EREDITÀ
. Biologia. - Alla parola eredità intesa in senso biologico associamo comunemente il concetto dell'ineluttabile: tutti siamo convinti cioè che il divenire d'un individuo, almeno per una gran parte delle sue caratteristiche morfologiche, e anche per qualcuna delle sue attitudini psichiche e mentali, debba essere subordinato a qualche cosa d'indefinibile, ma già in potenza esistente nell'uovo.
Eredità quindi o patrimonio ereditario non è che l'insieme di quelle proprietà provenienti dai progenitori e che sono contenute in quella cellula (che normalmente è un uovo fecondato) dalla quale s'inizia lo sviluppo del nuovo individuo. Questo non è però completamente subordinato alle suddette proprietà ereditarie: una parte del suo divenire deve essere dipendente dalle circostanze d'ambiente, talvolta indefinibili, ma che tal'altra, invece, siamo in grado d'identificare anche in modo esatto. Così, semi di specie di piante alpine messi a germogliare in pianura perdono molte delle caratteristiche delle piante alpine; animali allevati con scarso nutrimento rimangono molto più piccoli di altri allevati con nutrimento abbondante; girini di rana alimentati a dieta vegetariana sviluppano di più il loro intestino che non se allevati con nutrimento esclusivamente carneo.
Per quanto il modo di reagire dell'individuo alle condizioni ambientali non sia del tutto omogeneo, perché difficilmente è omogeneo in tutti gl'individui il patrimonio ereditario, tuttavia siamo indotti ad ammettere una notevole influenza dell'ambiente sul divenire dell'individuo. Anche le qualità psichiche e intellettuali dell'uomo, anche quelle schiettamente ereditarie, come le attitudini musicali, meccaniche e artistiche non sarebbero suscettibili né di evoluzione né di perfezionamento, se l'ambiente non fosse adatto al loro estrinsecarsi. Eredità e ambiente, molte volte quest'ultimo affidato al puro caso, sono quindi le due forze che influiscono sul divenire dell'individuo. Ma le forze dell'ambiente che indipendentemente dal patrimonio ereditario possono purtuttavia agire anche da sole sul destino dell'individuo, lasciano traccia di sé nella discendenza, anche quando la discendenza stessa non è più sottoposta alla sua influenza? È questo il problema fondamentale che ha affaticato molti filosofi e naturalisti e che non può ancora considerarsi del tutto risolto. Per gli evoluzionisti seguaci del Lamarck qualunque modificazione dovuta all'ambiente si eredita totalmente; e di generazione in generazione il carattere stesso, in correlazione a sempre più profonde modificazioni del plasma germinativo, è destinato, sino a certi limiti e compatibilmente con l'utilità che ne trae la specie, a maggiorare sempre di più. Gli organi destinati a un lavoro intenso tendono all'ipertrofia, tendono invece all'atrofia organi sottoposti a poco uso. Le caratteristiche quindi di un individuo, anche quelle esclusivamente dovute all'ambiente, che possono modificare considerevolmente la mole dell'individuo, la forma e la struttura di molte parti, tutte le modificazioni che intervengono in seguito all'uso o al non uso degli organi sono direttamente ereditabili dai genitori ai figli e così successivamente. In fondo anche il Darwin nella sua teoria della pangenesi accetta in gran parte i concetti lamarckiani. Secondo il Darwin infatti le gemmule, che partendo da tutte le cellule dell'organismo si riverserebbero nelle cellule sessuali, porterebbero in sé e imprimerebbero alla sostanza germinativa tutte quelle modificazioni che le cellule somatiche hanno subito per qualsiasi influsso ambientale.
Spetta ad Augusto Weismann, con la teoria della continuità del plasma germinativo enunciata circa cinquant'anni or sono, il merito di avere richiamato l'attenzione dei biologi sul problema dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti, facendo essenzialmente risaltare tutta l'insufficienza d'una dimostrazione rigorosa al riguardo. Per il Weismann, secondo un concetto già elaborato dal Naegeli, le cellule germinative, ed essenzialmente il loro nucleo, sono costituite di sostanza vivente del tutto speciale (idioplasma). Questo idioplasma, almeno potenzialmerte, immortale, contiene tutte le proprietà ereditarie che gli provengono dai progenitori, in guisa tale da trasmettere alla discendenza non solo l'eredità paterna e materna, ma anche la cosiddetta eredità ancestrale, cioè quella ereditata dagli avi, destinata però in gran parte ad essere eliminata per mezzo delle ben note divisioni cellulari che avvengono durante la maturazione degli elementi germinali. Durante lo sviluppo il differenziamento tra plasma germinativo e cellule somatiche (queste destinate a perire con la morte dell'individuo) avverrebbe assai precocemente, e il plasma germinativo, profondamente collocato nell'interno del corpo dell'individuo, non potrebbe risentire l'influenza che l'ambiente esterno esercita sulle cellule somatiche dell'individuo stesso. Di guisa che il patrimonio ereditario verrebbe di norma trasmesso pressoché integro di generazione in generazione, così come è rappresentato nell'annesso schema (fig. 1).
Le amputazioni quindi, tutte le cosiddette somazioni, vale a dire le modificazioni anormali di sviluppo in seguito al diretto influsso dell'ambiente esterno, le ipertrofie o le atrofie degli organi, dovute all'uso oppure al disuso, non sarebbero ereditabili, o per meglio dire non sarebbero reversibili, come tali, alla susseguente generazione. Nulla esclude però che la continuità del plasma germinativo possa venire interrotta per una qualunque modificazione che appaia spontaneamente e d'improvviso nell'intima compagine del plasma germinativo. Di queste modificazioni, più esattamente interpretate dal De Vries, a cui spetta il merito di avere al riguardo enunciato la cosiddetta teoria delle mutazioni, possediamo esempî molto evidenti, già del resto indicati dal Darwin con il nome di sports. Così, per esempio, in una pianta (Chelidonium maius) è sorta d'improvviso circa tre secoli or sono una di tali mutazioni a cui corrispose una modificazione brusca e improvvisa della specie. Da un seme della specie maius si sviluppò una pianta il cui nuovo carattere fondamentale era una profonda laciniatura delle foglie. Questo carattere si dimostrò bene stabilizzato attraverso la successione di infinite generazioni, e ora possediamo un Chelidonium laciniatum che in confronto al maius deve, per la stabilità del suo carattere, essere considerato come una buona specie. Egualmente è bene nota la mutazione detta Ancon sorta d'improvviso in comuni greggi di pecore. Tale mutazione, caratterizzata essenzialmente da una malformazione nello sviluppo delle estremità che rimangono molto corte, così come nei cani bassotti, fu potuta fissare e conservare in una razza propagata sino a non molti anni or sono. Non vi è poi allevatore di animali domestici, il quale non abbia osservato come in alcuni esemplari possono sorgere caratteri del tutto nuovi, che con un lavoro selettivo adatto possono essere conservati di generazione in generazione. Anche per l'uomo si presume che molte anomalie ossee (eterodattilia, sindattilia, ecc.) sicuramente ereditarie siano sorte per mutazionismo.
In tutti i casi indicati la modificazione brusca e improvvisa del plasma germinativo non è riferibile ad alcuna causa; possono queste cause essere le più diverse e avere agito insensibilmente sulla sostanza germinativa, ma noi le ignoriamo e non le possiamo per nulla apprezzare. Invece in altri casi possiamo realmente, con agenti ben noti e anche ben dosabili, indurre delle modificazioni nell'intima compagine della sostanza germinativa. In alcuni animali e in alcune piante, sulle quali oggi si esperimenta largamente, sottoposti a condizioni continuamente mutevoli di temperatura, di grado di umidità, di luce, di nutrizione, sorgono talora nell'immediata discendenza caratteri nuovi, alcuni dei quali sembrano bene stabilizzati, e quindi ereditarî. Vi è da supporre che nei detti casi la sostanza germinativa sia stata particolarmente sensibile ai suddetti influssi esterni e che sia avvenuta una qualche alterazione nell'intima sua compagine. Con una tecnica bene appropriata dei raggi Röntgen e dei raggi delle sostanze radioattive, come pure con variazioni rapide del campo magnetico, si riesce senza dubbio a influenzare la sostanza germinativa, tanto è vero che nella successiva discendenza compaiono caratteri nuovi, perfettamente ereditabili, caratteri che però sono in generale di deficienza in confronto con quelli primitivi, quasi a indicare che la sostanza germinativa deve essere stata in qualche punto parzialmente lesa. In complesso, tutta una serie di esperienze e di osservazioni ci induce ad ammettere che solo quando le modificazioni interessano la sostanza germinativa la trasmissione dei caratteri ereditarî può in qualche modo essere interrotta e anche alterata. Le semplici somazioni, o modificazioni del soma, a meno che non siano un indice d'una qualche alterazione intervenuta nelle cellule germinative, non sono ereditabili. L'ambiente poi, nella sua più larga comprensione, può anch'esso influire sulla sostanza germinativa, sia direttamente sia indirettamente. Se anche non possiamo precisare in quale modo, attraverso le cellule somatiche, possa avvenire una qualche modificazione nelle cellule germinative, nulla esclude che in un organismo che reagisca fortemente alle condizioni ambientali, anche le cellule germinative possano, quando siano in condizioni di particolare sensibilità, reagire anch'esse, venendone modificata l'integrità primitiva. Una larga esperimentazione è in tal modo ancora aperta al riguardo dell'influenza dell'ambiente, specialmente se continuativa, sul plasma germinativo. L'eredità deve essere interpretata però come una gran forza conservatrice, e la sostanza germinativa estrinsecatrice delle proprietà ereditarie deve in genere essere concepita come dotata di notevole stabilità. Ma nulla vieta di ammettere che in particolari circostanze possa anche sottentrare un certo grado di labilità, da cui dipenderebbe l'estrinsecazione di caratteri del tutto nuovi.
I caratteri ereditarî nelle specie a nozze allogamiche vengono trasmessi dai due gameti che si congiungono nel processo della fecondazione: tutta l'eredità di parte paterna viene trasmessa per mezzo del gamete maschile o spermatozoo; tutta l'eredità di parte materna viene trasmessa per mezzo dell'uovo. Ma in questa trasmissione sono i due gameti equivalenti, oppure uno sull'altro preponderante? Il problema si può dire oggi in gran parte risolto, ma non vi è altro campo della biologia su cui si sia altrettanto disputato.
In un antico codice indiano di istituzioni religiose e sociali, Mānava-dharma-śāstra (IX-V, 33 seg.), vi sono cenni abbastanza precisi sulla preponderanza che il padre (il seme) avrebbe sulla discendenza, venendo considemta la madre come il campo, su cui a tempo opportuno viene gettato il seme. Anche per i filosofi alessandrini il padre avrebbe maggiore importanza per la trasmissione dei caratteri ereditarî. Nel 1677 la scoperta da parte dello studente olandese Luigi Ham (allievo del Leuwenhoek) degli spermatozoi nel liquido seminale dell'uomo parve togliere per certuni, i cosiddetti "spermatisti" o "animalculisti", ogni dubbio in proposito. Pretendevano quei primi osservatori di riconoscere entro lo spermatozoo persino un piccolo essere in miniatura, completamente preformato. L'altro elemento sessuale, cioè l'uovo, inerte e immobile, avrebbe rappresentato la parte adibita esclusivamente alla nutrizione di quel piccolo essere contenuto nello spermatozoo. Nel sec. XVII Harvey, Swammerdam e Malpighi, nel XVIII Haller, Bonnet, Vallisnieri, Spallanzani, ecc., si opposero nettamente alla concezione degli spermatisti. Per essi, e specialmente per lo Spallanzani, gli spermatozoi non erano neppure considerati organismi specifici per il processo della fecondazione; e il liquido seminale non avrebbe avuto altra funzione che quella (penetrando nell'uovo attraverso molteplici pori) di stimolare lo sviluppo delle singole parti, già nell'uovo abbozzate in miniatura. Intanto alle suddette scuole nettamente preformiste, per merito soprattutto di G. F. Wolff (1759), cominciarono a contrapporsi le teorie epigeniste. Era del tutto vano, secondo gli epigenisti, pretendere di riconoscere o nello spermatozoo, oppure nell'uovo, il futuro organismo in miniatura; l'uovo fecondato non doveva ravvisarsi che come una massa contenente materia indifferenziata, che durante lo sviluppo sarebbe venuta via via complicandosi, differenziandosi e organizzandosi. La verità era già intravista; ma sulla reale funzione che i due gameti avrebbero avuto nella trasmissione dei caratteri ereditarî nulla si sapeva ancora di conclusivo.
Nel 1875, per merito essenzialmente di O. Hertwig, si giunse finalmente alla dimostrazione che, per lo più, un solo spermatozoo entra nell'uovo durante il processo fecondativo. Poco dopo V. Beneden e Th. Boveri dimostrarono che l'uovo e lo spermatozoo, pur così differenti nella forma e nella grandezza, sono invece perfettamente equivalenti al riguardo della quantità di sostanza cromatica del loro nucleo. Tale scoperta, di fondamentale importanza per l'ulteriore sviluppo della teoria sull'eredità, doveva poi essere estesa, per merito soprattutto di E. Strasburger, anche al regno vegetale. Finivano quindi le infinite dispute tra ovisti e spermatisti: tutta l'attenzione veniva da quell'epoca rivolta al comportamento della sostanza cromatica dei due gameti, sia durante il periodo della loro maturazione, sia durante quello della loro unione nel processo fecondativo.
L'osservazione anche più superficiale persuade immediatamante che i due genitori sono in grado di trasmettere in eguale misura i caratteri ereditarî. Specialmente nei casi di ibridi, il fatto è di grande evidenza: così già da secoli l'uomo ha ibridato la cavalla con lo stallone asino, ottenendo il mulo; e ha poi ottenuto anche l'ibrido reciproco, che è il bardotto, fecondando l'asina con lo stallone cavallo. I due ibridi non sono eguali e non possono essere confusi, non perché il mulo abbia preponderanti i caratteri del cavallo e il bardotto quelli dell'asino, ma unicamente perché i caratteri intermedî tra l'asino e il cavallo, presenti in ambedue gl'ibridi, vi sono invece diversamente associati. Già di per sé questa semplice constatazione, estensibile del resto a tutti i numerosi casi di ibridi, ci parla nettamente in favore dell'equivalenza dei due gameti come trasmettitori delle proprietà ereditarie. L'altra constatazione poi, altrettanto sicura, che i due gameti, pur così differenti in tutte le altre parti, sono invece perfettamente equivalenti come quantità di sostanza cromatica, deve necessariamente farci conchiudere che la sostanza cromatica deve avere una funzione del tutto peculiare al riguardo dell'estrinsecazione dei caratteri ereditarî.
Alcuni embriologi, per esempio A. Brachet, riprendendo antiche idee già espresse da E. G. Conklin, ritengono che la polarità dell'uovo, la simmetria, la forma e la struttura dell'embrione dipendano esclusivamente dall'uovo (v. embriologia sperimentale). Solo per quanto riguarda la trasmissione di caratteri individuali (per esempio nell'uomo il colore della pelle, degli occhi, la forma e il colore dei capelli e via dicendo) i due gameti si troverebbero in condizione di equipotenzialità. Si distingue pertanto da alcuni una morfogenesi generale e una morfogenesi speciale; tale distinzione può ritenersi opportuna, in quanto realmente l'uovo possiede ben altre possibilità in confronto dello spermatozoo. Capace di sviluppo del tutto autonomo nei casi di partenogenesi naturale e artificiale, l'uovo senza dubbio possiede in potenza quanto occorre per l'edificazione dell'intero organismo. Quando si tenta la fecondazione tra uova e spermî appartenenti a specie abbastanza lontane fra loro, la sostanza cromatica dello spermatozoo, se trova nell'uovo un ambiente troppo eterogeneo, viene senz'altro eliminata, e lo sviluppo larvale si comprende debba essere esclusivamente matroclino. Ma anche se non avviene tale eliminazione, assai spesso almeno i primi stadî embrionali inclinano verso i caratteri materni. Si direbbe che la sostanza cromatica paterna non è immediatamente in grado di elaborare quelle sostanze da cui dovrebbe dipendere l'affermazione dei caratteri paterni. L'uovo, invece, tali sostanze le ha potute elaborare durante l'oogenesi, e si tratta di sostanze organo-formative le quali necessariamente dovranno imprimere all'embrione uno sviluppo nettamente matroclino (v. embriologia sperimentale). In certi casi le sostanze organoformative sono visibilmente differenziate, quasi a indicare che lo sviluppo è già cominciato con esclusivo materiale materno, prima ancora che sia avvenuta la fecondazione. In un Tunicato (Cynthia partita), come indica l'annessa figura 2, è persino già bene predeterminata nell'uovo, al momento della fecondazione, una zona che darà origine a cellule embrionali da cui deriverà tutto l'ectoderma del futuro embrione. L'uovo, in definitiva, al momento della fecondazione non è equipotenziale di fronte allo spermatozoo, esclusivamente per il fatto che esso, per quanto si trovi con un materiale cromatinico perfettamente corrispondente, ha avuto a propria disposizione del materiale da elaborare, che viceversa non ha avuto lo spermatozoo. Questa elaborazione può essere più o meno precoce, e da questa maggiore o minore precocità dipende l'affermazione più o meno evidente di una determinazione delle parti nel senso esclusivamente materno. Se un ovulo contiene plastiduli (nei vegetali) oppure pigmenti, e viene fecondato con lo spermio d'una specie che non possieda eguale sorta di plastiduli e di pigmenti, l'ibrido possiederà completamente ed esclusivamente le caratteristiche di pigmentazione che sono peculiari alla specie a cui appartiene la madre. Questa sorta di ereditarietà viene indicata come ereditarietà materna. La dizione non è esatta. Si tratta in realtà, secondo il parere di molti, della conservazione e dello sviluppo di un carattere che è esclusivamente inerente al protoplasma dell'uovo, che non può essere inerente a quello dello spermatozoo, in quanto che esclusivamente dalla sostanza cromatica dell'uovo ha potuto essere elaborato durante il processo dell'oogenesi. Si potrebbe parlare nei suddetti casi di eredità materna solo quando le cellule sessuali dell'ibrido fossero alla loro volta in grado di trasmettere integralmente alla discendenza quelle caratteristiche pigmentazioni che sono peculiari della specie a cui appartiene la madre. Se ciò non avviene, dato il significato restrittivo che abbiamo dato al vocabolo ereditȧ (che è quello di trasmissione di generazione in generazione di caratteristiche sia paterne sia materne), non possono i suddetti casi essere indicati come casi di eredità matroclina.
L'analisi assai minuta dei fenomeni che avvengono durante la maturazione delle cellule sessuali, fatta ormai su moltissime specie del regno animale e vegetale, i dati assai precisi che ormai si possiedono al riguardo del fenomeno della fecondazione hanno permesso una conclusione di assoluta certezza; e che cioè esistono in un uovo fecondato due serie perfettamente omologhe di bastoncelli cromatici (cromosomi); l'una serie è contenuta nell'uovo, l'altra è introdotta nell'uovo dallo spermatozoo. Se alcune piccole differenze esistono tra le due serie, o nel numero o nella forma di determinati cromosomi, ciò è in relazione col fenomeno della determinazione del sesso (figg. 3 e 4).
Ma ciò che è importante stabilire si è che durante la maturazione di ambedue le sorta di gameti avvengono fondamemalmente gli stessi fenomeni che conducono a un risultato identico; che è quello di assicurare a ciascuno di essi lo stesso numero di cromosomi in una serie semplice (condizione aploide); la quale diverrà doppia (condizione diploide) con l'atto della fecondazione. L'uovo inizia in tal modo lo sviluppo in condizione diploide e la serie aploide di cromosomi che vi viene introdotta corrisponde a quella parte apicale dello spermatozoo, in cui è contenuta fortemente condensata la sostanza cromatica. Siamo di fronte così a due fatti: 1. i due gameti sono corrispondenti in modo perfetto, esclusivamente per quanto riguarda la sostanza cromatica; 2. nel futuro organismo i caratteri paterni sono per lo più mescolati in equa proporzione con i caratteri materni (fig. 5). Date queste due constatazioni, un processo del tutto logico di idee deve condurre ad attribuire una funzione del tutto specifica alla sostanza cromatica nei riguardi della trasmissione dei caratteri ereditarî. Il Rabl nel 1885, ma specialmente il Boveri, furono in tal modo condotti a enunciare la cosiddetta teoria dell'individualità dei cromosomi. La teoria, la quale si fonda su molte osservazioni e su molte esperienze, istituite genialmente dal Boveri, può nel suo contenuto essenziale essere così riassunta: ciascun cromosoma è da riguardarsi come un organismo elementare bene individualizzabile e dotato di peculiari proprietà.
Esso è presente (sebbene non più elettivamente colorabile) anche durante il periodo di riposo del nucleo. Questo periodo non è affatto un periodo di quiescenza, anzi è un periodo di attiva elaborazione e di differenziamento di sostanza vivente da parte di ogni singolo cromosoma, il quale svolgerebbe in tal modo la sua attività in un determinato territorio cellulare. La cariocinesi significa una sosta momentanea nell'attività di ogni singolo cromosoma, e ciascuno di essi, che durante le varie fasi della cariocinesi ritorna a divenire compatto e quindi bene individualizzabile, è da riguardarsi come geneticamente collegato con il cromosoma preesistente, in modo tale da potersi realmente parlare di una continuità genetica dei cromosomi, attraverso le innumerevoli cariocinesi che si svolgono durante lo sviluppo dell'organismo. Siccome i cromosomi devono ritenersi qualitativamente differenti l'uno dall'altro (v. embriologia sperimentale), così la teoria esige che la mancanza o l'inattività d'uno di essi impedisca la realizzazione di un determinato organo, di una determinata struttura e di determinati caratteri del futuro organismo. La teoria non esclude però che nell'elaborazione delle sostanze che preparano l'edificazione dell'organismo possa esservi anche un'azione solidale e comune da parte di tutti i cromosomi; essa esige essenzialmente l'aderenza al concetto che ciascuno di essi sia da riguardare come un organismo elementare, con una funzione bene specifica e determinata.
Alla suddetta teoria non sono mancate autorevoli obiezioni. Anzitutto, durante il periodo interposto tra una cariocinesi e un'altra, la sostanza nucleare non solo è per lo più del tutto incolora e quindi invisibile, ma essa appare bene spesso come un tutto indissociabile e uniforme col succo nucleare. Se ciascun cromosoma è un individuo, morfologicamente e fisiologicamente ben differenziabile, perché mai la struttura del nucleo in riposo non deve apparire in qualche modo discontinua ed eterogenea, in confronto con le sostanze contenute nel succo nucleare? In secondo luogo, se i cromosomi hanno una così grande importanza come estrinsecatori di caratteri, evidentemente dovremmo osservare delle cospicue differenze morfologiche correlativamente a una variazione nel numero dei cromosomi. Invece esistono in seno ad alcune specie (a parte le specie cosiddette poliploidi in cui la serie dei cromosomi è regolarmente rappresentata parecchie volte) delle varietà a numero notevolmente diverso di cromosomi e che ciò nonostante non presentano alcuna differenza apprezzabile.
Le suddette obiezioni e altre del genere sono state ampiamente confutate e l'interminabile polemica che ha ricolmato la letteratura citologica del primo decennio del nostro secolo pare oggi alquanto sopita, specialmente perché siamo in un periodo in cui tutti gli studî di genetica, quelli sulla determinazione del sesso e sui caratteri inerenti al sesso, gli stessi studî sull'ereditarietà dell'uomo, specialmente quelli che riguardano la trasmissione delle proprietà fisiologiche e patologiche del sangue, hanno per base una teoria corpuscolare della sostanza estrinsecatrice delle proprietà ereditarie, la quale non solo dà come dimostrata la teoria dell'individualità dei cromosomi, ma esige ancora una teoria supplementare, che cioè lungo ciascun cromosoma siano allineati, così come in una catenella, le singole unità ereditarie condizionatrici dei singoli caratteri ereditarî, anch'esse considerate quindi come individualità autonome, che troverebbero il loro supporto in determinati punti di ogni singolo cromosoma (v. genetica).
Del resto bisogna convenire che accettando l'ipotesi contraria, non ammettendo cioè l'individualità dei cromosomi, molti fatti sarebbero del tutto inspiegabili. Specialmente su materiale botanico, ma anche su materiale zoologico, si riescono infatti a ibridare tra loro specie e varietà che differiscono per la forma e anche per il numero dei cromosomi. Orbene nell'ibrido, durante la maturazione delle cellule sessuali, si riesce a riconoscere non solo, ma anche a individuare quale dei cromosomi proviene da un genitore e quale proviene dall'altro. Di molte piante coltivate si è potuto in tal modo stabilire l'origine per ibridazione casualmente avvenuta fra piante selvatiche, per l'appunto mediante la fine analisi citologica, che consente d'individuare ogni singolo cromosoma quando, come avviene di frequente, ciascuno di essi ha caratteristiche proprie di forma e di grandezza. La scoperta dei cromosomi sessuali, ma più che tutto la dimostrazione ottenuta che da essi dipende la determinazione del sesso, la trasmissione di alcuni caratteri inerenti a uno solo dei sessi, inspiegabile altrimenti, qualora non si ammetta che i fattori ad essi corrispondenti siano collocati nei cromosomi sessuali, hanno costituito poi altre prove assai valide per la teoria dell'individualità dei cromosomi. Infine la riscoperta delle leggi di Mendel avvenuta nel 1900, quando cioè la citologia aveva di già messo in chiaro il significato da darsi alla maturazione delle cellule sessuali, doveva fornire altre prove alla teoria stessa. Infatti con la dimostrazione data dal Mendel che le unità ereditarie tra loro antagoniste, insieme riunite in tutte le cellule dell'ibrido, si dissociano le une dalle altre durante la formazione dei gameti, e in modo tale, che esclusivamente l'una oppure l'altra è presente nei gameti stessi, si doveva pur venire logicamente a pensare che esistesse un meccanismo idoneo ad assicurare il suddetto processo di disgiunzione. Orbene, il modo con cui avvengono i fenomeni maturativi, e specialmente la separazione dei cromosomi durante la prima divisione maturativa, costituisce proprio quel meccanismo che assicura anche la separazione delle unità mendeliane, quando si ammetta che dette unità siano contenute nei cromosomi. Se non fosse stato scoperto tale meccanismo completamente sufficiente a spiegare la disgiunzione delle unità ereditarie, bisognerebbe supporre l'esistenza d'un altro consimile, per spiegare i risultati che si ottengono nelle esperienze di ibridazione.
Nel campo degli studî sull'eredità attraversiamo in tal modo un periodo in cui molte discussioni appaiono sopite, ammettendosi dai più una teoria corpuscolare dell'ereditarietà, che presenta qualche punto di contatto con la teoria atomica dei fisici e dei chimici. Il chimico riesce infatti a congiungere e a disgiungere gli atomi e le molecole della materia bruta, formando in tal modo delle combinazioni nuove, diverse da quelle che sono state il punto di partenza; così egualmente le unità ereditarie o congiunte o disgiunte, secondo le possibilità volute dal caso, possono dare origine alle costituzioni genetiche più diverse; alcune delle quali ripetono le costituzioni primitive, altre invece possono essere del tutto nuove, contenendo insieme riunite unità ereditarie prima disgiunte in stipiti diversi.
I nuovi concetti sull'ereditarietà, specialmente quelli riguardanti una relativa segregazione del plasma germinativo dagl'influssi esterni, ma specialmente la teoria corpuscolare, hanno tracciato direttive del tutto nuove nel campo della selezione. Così, per es., oggi sappiamo che le qualità apparenti dei semi delle piante granarie nulla ci dicono di sicuro sulle loro effettive proprietà insite nel plasma germinativo. Solo l'esame accurato della discendenza ci può dire se le buone proprietà erano solo apparenti (dovute, per es., a buone condizioni ambientali), oppure dovute a una vantaggiosa costituzione del patrimonio ereditario. Nelle piante e negli animali a fecondazione incrociata, con un'accurata scelta esercitata sulle generazioni filiali, si tende poi a eliminare da un determinato ceppo gl'individui che presentano caratteri svantaggiosi, conservando quelli in cui sono congiunti caratteri buoni. Per l'uomo si tende egualmente ad ammettere che una notevole quantità di caratteri siano sotto il dominio di uno o parecchi fattori ereditarî che nella loro distribuzione alla progenie seguirebbero le stesse leggi mendeliane.
Il mendelismo non è forse l'unico modo di ereditarietà di caratteri, lo schema semplice al riguardo di fattori tra loro nettamente antagonisti; non è sufficiente per renderci conto del modo con cui si trasmettono alcuni caratteri molto complessi, quali per esempio quelli della statura e quelli delle costituzioni individuali nell'uomo, caratteri che è anche a credere siano sotto il dominio delle ghiandole a secrezione interne, e che quindi possono anche essere deviati nel loro estrinsecarsi per cause puramente esogene, non sempre del tutto identificabili. Anche la prolificità dei gallinacei, cioè la maggiore o minore produzione di uova, come pure la maggiore o minore produzione di latte delle razze domestiche, difficilmente pare possano rientrare nell'ambito del mendelismo. Nel miglioramento delle razze degli animali domestici si adottano talvolta anche criterî alquanto diversi da quelli suggeriti dal puro mendelismo, attenendosi invece agli antichi concetti di un'ereditarietà cosiddetta intermedia. Ed è per questo che i concetti sull'eredità ampiamente svolti da F. Galton circa 40 anni or sono presentano anche oggi un certo interesse. La teoria del Galton prevede una ripartizione quantitativamente esatta del patrimonio ereditario di generazione in generazione. In contrasto con tutto il mendelismo, la sostanza germinativa costituirebbe un tutto omogeneo e indissociabile, di guisa che non potrebbe più venire attribuito alcun significato alle divisioni riduttive. Conseguentemente i singoli cromosomi verrebbero riguardati niente altro che come una parte di quel tutto che costituisce il cosiddetto plasma germinativo, senza attribuire quindi in modo speciale a ciascuno di essi una peculiare importanza nella trasmissione dei caratteri ereditarî. La teoria non prevede poi l'esistenza di particelle autonome costituenti singole unità ereditarie, libere di associarsi secondo le leggi della probabilità come vuole il mendelismo, e atte quindi a dar luogo alle costituzioni genetiche più diverse anche in seno a una stessa generazione filiale. La teoria si limita ad affermare che l'individuo riceve il patrimonio ereditario per metà dalla parte paterna, e per l'altra metà dalla parte materna, ma che a costituire tale patrimonio contribuiscono anche tutti gli antenati di parte paterna, come pure tutti quelli di parte materna, in misura tanto minore quanto più gli antenati sono remoti, ma in misura però sempre esattamente definibile. Così si dovrebbe calcolare che l'individuo riceve un quarto del suo patrimonio dai quattro nonni; un ottavo dagli otto bisnonni e così di seguito come indica l'annesso schema (fig. 6). I fatti sono in complesso perfettamente contrarî alla concezione galtoniana dell'eredità; bisogna però riconoscere che essa continua a esercitare un notevole influsso tra gli allevatori di cavalli, presso cui la prima generazione tra un puro sangue e un cavallo comune viene considerata come mezzo sangue, la seconda quarti di sangue, la terza come ottavi di sangue, e così via. Contribuisce forse a mantenere tale erronea dizione il fatto che molti dei caratteri sui quali si esercita la selezione sono caratteri dipendenti da una miriade di unità ereditarie, per cui viene attribuita ai prodotti dell'incrocio un'eredità approssimativamente intermedia, praticamente costante; mentre invece, in accordo col mendelismo, i prodotti suddetti sono pur sempre da considerare come degli eterozigoti, in cui la diversità della costituzione genetica è però quasi completamente irrilevabile.
Bibl.: Y. Delage, Théories sur l'hérédité, ecc., Parigi 1895; R. Goldschmidt, Einf. in d. Vererbungswiss., Lipsia 1927; E. Baur, Vererbungslehre, Berlino 1930.