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L’Eritrea ha raggiunto l’autonomia di fatto nel 1991 lungo i confini dell’ex colonia italiana, a seguito di una guerra di liberazione durata trent’anni contro l’Etiopia di Hailé Selassié prima e del Derg poi. Il referendum del 1993 ha sancito l’indipendenza di diritto con un risultato plebiscitario che ha incoronato alla guida del paese Isaias Afewerki, leader dell’Eritrean People’s Liberation Front (Eplf), divenuto nel 1994 il Peoples’s Front for Democracy and Justice (Pfdj).
Pur essendo uno dei paesi più piccoli del continente africano e dalle risorse naturali trascurabili, l’Eritrea ha da sempre un’importanza strategica rilevante per la sua posizione lungo la costa del Mar Rosso, quale retroterra del canale di Suez e sbocco commerciale dei traffici provenienti dall’altopiano etiopico.
Nei primi anni dopo l’indipendenza il paese sembrò muoversi verso una democrazia libera e multipartitica. Tuttavia prevalse ben presto una linea politica autoritaria e militaresca, che portò il regime di Isaias Afewerki a entrare in conflitto diretto o indiretto con tutti i paesi vicini.
Un primo conflitto armato, scoppiato tra Eritrea e Yemen nel 1995 per la sovranità sulle Isole Haynish, è stato risolto attraverso un arbitrato internazionale. Parte del confine con Gibuti rimane conteso e non sono mancati gli incidenti lungo il confine con il Sudan, ma a influire negativamente sulla stabilità dell’intero Corno d’Africa è stato il deterioramento del rapporto con l’Etiopia, al di là di ogni possibile convergenza politica ed economica. Oltre alla parentela che lega Isaias Aferwerki al presidente etiopico Meles Zenawi, il Pfdj ha un largo seguito tra le genti di lingua tigrina che costituiscono anche la base dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (Eprdf), l’attuale partito di governo in Etiopia, che ha combattuto con il nome di Tigray People’s Liberation Front (Tplf) il regime del Derg a fianco dell’Eplf.
Nel 1997 l’uscita dell’Eritrea dall’area monetaria del birr etiope e l’introduzione della nuova moneta nazionale (il nakfa) innescò l’escalation politica e militare che portò alla guerra del 1998-2000, scoppiata per una controversia lungo il confine etiopico-eritreo che non era mai stato demarcato con precisione fin dai tempi del dominio coloniale italiano. Il dispiegamento, nel giugno del 2000, della United Nations Mission in Eritrea and Ethiopia (Unmee) come forza di interposizione internazionale lungo il confine conteso ha portato alla cessazione del conflitto, ma non ha definitivamente risolto la controversia con l’Etiopia. Il 1° agosto 2008 la Unmee è terminata per decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a causa delle continue interferenze eritree, che di fatto hanno boicottato l’operatività stessa della missione internazionale.
Il crescente isolamento internazionale ha spinto l’Eritrea di Isaias Afeworki a cercare partner alternativi tra i paesi arabi. Conseguenze di una tale scelta strategica sono state una crescente tensione tra le due principali componenti culturali dell’Eritrea (i cristiani dell’altopiano e i musulmani del bassopiano) e il progressivo coinvolgimento del paese nella guerra civile che dal 1991 sconvolge la Somalia meridionale. Il governo eritreo ha fiancheggiato e continua tutt’oggi ad appoggiare politicamente e finanziariamente le diverse formazioni armate somale che si ispirano a un islam estremista, e che sono verosimilmente in contatto con la rete del terrorismo internazionale di al-Qaida. Se l’intento del governo eritreo era quello di colpire l’Etiopia, che nel 2006 intervenne militarmente a sostegno del governo federale somalo, il risultato è stato invece quello di un diretto coinvolgimento nella guerra civile: le milizie islamiste somale hanno dimostrato di non avere interesse (e probabilmente neppure la capacità) a colpire direttamente l’Etiopia, ma al contrario hanno impiegato il sostegno ottenuto dall’esterno contro i loro antagonisti somali. Nel dicembre 2009 le Nazioni Unite hanno votato un embargo militare insieme a sanzioni economiche contro l’Eritrea per la sua ingerenza in Somalia.
L’Eritrea è membro delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, dell’organizzazione regionale del Corno d’Africa e dell’Intergovernmental Agency for Development (Igad). Dal 2003 l’Eritrea ha acquisito lo status di osservatore presso la Lega Araba, facendo dell’arabo la seconda lingua ufficiale del paese, tanto che Isaias Afewerki non disdegna di utilizzarlo nei suoi discorsi televisivi. Con la sola eccezione di Gibuti, tutti i rapporti bilaterali a livello regionale rimangono molto tesi, mentre il regime eritreo è oggetto di forti critiche a livello internazionale per il suo nazionalismo militante.
La popolazione eritrea comprende diversi gruppi che parlano tigrino (circa l’80% del totale), oltre a Saho, Afar, Hedareb, Bilen, Kumana, Nara e Rashaida.
Sull’altopiano si concentra la popolazione cristiana di rito copto, mentre quella del bassopiano è prevalentemente musulmana sunnita. A seguito della guerra del 1998-2000, la Chiesa copta d’Eritrea ha subito un progressivo processo di politicizzazione che l’ha portata a staccarsi nel 1998 dal patriarcato etiopico e stabilire un proprio sinodo autonomo. Dai tempi delle prime manovre coloniali nella regione sul finire del 19° secolo si diffusero nel paese anche il cattolicesimo e il protestantesimo, che tuttavia hanno mantenuto un peso secondario.
Oltre all’inglese e all’italiano, utilizzati nell’istruzione superiore e nel commercio, le lingue più diffuse sono il tigrino e l’arabo. Nonostante gli sforzi fatti nel campo dell’istruzione primaria il sistema scolastico eritreo rimane largamente deficitario. La nazionalizzazione dell’unica università, gestita dai missionari cattolici ad Asmara, ha contribuito a ridurre ancor di più le possibilità di formazione per i giovani eritrei.
Le condizioni di vita sono pessime, sia per la cronica scarsità di cibo, in particolare nelle zone rurali, sia per le carenze igieniche e sanitarie: malaria, dengue e Hiv sono ampiamente diffusi. Il rispetto dei diritti umani è largamente disatteso a fronte di abusi, violenze e torture a danno dei civili e in particolare dei prigionieri politici. L’unico partito a poter operare legalmente è il Pfdj di Isaias Afewerki. La Costituzione approvata nel 1997 dall’Assemblea nazionale prevedeva il rapido passaggio al multipartitismo, ma di fatto le elezioni sono state rinviate anno dopo anno. I mezzi di comunicazione sono totalmente di proprietà del governo, a scapito di un’informazione libera.
L’economia eritrea si basa in larga misura sul settore primario. Almeno l’80% della popolazione dipende da un’agricoltura di sussistenza, mentre quella ad alta intensità di capitali per la produzione di prodotti d’esportazione è stata gravemente compromessa dalle guerre e poi dal forte controllo statale sulle poche imprese produttive.
Una parte considerevole delle risorse pubbliche è destinata alla spesa militare. Le rimesse della diaspora costituiscono una delle più importanti entrate del paese e la principale fonte di sostentamento per buona parte della popolazione.
L’abbandono del birr etiopico nel 1997 per la nuova moneta nazionale, il nakfa, e la chiusura a tempo indeterminato del confine con l’Etiopia a seguito della guerra hanno aggravato la crisi economica del paese, privandolo del suo principale partner commerciale: l’Etiopia rappresenta infatti storicamente un retroterra assolutamente complementare ai porti lungo la costa eritrea. Gli investimenti stranieri che stimolarono la crescita del paese dopo l’indipendenza si sono ridotti considerevolmente a causa della guerra del 1998-2000, delle successive politiche di statalizzazione della produzione e delle sanzioni internazionali decretate dalle Nazioni Unite nel dicembre 2009. Le infrastrutture sono nel complesso carenti e hanno subito gravi danni durante i conflitti.
La decisione del governo eritreo di espellere dal paese tutte le agenzie occidentali di cooperazione ha ulteriormente indebolito l’economia nazionale. Solo la cooperazione cinese ha potuto continuare a operare perché il suo aiuto è slegato da un principio di condizionalità a precisi parametri democratici ed è invece collegato a un principio di non ingerenza negli affari interni del paese ricevente: in particolare i cinesi stanno potenziando il settore sanitario e quello idrico nella capitale, tuttavia il volume di affari legati alla cooperazione di Pechino è trascurabile rispetto agli interessi cinesi in paesi vicini come Etiopia e soprattutto Sudan.
L’ecosistema del paese è stato gravemente danneggiato dalla deforestazione, dall’eccessivo sfruttamento dei pascoli e dall’erosione dei terreni coltivabili, anche a causa degli eventi bellici.
Al momento dell’indipendenza la popolazione militarizzata raggiungeva le 110.000 unità, pari a circa il 3% della popolazione, di cui il 30% erano donne. Nel 1995 il 45% degli effettivi venne congedato, ma con la nuova guerra contro l’Etiopia nel 1998 gli effettivi aumentarono nuovamente fino a 300.000, circa il 10% della popolazione.
La sola guerra del 1998-2000 ha provocato più di un milione di sfollati, in aggiunta alle migliaia di profughi di ritorno dal Sudan o a quelli espulsi dall’Etiopia. Gli sfollati insieme ai reduci smobilitati, che per tutta la vita non avevano mai lavorato se non come soldati, hanno costituito una massa tale da non poter essere facilmente reintegrati nella società civile. La chiusura del confine marino con lo Yemen e di tutti i confini terrestri salvo quello con Gibuti ha di fatto gettato il paese in una sorta di auto-isolamento, aggravato dalle sanzioni internazionali.
La società eritrea ha subito un processo di militarizzazione crescente e pervasiva, le cui radici profonde rimandano ai tempi del dominio italiano, quando le truppe coloniali rappresentavano la principale risorsa della colonia. La lotta di liberazione durata trent’anni ha poi contribuito in modo significativo alla formazione di un nazionalismo dal carattere militare e aggressivo. Una volta conquistata l’indipendenza, la mobilitazione permanente della società è stata sistematicamente utilizzata per mantenere un controllo pervasivo sulla popolazione, facendo leva sulla minaccia reale o potenziale proveniente da nemici esterni o interni. Senza tollerare alcuna opposizione o dissenso e anzi giocando su un sentimento di reciproco sospetto tra la popolazione, Isaias Afeworki governa il paese attraverso un clima di terrore: la stessa unità nazionale, fondata sull’ideale della lotta di popolo, è in realtà consolidata agitando di continuo vere o presunte manovre etiopiche per invadere il paese. Le uniche forme di opposizione al regime hanno preso piede nella diaspora degli esuli eritrei che sono al vertice delle statistiche internazionali dei richiedenti asilo in Europa e in America.