ERRORE (dal latino error; fr. erreur; sp. error; ted. Irrtum, ingl. error)
Filosofia. - È un atto spirituale, il cui valore è soltanto soggettivo, e che invece è affermato come concreto. Quante sono le forme in cui l'attività spirituale si concretizza, tante le forme in cui l'errore si distingue: si ha perciò un errore conoscitivo, la falsità; un errore estetico, la bruttezza; un errore volitivo, la colpa. Chi sogna è in errore; chi narra il suo sogno è in un atto spirituale concreto. Perciò il soggetto che erra non individua (come richiede la concretezza) col proprio atto spirituale l'oggettività. E se intendiamo per teoria l'universale oggettività di ogni atto spirituale, e per pratica la sua soggettività, vediamo l'errore come un atto positivo, che però "nega la teoria di cui è atto". In questo senso l'errore è sempre, nella sua positività, un atto schiettamente pratico (che non vuol dire volitivo), e perciò astrattamente parziale, e quindi non coerente con la concreta coscienza. Riconoscere quella parzialità, e procurare quindi all'atto erroneo la sua coerenza con la concretezza, è correggere l'errore. Atto di correzionc che perciò non sopprime l'esistenza storica dell'errore, ma ne elimina l'astrattezza.
Il problema dell'errore è dei più difficili della filosofia, per la ragione già messa in evidenza da Platone, per quel che riguarda la falsità. Infatti si domanda Platone (Teeteto, 199 d): "Come pensare che uno il quale ha in sua mano la conoscenza di una certa cosa ignori proprio cotesta cosa; e non già la ignori perché non la conosce, ma per il fatto stesso che la conosce?" Giacché il falso, come tale, consiste proprio in questo non conoscere ciò di cui si afferma la conoscenza. L'errore perciò non è ignoranza, non è semplice assenza di coscienza. Quindi, a saltare la difficoltà, già nel pensiero greco si profila una pura e semplice negazione dell'errore come tale "Niente è falso" dicono Protagora ed Eutidemo "giacché ingannarsi sarebbe pensare o dire ciò che non è, cioè non pensar nulla, non dir nulla". Contro questa negazione Platone dimostra che "l'errore... è una cosa positiva diversa dalla verità"; gli errori, per Platone, sono combinazioni non conformi alla dialettica (Brochard). La falsità, chiari Aristotele, come la verità, "riguarda la connessione e la divisione delle nozioni" (Metafisica, 1027 b); e in questa operazione dell'intelletto, ripeté poi S. Tommaso, si trova il vero e il falso. Il problema dell'errore s'impose alla coscienza filosofica al sorgere del pensiero moderno dopo la scoperta e la correzione dei grandiosi errori tradizionali specialmente nel campo scientifico. Bacone tentò d'individuare le fonti dell'errore nei cosiddetti "idoli". Ma esplicitamente il problema della possibilità dell'errore conoscitivo come tale nacque con Cartesio, che, posta la certezza nell'immediata idea chiara e distinta dell'intelletto, nella quale l'errore è impossibile, mostrò nascere l'errore solo nel giudizio, e l'atto giudicativo pose come atto di volontà. Malebranche sviluppò il concetto cartesiano, rimenandolo al concetto tradizionale giudaico-cristiano del peccato originale, col mostrare che ci sono cinque fonti di errore (senso, immaginazione, intelletto, inclinazione, passione), ma che il suo vero e unico principio è il non esatto uso della libertà del volere; uso che è necessario al giudicare e al ragionare, e che deve essere limitato entro quella evidenza che ci dà i limiti del nostro potere, e che invece fu corrotto dal peccato originale.
La cartesiana motivazione volitiva dell'errore fu invece negata da Spinoza, che, con qualche tergiversazione, lo addebitò al senso, in quanto questo eventualmente si ponga, col suo giudizio, cui è essenziale la mutabilità, in luogo dell'idea intellettiva. Kant, poi, più risolutamente di Spinoza, da una parte liberò il senso da una sua intima costituzionale falsità, e dall'altra gli addebitò, anche lui, l'errore come "inavvertita influenza della sensibilità sull'intelletto". Eliminata poi, con l'idealismo postkantiano, la sensibilità come fonte di conoscenza collaterale a quella intellettiva, e concepita l'attività spirituale come sintesi dialettica di opposti (Hegel), se ne dedusse (Gentile) che "l'errore, come atto reale dello spirito, non c'è: non c'è in chi corregge l'errore proprio od altrui...; non c'è in chi erra, quando erra". Motivo, questo, al quale si avvicina il pragmatismo, con F. C. S. Schiller. Ma se si è soggiunto (Croce), "l'errore preso in sé è inesistente e irreale", bisogna proporsi il problema "della realtà che è sotto la parvenza della realtà dell'errore". Quella realtà "ha esistenza, non è errore e negatività, ma qualcosa di positivo, un prodotto dello spirito" che non può essere prodotto dello spirito teoretico, e deve quindi essere prodotto dello spirito pratico. Torniamo così molto vicini al volontarismo cartesiano.
Si riapre così il problema della positività dell'errore pur nella sua forma paradossale, e della sua presenza nella concretezza spirituale. Questa presenza è esplicabile solo se non ammettiamo la necessità della riduzione di ogni atto pensato a errore solo perché già pensato.
Diritto. - L'errore è una falsa rappresentazione della realtà, che induce nel dichiarante la formazione di una volontà che in esso non si sarebbe formata senza quella falsa rappresentazione. La distinzione tra errore e ignoranza non ha un rilievo giuridico.
Il codice civile italiano non ha disposizioni generali sull'influenza dell'errore negli atti giuridici, ma solo disposizioni particolari per il matrimonio (articoli 105,106), per i testamenti (art. 828), per i contratti (articoli 1108, 1109, 1110), per il pagamento dell'indebito (articoli 1145, 1146), per l'ignoranza del termine (art. 1174), per l'azione di rescissione (art. 1300), per la confessione giudiziale o stragiudiziale (art. 1360), per la transazione (articoli 1772, 1773).
L'errore è giuridicamente rilevante quando senza di esso la volontà non si sarebbe determinata alla formazione dell'atto come tale. L'errore di diritto produce la nullità di questo solo quando ne è la causa unica o principale (art. 1109 cod. civ.). L'errore di fatto sulla persona verso cui si costituisce il diritto (può cadere sull'identità fisica o anche sulle qualità essenziali di essa) produce la nullità quando la considerazione della persona sia la causa principale dell'atto (art. 1110 cod. civ.). Se cade sull'oggetto, l'errore di fatto in materia contrattuale produce la nullità quando cade sopra la sostanza di quello (art. 1110 cod. civ.). Negli atti di ultima volontà e nella donazione l'errore invalida la volontà quando cade sulla proprietà dell'oggetto (art. 837 cod. civ.). Infine la invalida nelle disposizioni testamentarie e nelle donazioni, quando per esso solamente il testatore o il donante si sia determinato a compiere l'atto (art. 828 cod. civ.).
È chiaro che non può invocarsi l'ignoranza o l'errore di diritto ogni qual volta l'agente vuole qualche cosa di contrario alle leggi, ma solo quando l'agente che invoca l'errore, anziché essersi posto contro la legge, ha agito nei termini di questa e non fa che invocare ciò cui la legge stessa aspira: non ha peso inoltre l'errore sui motivi che hanno indotto la parte ad agire, fatta naturalmente eccezione per il motivo unico e determinante del negozio.
Tanto l'errore di diritto, quanto quello sulla sostanza o sulla persona, sono dalla legge italiana considerati semplici vizî del consenso e producono quindi non l'inesistenza, ma la nullità relativa dell'atto giuridico. Tale annullabilità può essere invocata solo dall'errante e dai suoi eredi, che devono provare l'errore, sia di diritto sia di fatto (sanabile a mezzo di ratifica espressa o tacita), e l'azione si prescrive col decorso di cinque anni dal giorno in cui fu scoperto l'errore (articoli 1300,1301,1309 cod. civ.). Il giudice è arbitro nella valutazione di ciò che viene sottoposto al suo esame.
La distinzione che il codice civile italiano pone tra errore di diritto ed errole di fatto, importantissima nel diritto romano (iuris error nulli prodest: Dig. XXXXI, 4, pro emptore, 2,15), ha perduto nel diritto moderno quasi ogni importanza. È vero che in qualche disposizione speciale è tolta all'errore di diritto ogni efficacia, come nell'art. 1772 capov. 2, a proposito della transazione e nell'art. 1360 a proposito della confessione; ma queste eccezionali limitazioni dipendono dal carattere speciale di quei negozî.
Altre distinzioni furono escogitate dalla dottrina: da quella tra errore improprio (che esclude un elemento essenziale al negozio giuridico) e proprio, a quella, creata dagli studiosi italiani e francesi, tra errore essenziale od ostativo (erreur-obstacle), che esclude totalmente il consenso per mancanza di corrispondenza fra l'interna volontà e l'esterna manifestazione, ed errore accidentale (erreur-nullité) di cui si occupa il codice civile italiano. Giustamente la dottrina e la giurisprudenza ritengono che in caso di errore ostativo la causa dell'inesistenza dell'atto sia da trovare nella mancanza di uno degli elementi essenziali del negozio giuridico. La teoria tradizionale distingue inoltre, nei riguardi dell'errore che cade sull'oggetto: l'error in negotio, l'error in corpore, l'error in substantia, l'error in qualitate, l'error in quantitate. I due primi (e anche l'error in substantia quando si confonde con l'error in corpore) producono l'inesistenza del negozio giuridico; dei tre ultimi si occupa, come già fu detto, il legislatore italiano.
L'obbligo infine del risarcimento del danno non può mai ritenersi come conseguenza dell'errore. Giacché se sussiste la colpa, allora l'errore è inescusabile, e l'atto sarà valido come se l'errore non vi fosse; oppure esula la colpa, e allora l'atto sarà annullato, ma il risarcimento dei danni non è dovuto per mancanza di colpa.
Per l'errore giudiziario, v. riparazione; per l'errore materiale, in senso giuridico, v. revocazione.