Epistolografia e retorica
"I seni fecondi della retorica nutrono gli ingegni raccolti nella corte sveva" (Huillard-Bréholles, 1895, p. 372): così Pier della Vigna stigmatizza il carattere pervasivo dell'ars rhetorica, citando Boezio (Cons. Phil. I, ii, 2) ma con significativo passaggio discendente: dalla filosofia alla retorica vi è infatti il trapasso eloquente che qualifica il rapporto istituito a corte fra parola e potere, un legame educato da colui che ne è appunto il logotheta, 'uno che dispone parole'. Non dovette trattarsi solo di una letteraria battaglia fra le arti (d'Andeli, 1881, v. 224). Era l'affermazione di un'altra sapienza, quella della costruzione verbale che diventava sigillo della legge, dell'eloquenza che diventava un emblema, il 'decoro dell'impero' (Historia diplomatica, II, 1, p. 48). E costituiva la forma rinnovata di un'antica contraddizione: retorica era ancora teoria a rilevanza pratica che, cresciuta in contiguità alla cultura giuridica e amministrativa ed istruita a suscitare consenso, come la dialettica (von Moos, 1994, p. 69), era un'arte ordinata all'inventio (che faceva uso del 'luogo' come sede di argumentum; Maierù, 1972, p. 398), una scientia che forniva la lingua alla politica e al diritto, si piegava nell'efficacia suasoria e si traduceva in una "professionalità laicizzata" della parola e della scrittura (Bagni, 1988, p. 203).
Quando nella cancelleria divenne necessario essere esperti di diritto, ma anche di composizione ‒ è per questo che dictator equivale nell'uso sia a 'maestro che insegna a scrivere ornatamente, a dictare, ovvero a comporre secondo regole retoriche' sia a 'colui che redige, compone documenti' ‒ dovette diventare inevitabile istituire accanto a quello della giurisprudenza lo studio dell'ars dictaminis (Varvaro, 1987, p. 89) che, se nella declinazione più nota equivalse all'arte di comporre epistole, poteva volta a volta essere orientata alla prassi politica, alla propaganda (La propaganda politica, 2002; v. Pubblicistica), in seguito anche cittadina, o avvicinarsi all'ars notaria e alle artes arengandi o concionandi.
Uno dei professori chiamati ad insegnare allo Studium di Napoli in qualità di maestro di ars dictaminis fu Terrisio di Atina. Con la qualifica di magister egli è compreso alla data del 21 di dicembre nel non datato necrologio cassinese che costituisce peraltro uno dei pochi documenti relativi alla sua vicenda esistenziale (I necrologi cassinesi, 1941, p. 24). L'afferenza geografica del maestro al territorio dell'abbazia di Montecassino ‒ al centro ove non solo si erano conservati testi fondamentali (il cosiddetto ramo meridionale nella tradizione manoscritta della Rhetorica ad Herennium; Spallone, 1980, p. 167), ma si era svolta nel sec. XII l'elaborazione più significativa e originale relativa all'ars dictandi ‒ non dovette verosimilmente essere senza conseguenze e condiziona la riflessione sulla sua figura di intellettuale, anche se non sappiamo esattamente dove il maestro studiò e quali furono poi a Napoli i testi sui quali egli poté esercitare la sua lectura.
Nell'Elogio dell'imperatore di Terrisio ("Cesar, Auguste, princeps mirabilis") si rinviene un uso del legame pseudoetimologico Caesar-caedo (vv. 17-20), impiegato anche nell'encomio per Federico scritto da Pier della Vigna (Huillard-Bréholles, 1895, p. 425), che è attestato nell'Ars versificatoria di Matteo di Vendôme, 51, 30 (contestualmente, per la possibile presenza del Milo in ambiente fridericiano, cf. Busdraghi, 1976, p. 92).
A Terrisio non sono ascritti manuali e neppure raccolte più o meno organiche di dictamina. A lui vengono attribuite ‒ oltre a più lievi ma non meno colte prove (Di Capua, I, 1959, p. 518) e, forse, alla cosiddetta quaestio de nobilitate, ove peraltro si citano versi dalla Consolatio boeziana e dall'Alexandreis di Gautier de Châtillon (Delle Donne, 1999) ‒ alcune epistole consolatorie: una scritta per la morte del filosofo Arnaldo Catalano (Torraca, 1911; Delle Donne, 1993, p. 280), un'altra per la morte di Bene da Firenze (morto prima del 1242; Huillard-Bréholles, 1895, p. 300). Entrambe le lettere, prossime per tonalità a quella inviata nel luglio 1246 a Raimondo di Tolosa (Acta Imperii inedita, I, nr. 725), sono esempi di quello stilus supremus poi caratteristico della cultura ghibellina che giunge al suo apice nei dictamina di Pier della Vigna.
Secondo la testimonianza iscritta nello stesso Candelabrum (Lib. III, 54, 6), Federico avrebbe voluto Bene nello Studio di Napoli, ma il maestro, pare, rifiutò l'invito. L'area meridionale non dovette però essere del tutto refrattaria alla sua influenza se è vero che il ms. M (New York, Columbia University, Butler Library, Plimpton 65) deve probabilmente ascriversi a uno scriptorium (o a un copista) dell'Italia meridionale, forse della Sicilia, e se nel Trecento una Summa magistri Bene compare nel catalogo del monastero di S. Maria delle Scale presso Palermo. Quanto alle fonti, è dimostrato come Bene utilizzi non solo la più ovvia Rhetorica ad Herennium ma anche la recente Poetria nova di Goffredo di Vinsauf e l'Ars versificatoria di Matteo di Vendôme, e come conosca perfettamente lo stile caratteristico delle Scuole d'Orléans. La lettera di Terrisio dunque, più che una formale attestazione di stima (o di discepolato?), potrebbe suggerire anche che Bene, e con lui forse almeno un riflesso dell'imponente produzione manualistica bolognese, non fossero del tutto ignoti all'Italia meridionale.
Sarebbe del resto ben strano non postulare alcun rapporto ‒ in termini di circolazione di uomini, testi e saperi ‒ fra i due atenei: il giurista Roffredo di Benevento, primo professore allo Studium di Napoli, l'unico espressamente nominato nella circolare di fondazione del 1224, aveva dimorato a Bologna, con Benedetto di Isernia, negli stessi anni in cui vi insegnavano celeberrimi professori di retorica come Boncompagno da Signa, Bene, Guido Fava. Roffredo è indicato nella lettera come uomo di grande sapere ("virum magne scientie") e a Boncompagno doveva assomigliare se rendeva festevoli i suoi corsi citando versi, spiegando i termini difficili "secundum vulgare idioma italicorum" e se era oggetto anche di canzoni ad vituperium ("cantavit malam cantionem de me"; Ferretto, 1908-1911, p. 286 n. 4). Si consideri anche che la formazione dello stesso Pier della Vigna si suole ascrivere, più per ipotesi tuttavia che per via di dimostrazione, oltre che, probabilmente, a scholae dell'Italia meridionale (se è vero, fra l'altro, che di lui rimane una firma in scrittura curialesca [Cava dei Tirreni, Badia di Cava, Arca LII n. 37]), proprio all'Ateneo bolognese sulla scorta ancora della testimonianza di Guido Bonatti (De Astronomia, pt. I, tract. V, cons. 141, col. 210), ma in realtà, anche sulla base di una competenza riconoscibile, difficile da costruire fuori di Bologna (Schaller, 1989, p. 777, e cf. anche il biglietto inviatogli da Accursio [Huillard-Bréholles, 1895, p. 302] e la lettera per Giacomo Balduini di cui Piero elogia l'"eloquentiae tuba" [ibid., p. 299]).
Non è esclusa tuttavia per il Sud la probabile eredità della cancelleria normanna (Kölzer, 1990): basti pensare a figure-ponte come Tommaso da Gaeta o all'enorme valore intellettuale di uomini come l'ammiraglio Eugenio ed Enrico Aristippo, o alla funzione modellizzante, ancora nel sec. XIII, delle Epistole di Pietro di Blois (Carmina, 1998) o al suo manualetto De arte dictandi rhetorice (1187 ca., Cambridge, University Library, ms. Dd. 9.38, c. 115; Camargo, 1984; Repertorium, 1992, pp. 90-92) ove egli ‒ che aveva soggiornato nella città felsinea e che era stato in Sicilia precettore di Gugliemo II, anche se probabilmente non di arte retorica (Di Capua, 1959, I, p. 501 n. 4) ‒ mostrerà sì la perfetta conoscenza della téchne bolognese, ma anche la dipendenza da ben altri modelli.
Un'altra testimonianza relativa all'insegnamento del dictamen è conservata in un'epistola riconosciuta a Niccolò da Rocca ove egli chiede a un maestro Pietro (v. Grammatica) e al "coetus doctorum omnium" (il collegio dei professori?) il permesso di tenere, d'estate, "in proprii natalis partibus" un corso pubblico sull'arte epistolare ("in arte dictaminis"; Huillard-Bréholles, 1895, p. 382). Niccolò riprende significativamente la metafora del nutrimento impiegata da Pietro (precedentemente usata per indicare la Chiesa in un'epistola indirizzata allo stesso Pietro; ibid., p. 289) ed è significativo che, nella corrispondenza privata fra maestro e discepolo, il primato torni invece, boezianamente, alla filosofia (ibid., p. 375). Nicola metabolizza dunque la metafora e la estende efficacemente a descrivere un magistero al quale poi spesso sarà esortato: "Questi sono i sicuri pegni che lascia colui che insegna, che pianta in altri ciò che in sé riconosce piantato. E sebbene si estingua il soffio della vita, altrettanto non perisce il sapere; ciò che termina nell'uomo non termina nel maestro" (ibid., pp. 392-393).
Niccolò da Rocca, il celebre allievo di Pier della Vigna (suo l'elogio del logotheta con la fortunata immagine delle chiavi del cuore, anch'essa di ascendenza retorica; cf. G. Fava, Rota nova, in Kantorowicz, 1965, p. 210), svolse un ruolo cruciale dopo essersi trasferito (post 1266) presso la corte papale (era familiaris del cardinale Giordano di Terracina). Con lui, nel 1268, è peraltro attestato quell'Enrico di Isernia che esporterà le tecniche meridionali dapprima in Sassonia (a Pirna, con Pietro da Prezze) e poi a Praga, alla corte boema di re Ottocaro II (Schaller, 1986, p. 104).
Nella corte papale si erano raggiunti livelli altissimi nell'arte della composizione latina: basti qui nominare Riccardo di Pofi, Marino da Eboli, Berardo (Caracciolo) di Napoli, "il Bembo del suo secolo" (De Luca, 1951), che costituì la più grande collezione di atti papali. Occorre ricordare però soprattutto tre personaggi, tutti provenienti da Capua ‒ in ciò, oltre che su una peculiarissima condizione (Bova, 1996, p. 15), poggia la determinazione di una 'scuola capuana' (Pivec, 1953), giacché non vi sono di fatto documenti che dimostrino l'esistenza a Capua di precise scholae di retorica ‒, ovvero: Giovanni, il nipote di Pier della Vigna che aveva studiato nel 1243 a Parigi (Stürner, 2000, p. 362; Kantorowicz, 1965, p. 174; da non confondere con almeno altri tre personaggi dallo stesso nome: cf. Delle Donne, 2000, pp. 759-760) e soprattutto Rinaldo e Tommaso. Rinaldo di Capua, personaggio di rilievo nella Curia e consigliere di Innocenzo III, venne espressamente inviato presso Federico nel 1218 in vista della riorganizzazione della cancelleria e vi esercitò un influsso notevole (Acta Imperii inedita, nrr. 168, 226; Hampe, 1910).
Tommaso da Capua (m. 1239), notaio, cancelliere di papa Innocenzo III e dedicatario dell'importante quanto ancora oscura opera enciclopedica Peri ton anthropon theopysis (o De hominum deificatione) scritta da Gregorio di Montesacro (Chiesa, 2002), è forse la figura più celebre della Curia papale e l'autore del primo formulario professionale, in dieci libri, preceduto da un'introduzione teorica, il cui titolo esatto è Summa artis dictaminis sive de arte dictandi epistolas secundum stylum curiae. Tale stile doveva essere appunto quello denominato da Giovanni di Garlandia 'gregoriano' dal nome del pontefice Gregorio VIII (1187). Le epistole (circa seicento tràdite da più di ottanta manoscritti) e l'Ars (utilizzata ad esempio da Guido Fava) dovettero godere di una fortuna pari a quella del modello fridericiano. Difficile tuttavia valutarne la portata: a Viterbo fra il 1268 e il 1271 vennero probabilmente confuse già le prime recensioni (non a caso si registrano scambi attributivi fra epistole di Tommaso di Capua e Pier della Vigna; Schaller, 1986, p. 109; Herde, 1995, p. 78). Riusciva difficile infatti (allora e ancora oggi) distinguere il copyright di lettere scritte di fatto nel medesimo stile scintillante, sincretico in origine, caratterizzato dall'uso del cursus, di tropi e topoi ‒ anche classici, più frequenti le reminiscenze bibliche che contribuiscono al tono solenne, apocalittico (von Moos, 1994, p. 78) ‒, dall'uso nelle epistole di versi (che ne fanno dei piccoli prosimetri), dall'impiego in particolare di un raffinato stilema, "l'avvicinamento di due parole di suono simile, una specie di paronomasia" (Di Capua, 1959, I, p. 501), caratteristico a sua volta dello stile isidoriano e utilizzato frequentemente da Alano di Lilla.
Rolandino da Padova (Chronica, 1905-1908, X, 4, p. 135), che a Bologna nel 1221 era stato allievo diretto di Boncompagno e che dunque poteva cogliere con certa agevolezza le sottigliezze dell'eloquio, scrive che, in occasione della scomunica dell'imperatore, "il giudice imperiale Pietro della Vigna proruppe, forte di letture divine e umane, e fra queste quelle dei poeti; cominciò da quel luogo di Ovidio che dice: Leniter ex merito quicquid paciare, ferendum est / Que venit indigne pena, dolenda venit" (ibid., IV, p. 63). Egli testimonia in tal modo, ed è una delle poche dichiarazioni esplicite, dell'attività oratoria di Pier della Vigna (si ricordi contestualmente la perorazione fatta da Taddeo da Sessa a Lione di cui rimangono anche raffigurazioni miniate).
La perfezione stilistica della parola, la cui forza è spesso paragonata a quella di un pugile che combatte (Huillard-Bréholles, 1895, p. 376, ove il parlare è palestra: "in hac palestra dictaminis"; ibid., p. 379), prende avvio secondo consuetudine retorica da una sentenza, qui dalla citazione di un'auctoritas classica (tali tecniche saranno poi specificamente organizzate nelle cosiddette artes arengandi [su cui Artifoni, 1994, e cf. Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 16894, Pietro da Capua, Alphabetum in arte concionandi; Morpurgo 1986-1987, p. 74]).
L'eccellenza dello stile della cancelleria riguardo agli altri usi municipali dovette peraltro essere riconoscibile: si ricordino le parole di Salimbene de Adam quando riferisce come Federico prendesse in giro le cerimoniosità linguistiche degli ambasciatori di Cremona (Tramontana, 1999, p. 40); si ricordi contestualmente la figura di Albertano da Brescia, prigioniero di Federico dal 1238, che costituì di fatto uno dei pochi tentativi di risposta guelfa all'eloquenza ghibellina (Casagrande-Vecchio, 1987, p. 92).
Sopravvivono circa duecentotrenta codici con lettere attribuite a Pier della Vigna, volta a volta rubricati come: epistulae, dictamina, flores dictaminum, summa dictaminum (Hanauer, 1900, p. 527). Il suo stile dovette avere diffusione immediata, fuori d'Italia, in Spagna, in Inghilterra (per la cancelleria di re Edoardo cf. Kantorowicz, 1957) e nella penisola: Bonfiglio spiega ad Arezzo lo stilus altus nella sua classe di studenti di retorica già nel 1258. L'immensa fortuna durerà sino all'umanesimo quando, nei codici manoscritti, al capuano si accompagnerà il modello di Coluccio Salutati (Kristeller, 1965, p. 128).
Cifra importante dello stile di Pier della Vigna è la lettura e l'uso dei classici: per quanto tale valutazione non sia universalmente accettata e per quanto le lectio ed enarratio medievali siano condotte necessariamente sugli autori classici e tardoantichi, non vi è dubbio che occorrerebbe un'indagine rinnovata su tale, precoce, umanesimo che, se da una parte è testimone della nuova sensibilità verso le forme dell'antichità greca e romana, è segno nello specifico di letture concrete e di circolazione di testi. Pier della Vigna cita spesso Ovidio (almeno Heroides, V, 7-8; Metamorph., IV, 64 e VI, 523; Ars amandi, I, 442 e II, 432), Orazio (Ep., II, 3, e l'Ars nota anche ai poeti volgari; Antonelli, 1977, p. 105), Boezio, il Pamphilus, Cicerone (Huillard-Bréholles, 1895, pp. 291, 323, 391), Persio; sfoggia un uso 'classico' del metro e dei temi (ibid., p. 401; Delle Donne, 1999). Non solo: gioca, mutando la lettera del verso ai propri fini, utilizzando loci paralleli (ne è un esempio il passo con l'episodio di Piramo e Tisbe [Paratore, 1952, p. 288], luogo peraltro utilizzato anche nelle canzoni in volgare). Si ha l'impressione cioè che la competenza testuale dei classici sia notevole e che la presenza stessa dei testi sia destinata a crescere: nell'elenco naturalmente compare Virgilio (Alessio, 1983), probabilmente anche nell'esempio sopravvissuto del ms. Reg. Lat. 2090 (Villa, 1997, p. 338), forse del manoscritto conservato a Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. IV E 9 (con glosse alle Georgiche e il Planctus Italiae di Eustachio da Matera).
Il giudizio sullo stile di Pier della Vigna non fu equanime: troppo complesso, troppo oscuro, difficile ed estraneo all'ideale di quella concinnitas ciceroniana che poi prevalse. Così ad esempio Odofredo (Kantorowicz, 1909, p. 653 n. 1; 1965, p. 359), che concorda coll'anonimo glossatore della Commedia (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 40.42, in Villa, 1991, p. 136 n. 13), concorde a sua volta col giudizio di Benvenuto de Rambaldi da Imola (Comentum, 1887, p. 437).
Se difficile è l'accertamento relativo allo Studium, ancora più complessa è l'indagine relativa alle singole scholae che pure dovettero esistere e di cui abbiamo testimonianza indiretta.
Si ricordi in proposito la menzione di un certo maestro R., professore di grammatica a Napoli e maestro di dictamen tam metricum quam prosaicum che emerge da una lettera di tale "Iohannes de Argussa", notarius et curialis a Ischia, pubblicata da Charles Homer Haskins (1928, p. 141), ove sembrerebbe che si faccia allusione a un insegnamento privato di grammatica e retorica (v. in proposito Grammatica). La questione però pare anche terminologica: se è attribuibile a Terrisio la succitata contentio de nobilitate posta a Pier della Vigna e a Taddeo da Sessa, ebbene lì si dice che il tema "iocoso" era stato dibattuto "in scolis nostris".
Poco può dirsi infine di un'ars dictaminis esemplata nella prima metà del sec. XIV ma compilata a Palermo fra il 1254 e il 1261, anticamente in possesso delle benedettine di S. Maria la Nova, mentre più interessante anche se forse scritta nell'età di Carlo d'Angiò, fra 1274 e 1279, è l'ars di Nicola il Greco di Messina (Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 16716, XIII-XIV; Stuttgart, Landesbibliothek, ms. HB VIII.25, XIV; Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. I, 1313, a cui ora si aggiunga Wrocław, Biblioteka Uniwersytecka, ms. IV Q 81a; Polak, 1993, p. 235), ovvero di quello stesso Nicola, noto traduttore di Aristotele, legato al circolo di Roberto Grossatesta. L'opera, che si rifà al Candelabrum di Bene da Firenze, comprende fra l'altro excerpta dalle Heroides di Ovidio, ma numerosi appaiono gli auctores citati: l'Ars poetica di Orazio, il De senectute di Cicerone, Virgilio, Giovenale, Ovidio, il Prisciano minore (addotto solo da Tommaso di Capua nella definizione di dictamen), il Barbarismo di Donato, "che, a questa altezza, rinvia ad un ambiente culturale preciso, quello della scuola grammaticale premodista e modista" (Alessio, 1989, p. 306).
Anche la Summa (o Rhetorica) di Giovanni di Sicilia (fra 1271 e 1298?, Lexikon des Mittelalters, V, col. 606; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. Lat. 747 del XIV sec., a cui ora si aggiunga Sevilla, Biblioteca Colombina, ms. 7-3-17, e Bern, Burgerbibliothek, ms. 161; in Polak, 1994), per quanto ancora da studiare, dovette riscuotere qualche successo se ancora nel 1332, a Parigi, l'anonimo cistercense che scrisse il Compendium rhetorice (Oxford, Bodleian Library, Lat. Misc., c. 49) inserisce Giovanni fra i soli quattro scrittori di dictamina nominati (con Pier della Vigna, Riccardo di Pofi, Tommaso di Capua).
A proposito della qualifica esplicita del suddetto Nicola, non sarà senza importanza qui segnalare, oltre che per la lingua magnificamente ornata di Giovanni Grasso di Otranto (a cui peraltro viene attribuita la composizione delle lettere in greco di Federico e di cui si ricorda qui la Lysis, v. Grammatica) o di Giorgio l'archivista (cartafìlace) di Gallipoli, che fra i manoscritti del sec. XIII di probabile origine calabro-sicula ne sono compresi due di testi retorici: il commentario a Ermogene di Cristoforo retore (ms. Messan. S. Salv. 119) e gli opuscoli di introduzione alla retorica di Giovanni Dossapatre, seguiti dai Progymnasmata di Aftonio e da quei trattati dello stesso Ermogene che costituiscono la sua Ars rhetorica (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Gr. 107). Contestualmente si ricordi il lessico anonimo (London, College of Arms, ms. Arundel 9) che costituirà il veicolo dell'introduzione stessa e dello studio del greco in Inghilterra (Cavallo, 1980, p. 214; Id., 1994, p. 238).
Non è senza interesse inoltre ricordare come la prima traduzione della Retorica di Aristotele che apparve in Occidente (translatio vetus) sia opera probabilmente di Bartolomeo di Messina e sia stata forse completata prima del 1250 (Spengel, 1867, I, p. 177; sopravvive in tre manoscritti). Tanto più che sono stati dimostrati i debiti di Moerbeke nei riguardi di Bartolomeo (Minio Paluello, 1941, p. 7) e del bacino librario meridionale, e che ora si è addirittura riconosciuto come la mano del ms. Marc. Gr. 226 che tramanda la biografia di Aristotele (Vita Hesychii) sia proprio di Nicola-Nettario di Casole (Rashed, 2002, pp. 695, 702-703). Quanto alla pseudoaristotelica Rhetorica ad Alexandrum, la translatio vaticana è assegnata da Leonhard Dittmeyer al regno di Manfredi (Murphy, 1983, p. 116 n. 44).
Si noti infine che, databile al 1260, la Rettorica di Brunetto Latini (si ricordi anche la Sommetta tràdita dal codice: Firenze, Biblioteca Nazionale, ms. Strozzi II.VIII.36, c. 75, ove numerosi appaiono i reimpieghi di stilemi lirici siciliani) conosce bene e nomina esplicitamente le epistole di Pier della Vigna (come poi farà Dante); più o meno contemporaneo (entro il 1266) sembrerebbe il Fiore di rettorica di Guidotto da Bologna, un compendio della Rhetorica ad Herennium che parrebbe dedicato a Manfredi (Segre, 1970, p. 173).
fonti e bibliografia
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Per un inquadramento generale: J.J. Murphy, La retorica nel Medioevo, Napoli 1983; M. Camargo, Ars dictaminis, ars dictandi, Turnhout 1991; P. von Moos, La retorica nel Medioevo, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1, Il medioevo latino, a cura di G. Cavallo-C. Leonardi-E. Menestò, 1, La produzione del testo, Roma 1993, pp. 231-271;F. Morenzoni, Epistolografia e 'artes dictandi', ibid., 2, La circolazione del testo, ivi 1994, pp. 443-464.
Inoltre v.: F. Quadlbauer, Die antike Theorie der genera dicendi im lateinischen Mittelalter, Wien 1962; P. Bagni, Artes dictandie tecniche letterarie, in Retorica e poetica tra i secoli XII e XIV. Atti del secondo Convegno internazionale di studi dell'Associazione per il medioevo e l'umanesimo latini in onore e memoria di E. Franceschini (Trento-Rovereto, 3-5 ottobre 1985), a cura di C. Leonardi-E. Menestò, Firenze 1988, pp. 201-220; M.D. Reeve, The Circulation of Classical Works on Rhetoric from the 12th to the 14th Century, ibid., pp. 109-124; F. Bruni, L'ars dictandie la letteratura scolastica, in Storia della civiltà letteraria italiana, a cura di G. Barberi Squarotti, I, Dalle origini al Trecento, Torino 1990, pp. 155-210; Cancelleria e cultura nel Medio Evo. Comunicazioni presentate nelle giornate di studio, Stoccarda, 29-30 agosto 1985, XVI Congresso Internazionale di Scienze Storiche, a cura di G. Gualdo, Città del Vaticano 1990; R. Copeland, Rhetoric, Hermeneutics and Translations in the Middle Ages, Cambridge 1991.
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