Epistole
La silloge delle E. dantesche, nella estensione e nella disposizione fissate da E. Pistelli nella sua edizione del 1921 per la Società Dantesca Italiana e tuttora accolte come canoniche in attesa di un'auspicabile editio maior, comprende tredici pezzi di varia natura e argomento, di alcuni dei quali si è generalmente ammessa l'autenticità solo dopo incertezze e discussioni in qualche caso non ancora spente. La comune obbedienza alle regole prescritte dall'ars dictandi conferisce al complesso delle E. (quattro delle quali scritte in nome altrui) una certa apparenza di omogeneità, che tuttavia non deve trarre in inganno giacché essa in realtà vela una disparata varietà d'intenti che vanno dalla corrispondenza propriamente detta (diplomatica o personale) a temi di parenesi morale e politica e di dibattito letterario cui la configurazione epistolare è per lo più affatto accessoria e che superano la sfera della comunicazione privata per attingere spesso il carattere del trattatello e del manifesto.
Del resto soltanto il Petrarca, sulla scia del ritrovato esempio ciceroniano, porrà l'accento sul valore dell'epistola come documento individuale fortemente (anche se non direttamente) espressivo dell'intimità psicologica e morale di un singolo; la cultura medievale, al contrario, vede in essa soprattutto un ‛ genere ' letterario caratterizzato da ben definiti aspetti formali, destinato in prevalenza - secondo i più celebri modelli patristici - a interventi dottrinali o commonitori cui assicura divulgazione il loro valore, esplicito o sottinteso, di pubblico colloquio fra mittente e destinatario su questioni di generale interesse o comunque su argomenti che s'intende portare a cognizione di molti. A ciò mirano evidentemente le epistole dirette dalle cancellerie regie e pontificia a singoli corrispondenti circa richieste o quesiti proposti da costoro, e destinate a diventare, sebbene non abbiano carattere di atto propriamente legislativo, fonti del diritto civile o canonico. L'importanza ufficiale che questo tipo di documenti (fra cui emergono le Decretales pontificie) viene assumendo per questo rispetto ne determina la rigida formalizzazione, onde gli abbellimenti retorici autorevolmente raccomandati da antecedenti tardo-antichi e alto-medievali (per esempio dalle Variae di Cassiodoro) perdono via via la libera funzione esornativa per divenire soprattutto elementi della debita forma legale e quindi garanti intrinseci, nella loro ineccepibilità tecnica, di un'origine legittima anche per le copie non munite dei contrassegni esteriori di autenticità. Struttura e stile dell'epistola tendono così ad assumere lineamenti obbligati, che formano l'oggetto di una ricca trattatistica descrittiva e insieme normativa mirante in primo luogo a istruire i dictatores professionisti delle cancellerie (o di altri istituti consimili) ma ben presto fruita anche da chiunque intendesse cimentare e celebrare nella prova suprema del dictamen la propria eccellenza letteraria. Nella prospettiva qui rapidissimamente delineata è necessario considerare ogni problema sollevato dalle E. dantesche: primo di tutti quello della proporzione fra i testi giunti fino a noi e l'intera produzione epistolografica del poeta.
Gli studiosi moderni sembrano inclini a considerare le tredici lettere conservate di D. come degli scarsi " frammenti del suo epistolario... dal caso soltanto serbati " (F. Novati). Tuttavia se è vero che la corrispondenza privata in senso stretto (e quindi largamente e direttamente documentaria dei casi del poeta) dev'essere stata piuttosto abbondante, essa va posta su un piano ben diverso, e né l'autore né i suoi contemporanei si sarebbero curati di conservarla (del resto le lettere note di questo tipo sono, per tutto il Medioevo, relativamente rarissime). I dictamina epistolari, invece, la cui composizione era come si è detto impresa letteraria quant'altre mai delicata e difficile, vanno considerati a sé e non commisurati (in un rapporto proporzionale che sarebbe fra termini affatto eterogenei) con la presumibile estensione di tutta la corrispondenza dantesca. In questo senso è probabile che le E. conservate non siano in numero troppo inferiore a quelle - della medesima natura - effettivamente scritte; in altre parole ci sono a nostro avviso buone ragioni per credere che se, in via d'ipotesi, D. stesso avesse curato la silloge delle proprie E. (inserendovi, tra quelle scritte in nome di altri, solo quante si riferivano a circostanze in cui anch'egli aveva agito da protagonista o s'indirizzavano a personaggi di altissimo rilievo), la nostra odierna raccolta non avrebbe poi troppe pièces da invidiarle. Di ciò reca una valida conferma il fatto che le più autorevoli testimonianze trequattrocentesche sulle E. si riferiscono in buona misura a quegli stessi testi che noi conosciamo; mentre i cenni alle epistole perdute permettono d'individuarne con una certa sicurezza un manipoletto estremamente esiguo. La testimonianza più antica è dello stesso D., il quale narra nella Vita Nuova (XXX 1-2) come, morta la sua donna (1290), egli inviasse a li principi de la terra (cioè ai principali cittadini di Firenze) un'epistola latina che esordiva cori le parole di Geremia Quomodo sedet sola civitas e lamentava la desolazione della città orbata di Beatrice. È evidente la conformità dell'epistola, nel suo spirito e nella forma, con la corrente definizione del dictamen e con l'uso attestato di D.: si noti che quello stesso exordium a sententia ripreso dai Treni di Geremia apre anche l'Ep XI. Per altro rispetto è significativo l'accostamento alla cattivella canzone, Li occhi dolenti per pietà del core, scritta qualche tempo dopo (Vn XXXI): esso documenta in un certo senso una sorta di analogia letteraria fra dictamen epistolare e composizione poetica; analogia che ci appare anche più stretta quando si pensi alle rime di corrispondenza, specie alle ‛ proposte ' su aspetti e problemi della dottrina di amore e di nobiltà, dove la differenziazione degli strumenti tecnici sottintende in ogni modo un comune carattere di messaggio collettivo a un determinato ambiente culturale anche se il destinatario diretto può essere uno solo.
Per questo, mancando particolari riguardo agli esiti tecnici contingenti, non è possibile stabilire in quale forma si sia svolta la disputa sulla nobiltà tra D. e Cecco d'Ascoli, che quest'ultimo ricorda ne L'Acerba (II XII): " Ma qui me scrisse dubitando Dante... ": non sappiamo cioè se fu una pura corrispondenza in versi o se avvenne uno scambio di epistole sul tipo dell'odierna Ep III (v. oltre). In ogni caso l'episodio appartiene, secondo una precisa affermazione dell'Ascolano, agli anni ravennati di Dante. Un'epistola che D. " mandò al reggimento di Firenze dogliendosi del suo esilio sanza colpa " è ricordata, insieme con le odierne Ep VII e XI, da Giovanni Villani nella Cronica (IX 136); su di essa dà maggiori particolari Leonardo Bruni nella Vita di Dante, consentendoci d'identificarla con quella " assai lunga " che cominciava Popule mee, quid feci tibi?, scritta, con altre indirizzate " non solamente a' particulari cittadini, ma ancora al popolo ", dopo la sconfitta della Lastra, quando il poeta ricoverò a Verona e " ridussesi tutto umiltà, cercando con buone opere e con buoni portamenti racquistar la grazia di poter tornar in Firenze per ispontanea revocazione di chi reggeva Firenze " (ediz. Solerti, p. 103). Il Bruni attribuisce alla testimonianza di un'epistola dantesca anche una descrizione della battaglia di Campaldino, la quale " racconta D. in una sua epistola, e dice esservi stato a combattere, e disegna la forma della battaglia " (p. 99; cfr. Hist. Flor., ediz. Santini, IV 77); da un'epistola cita in traduzione letterale alcune parole in cui D. fa risalire al priorato tutte le sventure onde fu colto in seguito, pur affermandosi degno della carica per fede e per età giacché quando l'assunse già dieci anni erano passati dalla sua gloriosa partecipazione alla battaglia di Campaldino (p. 100); da un'epistola sembra attingere gli argomenti con cui D. si sarebbe difeso dall'accusa di parzialità verso la Parte bianca (p. 102) e forse anche gli accenni alle possessioni dovute abbandonare con l'esilio (p. 104). È difficile, infine, precisare dove il Bruni leggesse che D. non volle trovarsi nel campo imperiale quando Enrico VII tentò d'investire Firenze (p. 104). È avviso del Pistelli che tutte o quasi le notizie fornite dal Bruni fossero tratte dalla lunga epistola Popule mee: esse infatti si riferiscono ai meriti di D. come soldato e come uomo pubblico o ne difendono l'operato là dove esso gli era imputato a colpa, e hanno perciò un chiaro scopo apologetico. A questa opinione crediamo per ora di poter accedere tranquillamente; anche perché delle lettere apologetiche e conciliative che D. avrebbe scritto ai Fiorentini fra il 1304 e il 1310 il Bruni sembra conoscere direttamente solo la Popule mee che è l'unica di cui dia l'incipit e qualche altro connotato. La perdita di tanto documento è senza dubbio particolarmente dolorosa; e può spiegarsi con l'ostilità, prima, e con l'imbarazzo, poi, che convinsero il governo fiorentino a seppellirlo nei propri archivi negandone quella divulgazione che forse avrebbe consentito a qualche copia di giungere a noi. Nell'originale la vide certo il Bruni, probabilmente insieme con le Ep V e VI quasi certamente conservate anch'esse nell'archivio della cancelleria (non è da escludere che il ‛ dossier ' dantesco del comune comprendesse anche, quale documento a carico del nuovo Curione, copia dell'Ep VII); e da quegli autografi ebbe cognizione della grafia dantesca " magra e lunga, e molto corretta " (p. 104). Meno perspicui gli accenni segnalati primamente dal Barbi (cfr. " Bull. " s. 1, VIII [1892] 21-28) nelle Historiarum ab inclinato Romano Imperio Decades di Flavio Biondo (II IX): questi riferisce di aver trovato in " extantes literae " del forlivese Pellegrino Calvi (v.), segretario di Scarpetta degli Ordelaffi, frequente menzione di D. " a quo dictabantur ". Qui innanzitutto non è chiaro se " literae " significhi, secondo il buon uso classico, " una lettera " o, più alla buona, " lettere "; ma il dignitoso latino del Biondo ci fa propendere per la prima ipotesi. " Una lettera ", dunque, in cui si parlava molto di D., il quale la dettava: cioè collaborava, durante un suo primo soggiorno a Forlì (1303?), con il segretario in carica per darle forma rispondente ai precetti dell'ars dictandi, ché tale appunto è il significato specifico di " dictabantur " (ma anche se queste lettere fossero state più di una l'apporto di D. andrebbe pur sempre limitato a una sorta di marginale consulenza tecnica). Più oltre, venendo a parlare degli eventi seguiti all'elezione di Enrico VII, il Biondo accenna a una lettera a Cangrande della Scala che D. avrebbe scritto da Forlì (1310?) in nome proprio e degli esuli Bianchi commentando duramente la fiera risposta dei Fiorentini agli ambasciatori imperiali. Questa lettera, " quam Peregrinus Calvus scriptam reliquit ", sarebbe stata nota, secondo il Biondo, anche a Benvenuto da Imola, il quale avrebbe letto " Peregrini scripta "; da tali oscure parole si ricava che lo storico forlivese conobbe la lettera a Cangrande attraverso certi " scripta " (e non da una trascrizione, come pensa il Toynbee) di Pellegrino Calvi, ma, se non soccorrono indagini più acute o più fortunate, non si può dire in qual modo il documento dantesco vi fosse utilizzato.
Si chiude qui la serie delle testimonianze sulle epistole perdute; ché non si può fare conto veruno delle notizie su tre lettere al re degli Unni, a Bonifacio VIII, a un figlio, fornite da quel riconosciuto falsario che fu G.M. Filelfo. Riassumendo, si hanno notizie certe di un'epistola ai Fiorentini ricordata dal Villani e dal Bruni, cui vanno ricondotti, tutti insieme o in grandissima parte, i riferimenti sparsi nella Vita scritta dal Bruni. Si aggiunge, pur con qualche dubbio, l'epistola del 1310 a Cangrande; mentre rimangono vaghi e incerti l'accenno del Bruni ad altre lettere mandate al governo e al popolo di Firenze nei primi tempi dell'esilio e quello del Biondo sui contributi prestati alla cancelleria forlivese. Infine sull'epistola scritta in morte di Beatrice grava, nonostante l'autorevolezza apparente della testimonianza, " il dubbio che qui si tratti di fantasia poetica " (Pistelli); e né di essa né della presunta lettera a Cecco d'Ascoli nulla di certo si può affermare. È molto poco, anzi pochissimo se si riflette che solo dell'epistola Popule mee abbiamo informazioni circostanziate e la sicurezza che chi ne parla la vide direttamente e nella stesura originaria. Ed è naturale concludere che se l'attività epistolografica di D. fosse stata veramente molto più larga di quella che ci è ora attestata, dovremmo avere ben maggiori tracce della documentazione sommersa. Ma non è in alcun modo probabile che una raccolta medievale di dictamina assumesse le dimensioni cui ci hanno abituati, in un clima culturale mutato, i carteggi poniamo di un Petrarca e di un Salutati.
Gli accenni di lettori antichi alle E. tuttora conservate hanno, per alcuni rispetti, un interesse ben minore, e tuttavia permettono di verificare con piena cognizione da un lato il modo e la misura con cui quei testi furono assunti quali documenti per le prime ricostruzioni biografiche, da un altro lato la prospettiva critica in cui furono considerati in quanto scritti letterari. Gli echi documentari più sicuri e più significativi si possono rilevare nelle ‛ vite ' scritte dal Boccaccio e dal Bruni. Il primo sfrutta nei suoi scritti danteschi le Ep VII, XII, XIII; il secondo si giova delle Ep VI e VII. Le E. sono poi ricordate esplicitamente dai maggiori biografi, dal Villani al Boccaccio al Bruni al Manetti, nel catalogo delle opere di D.; ma solo il Villani, citando espressamente le Ep VII, IX e quella perduta di cui si è detto, ne propone una definizione critica che ne individua con precisione il carattere in rapporto alle teorie letterarie del tempo e al gusto del pubblico intendente che quali opere letterarie, appunto, le recepì: " infra l'altre fece tre nobili pistole... tutte in latino, con alto dittato e con eccellenti sentenzie e autoritadi, le quali furono molto commendate da' savi intenditori " (Cronica IX 136). Era inevitabile che la svolta impressa verso la metà del Trecento alla cultura italiana, orientando diversamente i gusti dei savi intenditori, ne rendesse sempre più incerti e diffidenti i giudizi, mentre la soverchiante fortuna della Commedia avviava alcune opere dantesche a quel destino di oscurità cui non sfuggirono, per secoli, il De vulgari Eloquentia o la Quaestio. E proprio sul limitare del Quattrocento il Bruni registrava e attribuiva al Niccoli (ma, si badi bene, senza condividerla) la reazione di quanti, lette le E., giudicavano che " nemo est tam rudis, quem tam inepte scripsisse non puderet " (Dial. ad Petram Histrum, ediz. Garin, I 70). Eppure gli episodi più importanti della tradizione manoscritta delle E. (quelli, in sostanza, cui dobbiamo la conservazione di un corpus che, come s'è detto, non può ritenersi troppo incompleto) fanno capo direttamente o indirettamente a due fra i maggiori addetti del nuovo corso: il Boccaccio e Coluccio Salutati, entrambi ben consapevoli della necessaria continuità di una tradizione che pur in tempi mutati (e la nuova epistolografia fu, di questo mutare dei tempi, lo specchio più vivido) doveva volgersi pietosa e ammirante alle vestigia del divino poeta.
Il testo. - Il manoscritto più antico delle E. è appunto quel cod. Laurenziano XXIX 8 (L), zibaldone in buona parte autografo del Boccaccio, dove il Certaldese si trascrisse, con altra varia materia dantesca, le Ep III, XI, XII accompagnandole con altre cinque delle proprie che nei temi, nel lessico e nel dictamen ne riecheggiano il tenore (e proprio da questi echi si rileva che il Boccaccio aveva presente anche l'Ep IV, che non risulta trascritta da lui). La raccolta di questi testi fu dunque mossa, intorno alla metà del Trecento, dall'intento di radunare documenti della vita e dell'opera di D.; ma l'accostamento non casuale a epistole boccacciane che appartengono in grande maggioranza ad anni anteriori (e anzi quattro di esse possono considerarsi con sicurezza tra i primi esperimenti letterari del Certaldese giovane, compiuti ancora al tempo del soggiorno napoletano) attesta che il primo contatto del Boccaccio con le E. dantesche si operò nella scia dell'ammirazione - che anche il Villani conferma - per un modello riconosciuto di stile, che molto avrebbe insegnato a chi si fosse studiato , di seguirlo. In ogni modo, si osservi che le tre epistole trasmesse dal Boccaccio non ci sono note finora da altra fonte.
La silloge che abbiamo detto ricondursi indirettamente all'ambiente di Coluccio Salutati è nel codice Vaticano Palatino 1729 (v), dove nell'estate 1394 ser Francesco di ser Iacopo Piendiberli da Montepulciano curò che gli fossero messi insieme (e in parte vi provvide di propria mano) il Bucolicum carmen del Petrarca e, di D., la Monarchia e le Ep I, II, IV, V, VI, VII, VIII, IX, X. Ser Francesco fu amico e corrispondente di quel Coluccio che, introdotto quale personaggio nei Dialoghi ad Petrum Histrum del Bruni, vi tempera con sorridente equilibrio le dure parole del Niccoli citate sopra; e possiamo ben affermare che la compagine del cod. V, bilanciata tra il Petrarca bucolico e certo D. cosiddetto minore, rispecchia quasi emblematicamente gl'interessi della cerchia raccolta intorno al dotto cancelliere. Per la sezione propriamente dantesca l'accoglimento della Monarchia è conferma dei criteri larghi e non volgari che indussero ser Francesco a estendere la sua attenzione verso un trattato non divulgatissimo (ma anche qui è significativo il fatto che Coluccio si occupò di teoria politica in appositi trattati). Circa le E., non è facile definire meno genericamente lo spirito e il criterio della loro raccolta. Il fatto che L e V non si sovrappongano ma insieme s'intarsino a formare l'intero complesso dei pezzi conservati (meno l'Ep XIII) può suggerire la frettolosa ipotesi che ci si trovi dinanzi ai due tronconi di una silloge in origine unita, messa insieme o posseduta dal Boccaccio; così pensano O. Zenatti e lo studioso che curò la riproduzione fotografica di v, F. Schneider. In attesa che una già annunziata edizione critica chiarisca questo importante problema (se pure è possibile chiarirlo), ci è concesso osservare solo che tanto la raccolta di l quanto quella di v, unite o no che fossero in origine, sembrano piuttosto gli esiti tardi di una tradizione largamente extravagante ed eterogenea. Di ciò potrebbe essere un indizio - peraltro interpretabile anche altrimenti - il diverso grado di deterioramento testuale rivelato da epistole comprese nella medesima raccolta; basta per esempio confrontare le Ep VII e V nel cod. v. Più sicuro allo scopo il rilievo che certi aspetti formali delle E. mostrano di aver subito adattamenti diversi e di diversa misura, secondo vari criteri. Senza indugiare in particolari per i quali non è questa la sede adatta, ci limitiamo a indicare il differente trattamento subito dal protocollo e dall'escatocollo di ciascuna epistola (cioè dalle formule solenni di apertura, in cui si precisano qualità e titoli del destinatario e l'omaggio del mittente, e, rispettivamente, di chiusura con la data). Per esempio, delle tre lettere conservate dal Boccaccio la III conserva il protocollo Exulanti Pistoriensi Florentinus exul inmeritus per tempora diuturna salutem et perpetuae caritatis ardorem; la XI lo sostituisce con una didascalia (Cardinalibus ytalicis Dantes de Florentia, ecc.) che è forse un brandello del protocollo originale; la XII non ne reca tracce di sorta; nessuna poi conserva la data. Tra le E. del cod. V, le I, V, VI, VIII, IX, X conservano il protocollo, la VI e la X anche l'escatocollo con la data; la VII ha un titolo compendioso (Epistola Dantis Alegerii fiorentini ad Henricum Caesarem Augustum); le altre due una specie di didascalia (per esempio la II Hanc epistolam scripsit Dantes Alagherii Oberto et Guidoni comitibus de Romena post mortem Alexandri comitis de Romena patrui eorum condolens illis de obitu suo). Tanto il Boccaccio quanto ser Francesco non sono, con tutta probabilità, direttamente responsabili di criteri di adattamento tanto differenti i quali, come abbiamo suggerito, appaiono caratterizzare semmai vie diverse della tradizione che allo stato attuale delle conoscenze non ci è lecito seguire altrimenti.
Le Ep V e VII sono trascritte anche nel noto codice S. Pantaleo, 8 della Biblioteca Nazionale di Roma (p), del sec. XIV; la VII è pure nel cod. Marciano Latino XIV 115 e, incompleta, nel cod. Senese F V 9. Di ambedue si conoscono anche dei volgarizzamenti. A parte sta l'Ep XIII, la cui tradizione, non molto ampia in sé ma considerevolmente più estesa in proporzione a quella delle altre E., comprende (per quanto se ne sa oggi) nove testimonianze in otto manoscritti.
È evidente che su questi fondamenti il testo critico delle Ep I, II, III, IV, VI, VIII, IX, X, XI, XII si costituisce con il solo intervento della congettura divinatrice, mentre per le Ep V, VII, XIII la necessità di ricorrere a congettura può essere limitata sia mediante il confronto puro e semplice fra le testimonianze, come per lo più sembra si sia fatto sinora (ma come abbia lavorato il Pistelli per l'edizione del 1921 non ci è dato sapere nei particolari), sia tentando di configurare con uno stemma rigorosamente costruito l'archetipo di ciascuna epistola, se non l'originale stesso. Ad esempio il protocollo dell'Ep VII, mancante in V, si redintegra con l'ausilio degli altri mss., mentre le lacune dell'Ep V nel cod. V si colmano agevolmente con p: sono ovvi casi in cui il semplice confronto senza preoccupazioni stemmatiche basta a fornire un testo almeno in apparenza sufficiente. Invece in Ep VII 14 la decisione fra le varianti quem ‛ omnem iustitiam implere ' decebat e qui ‛ omnem iustitiam implere ' debebat non può prescindere dai rapporti fra le testimonianze; o, tanto per prospettare un altro caso, in Ep V 27, dinanzi alle lezioni dei due mss. alterutri duxit reddi quae sua sunt (v) e alterutri iussit reddi quae sua sunt (p) ogni possibile intervento è condizionato dalla definizione dei rapporti fra V e P, e in ultima analisi dalla possibilità di stabilire uno stemma soddisfacente: ciò che, data l'esiguità del materiale, è impresa non da poco. Ma un intervento massiccio della pura divinazione è richiesto in ogni modo, giacché, salvo diverse conclusioni della futura editio maior, anche per le Ep V, VII, XIII pare non si possa risalire che ad archetipi già in condizioni analoghe a quelle delle E. trasmesse da una sola testimonianza.
La natura del presente ragguaglio non consente indugi su questo aspetto dei problemi sollevati dalle E.; ma è necessario, per le ragioni che appariranno fra poco, ribadire che tanto le E. tramandate dal solo Boccaccio quanto le E. note soltanto da V sono tutt'altro che esenti da guasti di tradizione, sia espliciti sia postulabili da infrazioni alle leggi del cursus (v.). Esempi di guasti espliciti sono lezioni di l come subtraxit aut in Ep III 7 (scilicet ubi ait il Pistelli, sulla base di una congettura del Witte) o lezioni di V come tela vestra rubeant in Ep I 5 (tela nostra rubebant il testo critico), che appaiono con tutta evidenza contestualmente inaccettabili. Invece una lezione di V come o mira cupidine caecati in Ep VI 12, soddisfacente quanto al senso, si rivela affetta da un guasto perché non rispetta il cursus (mentre o male concordes che precede è un planus); il Toynbee emendò in o mira cupidine [ ob ] caecati che restaura il cursus velox.
Problemi di autenticità. - Queste considerazioni trascendono l'ambito dell'attività puramente ecdotica perché consentono di collocare nella giusta luce il problema dell'autenticità delle Epistole. Almeno secondo l'avviso - del resto non isolato - di chi scrive le righe presenti, si tratta di un problema che, un tempo largamente dibattuto e giudicato di capitale importanza, è venuto via via - più che altro per fastidio e per esaurimento - perdendo il suo interesse, per trovare oggi la sua sede più naturale non già, come in passato, in un dibattito assolutamente pregiudiziale ma piuttosto in un ragguaglio storico sulla fortuna moderna delle E., cominciata dopo sparsi episodi cinque-seicenteschi con l'edizione del testo latino di Ep XIII (1700) e proseguita con pubblicazioni sparse di altre epistole, sia in volgarizzamento (la V nel 1754; la VII già nel 1547) sia nell'originale (la XII nel 1790) fino alla prima raccolta di Dantis Alligherii Epistolae quae extant pubblicata dal Witte (1827) che avvia la serie delle edizioni moderne. Poiché le Ep I, VIII, IX, X (in V), scritte in nome altrui, e III, XII (in L) non recano nei mss. alcuna attribuzione esplicita a D., la paternità ne è stata riconosciuta congetturalmente, dando fede per le lettere in v alla testimonianza di ser Francesco da Montepulciano che, accogliendole nel corpus dantesco, le seppe o le giudicò di D., e fondandosi per le lettere in l su ragioni interne messe parzialmente in rilievo già nel 1826 da Carlo Troya. Ma soprattutto le epistole adespote di L hanno dato origine a dubbi ipercritici alimentati da certa immeritata e ingiustificata nomea di falsario che s'è venuta appiccando al Boccaccio e ogni tanto si rinverde; e che non ha ragionedi sussistere quando si ricordi che i testi di L sono già guasti da una tradizione anteriore. D'altro canto anche altre epistole, pur esplicitamente attribuite a D. dalla tradizione manoscritta, possono incorrere in sospetto: tale per esempio l'Ep II, che nonostante l'attribuzione della didascalia è sembrata poco conforme all'atteggiamento severo verso Alessandro da Romena che D. assume in If XXX 76 ss.; come se mancassero altri casi di opinioni contrastanti, per esempio tra il Convivio e la Commedia.
Due casi tuttavia, risollevati anche di recente, meritano di essere illustrati con qualche maggior particolare. Il primo riguarda un'epistola a Guido da Polenta, pubblicata in volgare da A.F. Doni in una sua raccolta di Prose antiche di Dante, Petrarca e Boccaccio (Firenze 1547), insieme con un volgarizzamento dell'Ep VII. All'inferno degli apocrifi sembrarono condannarla sia la conclamata disonestà letteraria del suo editore sia la poca rispondenza fra vari importanti fatti storici che vi sono ricordati e la data che essa reca, 30 marzo 1314 (ma i primi dubbi nacquero fra i dantisti veneti del Settecento, cui spiacque il tono ferocemente antiveneziano del documento che narra come D., giunto a Venezia quale ambasciatore di Guido, non potesse tenere in latino la sua orazione gratulatoria per l'elezione del Doge perché nessuno capiva quella lingua). Ma la recente emersione di una tradizione manoscritta indipendente ha rivendicato la buona fede del Doni; buona fede che naturalmente potrebbe essere stata sorpresa da un falsario più antico, senonché frattanto par che vada aprendosi la via anche a una soluzione delle difficoltà interne, onde, se pure i sospetti di apocrifità non sono destinati in tutto a cadere, l'espunzione di questa epistola dal corpus dantesco dovrà operarsi con ben minore sicurezza di quanto si sia fatto sinora.
Le polemiche più accese hanno peraltro avuto come oggetto l'Ep XIII, e si sono rinnovate anche in questi anni. Delle nove testimonianze manoscritte dell'epistola, diretta a Cangrande della Scala, le tre più antiche, del sec. XV, riportano solo i paragrafi 1-13, mentre le altre conservano il testo completo (90 paragrafi secondo la divisione del Pistelli; si tratta dell'epistola più lunga della raccolta). Questa vicenda della tradizione sottolinea il fatto che le due parti dell'epistola si differenziano effettivamente per gli argomenti trattati e per il corrispondente tenore stilistico. La prima sezione, in cui si dedica a Cangrande la terza cantica della Commedia, è redatta secondo le regole dell'ars dictandi con un fitto uso del cursus, come appare dall'esempio seguente: illam [canticam] sub praesenti epistola [tardus], tanquam sub epigrammate proprio dedicatam [velox], vobis adscribo [planus], vobis offero [medius], vobis denique recommendo [velox]. La seconda sezione - formula consummata epistolae - è una vera e propria introduzione (in stile libero) alla lettura della Commedia, di cui definisce subiectum, agens, forma, finis, libri titulus et genus phylosophiae, con fondamentali avvertenze circa la polisemia del subiectum e circa il livello stilistico remissus... et humilis implicato nel titolo Comedìa; segue, a conclusione, un'introduzione speciale al Paradiso con un commento ai primi versi della cantica che però s'interrompe perché, dice lo scrivente, urget... me rei familiaris angustia, ut haec et allia utilia reipublicae derelinquere oporteat. A questa parte dell'epistola si sono rivolti sovente come a insostituibile direttiva per l'esegesi del poema i commentatori della Commedia; e ancor oggi essa rimane la base necessaria di ogni approccio all'opera dantesca.
Peraltro, nella ventata ipercritica che trasse nella sua rapina certo dantismo ottocentesco, le particolarità della struttura e della tradizione indussero vari studiosi (fra i quali, più autorevoli, lo Scartazzini e il D'Ovidio) a sollevare sulla paternità dell'epistola seri sospetti, più tardi confortati dall'opinione, nutrita da alcuni critici, che l'epistola suggerisse una lettura della Commedia in chiave allegorica, contro il proposito che essi (dico quegli studiosi moderni) attribuiscono a D., non di tessere una finzione allegorica ma di riferire un'esperienza mistica realmente compiuta. Al D'Ovidio si contrappose, in difesa dell'autenticità, il Torraca (qui si tace delle battute di minor rilievo) e via via seguirono altri apporti, nell'uno e nell'altro senso, del Boffito, del Pietrobono, ecc., fra i quali vanno segnalate la presa di posizione autenticista del Barbi divulgata con l'edizione del 1921 (ma è obbligo aggiungere che più tardi il Pistelli si mostrò dubbioso: cfr. " Studi d. " VII [1923] 132) e la svolta impressa dal Mancini alla tesi dell'apocrifità con l'ipotesi che siano danteschi i primi 12-13 paragrafi, mentre il resto dell'epistola sarebbe parte di un commento perduto, che più tardi un ignoto interpolatore avrebbe saldato all'epistola genuina. Oggi quest'ipotesi, ripresa e sviluppata dal Nardi, fronteggia i contributi del Mazzoni in favore di quella piena autenticità che anche a noi è parsa confermata dalla rispondenza della prospettiva critica suggerita nell'epistola alla condizione e alla coscienza letteraria di D. non molto dopo il 1315. In ogni modo la discussione recente ha fatto emergere anche risultanze definitive, come per esempio l'accertata conformità dei § 17-90 con i medievali accessus ad auctores, onde le corrispondenze da altri indicate con qualche altra opera del tempo (v. Guizzardo da Bologna) perdono il valore di riscontri significativi per ridursi il più delle volte a semplici coincidenze in uno schema e in linguaggio di largo dominio. Ma resta anche accertata la chiara presenza di Ep XIII all'origine del discorso critico avviato con la pubblicazione della Commedia. Circa l'autenticità delle restanti E., ribadiamo che la discussione su basi seriamente scientifiche ci sembra ormai chiusa.
Contenuto e datazione. - In una rapida rassegna dei testi si cercherà d'indicare i dati essenziali per quel che riguarda la cronologia e il contenuto delle Epistole.
Ep I è diretta da Arezzo, in nome del capitano, del Consiglio e dell'intera Parte bianca, al cardinale Niccolò da Prato giunto sul finire dell'inverno 1304 in Toscana per tentarne la pacificazione secondo le intenzioni del buon papa Benedetto XI. Alla volontà di pace del cardinale significata ai Bianchi i mittenti dichiarano di sottomettersi, ma l'epistola, scritta con un ritardo attribuito alla necessità di raccogliere i pareri degli esuli qua e là dispersi, esprime un impegno abbastanza generico probabilmente inteso a guadagnare tempo: del resto i Bianchi erano allora nel pieno del loro sforzo militare, in cui riponevano ogni speranza di rivincita (e che si sarebbe infranto - poco dopo la partenza del cardinale da Firenze, il 4 giugno 1304 - con la sconfitta della Lastra del 20 luglio successivo). La data dell'epistola è fissata con buona approssimazione dalla cronologia della fallita missione del cardinale (primavera 1304). Che D. ne sia stato il vero estensore è confermato, oltre che dall'indiretta testimonianza del cod. V, da ciò che noi sappiamo attraverso il Bruni della presenza del poeta nel consiglio della Parte bianca creato ad Arezzo: egli fu certo il consigliere più munito delle qualità dettatorie necessarie a stendere la delicata responsiva. Va notato che il capitaneus è designato nel protocollo con la sola iniziale A., perché era buona norma, secondo i manuali di epistolografia, che, a parte il papa, si ponesse " in salutacione... pro persona mittentis seu etiam recipientis prima litera proprii nominis ". All'iniziale dovrebbe corrispondere il nome di Alessandro da Romena, stando al Bruni che lo dice capitano dei fuorusciti; ma sembra trattarsi piuttosto del fratello Aghinolfo.
La questione presenta interesse in rapporto a Ep II, che è un biglietto di condoglianze inviato ai conti Oberto e Guido da Romena per la morte dello zio Alessandro. Il fatto che Alessandro non sia ricordato dalle fonti tra i combattenti alla Lastra ha fatto supporre che la sua morte cadesse fra la stesura di Ep I e il 20 luglio 1304; e in quel torno sarebbe stata scritta l'epistola. Ma se il capitano A. che firmò la lettera al cardinale da Prato non è lui, l'argomentazione perde ogni consistenza: la data 1304 resta perciò congetturale. S'è già accennato alla contraddizione fra le lodi di magnificentia date qui al defunto, e l'invettiva alla sua anima trista di falsario in If XXX 76-77; spiegabile del resto, più che con l'ipotesi della tardiva conoscenza di .un'indegnità di Alessandro ancora ignorata al tempo dell'Ep II, con il preciso carattere officioso di una lettera in cui il finale accenno alla paupertas quam fecit exilium dissimula non troppo enigmaticamente una penosa richiesta di soccorso.
Ep III ha tutt'altro carattere: essa accompagnava infatti il sonetto Io sono stato con Amore insieme (CXI) in cui D. risponde alla ‛ proposta ' di Cino da Pistoia (Dante, quando per caso s'abbandona), ove era sollevato il problema utrum de passione in passionem possit anima transformari (così D. stesso ne riassume l'essenziale). i precisi riferimenti al testo di sonetti ben noti confermano che nella ‛ salutatio ' Exulanti Pistoriensi Florentinus exul inmeritus si tratta per l'appunto di Cino e di D., come già vide il Troya studiando l'epistola nel cod. l. La data è evidentemente in relazione con quella dell'esilio di Cino, che però non risulta da alcun documento sicuro. Se Cino fu, come sembra accertato, di parte nera, dovette ritornare a Pistoia nel 1306, quando la sua fazione venne riammessa in città: e quell'anno può considerarsi ante quem per la datazione dell'epistola (in passato si credette, anche in ragione dell'amicizia con D., che Cino appartenesse alla Parte bianca e che con essa fosse bandito nel 1307, sicché l'Ep III era giudicata posteriore a quell'anno). La lettera, sebbene sia in persona propria, e non abbia il carattere di uno scritto di circostanza, è in un certo senso ancor meno assimilabile a una missiva privata, legata com'è - nel modo che s'è accennato più sopra - al costume largamente diffuso dei pubblici dibattiti poetici, a due o più interlocutori, su problemi di casistica amorosa o morale. Si tratta di una pagina di forte impegno letterario, in cui i consueti elementi formali dell'ars dictandi secondo lo stile romano sono integrati da un'attenta e ricercata scelta lessicale che senza toccare i limiti del latino glossematico attinge tuttavia squisitezze come sermo Calliopeus per " componimento poetico " e indulge al gusto delle auctoritates puramente esornative, quali un rinvio a Ovidio (Met. IV 192 ss.) e allo pseudo-Seneca (cioè Martino Dumiense) del De Remediis fortuitorum, nonché una conclusiva citazione evangelica (Ioann. 15, 19). Di scambi poetici analoghi con l'amico pistoiese se ne trovano altri nella raccolta delle Rime (v.), i più con ‛ proposta ' di Cino; e vien fatto di domandarsi se anche in quelle occasioni i testi furono accompagnati (o per meglio dire introdotti) da epistole latine non conservate. Nulla di certo si può rispondere, oltre a richiamarsi a quelle ragioni di carattere generale che si sono prima invocate circa la probabile esiguità dell'epistolario letterario dantesco; peraltro è nostro avviso che Ep III rappresenti un caso abbastanza isolato, perché, a differenza delle altre ‛ proposte ' di Cino, il sonetto Dante, quando per caso s'abbandona non solleva un problema particolare e non chiede una norma contingente di condotta (come per es. il sonetto Novellamente Amor mi giura e dice) ma verte su un punto di dottrina generale e poteva quindi invitare D. a trattarne, oltre che transumptive more poetico nel sonetto di risposta, anche in uno scritto speciale in forma di epistola cui non mancasse la garanzia del rigoroso processo sillogistico.
In questo senso Ep III si differenzia dalla IV, destinata a presentare al marchese Moroello Malaspina la canzone montanina Amor, da che convien pur ch'io mi doglia, con un andamento che se non può considerarsi di vero e proprio abbandono autobiografico (controllato com'è dal debito rigore retorico) è tuttavia caratterizzato da una maggiore scioltezza che potrebbe definirsi, pur cautamente, aneddotica. Vi è narrato l'incontro iuxta Sarni fluenta con una donna di cui Amor terribilis et imperiosus ha reso schiavo il poeta al primo vederla, strappandolo alle meditazioni assidue e profonde per coinvolgerlo ancora in una passione che la canzone, segnando il ritorno di D. alla poesia d'amore, analizza ed esalta. Nel suo rapporto con il testo poetico l'epistola richiama sensibilmente, sebbene in veste e in struttura diversa, le prose introduttive alle rime della Vita Nuova, almeno nella misura in cui attua il medesimo processo nell'assumere a un livello di alta trasfigurazione retorico-letteraria il riferimento didascalico ai fatti contingenti da cui nascerebbe l'occasione dei versi. Per questa ragione Ep IV, sebbene legata a un preciso momento biografico, non può nemmeno essa, come le altre lettere, proporsi come un documento diretto della biografia: in ogni modo non lo è più di quanto lo siano i capitoli della Vita Nuova. Scritta dopo che D. aveva lasciato l'asilo offerto dai Malaspina in Lunigiana (ottobre 1306?), l'epistola è congetturalmente assegnata agli anni 1307-1308 (1308-1309 secondo proposte meno recenti).
Legata strettamente a un grande avvenimento europeo quale fu la venuta in Italia di Enrico VII, Ep V è databile con approssimazione molto maggiore. Nel maggio 1310 l'imperatore eletto aveva annunciato il suo proposito di ricevere l'incoronazione in Roma; e il I settembre il papa Clemente V, con l'enciclica Exultet in gloria, aveva esortato i cristiani a riconoscerlo e a onorarlo. Sulla scia del documento pontificio, e prima che sul finire di ottobre Enrico varcasse le Alpi, D. - humilis ytalus... et exul inmeritus - inviò universis et singulis Ytaliae Regibus et Senatoribus almae Urbis nec non Ducibus Marchionibus Comitibus atque Populis un'ispirata esortazione a rallegrarsi del tempo nuovo che sorgeva e ad accogliere quale messo provvidenziale, riconoscendone l'alta potestà, l'imperatore sopravveniente quem Petrus [cioè il papa: allusione all'enciclica], Dei vicarius, honorificare nos monet. Il documento può definirsi, con il Torraca, " una lettera circolare, o piuttosto un manifesto ": purché non s'intenda che D. ne stendesse più copie e ciascuna inviasse a qualche potentato o comune d'Italia. Non diversamente dalle encicliche papali, al cui tenore l'epistola parzialmente s'ispira, una sola copia autentica (o pochissime copie) dovette essere immessa nel circolo ordinario della tradizione testuale e per quella via - non per via, come dire?, postale - fu portata a conoscenza degl'Italiani, presso i quali in grazia dell'argomento di attualità godette di una certa diffusione attestata dal fatto che essa è tra le pochissime non conservate in copia unica e che fu anche volgarizzata.
Ep V, così per l'occasione in cui fu dettata come per l'intonazione complessiva che D. vi assume, forma blocco con Ep VI e VII, l'una scritta ai Fiorentini il 31 marzo 1311, l'altra all'imperatore stesso il 17 aprile successivo. A differenza dei loro concittadini in esilio, i Fiorentini avevano manifestato fin dall'inizio dell'avventura imperiale un atteggiamento di orgogliosa indipendenza che s'era via via irrigidito in una non dissimulata ostilità: e ad essi, scelestissimis Florentinis intrinsecis, D., " levatosi con lo animo altero ", minacciò " la debita vendetta per la potenza dello 'mperadore, contra la quale dicea esser manifesto loro non avere alcuno scampo " (Bruni). Infatti ciò che soprattutto muove la rampogna dantesca è la convinzione che nell'opporsi alla potestà imperiale, voluta e confermata da Dio, i Fiorentini in hanc Dei manifestissimam voluntatem... temere praesumendo tumescunt, con atto di empia arroganza cui sta preparato il castigo. Ma nel giro di due settimane la sicurezza di D. fu scossa dall'indugio di Enrico in Lombardia: onde, meravigliato di tam sera... segnities, gli si rivolse " quasi profetizzando " (Villani) come Curione a Cesare perché si affrettasse a investire Firenze e schiacciasse finalmente la tracotanza dell'avverso Golia.
Le tre Ep V, VI, VII scandiscono così l'itinerario della passione civile e della speranza di D. fin dal primo annuncio di un evento la cui aspettativa era stata fino allora il perno del suo pensiero politico, e ne registrano l'oscurarsi dell'entusiasmo confidente alle ombre incipienti della delusione. Ma il tenore stilistico è sempre alto e ispirato, foltissimo di citazioni ed echi, anche solo lessicali, della Scrittura, che soverchiano le riprese dirette o indirette dai classici, specialmente da Virgilio e Lucano. La prevalenza del colorito biblico conferisce al discorso dantesco una particolare accensione che è fin troppo ovvio giudicare espressione di un atteggiamento profetico su cui hanno giustamente insistito, dal Villani in poi, vari studiosi più e meno recenti. È bene tuttavia avvertire il pericolo di sopravvalutare - sul fondamento dell'ispirazione biblicheggiante - il senso di un'intonazione che va in primo luogo riconosciuta e definita nella sua cifra letteraria da ricondursi a quella dei modelli specifici, cioè delle coeve encicliche pontificie e delle prammatiche regie e imperiali che a chi ne scorra anche rapidamente una qualche raccolta offrono esempi non troppo dissimili di enfasi oratoria tradotta in analoghi termini stilistici.
Le tre epistole che seguono (VIII, IX, X) hanno un rilievo di gran lunga minore. Serbate nella silloge di V come fattura di D., sono indirizzate in nome di G. de Batifolle... comitissa in Tuscia palatina a Margherita di Brabante (v.), l'imperatrice " santa e buona " (Villani) che, come risulta da altri documenti coevi, cercava di giovare all'idea imperiale intrattenendo con vari potentati una corrispondenza cortese. Si tratta di tre letterine esprimenti un omaggio e un augurio piuttosto vaghi formulati in termini talmente generici che qualcuno ha creduto di poter ravvisare nei tre documenti tre differenti versioni di un medesimo testo. Comunque sia di ciò, D., grato cliente dei conti Guidi, avrà prestato volentieri a Gherardesca moglie di Guido Guidi di Battifolle la propria penna sapiente per quest'ufficio che gli consentiva ancora di esternare la sua devozione all'imperatore, sia pure indirettamente. Solo l'Ep X è datata da Poppi il 18 maggio, perciò la disposizione delle tre pièces si fonda su un rapporto congetturale di cronologia relativa che può essere rimesso in discussione: il Chiappelli ha proposto l'ordine seguente: Ep IX (primissimi del 1311, e forse anteriore all'Ep VII); Ep X; Ep VIII (adombrata da " una atmosfera più autunnale " di disinganno).
Nel silenzio di tre anni che divide Ep X da Ep XI si consumò il breve fuoco dell'entusiasmo destato dall'impresa dell'alto Arrigo: e più che dalla morte improvvisa dell'infelice imperatore D. dové essere colpito e prostrato dalla consapevolezza che l'ideale di un ecumenismo civile cui egli s'era dedicato non aveva trovato echi sinceri, anzi era stato sopraffatto dall'indifferenza o dall'ostilità; e che in quel gelo era caduta, senza risonanze, anche la voce che egli aveva levato con le sue epistole. E non è improbabile che in quel periodo i suoi pubblici interventi epistolari si diradassero fino al silenzio, in una pausa di raccoglimento e di preparazione all'ultima immensa fatica del Paradiso. Perciò non sembra che molto si debba invidiare al tempo e alla sorte per gli anni che separano l'ultima epistola a Margherita di Brabante da quella che è oggi Ep XI, inviata ai cardinali italiani durante le torbide vicende che seguirono la morte di Clemente V (20 aprile 1314) ma in ogni modo prima che i cardinali italiani fossero esclusi con la forza dal conclave (il 14 luglio 1314): perciò, sembra, tra il maggio e il giugno di quell'anno (dopo il 14 luglio D. non avrebbe potuto esortare a un'azione positiva un gruppo ormai del tutto esautorato). Dopo la grande crisi imperiale, una convulsione non meno drammatica e accorante travagliava l'istituzione che D. sapeva e voleva stabilita da Dio in armonico rapporto con l'Impero per la felicità del genere umano: la trista eredità del papa guasco uscito eletto dal conclave di Perugia nel 1305 per le mene tortuose o i calcoli errati dei cardinali Napoleone Orsini e Iacopo Stefaneschi pesava sul nuovo conclave riunito a Carpentras nel maggio 1314 e ne adombrava l'esito con la possibilità (poi verificata nei fatti) che ne risultasse confermata quella cattività babilonese di cui Clemente e i suoi elettori erano stati responsabili. Contro questa minaccia s'innalza ancora una volta la voce di D., e ammonisce i cardinali italiani presenti al conclave perché cessi lo scandalo dell'Urbe nunc utroque lumine destituta e per opera loro sia eletto un pontefice che riporti a Roma, nella sede che le è propria, la Sposa di Cristo. " Quasi più sermone che lettera " (Frugoni), il documento si apre con le medesime parole di Geremia Quomodo sola sedet civitas... che avevano intonato la giovanile epistola in morte di Beatrice: e nulla meglio della rinnovata e appassionata intensità che assumono ora quelle parole potrebbe sottolineare la lontananza di D., maturato dalle varie vicende dell'esilio e dalla coscienza salda di un'alta missione, dal giovanile autore della Vita Nuova. Ché nella ripetuta citazione del profeta si esprime ora non il lamento di un singolo, de ovibus pascuae lesu Christi minima una, ma quello - e D. ne è chiaramente e altamente consapevole - della cristianità intera, e s'interpretano non pure i sentimenti già da altri espressi ma anche le aspirazioni più segrete e, si direbbe, non ancora emerse alla luce delle coscienze: omnes enim quae garrio murmurant aut mussant aut cogitant aut somniant, et quae inventa non attestantur. La tesa eloquenza di Ep XI è, più che non avvenga in Ep V-VII, tutta lievitata da questa certezza che ne fa, anche da un punto di vista strettamente poetico, la pagina latina più degna di accostarsi alla Commedia; quella, in ogni modo, che dall'obbedienza alle norme della retorica sa riscattare, non diversamente da quanto avviene in certi canti del Paradiso, l'ardua intensità di uno stile inimitabilmente dantesco. Né è da trascurare, lateralmente, l'interesse che l'epistola è venuta assumendo quale documento storico dopo che il Morghen, il Vinay e soprattutto il Frugoni hanno messo in rilievo, sia pure con conclusioni diverse, l'importanza dell'accenno a quanto sarebbe avvenuto per impulso dei cardinali N. Orsini e I. Stefaneschi nel conclave di Perugia (§§ 23-25).
L'epistola dantesca più fortunata è tuttavia la XII, che una generica didascalia del Boccaccio dichiara scritta a un amico fiorentino che non è possibile identificare: il titolo di Pater e la reverentia che D. gli testimonia farebbero pensare a un ecclesiastico. Ma che si tratti proprio di un Teruccio di Manetto Donati cognato del poeta, come ha sostenuto dopo l'Imbriani il Della Torre, è pura ipotesi dimostrata inconsistente dal Barbi. Chiunque si fosse l'innominato amico, appare dal contesto che egli, così come avevano fatto un nipote di D. e altri numerosi amici del poeta, gli aveva significato le condizioni di una absolutio bannitorum recentemente decisa, invitandolo ad approfittarne per ricondursi finalmente in patria. L'unica amnistia formulata in termini abbastanza larghi da comprendervi anche D. sembra quella del 19 maggio 1315, e questo sarebbe così il terminus post quem per datare la lettera; del resto D. vi si dice per trilustrium fere perpessus exilium, ciò che non consente di spingere la datazione oltre i primi mesi del 1317. Non sappiamo immaginare se D. rispondesse anche a quant'altri gli avevano, scritto al riguardo: la risposta che ci è conservata non ha carattere collettivo e sembra voler distinguere il Pater come la persona più capace e più degna di comprendere le nobili ragioni di un rifiuto sdegnoso opposto non con vana e concitata superbia ma a tutela ferma di una dignità e di una fama ormai serenamente coscienti. Di tutte le E. la XII è quella stesa in un latino più sciolto e nitido, meno condizionato dalle cautele della retorica epistolare (ma non certo fino all'immediatezza irriflessa!); è l'unica (con la particolare eccezione di Ep XIII, di cui si è parlato sopra) nel cui contesto D. si nomini; essa sola, infine, ha restituito anche a lettori romanticamente insofferenti di cautele e ambagi retoriche un'immagine di D. quale avrebbero voluto trovare in tutto l'epistolario (e forse questa troppo opportuna corrispondenza ha contribuito a sollecitare una certa reazione erudita tesa a negare un'autenticità ammessa bensì con facilità sentimentale ma in ogni modo difficilmente contestabile).
Non è necessario insistere, a questo punto, sull'indiscretezza di lettori che si accostavano alle E. con la pretesa di trovarvi la traccia più immediata della personalità dantesca, e non trovandola se ne ritraevano, offesi da quella che loro pareva durezza gotica e sorda. Perciò non vale la pena di ripercorrere una serie di giudizi il cui tenore si riassume in quello di uno studioso pur agguerrito come il Novati: che, cioè, " se non fosse la nobile gagliardia dei concetti che tratto tratto lampeggiano e sfavillano attraverso l'involucro crasso o nebuloso che li ravvolge, noi non riconosceremmo agevolmente nel dettato enfatico e pesante delle Epistole l'intelletto sovrano [di Dante] ". Ai lettori di oggi appare con evidenza non contestabile che le E. sono viceversa gli scritti danteschi che meno si allontanano dalla calda temperie della Commedia: e non solo perché spesso riconducano al medesimo contesto di situazioni storiche e di posizioni ideologiche e morali, ma soprattutto perché dinanzi a quei cimenti dell'argomento le ardue prose latine e i versi del poema, apparentemente così distanti, rivelano impressionanti analogie di movenze e di espressione. Siffatti incontri non possono considerarsi puri e semplici loci paralleli sul piano della tematica letteraria, bensì riconducono a un nucleo e a un'articolazione unitari del pensiero e coinvolgono una medesima inflessione del travaglio espressivo quando l'intensità di quel pensiero trova in una medesima immagine tipica e pregnante l'esito più felice tanto nelle E. quanto nella Commedia. E d'altra parte questa è la via per riconoscere uno stesso spirito di robusta unità, pur nell'eterogeneità degli stati d'animo e delle occasioni, che pervade e unisce tra loro le E.: non nel senso che tutte concorrano a integrarsi in una silloge strutturalmente unitaria, ma nel senso che in tutte si avverte, dietro lo schermo del travagliato stilismo (o meglio nel cimento con l'ardua maniera dello stile) la forza vittoriosa dell'Alighieri.
Bibl.-Edizioni: Epistolae, a c. di P. Toynbee, Oxford 1920; Le Lettere di D., a c. di A. Monti, Milano 1921; E., in Le opere di Dante, testo critico della Società Dantesca Italiana, Firenze 1921 (II ediz., ibid 1960), a c. di E. Pistelli, riprodotta, con le modifiche suggerite nel frattempo dalla ricerca filologica, nelle varie edizioni complessive delle opere di D. pubblicate dopo il 1921.
Facsimili dei manoscritti: Lo Zibaldone Boccaccesco Mediceo Laurenziano Plut. XXIX, 8, a c. di G. Biagi, Firenze 1915; Monarchiae liber et Epistolae ex Codice Vaticano Palatino latino 1729, a c. di F. Schneider, Roma 1930. Edizioni importanti di singole lettere, spesso con facsimili dei manoscritti, sono comprese in molti dei contributi particolari segnalati qui sotto.
Studi: F. Novati, Le E., Firenze 1905; F. Torraca, Nuovi studi danteschi, Napoli 1921, 137 ss.; A. Frugoni, Le E., in " Cultura e scuola. " 13-14 (1965) 739 ss.; F. Mazzoni, Le E. di D., in Conferenze Aretine, Arezzo 1965, 47 ss. In particolare sul testo: E. Pistelli, Dubbi e proposte sul testo delle E., in " Studi d. " II (1920) 149 ss.; E.G. Parodi, Lingua 249 ss. Sul cursus: L. Mascetta-Caracci, Il cursus ritmico, la critica dei testi medioevali e l'epistolario di D.A., in " La Biblioteca degli Studiosi " II (1910) 174 ss., 219 ss.; F. Di Capua, Fonti ed esempi per lo " stilus Curiae Romanae " medioevale, Roma 1941, 93 ss.; ID, Scritti Minori, I, Roma-New York 1959, 564 ss.; II, 373 ss. e passim; oltre a E.G. Parodi e P. Toynbee, citati. Per le singole E.: O. Zenatti, D. e Firenze, Firenze 1901, 343 ss. (su Ep I, IV, XII); F. Novati, L'epistola di D. a Moroello Malaspina, D. e la Lunigiana, Milano 1909, 507 ss.; F. Schneider, Kaiser Heinrich VII, Lipsia 1928, 311 ss.; ID, Dantes Briefe an die Fuersten und Voelker Italiens und an Kaiser Heinrich VII, Zwickau 1930; E. Moore, Studies in D., IV, Oxford 1917, 256 ss. (Epistole VIII-X); E.K. Rand- E.H. Wilkins, A Concordance to the Batifolle Letters, Cambridge 1926; F. Chiappelli, Osservazioni sulle tre epistole dantesche a Margherita imperatrice, in " Giorn. stor. " CXL (1963) 558 ss.; L. Bertalot, Zum Text von Dantes Brief an die Italienischen Kardinaele, in " Giorn. d. " XXVII (1924) 38 ss.; R. Morghen, La lettera di D. ai Cardinali italiani, in " Bull. Ist. Stor. Medio Evo " LXVIII (1956) 1 ss.; G. Vinay, A proposito della lettera di D. ai Cardinali, in " Giorn. stor. " CXXXV (1958) 71 ss.; R. Morghen, Ancora sulla lettera di D. ai Cardinali, in " Bull. Ist. Stor. Medio Evo " LXX (1958) 513 ss.; A. Frugoni, D., Epist. XI, 24-5, in " Rivista Cult. Classica e Mediev. " VII (1965) 477 ss.; ID, D. tra due conclavi. La lettera ai Cardinali italiani, in Letture Classensi, II, Ravenna 1969, 71 ss.; A. Della Torre, L'epistola all' " amico fiorentino ", in " Bull. " XII (1905) 121 ss.; Barbi, Problemi II 305 ss.; F. D'Ovidio, L'epistola a Cangrande (1899), rist. in Studii sulla D.C., Milano-Palermo 1901; F. Torraca, Studi danteschi, Napoli 1912, 249 ss.; E. Moore, Studies in D., III, Oxford 1903, 284 ss.; G. Boffito, L'epistola di D.A. a Cangrande della Scala. Saggio d'edizione critica e di commento, in " Mem. Accad. Reale Scienze Torino " s. 2, LVII (1907); F. Schneider, Die Handschriften des Briefes Dantes an Can Grande della Scala..., Zwickau 1933; A. Mancini, Un nuovo codice dell'Epistola a Cangrande, in " Studi d. " XXIV (1939) 111 ss.; ID, Nuovi dubbi ed ipotesi sull'Epistola a Cangrande, in " Rendic. R. Accad. d'Italia " s. 7, IV (1943) 227 ss.; F. Mazzoni, L'Epistola a Cangrande, in " Rendic. Accad. Lincei " s. 8, X (1955) 157 ss.; F. Schneider, Der Brief an Cangrande, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXIV-XXXV (1957) 3 ss.; F. Mazzoni, Per l'epistola a Cangrande (1959), rist. in Contributi di filologia dantesca. Prima serie, Firenze 1966; C.G. Hardie, The Epistle to Cangrande again, in " Deutsches Dante- Jahrbuch " XXXVIII (1960) 51 ss.; B. Nardi, Il punto sull'epistola a Cangrande, Firenze 1960; ID, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 268 ss.; M. Pastore Stocchi, D., Mussato e la tragedia, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 251 ss.; R. Migliorini Fissi, La lettera pseudo-dantesca a Guido da Polenta. Edizione critica e ricerche attribuitive, in " Studi d. " XLVI (1969) 101 ss.