi precorra la moderna passione di Catullo. Giunto alla fine di un'età poetica, Meleagro ne raccolse i fiori in quella Corona di epigrammi che, se non fu la prima delle raccolte del genere (ché i papiri egiziani ce ne rivelarono altre preesistenti), fu certo tra le più famose e il nucleo più antico della nostra Antologia Palatina (v. antologia). In essa, insieme con le sue "mattutine viole", ci conservò i fiori più odorosi dell'epigramma greco nel periodo classico e alessandrino.
Età romana e bizantina. - Nei due periodi precedenti l'epigramma aveva, si può dire, esaurite tutte le varie espressioni della vita antica. Ben poco vi poterono aggiungere le età seguenti, in cui i poeti non fanno di solito altro che ripetere, parafrasare o variare lievemente i temi divenuti ormai consueti. Fra i poeti più noti dell'età romana, l'epicureo amico di Orazio e di Virgilio, che oltre agli aridi scritti filosofici conservatici dai papiri della biblioteca di Ercolano, ci lasciò in ben torniti epigrammi, eleganti notazioni di vita sensuale. Di Crinagora, vissuto alla corte di Augusto, è notevole qualche epigramma di genere macabro. Benché non abbiano molto rilievo artistico, meritano di essere ricordati Antifilo di Bisanzio, Antipatro di Tessalonica, Parmenione, Filippo di Tessalonica, il quale ultimo fu antore di una nuova Corona che continuò e ampliò quella di Meleagro. Lucillo è tra i pochi che prediligano la musa mordace; simile, per più rispetti, al romano Marziale.
Anche meno originale è l'epigramma bizantino, giuntoci nella raccolta di Agatia, la quale, come le altre, entrò a far parte dell'Antologia Palatina. Egli stesso fu autore di epigrammi che hanno certo nitore d'arte in un'età di decadenza. Fra questi poeti Pallada di Alessandria, vissuto fra gli stenti di una vita di grammatico prezzolato, nella ormai stanca poesia epigrammatica fece sonare qualche nuova voce di dolore, di pessimismo, di tristezza pensosa che in quell'età travagliata ha un'eco non volgare. Ma il migliore di tutti e il più famoso è Paolo Silenziario. Poeta dotto di cenacolo e di corte, piega il suo epigramma a tutte le occasioni e si compiace di emulare i più illustri modelli antichi. Non di rado in questa gara si sente l'ingegnosità e la fiorettatura bizantina, piuttosto che la semplice virtù creativa degli aurei tempi della poesia greca. Ma la sua sensualità, ora audace, ora stanca e melanconica, l'amore travagliato e combattuto hanno alcuni riflessi nuovi nell'arte antica. Con Gregorio di Nazianzio l'epigramma riceve intonazioni, se non fresche ispirazioni cristiane.
Edizioni: La maggior raccolta di epigrammi letterarî si trova nell'Antologia greca palatina, le cui edizioni vedi alla voce antologia. Le iscrizioni conservate negli scrittori greci sono raccolte da Th. Preger (Inscriptiones Graecae metricae e scriptoribus praeter Anthologiam conlectae, Lipsia 1891); quelle conservate sui monumenti da G. Kaibel, Epigrammata Graeca ex lapidibus conlecta, Berlino 1878, con l'appendice in Rhamisches Museum, 1879, p. 18 segg.; e da E. Hoffmann, Sylloge epigrammatum Graecorum quae ante medium saeculum a. Chr. n. tertium incisa ad nos pervenerunt, Halle 1893; v. anche F. Hiller v. Gaertringen, Historische griech. Epigramme, Bonn 1928. Un'interessante scelta di epigrammi metrici e letterarî è in J. Geffcken, Griech. Epigramme, Heidelberg 1916. Molte iscrizioni non sono nelle raccolte, perché scoperte posteriormente, e continuamente se ne scoprono.
Letteratura romana. - Le più antiche iscrizioni epigrammatiche furono dettate in versi saturnî: specialmente famosi sono gli epitafî degli Scipioni (Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., 30, p. 16; 32, p. 18; 33, p. 19; 34, p. 20). L'uso di questo metro nelle iscrizioni durò fino ai tempi di Accio, benché Ennio avesse già dato l'esempio di adoperare il distico elegiaco. Poi per gli epitafî si usarono di preferenza gli esametri, i distici, più di rado i senarî giambici, i settenarî trocaici, altri metri ancora. Gli epitafî di Nevio in metro saturnio, di Ennio in distici, di Plauto in esametri, di Pacuvio in senarî giambici, sono notissimi anche per la questione dibattuta della loro autenticità. Molte iscrizioni sepolcrali sono mirabili per delicatezza di sentimento e per semplicità di espressione. Gli elogia entrarono nella letteratura con Varrone. Questi raccolse nelle Imagines settecento ritratti di uomini illustri e adornò ciascuno di essi di un'iscrizione metrica che ne celebrava i meriti: ce ne restano due, quella per Omero in senarî giambici (in Gell., Noct. Att., III, 11, 6) e quella per Demetrio Falereo in endecasillabi (Non., p. 848 L). Anche Attico compose elogia non dissimili, così pure, come pare, Cn. Ottavio Titinio Capitone e L. Aurelio Avianio Simmaco, il padre dell'oratore. Altri esempî sono nell'Anthologia Latina del Riese, n. 831 segg.
Ma i Romani, sotto l'influenza della letteratura alessandrina, tentarono tutte le forme di epigramma ch'erano state usate dai Greci, specialmente l'epigramma erotico e satirico. L'epigramma perdette così il suo antico carattere d'iscrizione e fu giustamente definito il più breve dei componimenti lirici. Pure non pochi epigrammi furono raccolti in libro da iscrizioni monumentali, altri invece dai libri furono incisi su monumenti: di ambedue i casi ci offrono esempî i Priapea.
I tre più antichi scrittori di epigrammi furono, come sembra, Valerio Edituo, Porcio Licino, Q. Lutazio Catulo. Edituo dovette essere il più vecchio dei tre, Licino fiorì verso la fine del sec. II, Catulo nacque verso il 150 e morì l'87.
A questi tre poeti si deve aggiungere un tal Papirius (?), di cui Varrone (De lingua lat., VII, 28) ci ha tramandato un grazioso epigramma, e T. Quinzio Atta, di cui ci resta un esametro (Non., p. 298 L). Anche di questo tempo è un epigramma di due distici scoperto nel 1883 a Pompei sopra una parte di parete dell'Odeon: è il n. 934 della raccolta del Bücheler.
Più numerosi sono gli scrittori di epigrammi nell'età ciceroniana. Il maggiore di essi è Catullo (v.): qui basti ricordare che la gran maggioranza dei suoi epigrammi è di carattere satirico, che gli altri sono di carattere erotico, che infine gli epigrammi satirici sono di argomento letterario, civile, erotico e politico. Per la prima volta con Catullo e coi poeti della sua scuola l'epigramma si muove in un campo così vario. Di Catullo abbiamo una cinquantina di epigrammi; poco invece ci resta degli altri poeti del suo tempo, come Furio Bibaculo (v.) e G. Licinio Calvo (v.). Poco o nulla c'è rimasto degli epigrammi di Cicerone, di Cinna, di Ticida, di Cornificia, sorella del poeta Q. Cornificio, di Cassio Parmense, di Voltacilio Pitolao. Qualche altro nome si potrebbe raccogliere da Gellio (Noct. Att., XIX, 9,7) e specialmente da Plinio (Ep., V, 3,5), che nel suo elenco comprese in gran parte scrittori di epigrammi. Infine ci restano alcuni epigrammi in latino e in greco di Tullio Laurea, liberto di Cicerone, e di Q. Mucio Scevola, figlio dell'augure.
I due maggiori poeti di epigrammi dell'età augustea furono Albinovano Pedone e Domizio Marso. Degli epigrammi del primo non ci resta nulla, il secondo ne scrisse una raccolta intitolata Cicuta: il titolo indicava, come pare, la virulenza dei versi. Di questa raccolta Filargirio ci ha conservato un epigramma in distici contro Bavio e suo fratello: è incerto se ad essa appartenessero anche i due distici per la morte di Virgilio e di Tibullo, che nei codici si trovano dopo le elegie di Tibullo, il verso contro Orbilio (Suet., Gramm. 9), quello contro Q. Cecilio Epirota (id., 16) e l'emistichio citato da Diomede lI, 319 K.). Ma che Marso e Pedone fossero i più celebrati poeti del genere si rileva da Marziale. Questi scusa la licenziosità dei suoi versi con l'esempio degli scrittori più letti: Marso, Pedone, Getulico (Epigr., I, praef.), ne scusa anche la lunghezza con l'esempio di Marso e di Pedone (II, 77,5). In un altro epigramma (V, 5) lo stesso Marziale prega Sesto, segretario di Domiziano, di accogliere benevolmente i suoi epigrammi e di metterli nella biblioteca insieme con quelli di Pedone, di Marso e di Catullo. Forse Marso era ancora più celebre dell'altro, perché Marziale in due luoghi (II, 71 e VII, 99) nomina lui solo accanto a Catullo e riconosce la superiorità di entrambi negli epigrammi, ma specie perché lo ricorda come maestro del genere: Vergilius non ero, Marsus ero (VIII, 55,24).
Altri scrittori di epigrammi appartennero a questo tempo. E prima di tutti ricordiamo l'imperatore Augusto che scrisse un breve libro di epigrammi. Marziale (XI, 20) ce ne ha conservato uno di carattere osceno. Un altro epigramma, che H. Hagen (in Rhein. Mus., 1880, p. 569) pubblicò col nome di Ottaviano Augusto dal cod. Bern. 109, appartiene invece al Medioevo. Anche Mecenate si provò in questo componimento letterario: forse appartenevano ad epigrammi anche altri dei suoi frammenti. Infine scrissero epigrammi anche i poeti maggiori dell'età augustea. A Virgilio sono stati attribuiti epigrammi da Donato (Vita, p. 736 H.) e da Servio (Praef. ad Verg. Aen., p.1,8 Th.): in quanto poi al Catalepton, a cui nei codici sono aggiunti tre priapea, si sa che la sua autenticità è molto discussa. Anche due priapea sono ascritti a Tibullo. Degli epigrammi di Valgio ci è rimasto un endecasillabo, di quelli di Ovidio sicuramente due versi e qualche frammento incerto. A Ovidio si deve attribuire anche il terzo epigramma dei Priapea. Sono in gran parte dell'età augustea gli epigrammi del Corpus priapeorum (v. priapei).
Fin qui abbiamo parlato dell'epigramma come componimento a sé, ma non di rado i poeti augustei mescolarono epigrammi nel corpo delle loro opere: si tratta quasi sempre di epitafî o d'iscrizioni dedicatorie. Così, p. es., le Naiadi incidono sulla pietra sepolcrale di Fetonte un'iscrizione di due versi (Ovid., Met., II, 327-28), Tibullo include nella terza elegia del primo libro (55-56) il suo epitafio, Enea scolpisce sullo scudo di Abante un'iscrizione votiva (Verg., Aen., III, 288), Properzio dopo i favori della sua bella accompagna con un epigramma i suoi doni a Citerea (II, 14,27-28).
Nel primo secolo dell'impero seguitò la fortuna dell'epigramma, anzi è di questo periodo il più grande poeta di epigrammi della letteratura latina, lo spagnolo Marziale (v.). Con questo poeta l'epigramma acquista il carattere così determinato da Frontone: novissimos in epigrammatis versus habere oportet aliquid luminis (p. 212 N.). Di Marziale abbiamo quindici libri di epigrammi, in tutto poco meno di diecimila versi. Invece ci resta ben poco degli altri poeti: qualche epigramma di Germanico, figlio di Druso, di C. Asinio Gallo, di Seneca il filosofo e forse qualche altro di Petronio; nulla di Lucano, nulla di Cn. Cornelio Lentulo Getulico, nulla di Plinio il Giovane (il n. 710 dell'Anth. Lat. è forse la traduzione di un epigramma di Arrio Antonino). Alcuni scrissero anche epigrammi in greco, come p. es. Germanico e Arrio Antonino. Degni di ricordo sono anche gli epigrammi, anonimi di necessità, che furono scritti contro gl'imperatori: ce ne dà qualche esempio Svetonio.
Nel secondo secolo, così povero di poesia, scrisse epigrammi l'imperatore Adriano, nella fine del terzo fiorì Pentadio, di cui ci restano tre epigrammi. Più numerosi, ma quasi tutti privi di genio artistico, sono gli scrittori di epigrammi degli ultimi secoli. Più di cento epigrammi ci ha lasciati Ausonio, di diversa estensione e in vari metri, ma per lo più in distici elegiaci: ve ne sono anche in greco, come pure in latino e in greco insieme. Gli argomenti sono varî: invettive, aneddoti, descrizioni d'opere d'arte, ecc. Non mancano le oscenità. Non pochi di essi sono tradotti dall'Antologia Palatina. Numerosi epigrammi fanno parte dei carmina minora di Claudiano. Di argomento religioso sono le iscrizioni e gli epigrammi di Damaso (i componimenti autentici sono una sessantina, per lo più in esametri, alcuni anche in distici elegiaci), di Prudenzio (il Dittochaeon), di Paolino (Epist., 32), di Prospero d'Aquitania, che espresse in forma poetica molte sentenze dommatiche e morali di Agostino e combatté i nemici di Agostino e gli eretici. Infine nel cosiddetto codice Salmasiano insieme con molti epigrammi adespoti ve ne sono di quelli attribuiti a poeti del sec. V e del VI, e fra questi il più notevole è Lussorio.
Letterature medievali e moderne. - Le maniere delle letterature classiche si possono più o meno, per l'epigramma, rintracciare tutte anche nelle due principalissime medievali, la bizantina e la latina, donde passarono alle moderne. Dell'epigramma bizantino si è detto (v. sopra), come si è detto degli scrittori cristiani latini che scrissero epigrammi: più noti quelli di Damaso e Ausonio. Fra i molti scrittori che continuarono Ausonio vanno particolarmente notati, oltre quelli già nominati, Magno Felice Ennodio (473-521), vescovo di Pavia, delle cui poesie un intero libro è di epigrammi, misti di materia sacra e profana, alcuni per iscrizioni su edifizî e oggetti, altri invece motteggevoli o satirici; Venanzio Fortunato (tra il secolo VI e il VII), vescovo di Poitiers, che compose epigrammi anche su una chiave d'argento, su una sala conviviale, ecc.; ed Eugenio (a mezzo il sec. VII), vescovo di Toledo, il quale ha epigrammi commemorativi, satirici, gnomici.
Non è il caso di parlare delle favole esopiche, degli enigmi, di altri componimenti, che nel Medioevo si confusero spesso con l'epigramma, più o meno intenzionalmente. E le relazioni tra le miniature e sculture e i versi dichiarativi, ci trarrebbero del pari in un troppo lungo discorso. Da un lato la tradizione greca si manteneva naturalmente nella cultura ecclesiastica latina; dall'altro si ritornava ogni tanto agli esemplari dell'epigramma latino classico, quali si avevano in citazioni di Cicerone e d'altri scrittori di retorica, oppure nell'appendice alle opere di Virgilio, oppure in Catullo, ecc., in alcune biografie, e più specialmente in Marziale. Questi (talora curiosamente detto il Cuoco, per gli epigrammi gastronomici) fu noto a molti; e quando nel sec. XIV si rimisero in luce i testi classici, fu perfino copiato in parte (gli Spectacula) dal Boccaccio.
La difficoltà ai letterati del Medioevo di sceverare la sovrabbondante e confusa produzione epigrammatica antica può essere attestata in più modi; per es. fu attribuito a san Paolino (forse Paolino vescovo di Béziers, sui primi del sec. V) un poemetto di centodieci esametri, Epigramma, dialogo satirico contro i costumi gallo-romani. Col Rinascimento umanistico si ebbe il desiderio e il modo di un'approssimativa distinzione: numerosi epigrammisti si ebbero allora, con Maffeo Vegio, con Francesco Filelfo, col Campano; ma soprattutto col Poliziano e con Luigi Alamanni, i quali, l'uno per il greco e per il latino, l'altro per l'italiano, aprirono fin dai secoli XV e XVI la via all'epigramma europeo.
Se infatti si risalga a questi due maestri, l'uno del classicismo greco-latino, l'altro della trasposizione di alcune forme classiche nella letteratura in volgare, si scorge subito l'azione loro così nei grecisti e latinisti moderni (tra i quali la scuola dei gesuiti diede una ricca fioritura nel Seicento e nel Settecento) come nei poeti colti delle diverse letterature iniziate all'arte nuova dall'italianismo. Andrea Navagero dava ogni anno alle fiamme un esemplare di Marziale; ma questi conservò piena efficacia, tanto sopra epigrammisti in latino, quanto sopra imitatori in italiano, francese, spagnolo, portoghese, inglese e tedesco; dal Pontano e dal Sannazaro a molti tra i recenti latinisti. Il Seicento e il Settecento avevano, di solito, preferito l'epigramma arguto, di cui tutto il senso convergesse nella punta; e di quella predilezione si eran fatti teorici, p. es., Antonio Sénecé in Francia (1643-1737) e Saverio Bettinelli ín Italia (1718-1808): alla fine del Settecento e nell'Ottocento si restituî all'epigramma un campo più largo; e più nettamente distinguendolo dal madrigale e dalla sentenza o massima morale, gli si conferì una migliore efficacia di condensata rappresentazione, o di asserzione appassionata, o di commemorazione monumentale. Senza rammentare singoli epigrammi famosi di autori che solo per una data occasione si servirono del verso per pungere o per esaltare (il Machiavelli contro Pier Soderini; Giambattista Strozzi e Michelangelo sulla Notte di questo; il Foscolo contro il Monti, ecc.); e neppure uscendo dalla sola memoria del titolo di operette come il Misogallo dell'Alfieri, dove hanno molta parte gli epigrammi; ci restringeremo a brevissimi cenni storici. L'arma agevole e rapida dell'epigramma fu sempre messa a profitto nelle contese d'ogni sorta; spesso confondendosi con la caricatura o associandovisi. Chi studia la storia della Riforma protestante sa l'importanza che vi ebbero le pasquinate (v.), tanto che se ne fecero speciali raccolte; e non vi fu battaglia né trattato su cui non si motteggiasse in versi. I tempi più commossi diedero sempre tali documenti cronistorici.
Per le ragioni sopra toccate, l'epigramma vero e proprio si suol far muovere, nelle letterature neolatine, da Luigi Alamanni (1495-1556); ma sarebbe facile la dimostrazione che innanzi a lui si ebbero molti che fecero epigrammi in versi quando o motteggiarono o sentenziarono moralmente (Garzo, Graziuolo de' Bambagliuoli, Francesco da Barberino, Fazio degli Uberti, Franco Sacchetti, ecc.), anche a prescindere, come è necessario di fare, dalle novelline in prosa e dalle vibrate frasi satiriche di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, dai motti in rima di Pietro Bembo, ecc. L'Alamanni, che usò il distico di endecasillabi rimati, se ne valse a deridere, a celebrare, ad ammonire, seguendo (spesso da vicino) esemplari antichi. Se si consulta l'Arte Poetica di Antonio Minturno (1563) si scorge nella larghezza programmatica (l'epigramma "motteggia, rimorde, punge, schernisce, biasima, riprende, ammonisce, conforta, loda, lusinga") l'impossibilità di separare nettamente l'essenza dell'epigramma, e spesso la forma, da quella del sonetto e del madrigale; ma già dalla stessa trattazione del Minturno appare la maggior forza che traeva l'epigramma alla satira o per lo meno al concettoso ammonimento. In ciò operava quel complesso di cause che si suol riassumere nel Secentismo (G.B. Marino, A. Abati, A.G. Brignole Sale, ecc.). Sempre più l'epigramma divenne un motto acuto, con effetti ora d'imprevista chiusa, e ora di rappresentazione comica, quando prevalse in Italia l'arte francese (S. Bettinelli, F. Pananti, che il più delle volte parafrasò dai Francesi, ecc.), in conformità a idee sostenute anche dal Voltaire.
Col neoclassicismo avemmo un tentativo, con G.G. De Rossi e altri, di procedere con migliore evidenza a raffigurare scenette, talvolta mitologiche, per chiudervi un pensiero ingegnoso. Tra i nostri che salirono in fama per codeste e altre prove epigrammatiche sono da ricordare L. Carrer, G. Capparozzo, P. Canal, Z. Re, C. Betteloni, il Montaspro (L. Merlini), ecc., avvertendo che il Giusti, il Niccolini, il Prati, il Carducci, quasi ogni altro che poetò colse da qualche occasione il destro di armarsene contro avversarî o di valersene a esaltazione della propria idealità. Anche il Leopardi, che tradusse epigrammi dal greco, va indicato perché voleva nella nostra poesia un ritorno a quel genere a lui molto gradito. Qui non è da trascurare che, in relazione alla voga in cui salì la cosiddetta poesia popolare, F. Dall'Ongaro, e parecchi intorno a lui, convertirono a epigramma il rispetto e lo stornello toscani, durante le speranze e le trepidazioni del risorgimento politico. G.M.
Nelle letterature straniere: a) Francia. - Sulla soglia del Rinascimento Mellin de Saint-Gervais e Clement Marot misero in voga per primi l'epigramma in Francia, risalendo, oltre l'Alamanni, direttamente a Marziale, ma atteggiandolo, specialmente il Marot, secondo quella causticità arguta e leggiera che è una delle caratteristiche dello spirito francese. La tradizione fu continuata poi, fra altri, da Charles Fontaine (Odes, Énigmes et Épigrammes, 1557), dal lionese Charles de Sainte-Marthe, da Jacques Peletier. Ronsard medesimo e Du Bellay ebbero presente, fra gli altri antichi, anche l'esempio di Marziale, di cui non disdegnarono di dare traduzioni. E più ancora il gusto per l'epigramma si diffuse dopo che al lirismo musicale e all'amore delle belle forme, trionfanti con la Pléiade, Malherbe ebbe sostituito la ricerca della parola esatta, concisa, calzante, juste et à sa place": fra i più fervidi cultori furono Maynard, che menava vanto d'aver "raffiné l'art de railler de bonne grace", G. Colletet (Epigrammes, 1653), Ogier de Gombauld (Épigrammes, 1657), Jacques de Cailly (Diverses petites épigrammes, 1667). Nella seconda metà del secolo l'imperversare delle querelles littéraires, da una parte, e, dall'altra parte, il dilagare di una elegante e fastosa vita mondana naturalmente piena d'ogni sorta di pettegolezzi e di rivalità, crearono poi all'epigramma un ambiente estremamente propizio; e dal gaio Scarron, che al caso lo sapeva rivolgere malinconicamente anche contro sé stesso, al fertile romanzatore Furetière; da Mademoiselle de Scudery alla dolce amica "des moutons et des brébis" Madame Deshoulières; dall'amabile galante piccolo Voiture al dotto erudito "savant qui parle d'un ton doux" Gil Ménage, dall'autore dell'Histoire amoureuse de Gaule, Bussy Rabutin, al mite Maucroix, quasi non ci fu poeta che non sia stato tratto ad appuntire in forma d'epigramma i suoi strali: e fra i più pericolosi a toccarsi, appunto per il modo come sapeva adoperare anche quest'arma, fu Racine. L'epigramma venne così assumendo sempre più aspetto di vero e proprio genere letterario, contemplato accanto agli altri generi letterarî in tutte le "arti poetiche": fatto argomento anche di trattazioni speciali, come quella nota anche fuori di Francia, del Senecé (Épigrammes et autres pièces, avec un traité sur la composition de l'Épigramme, 1717). Ché, se, in teoria, non molto tenero verso l'epigramma si mostrò, nell'Art poétique, il Boileau - L'épigramme plus libre, en son tour plus borné, N'est qu'un bon mot de deux rimes orné", - in realtà invece non soltanto ne divenne "uno dei maggiori maestri") e non mancò mai l'occasione di servirsene, ma precisamente nella tournure epigrammatica del suo stile trovò quella nettezza di taglio che fu una delle sue forze. E dopo di lui, per tutto il Settecento, l'epigramma - a fondo ora letterario, ora politico, ora sociale, ora morale - si rinnovò senza tregua, in una specie di getto continuo. Tutti vi ricorsero: Boursault, rivale di Molière, e Jean-Baptiste Rousseau, che spesso vi riflettè un po' l'acre amarezza dell'esiliato, ma ad ogni modo proprio negli epigrammi trovò la nota più immediata e personale; il grande voltaíre, di cui ogni bon mot correva l'Europa, facendo strage di rivali e nemici, e Piron "qui ne fut jamais rien, pas même académicien"; l'arguto borgognone Bernard la Monnaye e Ecouchard-Lebrun, "Lebrun-Pindare", che volle in ogni cosa essere imponente e anche di epigrammi compose sei libri; l'enciclopedico Marmontel e l'erudito storico Rulhière; il placido poeta delle Saisons Saint-Lambert e il rumoroso e battagliero Marie-Joseph Chénier. L'epigramma era, per così dire, nello spirito del tempo. Il prevalere di una mentalità intellettualistica, la generale tendenza della poesia alla didattica e alla satira, la saturità culturale che spontaneamente portava alla ostentazione dell'ingegnosità, facendo perdonare per un'arguzia anche una mala azione, il naturale amore dei Francesi per tutto ciò che è esprit, il generale tono parlato e conversato della letteratura, tutto spingeva verso questa forma letteraria. Invece l'onda di lirismo, che portò in seguito alla nuova romantica poesia, mal si poteva in tale forma contenere; e nel secoloXIX l'epigramma continuò a vivere e in tutte le contese letterarie rifiorì, ma usato essenzialmente come arma nelle sempre rinascenti polemiche.
b) Spagna. - In Spagna il gusto dell'epigramma si diffuse soprattutto nel sec. XVI: Diego Hurtado de Mendoza (1503-1575) ne fu abile e aggraziato compositore, tanto più che la leggiera e maliziosa brevità della composizione era consentanea al suo spirito acuto. Cristóbal de Castillejo, arcaicizzante e popolaresco, Antonio de Villegas, Baltasar de Alcázar, il più fertile e il più mordace, sono i migliori epigrammisti del Cinquecento. E la tradizione si continua nel secolo successivo, specialmente con i fratelli Argensola, e col Quevedo, nella cui varia produzione l'epigramma è una delle forme più rispondenti al suo stile satirico e conciso. Nel Settecento, accanto agli epigrammi di Juan de Iriarte, di Juan Interián e di Cadalso, eccellono per grazia e per sottigliezza quelli di José Iglesias e quelli di Nicolás Moratín, celebri per la loro perspicuità espressiva e la popolarità dei temi. In seguito l'epigramma si rifugia nelle letterature dialettali: notevole la raccolta di epigrammi catalani (Barcellona 1879), trascelti da un centinaio di autori.
c) Inghilterra. - L'umanista francese Etienne Pasquier accenna di essersi dedicato alla composizione dei suoi sei libri di epigrammi latini sull'esempio di Tommaso Moro. L'epigramma latino era in realtà in grande voga nell'Inghilterra del Rinascimento; e Tommaso Moro, già traduttore insieme con William Lily di epigrammi dell'Antologia (Progymnagmata 1506), fra le alterne vicende della vita, spesso si compiacque ricorrervi per dare espressione a quel sentimento di tristezza per le incerte sorti degli uomini, che lo accompagnò nell'esistenza anche nei momenti del massimo splendore. Di comporre epigrammi latini si dilettò, fra l'uno e l'altro sballottamento dell'instabile destino, fra l'uno e l'altra opera di storia e di poesia, anche George Buchanan; e John Owen, Johannes Audoenus, nella seconda metà del secolo e al principio del Seicento, ne compose non meno di dodici libri (Epigrammata, 1606-1612): tradotti molte volte - da John Vicars (1619), da R. Hayman (1628), da Thomas Peeke (1619), da Thomas Harvey (1677) e dallo stesso Cowper - e molte volte imitati in patria e fuori di patria, specialmente in Olanda e in Germania, per più di un secolo e mezzo, fino a Lessing.
Né minore fu in quella medesima epoca la tradizione dell'epigramma in lingua inglese. Ce ne sono pervenute infatti numerose raccolte d'argomento vario, ora letterario ora morale o religioso, e non sempre opera di poeti minori, come R. Crowley (The one and thirty Epigrams, 1550), Th. Kendall (Flowres of Epigrams, 1576), E. Guilpin (Skialatheya or a Shadov of Truth in certains Epigrams and Satires, 1578), J. Davies (Epigrams and Elegies, 1590), Th. Bastard (Seven Books of Epigrammes, 1598), John Weever (Epiorammes in the oldes Cut and nerdest Fashion, 1599: celebri per taluni riferimenti a Shakespeare), H. Parrot (Charakters, Epigrams, Epitaphes, 1626), Fr. Thynne (Emblemes and Epigrammes, 1600), J. Heath (Two Centuries of Epigrams, 1610), R. Sharpe (Moor fooles 7!et, 1610), G. Taylor (The Scoller... or Gallionaphry of Sonnets, Satires and Epigrammes, 1612), R. Braitwaite (A Strappado for the Dwell, 16I8), J. Martin (Newe Epigrams, 1619), J. Harington (Epigrams, 1625): anche John Heywood fu tra i più fervidi cultori del genere (A dialogue conteining a number of effectuall Proverbs... with six hundred Epigrams, 1562), e dopo di lui Ben Jonson (Epigrams, 1616) e, soprattutto, Robert Hewick, il quale vi trovò una delle spontanee forme della sua lirica, e sembra, nei momenti migliori, rivaleggiare per grazia con gli epigrammi greci dell'Antologia. Nella seconda metà del Seicento - malgrado singoli esempi che ne diedero, fra altri, il Waller, il Denham, il Cowley e lo stesso Dryden - un proprio epigramma accompagnò il D. anche alla raccolta Epigrams (1650) dell'amico J. Haddesdon - la tradizione dell'epigramma parve affievolirsi: in realtà però lo si vede riaffiorare spesso in più vaste composizioni di carattere satirico e moraleggiante, nelle quali s'inserisce quasi a sintesi e suggello di pensieri prima svolti. Si venne così preparando quella che sarà, nei riguardi dell'epigramma, la caratteristica del settecento: in cui da Parnell e Prior a Young e a Goldsmith molti furono i poeti e scrittori che ne diedero qualche saggio - anche Swift e Addison e Pope e Johnson - ma solo per incidente; e d'altra parte invece il tono epigrammatico diventò uno degli elementi essenziali dello stile, cosicché non pochi componimenti poetici - ad esempio di Pope, il quale fu di questo stile il grande maestro - si presentano quasi come una trama di epigrammi insieme riuniti in svolgimenti di più ampia e distesa espansione. Tale tendenza a mescolare l'epigramma in altre forme di poesia persistette poi anche in seguito - e se ne incontrano in abbondanza anche in commedie e operette di tono popolaresco - oppure condusse a un accoppiamento dell'epigramma con la caricatura, offrendovi l'humour inglese una sorgente inesauribile. Invece all'epigramma, come forma letteraria a sé, quasi nessuno si volse. Qualche epigramma s'incontra bensì nelle opere della maggior parte dei poeti dell'Ottocento; ma ha sempre nell'opera stessa un carattere secondario e incidentale: il maggior cultore dell'epigramma in tutto il secolo fu Walter Savage Landor, il quale però, lasciato l'epigramma di lingua inglese, amò riprendere la tradizione umanistica, scrivendo i più e i migliori dei suoi epigrammi in latino.
d) Germania. - La storia dell'epigramma ha avuto invece in Germania uno svolgimento diverso, perché, quando l'Umanesimo lo introdusse nella letteratura - Sabäus, Euricius Cordus, Grudius ne furono tra i primi cultori in lingua latina - esso si venne a inserire in una tradizione di forme analoghe già esistenti, quello dello Spruch e della Priamel. In principio, nei saggi dati in lingua tedesca da Lobwasser, da Weckherlin, esso non si differenzia sostanzialmente da quello, in generale, del Rinascimento: Opitz stesso, trattandone nella Poeterei e componendone direttamente in latino e in tedesco, ha davanti a sé come modelli Marziale e Owen; e ai medesimi modelli, o all'Antologia, o a modelli italiani e francesi s'ispirano per lo più anche gli altri compositori di epigrammi di quel tempo, dentro e fuori delle due scuole di Slesia numerosissimi: Czepko, Rist, Fleming, Laurenberg, Moscherosch, Tscherning, Gryphius, Greflinger, Hofmannswaldau, ecc. Già allora tuttavia si avverte, insieme col progressivo scostarsi dalla lineare nitidezza classica per il crescente grosso barocchismo del gusto, un particolare insistere di tendenze religiose e moralistiche, che spesso ne rendono grave il tono, accentuandone il lato satirico-descrittivo o didattico: nei suoi 3000 Teutsche Sinngedichte (1654) Friedrich von Logau riuscì così a dare, in forme che non di rado hanno del popolaresco, un colorito quadro dell'agitata vita della sua patria dopo la guerra dei Trent'anni. Nella reazione contro il malgusto del secolo, Christian Wernicke, pur riattaccandosi a Logau per la serietà del contenuto satirico, cercò poi nuovamente di tornire i suoi epigrammi con classica politezza formale (Überschrifte oder Epigrammata, 1697), segnando l'orientamento a cui la poesia epigrammatica s'ispirerà più tardi, per buona parte del Settecento, all'epoca della "Aufklärung", con tendenze naturalmente illuministiche, sotto l'influenza francese: non solo presso i Gottschediani, fra i quali Aabrham Gotthelf Kästner, con i suoi quasi 2000 Sinngedichte (1755-1781) è di gran lunga il migliore; ma anche presso Hagedorn e Götz, presso Gleim e Goeckingk e Heine e Langbein e Tiedge e Boie: lo stesso Lessing, primo rivelatore dell'importanza di Logau e di Wernicke, nelle considerazioni sull'epigramma (zerstreute Anmerkunqen, 1771) ne dà una definizione di carattere esclusivamente formale, e, nel manipolo che egli medesimo ne scrisse, mira soprattutto alla sottigliezza arguta della "pointe" e alla nettezza di taglio della composizione. Ma un nuovo differenziarsi dell'epigramma tedesco da quello delle altre letterature non tardò a prodursi, negli ultimi decennî del secolo, col sorgere della nuova, moderna poesia. Alla teoria lessinghiana dell'epigramma Herder oppose difatti una teoria nuova, conforme alla sua concezione dell'origine lirica di ogni poesia: vi considerò secondarî l'intellettuale giuoco d'antitesi con la "pointe" finale, e richiese invece anche all'epigramma unità di stato d'animo e intimità d'ispirazione. L'epigramma si avviò così a diventare una piccola lirica. E se Herder stesso negli epigrammi suoi proprî non vi seppe ancora giungere, e anche i poeti del Göttinger Hain, il Bürger, il Voss, lo Stolberg, il Claudius restarono ancora per lo più nelle forme consuete, la sua teoria divenne presto realtà per opera di Goethe e di Schiller: negli Xenien il contenuto critico continua a far prevalere le forme della satira; ma negli altri epigrammi il rinnovamento di posizione spirituale è completo: la stessa forma del Sittenspruch, in cui Schiller talvolta resta chiuso, è da Goethe superata: nei Venetianische Epigramme, nelle poesie raggruppate sotto i titoli Epigrammatisch, Parabolisch, ecc., l'epigramma appare una vera e propria sintesi lirica, in cui l'ispirazione, riconoscendosi nella sua dialettica interiore, coglie la propria essenzialità e vi si acquieta. Nel corso del sec. XIX l'interesse per l'epigramma si distende e le varie tendenze s'incrociano: l'epigramma sentenzioso con intendimento morale è coltivato da Uhland, Eichendorff, Geibel, Heyse, Leuthold; l'epigramma satirico-politico prevale presso i poeti della giovane Germania: lo Xenion letterario e artistico è ripreso, oltreché dai poeti di tendenza neoclassica, anche da Kleist, e, più tardi, da Grillparzer; A.W. Schlegel, dilettandosi a pungere gli avversarî, si esercita anche nell'epigramma; Rückert s'ispira spesso alla poesia sentenziosa orientale; e la forma lirica goethiana risorge e rivive, ma solo con qualcuno dei poeti maggiori, con Platen, con Mörike - adattata al suo piccolo mondo - con Hebbel, con Nietzsche.
Bibl.: Per l'epigramma greco: E. Bignone, L'epigramma greco, studio critico e traduzioni poetiche, Bologna 1921; R. Reitzenstein. Epigramm und Scolion, Giessen 1893; id., in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI, col. 71 segg.; J. Geffcken, in Neue Jahrbücher, 1910. Per l'epigramma ellenistico v. anche C. Cessi, La poesia ellenistica, Bari 1912. Per Paolo Silenziario, v. A. Veniero, Paolo Silenziario, Catania 1916. Per l'epigramma bizantino: F. Santucci, in Atene e Roma, 1929, p. 161 segg.; F. Brecht, Motiv- u. Typengesch. d. griech. Spottepigrammas, Lipsia 1930.
Per l'epigramma latino: S. Piazza, L'epigramma latino, I, Padova 1898; R. Reitzenstein, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI, col. 96 segg.; A. Amante, La poesia sepolcrale latina, Palermo 1912; E. Galletier, Étude sur la poésie funéraire romaine d'après les inscriptions, Parigi 1922.
Per l'epigramma moderno si troverà un elenco di scritti in fine alla raccolta Epigrammi italiani scelti e ordinati da G. Mazzoni, Firenze 1896. Tra le pubblicazioni posteriori è notevole G. Rabizzani, L'epigramma in Italia, Firenze 1918. Per la Francia cfr. C. A. Sainte-Beuve, Sénecé, in Causeries du Lundi, XII, p. 202 segg. Lo scritto del Voltaire, Connaissance de la Poésie et de l'Étloquence, dove tratta dell'epigramma, è in Øuvres complètes, Parigi 1860, XVIII, p. 102 segg. Lo scritto di G. Leopardi in Scritti letterarî, Firenze 1899, I, p. 51 segg. Non sarebbe qui possibile rimandare per i singoli autori alle storie letterarie che ne parlano: sia sufficiente, data l'enorme importanza di Marziale, indicare (oltre le ricerche di R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV, Firenze 1905 e 1914) almeno J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, traduz. ital., Firenze 1899, I, p. 310 segg. Per farsi un'idea approssimativa della diffusione e della varietà dell'epigramma è sufficiente ripensare a Roma per i suoi monumenti (cfr., per es., H. Grisar, Roma alla fine del Mondo antico, traduz. ital., Roma 1930; L. Pastor, Storia dei papi, traduz. ital., Roma 1910-1931) o anche alla sua vita borghese e popolana rispecchiata da G. G. Belli, e, per la censura del governo e dei costumi del clero, alle "pasquinate", ecc. Per la quale ultima osservazione si conferma come l'epigramma entri in qualsivoglia storia politica, religiosa, civile.